DA PONTE, Nicolò
Primo dei numerosi figli di Antonio e di Regina Spandolino del cavalier Dimitri di Teodoro, da Costantinopoli, nacque a Venezia il 15 genn. 1491, in una casa a S. Agnese, al ponte della Calcina.
L'economia dei Da Ponte era stata duramente provata nel 1470, allorché la Repubblica aveva perso Negroponte, dove la famiglia possedeva cospicui beni (riferisce il Barbaro che il nonno del D., Giovanni, fece naufragio nel lasciare l'isola con una nave carica di ori e ricchezze), ma il matrimonio del padre con una greca (1489) lascia supporre un perdurare dei vecchi legami col mondo del commercio.
Certo è che da queste traversie l'educazione del D. non ebbe a soffrire, dal momento che gli fu maestro il celebre Egnazio e seguì poi a Padova i corsi di filosofia, che peraltro non concluse, probabilmente per la sospensione dell'attività accademica seguita alle vicende della lega di Cambrai. Si addottorò invece a Venezia, l'8 marzo 1514, "in le arte, per li dotori medici" (così il Sanuto); allora il suo nome era già noto in città: due anni prima, appena ventenne, era stato eletto savio agli Ordini, fondamentale tirocinio delle più prestigiose carriere politiche.
Il D. godeva infatti dei migliori requisiti per farsi strada nel mondo della politica veneziana: a detta del Da Mosto, era "di statura alta, robusto e ben proporzionato, di aspetto grave, ma gioviale e ilare, e rallegrava chi era con lui. Era agile e robusto di corpo, atto ad ogni disagio, sia in terra che in mare; non fu quasi mai ammalato, e così si mantenne fino agli ultimi anni della sua vita"; tutte le fonti, inoltre, concordano nell'attribuirgli notevole eloquenza - qualità indispensabile nei dibattiti assembleari - e vasta cultura ("Erat in eo adolescente inexhausta quaedam aviditas legendi, nec satiari poterat", così il Valier).
Senonché il saviato non ebbe seguito: il ventennio 1512-32 è caratterizzato, infatti, da una prolungata assenza dall'attività politica; probabilmente attese alla mercatura, giacché, da povero che era, riuscì a costruire il grandioso palazzo di S. Maurizio (dove si trasferì in un periodo compreso tra il 1554 ed il 1565) ed a mettere insieme una ingente fortuna, che i contemporanei valutarono in 150.000 ducati; nel 1520 sposò Arcangela Canal di Alvise di Luca, che gli diede Antonio e Paolina. Accanto agli interessi economici, quelli culturali. Potrebbe sembrare un binomio difficilmente coniugabile, eppure il D. riuscì a farlo: il 10 ag. 1521, anzi, un decreto senatorio gli affidava l'incarico di supplire Sebastiano Foscarini, eletto per due anni consigliere a Cipro, quale lettore di filosofia nella scuola di Rialto.
Era stato, il Foscarini, suo maestro (un autorevole maestro, giacché tenne quella prestigiosa cattedra per oltre quarantacinque anni); come tale gli aveva insegnato a liberare il pensiero aristotelico dal cumulo delle interpretazioni medioevali e a non tollerare alcuna ingerenza della Chiesa nelle cose dello Stato. Uniformandosi pienamente a queste direttive, il D. riuscì bene nell'incarico: sappiamo infatti che disputò in presenza del dottissimo Egidio da Viterbo e che nel '23 recitò l'orazione funebre dell'ambasciatore imperiale Girolamo Adorno; senonché, diversamente dal Foscarini, ma in perfetta analogia con il sentire della maggior parte dei concittadini, il D. finì per abbandonare lo studio a favore della politica, come se la cultura, l'insegnamento stesso, fossero stati semplici esperienze propedeutiche alla piena realizzazione della vocazione autentica dell'uomo di Repubblica, che consisteva pur sempre nell'esercizio della politica.
Così, dopo un lunghissimo silenzio, il Segretario alle Voci ripropone il D. per la carica di bailo e capitano a Corfù, dove rimase dal 20 luglio 1532 al 19 maggio '35. Il perenne problema del rifornimento delle vittuarie (che sfociò addirittura in tumulti popolari, a fatica sedati dal D.) era allora acuito dai sospetti e dalle manovre dei Turchi, a loro volta incalzati dalla squadra navale di Andrea Doria. Fra tante difficoltà il D. seppe destreggiarsi abilmente, conservando un atteggiamento ispirato a neutralità, ma badando nel contempo a rinforzare le difese dell'isola e a provvedere la città di un fontico per i grani. Tornato in patria, fu nominato senatore (1º sett. 1535) e dei Pregadi o della sua zonta fece parte anche negli anni che seguirono; eletto avogador di Comun il 25 genn. 1540, derogando alla politica di pacifismo, cui le sue convinzioni inclinarono sempre, difese efficacemente Alessandro Contarini, che nel '37, in qualità di provveditore della flotta, aveva catturato una galera turca prima ancora che la guerra fosse stata dichiarata.
Un anno dopo, nel febbraio '41, venne nominato luogotenente della Patria del Friuli, dove dimostrò notevole abilità diplomatica nel far accettare all'Austria la cessione a Venezia della fortezza di Marano (Marano Lagunare) tenuta dal fiorentino Pietro Strozzi per conto della Corona di Francia; ancora, il D. lasciò un segno della sua presenza ad Udine portando a termine la costruzione della bella fontana esistente in mezzo alla piazza, la cui acqua era alimentata da tubi sotterranei collegati con canali distanti fino a cinque miglia. L'elezione ad ambasciatore ordinario presso l'imperatore, avvenuta il 12 apr. 1542, quandò il D. era ancora in Friuli, ebbe quindi il significato di un pubblico riconoscimento della sua azione, tanto più che il momento politico era alquanto delicato: dopo l'insuccesso di Algeri, Carlo V, che allora si trovava in Spagna, era infatti nuovamente minacciato dai Francesi.
Ricevute le commissioni l'11 settembre, due giorni dopo il D. era già a Milano, accompagnato dal notaio udinese Bernardino Fabrizio, cui si deve un'interessante descrizione storico-artistica dei paesi attraversati; da Genova il veneziano raggiunse Barcellona, dove riuscì ad ottenere dall'imperatore il permesso di esportare salnitro per la flotta della Repubblica, e al seguito del sovrano tornò a Genova nel maggio 1541 per proseguire poi alla volta della Germania; ammalatosi, fu però costretto a rientrare in patria, dove già si trovava il 18 sett. 1543.
Da questo momento la sua vita fu un susseguirsi, e spesso un frenetico cumularsi, di prestigiosi incarichi: savio di Terraferma per il primo semestre 1544, entrò poi (30 ott. 1544) a far parte del collegio delle Fortezze ed il 9 dicembre di quello stesso anno fu eletto riformatore dello Studio di Padova per il biennio 1545-46. Ancora, dal 30 marzo al 30 sett. 1545 fu savio di Terraferma, il 13 settembre venne eletto censore, il 30 settembre della zonta dei Pregadi, il 5 dicembre del collegio delle Fortezze; nel '46 fu savio di Terraferma (28 giugno), governatore delle Entrate e contemporaneamente (1º ottobre) della zonta del Consiglio dei dieci; ambasciatore a Roma tra il 1547 ed il '48, cercò invano di difendere il cardinale Marino Grimani, vescovo di Ceneda, accusato da quella Comunità, per cui il prelato dovette rinunciare alla diocesi: in tale circostanza il D. avvertì come lesivo dei diritti della Repubblica il comportamento della S. Sede, e questo acuì il suo anticlericalismo, nonostante il papa lo creasse cavaliere di propria mano. Tornato a Venezia, il 1º ott. 1548 entrava a far parte della zonta del Senato e l'anno seguente era nominato riformatore dello Studio di Padova (26 gennaio), membro del Consiglio dei dieci (3 maggio), senatore (30 settembre), membro della zonta del Consiglio dei dieci (1º ottobre); savio di Terraferma per il primo semestre del 1550, nel febbraio era inviato ambasciatore straordinario a Giulio III, assieme a Francesco Contarini, Filippo Tron e Marcantonio Venier. Scopo della missione era ufficialmente quello di congratularsi col nuovo papa per l'elevazione al pontificato (toccò al D. pronunciare l'orazione), ma nella circostanza venne trattata la cessione alla S. Sede delle città di Ravenna e Cervia, ancora in mano veneziana.
Tornato a Venezia per essere eletto del Consiglio dei dieci (21 settembre), di lì a poco (12 novembre) il D. era ancora nominato ambasciatore presso la S. Sede, stavolta come rappresentante ordinario della Repubblica.
A Roma, dove giunse nell'aprile 1551, gli riuscì di risolvere la spinosa questione del vescovo di Bergamo, Vettore Soranzo, imprigionato in Castel Sant'Angelo sotto l'accusa di eresia. La posizione del prelato era gravissima, anche perché Bergamo era uno dei principali centri ereticali dell'Italia settentrionale: il 20 maggio 1551 il D. scriveva al Consiglio dei dieci che alle sue istanze il papa aveva replicato con "tante oppositioni al Vescovo, et in bona parte confessate, che mi fece stordir"; ma alla fine Giulio III acconsentì a non privare il Soranzo del vescovato, sospendendolo solo temporaneamente dalla giurisdizione. Il problema degli eretici costituì per il D. la maggior fonte di preoccupazioni; più volte dovette occuparsene, e ancora nel settembre 1553, nell'imminenza del ritorno in patria, doveva difendere da quest'accusa la stessa Signoria, colpevole di aver dato udienza ad un tedesco latore di lettere del Vergerio: alle rimostranze del pontefice, egli rispose che "non si pò negar di udir ambasciator de ciascun Principe, Turco, Christiano over heretico".
A questo proposito la posizione del D. fu sempre quella di un anticlericale deciso e senza peli sulla lingua, ma sarebbe errato attribuire finalità politiche a questa condotta, giacché, almeno fino al 1580, non ci fu a Venezia un coerente partito antiromano: semmai egli riuscì a trovare un seguito solo in particolari momenti di emergenza politica od economica, come quando si batté contro l'introduzione dell'Indice nello Stato, giudicandolo dannoso per la produzione libraria della Dominante, o allorché seppe efficacemente combattere le pretese romane di ottenere per i beni degli ecclesiastici l'esenzione dalla decima del 1566; d'altro canto, tra il '62 ed il '64, come savio all'Eresia, egli difese energicamente l'ortodossia della fede, nonostante (o forse proprio per questo) un suo fratello, Andrea, avesse abiurato il cattolicesimo e si fosse stabilito nella calvinista Ginevra.
Il 1º ott. 1553 il D. fu eletto al Consiglio dei dieci, poi fra i tre conservatori ed esecutori delle Leggi (3 novembre); fu quindi savio del Consiglio per il primo semestre 1554 e successivamente consigliere ducale per il sestiere di Dorsoduro; il 3 febbr. 1555 entrava a far parte della zonta del Consiglio dei dieci. il 20 luglio era nominato tra i conservatori delle Leggi, il 1º ottobre ancora della zonta del Consiglio dei dieci, il 16 novembre savio del Consiglio: cariche tutte alle quali fu confermato anche l'anno seguente. Il 4 giugno 1556 fu tra i correttori della promissione ducale e qualche giorno più tardi, in occasione delle votazioni che portarono al trono Lorenzo Priuli, ricevette egli stesso dei suffragi, come esponente della fazione filofrancese ed antispagnola; posizione ch'egli ribadì a fine anno (15 novembre), allorché, nella sua veste di savio del Consiglio, combatté il parere di Domenico Morosini, sostenendo che occorreva in tutti i modi ottenere il ritiro del duca di Alba, che aveva invaso lo Stato pontificio, unico mezzo per procurare "quel dono, più prezioso e nobile, che il sommo Iddio dona agli uomini, ai principi, alle repubbliche e a tutto il mondo, che non è altro che la pace". Il 12 dic. 1557, mentre faceva parte ancora una volta del Consiglio dei dieci, venne eletto podestà a Padova, dove rimase dal marzo '58 al luglio '59, occupandosi della ricostruzione del palazzo pretorio, distrutto da un incendio, ma specialmente del vettovagliamento di una popolazione travagliata dalla carestia, a vantaggio della quale istituì il Monte di pietà.
Era appena tornato a Venezia, allorché (23 luglio 1559) fu eletto ambasciatore straordinario al nuovo re di Francia, il quindicenne Francesco II, assieme a Bernardo Navagero: della missione, che ebbe luogo tra il 27 aprile e il 3 giugno 1560, ci restano solo pochi dispacci da Lione, Blois, Romorantin. Puntualmente presente nel Consiglio dei dieci e tra i savi grandi negli armi 1559-61, il 29 sett. 1561 venne nominato ambasciatore al concilio di Trento, assieme a Matteo Dandolo.
Qui, il 25 apr. 1562, toccò al D. pronunciare nella congregazione generale una "bellissima oratione et degna d'un gran senatore viniziano", prendendo però apertamente posizione contro la tesi pontificia sull'obbligo della residenza episcopale. A Trento i due ambasciatori si fermarono sino alla fine dei lavori conciliari, badando soprattutto a difendere le prerogative dei sudditi di rito greco.
Quindi il D. fu savio del Consiglio per il primo semestre 1564 e successivamente (dal 1º ottobre) membro del Consiglio dei dieci, poi ancora savio del Consiglio (gennaio-giugno 1565) e consigliere ducale per il sestiere di S. Marco (fu eletto il 23 apr. 1565). Assieme a Girolamo Grimani, Girolamo Zane e Marino Cavalli, il 13 genn. 1566 venne nominato oratore straordinario al nuovo Pontefice Pio V.
Senonché il papa rifiutò l'inserimento del D. fra i diplomatici, secondo quanto riferiva da Roma l'ambasciatore Paolo Tiepolo: "Quando Sua Santità sentì nominar il cl.mo messer Nicolò da Ponte, disse: questo no, questo non ne piace ..., non havemo, bona opinion di lui ... ; si raccordamo ch'esso deffese il vescovo Soranzo ... ; soggiunse Sua Santità: si ha anco egli portato male al concilio in alcune cose": in effetti era stato proprio il Ghislieri il principale accusatore del vescovo di Bergamo, che il D. aveva invece tanto efficacemente difeso, a Venezia come senatore e a Roma come ambasciatore, quindici anni prima, ma fu probabilmente l'atteggiamento tenuto a Trento dal D. la causa fondamentale del rifiuto pontificio; il D. dovette dunque dichiararsi ufficialmente ammalato e rinunciare a far parte della legazione, pur non astenendosi dal difendere pubblicamente la propria condotta. Con una "scrittura" letta personalmente in Senato il 18 febbraio, egli infatti ricostruiva il proprio operato al concilio, alla luce delle direttive impartitegli dalla Repubblica, lasciando sottintendere, nella conclusione, un avvertimento a non voler offenderne l'onore: "...se mò il viver con timor di Dio, frequentar le confessioni et communioni, dar buon essempio di sé, operar sempre da vero christiano, perseguitar li heretici, sono operationi di mala mente o di poca religione, si lascia considerare ad ogni persona pia, catholica et prudente".
La vicenda non incise minimamente sul prestigio del D., che rimase presente nelle massime cariche dello Stato; nel novembre 1567 fu tra i quarantuno elettori del doge Pietro Loredan, un mese più tardi era eletto consigliere ducale, nel marzo 1570 riformatore dello Studio di Padova, il 30 luglio di quest'ultimo anno, infine, ebbe addirittura il titolo di procuratore di S. Marco de ultra.
Il conferimento di un tale onore, avvenuto nel corso della guerra di Cipro, suonava come una sorta di sanzione ufficiale del ruolo da lui ricoperto nella circostanza, che fu forse la più significativa della sua vita. Egli infatti fu uno degli ispiratori della politica pacifista tenacemente perseguita dal Consiglio dei dieci, che praticamente avocò a sé la condotta e la conclusione del conflitto. Sin dal novembre 1569, quando ormai erano chiare le intenzioni dei Turchi, il D. parlò in Senato contro la proposta di rinforzare le difese dell'isola, quindi sostenne l'opportunità di far uscire la Repubblica dall'isolamento, sollecitando l'alleanza del papa e degli Spagnoli.
Non erano propriamente le corti verso le quali il suo animo inclinava, ma seppe dimostrarsi così deciso nella scelta, che il 7 giugno 1572 venne inviato, assieme a Vincenzo Morosini e Andrea Badoer, ambasciatore straordinario a Roma, in occasione dell'elevazione al pontificato di Gregorio XIII. Tornato a Venezia agli inizi di novembre, di lì a qualche mese, il 3 apr. 1573, era inviato nuovamente presso la S. Sede, assieme a Giacomo Soranzo, con il compito precipuo di difendere le ragioni della Repubblica, che aveva concluso col Turco una pace separata. Era stato, infatti, uno dei maggiori artefici della composizione del conflitto, e tuttavia questo vecchio ultraottantenneseppe portare tanti e tali argomenti in difesa della decisione veneziana, che il papa finì per lasciarsi convincere, giungendo addirittura a chiamarlo "pacis angelus".
Negli anni che seguirono fu sempre presente tra i savi del Consiglio e nella zonta del Consiglio dei dieci; fu pure riformatore dello Studio di Padova tra il 20 giugno 1574 ed il 19 giugno '76 ed infine fu eletto doge il 3 marzo 1578, non senza contrasti, al quarantaquattresimo scrutinio. Pur essendo salito al trono in età avanzata, il suo dogato non fu dei più brevi: nel corso della crisi interna del 1581-82, che sfociò nella "correzione" del Consiglio dei dieci, riuscì a figurare come punto di riferimento dei "giovani", e in diverse occasioni seppe ancora fornire notevoli prove del suo anticlericalismo.
Morì a Venezia il 30 luglio 1585.
Nella redecima del 1582 aveva dichiarato di possedere, oltre al palazzo di S. Maurizio, sei case a Venezia, alcuni capitali di livello attivi, oltre mille campi, "comprati per noi a poco a poco", ubicati prevalentemente presso Cittadella, nel Padovano, e Motta di Livenza, fra il Trevigiano ed il Dogado.
Anche il testamento, dettato il 6 giugno 1585, lo dimostra assai ricco, ma avaro di lasciti: del resto, l'unica dimostrazione di generosità che ci è dato conoscere, nella sua vita, consiste nei 22.500 ducati offerti l'11 dic. 1580 per far ottenere al nipote omonimo il titolo di procuratore di S. Marco de ultra; era il suo unico discendente maschio: il figlio Antonio, infatti, era morto nel 1558. Ma qualche anno dopo, con la scomparsa dello stesso procuratore Nicolò (1590), questo ramo della famiglia si sarebbe estinto.
Fonti e Bibl.: Per la biografia del D. cfr. Arch. di Stato diVenezia,M. Barbaro, Arbori de' patritii..., VI, pp. 192 s., 195,197, 201, 204;Ibid., Avogaria di Comun. Balla d'oro, reg. 165, c. 327r;Ibid., G.Giomo, Indice dei matrimoni patrizi per nome di donna, sub voce Spandolino Regina e Canal Arcangela; Ibid., Dieci savi alle Decime. Redecima 1582, reg. 375/40; Ibid., Sezione notarile. Testamenti, b. 1265/XIV, cc. 25v-27r;Venezia, Bibliotecanazionale Marciana, Mss. It., cl. VII, 17 (= 8106): G. A.Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, III,cc. 237r-238r;Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3426/XI: Famiglia da Ponte; Ibid., Cod. Cicogna 3527: Catalogo della Biblioteca veneta, ossia degli Scrittori veneziani, III,cc. 246v-249r. Sulla carriera politica: Venezia,Bibl. naz. Marciana, Consegli: Mss. It., cl. VII, 820 (= 8899), c. 340r; 821 (= 8900): Consegli, cc. 127r, 264r, 268r, 329r; 822 (= 8901), cc. 73v, 172r,237r, 304r, 310r; 823 (= 8902), cc. 39r, 40r, 175r, 217r, 246r, 248v, 320r, 333v; 824 (= 8903), cc. 110r, 187r, 189v, 196v, 206v,222r, 290v, 318v, 331v, 333r, 335v, 356v; 825 (= 8904), cc. 18r, 44v, 47v, 60r, 126v, 140r, 251v, 256r, 277r, 279v, 283v, 299v, 301v, 340v, 344r, 345v, 346v; 826 (= 8905), cc. 7v, 38r, 41v, 43v, 132v, 177r, 197v, 202v, 223v, 224v, 226v, 260v, 266v, 283r, 329v; 827 (= 8906), cc. 19v, 22v, 36r, 38r, 102r, 104r, 110r, 116r, 190v, 218r, 256v, 258v, 260v, 268r, 280v, 296v, 310v; 828 (= 8907), cc. 107v, 177v, 238r, 301v; 829 (= 8908), cc. 38v, 90r, 119v, 138r,141r; 830 (= 8909), c. 285r;Arch. di Stato di Venezia, Segr. alle Voci. Elez. Maggior Consiglio, reg. 1, c. 158; reg. 2, cc. 3v, 13v;reg. 5, c. 102; Ibid., Segr. alle Voci. Elez. Pregadi, reg. 1, cc. 13r,26v-27r, 32v, 43v-44r, 52v, 84r, 85rv; Ibid., Lett. Rettori ai capi del Consiglio dei dieci. Corfù, b. 291, n. 120;per l'ambasceriaall'imperatore: Ibid., Lettere di ambasciatori ai capi del Consiglio dei dieci, b. 23, n. 69;per quella romana del 1547-48: ibid., b. 23,nn. 125-133; per quella del 1551-53: ibid., b. 23, nn. 163-186; perquella in Francia del 1560:Ibid., Arch. proprio Francia, f. 4, nn.18, 20-23 bis, 24;per quella al concilio di Trento: Ibid., Lettere di ambasciatori ai capi del Consiglio dei dieci, b. 30, nn. 197-255;per quella romana del 1573: Ibid., Senato. Dispacci Roma, f. 9,nn. 35-38, 40, 42-59; Ibid., Lettere di amb. ai capi d. Consiglio dei dieci, b. 25, nn. 205, 207, 209-214; sull'attiv. di riform. dello Studio di Padova nel 1572: Ibid., Senato. Terra, reg. 49, cc. 1rv, 72v; sul dottorato del D., le sue lezioni di filosofia, il bailaggio a Corfù, cfr. rispettivamente: M. Sanuto, I Diarii, XVIII,Venezia 1887, col. 124; XXXI, ibid. 1891, coll. 60 s., 67, 205; LVI, ibid. 1901, coll. 201, 698, 842, 848, 852, 854, 858 s., 918. Sugli scritti del D. cfr.: Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Alberi, s. 2, III, Firenze 1846, pp. 141-253, 419-28 (alle pp. 142-46, cenni biogr. sul D., con elenco di orazioni da lui tenute in diverse occasioni, e poi trattati e persino opere di geometria, una delle quali intitolata Squadra mobile; seguono alle pp. 147-253 un Maneggio della pace di Bologna tra Clemente VII, Carlo V, la Repubblica di Venezia e Francesca Sforza. 1529, e a pp. 419-28 una Orazione di Nicolò da Ponte Savio del Consiglio, detta nel Senato veneto, sopra lo scrivere a Roma per procurare la pace fra il pontefice e il re di Spagna, ai 15 di novembre 1556); una stringata e superficiale Relazione sulle cose di Firenze e Roma, di Nicolò da Ponte, ambasciatore straordinario della Repubblica Veneta a Roma, a cura di P. Molmenti, Venezia 1893, che non si trova nella raccolta dell'Alberi, è stata collegata dal Molmenti alla missione del 1573, ma una serie di indizi (quali il persistere della lega antiturca, e l'essere ancora in vita il cardinale Ippolito d'Este, morto il 2 dic. 1572) suggerisce invece di spostarla a quella dell'anno precedente. Cfr. inoltre: G. Palazzi, Fasti ducales...,Venetiis 1696, pp. 231-34; A. Valier, De cautioneadhibenda..., Patavii 1719, pp. 268-86; G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita, e le opere degli scrittori viniziani…, I,Venezia 1752, p. LIII; II, ibld. 1754, p. 386; A. Valier, Dell'utilità che si può ritrarre dalle cose operate daiVeneziani..., Padova 1787, pp. 368 ss., 385 s., 401; G. Cappelletti, Storia della Repubblica di Venezia…, VIII, Venezia 1852, p. 366; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, VI, Venezia 1853, p. 614; Commissiones et relationes Venetae, a cura di S. Ljubić, in Monumenta spectantia historiam Slavorummeridionalium, VIII, Zagrabiae 1877, p. 154; V. Lamansky, Secrets d'état de Venise. Documents, extraits, notices et études servants à eclairer les rapports de la Seigneurie avec les Grecs, lesSlaves et la Porte Ottomane à la fin du XVe et au XVIe siècle, Saint-Pétersbourg 1884, pp. 73 s.; P. Donazzolo, I viaggiatori veneti minori, Roma 1927, pp. 111 s.; B. Nardi, Letter. e culturavenez. del Quattrocento, in La civiltà venez. del Quattrocento, Firenze 1957, pp. 117 s., 141; P. Paschini, Tre illustri prelati del Rinascimento …,Roma 1957, pp. 143, 145, 149, 185; H. Jedin, Gasparo Contarini e il contributo veneziano alla riformacattolica, in La civiltà venez. del Rinascimento, Firenze 1958, p. 120; R. Morozzo della Rocca-M. F. Tiepolo, Cronologia venez. del Cinquecento, ibid., pp. 236, 240, 243; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Firenze 1958, pp. 4 s., 14, 30; P. 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