BEVILACQUA, Nicolò
Nacque a Termenago (Val di Sole), nel Trentino, da un "ser Antonio de Grumo"; non si conosce l'anno della sua nascita, che dovette avvenire nel secondo decennio del Cinquecento.
"De Grumo" era il soprannome di un ramo della famiglia Bevilacqua (o Bevilaqua, come si trova in molte carte trentine e veneziane) e non il nome della località di nascita di Antonio, padre dei B. (come taluno ha ritenuto). La famiglia possedeva cospicui beni terrieri in Val di Sole, come ce ne fa certi l'incarto di un processo che riguardò la successione dell'ultimo dei Bevilacqua di Termenago, Giovanni Battista.
Il B. si trasferì a Venezia assai giovane, per apprendervi l'arte della stampa ed esercitarla. Fu apprendista di Paolo Manuzio e ne divenne l'ottimo tra i suoi dipendenti, tanto che il Manuzio lo ebbe in grande stima. Non si può - allo stato attuale delle ricerche - determinare con precisione Isanno in cui il B. aprì bottega per suo conto; certo è da quanto si rileva dalle "mariegole" che egli nel 1549 aveva un esercizio di libraio-stanipatore "in vico sanctae Martinae". Tuttavia continuava a curare i suoi interessi solandri; ciò lo portava non di rado a Trento, ove, nel 1549, apprese che i consoli della città avevano desiderio di avere una tipografia stabile nella capitale del vescovato. Il B. presentò una generica offerta preliminare, offrendo di stabilirsi a Trento a tutte sue spese, purché gli venissero assicurati lavoro continuato e ragionevoli privilegi. Essendo assente il principe-vescovo, i consoli ogni decisione al suo ritorno in sede. Al cardinal Cristoforo Madruzzo la proposta non dovette sembrare accettabile, giacché non ebbe alcun seguito, né il B. la rinnovò. Negli anni seguenti, invece, potenziò sempre meglio la sua tipografia veneziana, che prosperò, pubblicando opere di vario genere tutte ben corrette e ben stampate. Nel 1559 ebbe licenza di stampare il De re anatomica di Matteo Realdo Colombo, essendone stato revisore "fra Felice Peretto da Montealto": il futuro papa Sisto V. In quell'anno la tipografia del Marcolini cessava di stampare ed il B. ne rilevò gli impianti e i caratteri. Nel 1563 dedicò al cardinal Madruzzo le Dubitationes del Pomponazzi, ed in quel tomo di anni altre edizioni dedicò a persone ragguardevoli della sua patria, alla quale mai cessò di essere legatissimo; nelle sue sottoscrizioni non omette mai di aggiungere al suo nome la qualifica di "trentino". Nel 1565 lavoravano nella sua bottega Giacomo Simbeni di Padengo (Salò), Melchiorre Boneti di Monica (Salò) e Bartolomeo Martelli bergamasco, tutti indicati in un atto notarile coi titolo di "ser", appellativo che si usava soltanto per chi era almeno "maestro dell'arte"; questo dimostra come la sua azienda fosse attiva e prospera. Nel 1567 venne concesso "al fedel Nicolò Bevilaqua" privilegio di stampa per il Vocabolario volgare e latino di Luc'Antonio Bevilacqua di Ferrara: l'opera fu licenziata nell'anno medesimo e dedicata al figlio di Emanuele Filiberto di Savoia.
Questa dedica avrà per il B. conseguenze di gran rilievo. Le relazioni tra lui e gli altri librai di Venezia erano eccellenti, soprattutto per la larghezza con la quale accordava lunghe dilazioni nei pagamenti e generose condizioni (e di questo ebbe a lagnarsi, col figlio Aldo, Paolo Manuzio). A Venezia gli fu solo ostile Luc'Antonio Giunta, appunto per il suo carattere avido e gretto, così lontano dalla generosità del Bevilacqua. Questa ostilità gli costò - negli anni seguenti - molti danni. Nel 1567 Paolo Manuzio, allora direttore della "Stamperia del Popolo romano", si rivolse al B. per una collaborazione nella preparazione del nuovo Breviario disposto da Paolo V. Sono note le difficoltà che il Manuzio incontrava a Roma nella preparazione dell'immensa mole di breviari che la riforma liturgica rendeva necessaria. Il B., in via di massima, accettò, ponendo però la condizione che potesse stampare quel testo a Venezia (ottobre 1567). I controllori della "Stamperia del Popolo romano" - scrisse il Manuzio - "non se ne contentano"; per oltre un anno proseguirono le trattative tra il B. ed il Manuzio, senza che'si potesse trovare un accordo. "Vorrei il Trentino più di tutti" scriveva il Manuzio al figlio, e, risentito per gli indugi del B., aggiungeva in altra lettera: "a Torino non speri, perché l'ambasciatore tratta negozio con noi". E questo è il primo documento noto dal quale si apprende che il B. trattava - o sperava trattare - con la corte di Torino. Finalmente il B. non sa più opporre rifiuto al Manuzio e si reca a Roma. Ma le "grandi partite" da lui chieste non furono accettate. Che il B. non desiderasse trasferirsi a Roma, lasciando la sua prospera azienda veneziana ed il suo ben avviato commercio librario, era logico; tanto più che doveva aver avuto notizia di quel turbinoso, infido ambiente romano nel quale il Manunzio stesso si trovava impegolato. Ed a queste cagioni si può aggiungere l'altra: l'offerta - in vero non ancora definita - che l'ambasciatore dei duca di Savoia gli aveva ventilato: impiantare e condurre a Torino una tipografia ducale.
In quegli anni Emanuele Filiberto, riottenuti finalmente i suoi Stati, ne stava restaurando tutti gli istituti, quelli culturali compresi, ridotti a misere condizioni durante il lungo periodo dell'occupazione francese. Al duca era assai piaciuta l'edizione di quel Vocabolario volgare e latino che il B. aveva dedicato al giovane Carlo Emanuele, ed aveva incaricato Giuseppe Parpaglia - suo ambasciatore presso la Serenissima - di interpellare il B. circa la, possibilità di un suo trasferimento a Torino. Le trattative furono assai lunghe, rese difficili da molte cause - non ultima quella del sollecitato trasferimento a Roma - e così si giunse al 1570, quando sembrava che tutto fosse definito.
In quell'anno il B., per sistemare i suoi interessi a Venezia, costituì una società "cantante Nicolò Bevilaqua e compagni" società che avrebbe assorbito tutta l'attività dell'azienda personale. I "compagni" furono: il B. (socio principale), la figlia lacopina (per una parte corrispondente alla dote spettantele), il genero del B., marito di Iacopina, tipografo di buona fama, Francesco Ziletti. Ora il B. era libero per trasferirsi altrove; aveva già preso accordi con buoni operai (a Torino non v'era mano d'opera specializzata) che gli avevano dato fede di seguirlo in Piemonte; tutto era pronto, quando le manovre di Luc'Antonio Giunta gli sottrassero gli operai reclutati. Desolato e sconfortato, scrisse allora al duca una lunga lettera, ove spiegò l'impossibilità di tener fede all'impegno preso con il suo ambasciatore, a causa delle mene "dei principal libraro di questa terra", il quale ostacolava in ogni modo il suo trasferimento, temendo che una grande tipografia impiantata negli stati sabaudi potesse sottrarre a lui quel mercato. Inoltre un duplice lutto aveva colpito il B. in quell'anno: due suoi figli - di venticinque e di diciotto anni - gli erano morti a poche settimane d'intervallo; la moglie inoltre era gravemente inferma. Indignato per le mene del Giunta, Emanuele Filiberto incaricò il suo ambasciatore di far partire il B. anche senza operai: a questi si sarebbe provveduto in qualche modo successivamente. Il 10 sett. 1572 il Parpaglia annunciò la partenza del Bevilacqua.
Giunto a Torino, vi fu accolto con estremo favore dal duca, da Margherita di Valois e dagli alti funzionari. Non ci sono pervenuti tutti i documenti relativi a quegli anni, perché una parte ne andò distrutta durante la sommossa del 1798, ma uno tuttavia notevolissimo ce ne resta, datato 6 marzo 1573: è il testo autografo dei "capitoli" che :il B. sottopose al duca e che questi accettò.
I privilegi chiesti ed ottenuti sono veramente eccezionali: franchigia da ogni sorta di dazi, gabelle, gravarni sia per le materie prime, sia per i libri prodotti e venduti entro e fuori dello Stato; divieto di esportazione dal ducato di carta e "strazze" (onde aver rifornimenti a basso costo); privilegio di stampa di tutti gli atti ufficiali; monopolio di produzione e vendita di ogni sorta di libri "purché permessi" per tre anni, con rinnovo di tre anni in tre anni. La sola eccezione che il duca fece alle richieste fu sul capitolo che concerneva gli atti ufficiali: quel principe volle che al modestissimo tipografo di Torino Bernardino Pelipari fosse consentito di stampare alcuni bandi, ordinanze, e pubblicazioni di poco conto, "come carte, donati (erano granunatichette per i principianti), almanacchi", forse perché il vercellese, negli anni precedenti, aveva, con i suoi scarsi mezzi, provveduto alla stampa degli atti ducali. Ai "compagni della compagnia" (ossia ai tipografi del B.) veniva concesso di portar armi per "salvaguardia", "in quella maniera c'hanno li soldati della milizia". Inoltre essi furono sottratti alla giurisdizione comune e furono sottoposti solo ad un giudice speciale ("iudex typographorum") giudicante senza appello: esso fu dapprima il senatore Nicolò Loseo e poi Cesare Cambiano di Ruffia. Alla raccolta del capitale occorrente per una editoria larga e molteplice fu provveduto mediante la costituzione di un'accomandita cui partecipò il duca stesso che sottoscrisse cinque carati (due ne cedette poi al suo protomedico Antonio Boseo, ed uno a Bernardino di Savoia-Racconigi). Per cassiere fu nominato il "gran gabelliere" ducale Bernardo Castagna. Inoltre al B. Emanuele Filiberto donò due cascine "presso ponte del Po". La bottega fu posta "vicino alla chiesa del ponte dei Po di san Marco" in alcuni locali di proprietà dei canonici della metropolitana. I documenti relativi alla costituzione della società finanziatrice mancano; se ne hanno solo notizie indirette e lacunose.
Nel maggio del 1573 fu licenziato il primo prodotto della nuova tipografia ducale: In prohemium physicae Aristotelis di Antonio Barga; fu sottoscritto "ex officina Nicolai Bevilaquae typographi ducafis". Sul principio dell'estate venne messo in distribuzione il primo tomo della imponente edizione di tutte le opere di Bartolo di Sassoferrato (edizione che sarà completa in dodici tomi in folio) con i commenti di vari. Sui primi dell'agosto improvvisamente il B. cadde ammalato e presto la sua attività andò declinando.
Il 13 di quel mese, nella sua abitazione attigua alla bottega, egli dettò il testamento, presenti come testimoni - tra gli altri - Bernardo Castagna e il giureconsulto Bernardo Trotto. Il testamento sostituiva quello precedente steso in Venezia: alla moglie Teodosia veniva restituita la dote e le venivano assegnate tutte le gioie, vesti e masserizie; inoltre si faceva usufruttuaria - durante la minorità dell'unico figlio rimastogli - di tutta la sostanza, con facoltà di "vendere o affittare l'istrumento della stampa". A lei andò la tutela dei minore, senza obbligo di redigere inventario né di rendere, a suo tempo i conti della tutela. Per la sistemazione degli affari di Venezia - ove ancora era attiva la tipografia - fu designato il genero Francesco Ziletti; consiglieri della tutela furono nominati Bernardo Castagna e Bernardo Trotto. Alle figlie (Iacopina, moglie di Francesco Ziletti), Margherita (moglie del libraio-editore Giovanni Chrieger), alle due figlie naturali Pasquina e Marcellina furono legati nooo scudi per ciascuna. Erede universale dell'asse patrimoniale fu Giovanni Battista, fanciullo allora di otto anni.
Pochi giorni dopo Nicolò morì e fu seppellito nella chiesa di S. Francesco.
Fu un commerciante di larghe e generose vedute, editore e tipografo capace, serio, di buon gusto. Le sue edizioni sono corrette e possono stare alla pari con quelle di altri tipografi del suo tempo celebrati molto più di lui. Preferì pubblicare opere di autori contemporanei e soprattutto di autori italiani; sono degne di essere menzionate: le Croniche di Giovanni Villani, stampate nel 1559 per conto dei Giunti di Firenze, le Historie del Guicciardini (1565 e 1568), quattro edizioni del Petrarca (1562, 1564, 1568, 1570); varie opere del Sansovino; una graziosa edizione del Cocaius (1564), ornata da ventisette figure, una buona ristampa della Anathomia del Valverde, i Consilia del Gozzadini (1571), il De exemplis di G. B. Egnazio (1554), la Vita di Ferrante Gonzaga dell'Ulloa (1563). Usò moltissime marche tipografiche, tutte emblematiche e con motti.
L'improvvisa morte del titolare pose la tìpografia ducale in gravissima crisi; lo Ziletti fu chiamato a Torino ed egli, lasciata al Lorenzini la liquidazione dell'azienda "Nicolò Bevilaqua e compagni", acconsentì a trasferirsi in Piemonte per seguitare l'opera intrapresa sotto così favorevoli auspici dal suocero. Una lettera dell'ambasciatore Parpaglia al duca (8 ott. 1573) ci informa: "li presenti mesi Francesco Ziletti genero del fu Nicolò Bevilaqua… vien li per provedere a quello bisognerà per la stampa" e "vi conduce lavoranti pratici". Durante i dieci anni della minorità di Giovanni Battista la tipografia fu condotta essenzialmente dallo Ziletti; la sua produzione fu ampia, decorosissima, capace di uguagliare e di battere la concorrenza veneziana,e non solamente in Italia.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Trento, Atti consolari, a. 1549, n. 2145; Ibid., Civile, III ,n. 6; Arch. Stato di Torino, Reg. giurisdizioni diverse, aa. 1573, cc. 41, 42, 53; Ibid., Commercio stamperia, aa. 1575-1595, passim; Torino, Acc. di scienze, lettere arti, ms. Gazzera, passim; Milano, Bibl. Ambrosiana, ms. E 33 inf., passim; Lettere di Paolo Manuzio copiate dagli autografi, Paris 1834, lettere VII-XI, XI-XII, XIV, XIX, XXI, XLI, XLVII, L, LVII-LVIII; G. Vernazza de Freney, Diz. dei tipografi…,Torino 1859, pp. 31 ss.; M. Marocco, Cenni sull'origine e progresso dell'arte tipografica in Torino dal 1476 al 1861, Torino 1861, pp. 36 ss.; E. Ricotti, Storia della monarchia Piemontese, II, Firenze 1861, pp. 371 ss.; G. Bampi, Della stampa e degli stampatori dei Principato di Trento sino al 1565, in Arch. Trentino, II(1883), p. 212; G. Furnagalli, Lexicon typographicum italiae, Firenze 1905, pp. 417, 431, 440; E. Pastorello, Editori, tipografi e librai in Venezia durante il sec. XVI, Firenze 1924. pp. 9, 101; F. Ascarelli, La tipografia cinquecentina italiana, Firenze 1953, pp. 104 ss.; M. Bersano Begey, La tipografia cinquecentina Piemontese ,Torino 1961, passim.