ROSSI, Nicolò
de’. – Nacque a Treviso verso la fine del XIII secolo, presumibilmente tra il 1290 e il 1295, figlio di Alberto Rubeus di Burbante, appartenente a una nobile consorteria locale (Verci, 1788, p. 152).
La forma cognominale volgare si conferma sulla base dell’attestazione del sonetto Una donna vechia, teribel molto, dove l’autore stesso si nomina come «Nicolò de’ Rossi, / doctor de leçe...» (Brugnolo, 1974-1977, I, p. 87; II, p. 3); nelle fonti latine si hanno le varianti de Rubeis e (de) Rubeo (da cui la forma del Rosso, a lungo vigente accanto all’altra nella tradizione storiografica e critica). La Leandreride (1381-1382 circa) di Giovanni Girolamo Nadal lo menziona come «el trevisan dei Rossi Nicolao» (IV, vii, 44), qualificandolo peraltro tramite un’enigmatica perifrasi: «cui diede sopranome il sconcio toro», probabilmente allusiva «di qualche vicenda di letto» (Nadal, 1996, pp. 130, 280: toro nel senso di “letto, talamo”).
Studente di legge a Bologna, nell’ottobre del 1317 ottenne dal Comune di Treviso (grazie anche all’appoggio di Guecello Tempesta, signore di Noale e avvocato del vescovo, «implicato, direttamente o indirettamente, nella cultura letteraria cortese della Marca», Brugnolo, 2010, p. 77) il sussidio per sostenere l’esame pubblico conclusivo in diritto civile. È presumibile che già alla fine del 1317, dopo il conseguimento della laurea, fosse rientrato nella città natale dove, il 12 agosto 1318, preferito addirittura a un concorrente quale Cino da Pistoia, fu prescelto come professore di diritto civile nello Studium per la lectura extraordinaria delle ore pomeridiane, con incarico triennale. Da quell’anno fu «variamente attivo nelle complesse vicende cittadine come giudice e avvocato» e fu anche «impegnato nell’attività diplomatica del Comune» (Granata, 2013, p. 157). Con altri notabili trevigiani, il 24 novembre 1318 prese parte all’ambasceria inviata dal Comune a Graz, per informare Federico il Bello re dei Romani delle ostilità di Cangrande I contro Treviso, e per ottenere il riconoscimento ufficiale dell’Università. Nel ritorno (dicembre 1318), definito «legis doctor miles» (MGH, Const., V, 467), fu con altri latore di una lettera di Federico al suo consiliarius Rambaldo VIII di Collalto, conte di Treviso; una successiva lettera allo stesso (18 febbraio 1319) lo menziona come «strenuus vir» e «fidelis noster dilectus» accanto a Dietrich, vescovo di Lavant. Anche da queste relazioni dipese la nomina, da parte di Federico, di Enrico II di Gorizia a vicario regio su Treviso e Conegliano (aprile 1319), scelta che portò a un’alleanza della città con Padova in funzione antiscaligera.
Negli anni successivi comparve ripetutamente nelle magistrature civiche e in occasioni pubbliche di rilievo. Fu tra gli « iudices consules exteriores» del Comune (novembre-dicembre 1320 - gennaio 1321); fu testimone all’importante atto con cui Guecello da Camino, conte di Ceneda, Feltre e Belluno, e Rambaldo di Collalto designarono Enrico II come arbitro per ogni loro controversia (14 gennaio 1321; cfr. Brugnolo, 1980, p. 172); menzionato come legum professor, fu incaricato della lettura in volgare di un’epistola latina di Enrico II (30 luglio 1321; Archivio di Stato di Treviso, Notarile, Giovanni da Fossalunga, cc. 8r, 12r). Il 25 agosto dello stesso anno fu testimone al testamento di Beatrice da Camino, prima moglie del conte di Gorizia (Verci, 1788, IX, docc., p. 19). Un’ultima comparsa, in una causa giudiziaria, è del 1324.
Da qui alla conquista scaligera di Treviso (1329) è possibile seguire la presenza cittadina di Nicolò de’ Rossi solo attraverso la sua produzione di poeta, che testimonia, oltre che l’amore e la dedizione al proprio Comune e alla causa guelfa, «una fervida partecipazione alle tempestose vicende politiche di quegli anni (la guerra contro Cangrande, il vario gioco di alleanze con il conte di Gorizia e con i padovani, l’insurrezione contro i da Camino, le lotte intestine fra gli Azzoni e i Tempesta, la decadenza della città, ecc.)» (Brugnolo, 1974-1977, II, pp. 3 s., 9-16).
Riferito all’occupazione guelfa di Monza del 1323 è, ad esempio, il sonetto ‘Exurgat Deus’ à fato per opra; al patto ghibellino stretto a Ferrara il 28 giugno dello stesso anno a sostegno di Galeazzo Visconti si allude in Meraveglia che gli signor Visconti; Segnor, guardàteve da misèr Kane e Che çe fa noi se dentro questa terra esprimono la preoccupazione per l’avanzata di Cangrande in territorio trevigiano tra l’ottobre del 1324 e il gennaio del 1325; si riferiscono alla battaglia di Altopascio Al cor me diedi l’altrier grand’empiglio e Refresca força come verde in laoro, mentre un gruppo di quattro sonetti, databili al 1323 o al 1326 (nel pieno delle controversie politiche trevigiane), celebra l’auspicato arrivo di Beatrice di Wittelsbach, vedova di Enrico II di Gorizia. Un’altra serie di sonetti, riferiti a Guecello Tempesta, si può collocare fra il 1326 e il 1328, ovvero entro la parabola che condusse Guecello dall’egemonia politica in città (con esaltazione derossiana dei suoi successi) al momento in cui, di fatto, egli si avvicinò ai ghibellini di Cangrande, provocando lo sdegno di de’ Rossi. In Ardente flama de l’aire scendìa si può infine leggere un richiamo allo scisma antipapale perpetrato da Ludovico il Bavaro (1327-28); di lì a poco de’ Rossi fece esplicito riferimento ai «mille trecento vinti otto» anni passati dalla nascita di Cristo, nel sonetto Da che Adam naque, duomilia ducento, che è dunque il suo ultimo componimento databile con certezza.
Verosimilmente abbandonò Treviso durante la dominazione scaligera (1329-38): manca per questo decennio qualsiasi notizia. Ricompare ad Avignone, nel 1339, quando risulta presso la corte di papa Benedetto XII come destinatario di una commendatizia consegnata ad agosto da un’ambasceria del Comune trevigiano, rappresentato da Fioravante da Borso. Il 14 luglio 1338 fu nominato pievano di S. Apollinare, a Venezia; sin dal 28 novembre 1339 fu autorizzato a insediarsi, ma non consta un suo effettivo trasferimento sino al 1348, quando compare nel catalogo dei parroci di quella chiesa come «legum doctor de Tarvisio canonicus castellanus» (Marchesan, 1923, II, p. 295). Il 1° ottobre dello stesso anno, secondo la «provisio pro decimis contratae S. Bartholomaei», fu tra i testimoni presenti «in anticamera Domini Episcopi Castellani» (Corner, 1749, p. 338).
A Venezia presumibilmente morì, in data imprecisabile, nominando erede dei suoi possedimenti il priorato di S. Maria della Misericordia.
Il nome e il posto di de’ Rossi nella storia letteraria italiana sono legati, prima che alla sua produzione poetica, alla sua, come si direbbe oggi, attività editoriale: si deve infatti alla sua iniziativa l’allestimento, eseguito alla fine degli anni Venti del Trecento, di uno dei più importanti testimoni della poesia lirica italiana delle origini, il ms. Barberiniano latino 3953 della Biblioteca apostolica Vaticana (B), che contiene un’ampia e preziosa silloge di rime duecentesche e primotrecentesche, di autori prevalentemente toscani (Dante in primis, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia, Cecco Angiolieri, Folgore da San Gimignano ecc.), accanto a suoi componimenti, ben 75, in parte da lui trascritti. Il codice, al di là della sua rilevanza testimoniale, è un documento quanto mai eloquente della rapida diffusione e ricezione dei grandi modelli poetici toscani di fine Duecento e inizio Trecento a nord del Po e principalmente nel Veneto. Delle due unità codicologiche che costituiscono il manoscritto, la prima, che si può ipotizzare inizialmente destinata a Guecello Tempesta e che contiene anche alcuni testi in prosa, si dimostra allestita a Treviso tra il 1325 e il 1329, in seguito unita alla seconda, contenente una compatta sezione di sonetti tutti derossiani, che doveva essere già circolata in autonomia, visto che a essa, e solo a essa, fanno capo i sedici sonetti tramandati dal più tardo ms. Reginense 1973 della Biblioteca apostolica Vaticana.
La questione dell’autografia (ormai generalmente passata in giudicato: cfr. Brugnolo, 2001, pp. 232 s.; Granata, 2013, p. 158) da un lato, e quella, dall’altro, dell’imitazione dei poeti toscani da parte dei rimatori veneti del Trecento (di cui de’ Rossi, con Giovanni Quirini, è senza dubbio il più rilevante) si pone anche per l’altro codice derossiano, il Colombino 7.1.32 della Biblioteca capitolare di Siviglia (S), che contiene (o conteneva: alcune carte sono cadute) l’intera produzione poetica di de’ Rossi, il suo ‘canzoniere’: quattro canzoni – una delle quali, Color di perla, dolçe mia salute, provvista di un autocommento in latino – e ben 434 sonetti (o 435, considerando a parte la sua partecipazione, tuttora discussa, a una tenzone tridialettale in veneziano, padovano e trevisano – trasmessa da questo solo manoscritto –, cui parteciparono anche Giovanni Quirini e Guercio da Montesanto).
La disposizione sostanzialmente cronologica delle rime in S permette, grazie ai vari indizi interni, di datare l’attività versificatoria di de’ Rossi esattamente fra il 1317-18 e il 1328-29 (che è il termine post quem per la confezione del codice). A dimostrazione di una cultura poetica tutt’altro che limitata, tale attività si rende pienamente partecipe e rappresentativa di quello «sperimentalismo eclettico» e di quella «mescolanza degli stili» che distinguono la lirica veneta toscaneggiante del Trecento (Brugnolo, 1976, p. 430), caratterizzata da un intenso ibridismo delle scelte linguistiche e formali, fino alle punte estreme del tecnicismo degli artifici metrici e retorici (e anche grafici: de’ Rossi è autore delle prime ‘poesie figurate’ della letteratura italiana). L’esercizio della contaminazione (programmatico in tal senso è S’eo voio dir d’Amor per traiedìa) si applica al piano dei contenuti e dei temi: il corpus (il più ampio, a parte Petrarca, della lirica volgare due-trecentesca) esibisce difatti, accanto alle predominanti rime amorose (nelle quali si dimostra in grado di attraversare l’intera gamma delle possibilità offerte dalla tradizione lirica, potendo avvalersi delle risorse stilistiche del canone cortese, siculo-toscano e guittoniano, così come adottando movenze tipicamente stilnovistiche, senza escludere il passaggio per una sensuale trivialità: si veda la sezione della parabola amorosa per una donna cantata con il nome di Floruzza), componimenti comico-burleschi, gnomico-moraleggianti, religiosi e infine politico-civili, nei quali, da guelfo, esprime tutto il suo allarme per lo stato di decadenza di Treviso originato dalle discordie intestine e dai pericoli esterni.
Dal punto di vista idiomatico, le sue rime sono caratterizzate da un notevole, se pur confuso, «sforzo di adeguamento al toscano [...], anche se i tratti dialettali», attribuibili a una koinè veneta, «o al massimo trevisano-padovana [...], non sono completamente espunti» (Brugnolo, 1980, p. 174). L’autografia (se non idiografia) dei manoscritti originari accentua il valore di questa precoce testimonianza della diffusione del toscano letterario al Nord. Non irrilevante la fortuna successiva di alcuni componimenti, a conferma ulteriore, in aggiunta alle benemerenze editoriali testimoniate dal codice B, della possibilità di individuare in de’ Rossi la personalità di maggior rilievo della cultura volgare trevigiana – e più in generale veneta – della prima metà del XIV secolo.
Edizioni. Il canzoniere Vaticano Barberino latino 3953 (già Barb. LXV.47), a cura di G. Lega, Bologna 1905; Canzoniere sivigliano, a cura di M.S. Elsheikh, Milano-Napoli 1973; F. Brugnolo, Il Canzoniere di N. de’ R., I-II, Padova 1974-1977.
Fonti e Bibl.: F. Corner, Ecclesiae Venetae..., I, Venezia 1749, p. 338; G.B. Verci, Storia della Marca, VIII, Venezia 1788, p. 152; IX, Venezia 1788, p. 19; A. Marchesan, L’Università di Treviso nei secoli XIII e XIV, e cenni di storia civile e letteraria della città di quel tempo, Treviso 1892, ad ind.; Messer Niccolò del Rosso, in Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, a cura di A.F. Massera, Bari 1920, I, pp. 197-234, II, pp. 141 s.; A. Marchesan, Treviso medievale. Istituzioni, usi, costumi, aneddoti, curiosità, I-II, Treviso 1923, ad ind.; J. Scudieri Ruggieri, Di N. de’ R. e di un suo canzoniere, in Cultura neolatina, XV (1955), pp. 35-107; Niccolò del Rosso, in Poeti giocosi del tempo di Dante, a cura di M. Marti, Milano 1956, pp. 441-535; G. Favati, Ancora sull’Escurialense e.III.23 e su un gruppo di sonetti di N. de’ R. Rapporti col Chigiano L.VIII.305, in Filologia romanza, XIII (1957), pp. 176-190; M. Corti, Una tenzone poetica del sec. 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