DONÀ (Donati, Donato), Nicolò
Figlio di Giambattista di Andrea di Antonio e di Paola Corner di Cristoforo, nacque il 5 dic. 1542. Era fratello di Leonardo, che diventò doge nel 1606, e padre di Antonio, ambasciatore in Savoia e in Inghilterra.
Al fratello il D. fu unito da stretti legami affettivi e politici; come lui esponente del gruppo di patrizi cosìddetti "giovani", ricopri incarichi di prestigio nei Consigli e nelle magistrature veneziani. Personalità meno carismatica del fratello, fu tuttavia uomo intelligente, riflessivo e prudente, pensoso dei problemi della città particolarmente di quelli legati al mare, sui quali poteva vantare una notevole esperienza costruita con decenni di attività commerciale e militare. Schivo di carattere e un po' incline alla autocommiserazione, fl D. fu messo un po' in ombra dalla personafità più prorompente del fratello, ma ebbe modo di esercitare una sua influenza e un ruolo talvolta distinto da quello di Leonardo nell'ofientare il governo e il patriziato. Più moderato e diffidente per carattere e convinzione verso l'enfasi o il protagonismo, non si sottrasse ai dibattiti e alle prese di posizione, aiutato da un'oratoria efficace e convincente. Dei sette figli maschi di Giambattista fu l'unico a sposarsi - il 9 giugno 1578, con Andriana di Giovanni Bragadin, da cui ebbe dieci figli - sulla base di una tacita regola che nel corso del '500 fu rispettata dai membri della famiglia e che sembra avesse motivazioni soprattutto economiche.
La famiglia Donà, nel secolo XVI, riusciva ancora a conciliare l'esercizio dei commerci con il servizio nelle magistrature. Ne è esempio il padre del D., per il quale gli investimenti in Terraferma avevano ancora un'importanza marginale. La generazione seguente invece - quella appunto del D. - inverti la tendenza e progressivamente i patrimoni dei suoi membri persero ogni traccia di attività mercantile. Come i fratelli Andrea e Leonardo anche il D. lasciò la casa paterna per spingersi in Levante, alternando la sua permanenza tra Cipro e la Siria, per occuparsi degli affari della famiglia, prima come aiuto ai fratelli maggiori e al padre, poi con compiti di sempre maggiore responsabilità. Lavorava alacremente, desideroso di imparare e di continuare un'attività che gli piaceva. Cosi fece a lungo, infatti, mentre si faceva strada in lui la delusione per la mutata situazione che vedeva i Veneziani subire la spietata concorrenza di altri mercanti del Nordeuropa e della Francia. Già nel 1561, mentre si trovava ad Aleppo, ebbe modo di osservare le condizioni sfavorevoli in cui si trovava a operare, sfogandosi nelle lettere che inviava al fratello Andrea a Venezia. Il D., più ancora dei fratelli, sperimentò il declino del commercio veneziano. Poiché non sopportava più di stare colà, senza poter reggere la concorrenza straniera, tornò a Venezia. Nello stesso periodo cambiò merci, trafficando un po' in grani e spezie o in ciò che reputava meritevole di speculazione. Anche dopo la perdita di Cipro e nel decennio successivo a Lepanto, il D. continuò a svolgere attività mercantile restandosene a Venezia e servendosi di agenti.
Scrive il Davis: "I risultati non furono buoni. Trasse 563 ducati dall'importazione di vini dolci, formaggio e cotone ma perse 913 ducati in speculazioni con olio, zenzero, chiodi di garofano, macis, cannella e seta. Se possiamo trovare una costante nelle sue speculazioni, è il successo per quanto riguarda i viaggi brevi verso le isole veneziane e il fallimento nei viaggi verso la Siria per il commercio di prodotti esotici importati dall'Oriente". Talvolta le merci arrivavano danneggiate, tal'altra un agente disonesto gli faceva perdere denaro, un'altra volta ancora non realizzava alcun guadagno. Si sarebbe quasi indotti a pensare che il D. stesso fosse responsabile dei suoi insuccessi, stando anche a quanto scrisse negli ultimi anni della sua vita in un malinconico bilancio, nel quale ammise la sua inettitudine. Probabilmente mancò di abilità ma è indubbio che si trovò ad operare in tempi assai difficili per il mercante veneziano.Il sesto decennio del secolo vide anche un incremento dell'ostilità ottomana che culminò nel 1570 con la perdita di Cipro e con la battaglia di Lepanto, l'anno successivo. Entrambi gli episodi videro la presenza del Donà. Anticipata l'entrata in Maggior Consiglio con l'estrazione della balla d'oro, nel 1562, il D. fu sopracomito nel 1564 e nel 1568, governatore di galea nel 1570 e governatore della trireme dei condannati nel '71. Si distinse in vari episodi bellici minori acquistandosi fama di comandante coraggioso, esperto e abile nel governare gli uomini, una fama che non venne offuscata neppure da una accusa di negligenza durante l'assedio turco di Cipro. Dopo Lepanto ricopri ancora diversi incarichi militari al comando di navi o a terra come membro del Collegio della milizia da mar e provveditore sopra l'Armar. Numerosi sono i diari e le annotazioni che testimoniano l'attività svolta sul mare in pace e in guerra dal D., cui si aggiungono le lettere scambiate con i famigliari e con altri sui problemi che attenevano allo svolgimento delle sue mansioni ma anche più generalmente alla politica e alla strategia marittima veneziana. Alle questioni di strategia marittima, nelle sue implicazioni economiche e militari, e alla difesa, più in generale, degli interessi veneziani, il D. diede un contributo consistente e importante.
Dopo Lepanto e la successiva pace col Turco, Venezia vide modificarsi profondZente il quadro strategico nel Mediterraneo: la concorrenza economica fatta di intraprendenza e di innovazione tecnologica ad opera di Francesi, Inglesi e Olandesi mortificava sensibilmente il ruolo di Venezia mentre erano sempre più forti, e convergenti, gli sforzi delle potenze asburgiche e della Sede apostolica per ridimensionarne la sovranità sull'Adriatico. Un'altra minaccia, militare insieme ed economica, aveva assunto dimensioni sempre più preoccupanti: quella degli Uscocchi. Una minaccia dietro alla quale si potevano scorgere i ruoli interessati dei tradizionali nemici di Venezia. Gli Uscocchi, dalle loro basi in Dalmazia, attaccavano le navi veneziane e godevano di una tacita approvazione degli Arciducali e degli Spagnoli che in questo modo indebolivano Venezia sotto il profilo economico e politico. A partire dagli anni '80 il problema si era aggravato, costringendo la Repubblica a correre ai ripari impostando un dispositivo militare che potesse fronteggiare e debellare quei predatori. La gravità della minaccia uscocca era data non solo dal danno che provocavano ai commerci di Venezia, ma dalla tensione che creavano nell'Adriatico, compromettendo la tregua tra la Serenissima e i Turchi e dando pretesto a Spagna, Austria e Sede apostolica per rivendicare pretese sull'area adriatica. Il problema dei pirati uscocchi contribuiva non poco ad agitare la vita politica interna veneziana, motivo di scontro tra le diverse posizioni che facevano capo alle due fazioni dei "vecchi" e dei "giovani". Il dibattito sul modo di affrontare il problema dei corsari dalmati implicava inevitabilmente l'emergere e lo scontrarsi di diverse strategie e di modi diversi di intendere il ruolo di Venezia nel contesto europeo. Non sorprende quindi che, oltre ai problemi squisitamente militari, si finisse per dover ragionare sull'intera strategia della Repubblica sul piano delle alleanze politiche, sulla politica economica commerciale e così via.
Il D. fu eletto per la prima volta provveditor generale da Mar in Dalmazia e Albania nel marzo del 1597 assumendo l'incarico l'anno successivo. Dovette fronteggiare non solo una dura campagna militare con un apparato non adeguato ma anche l'incertezza politica del governo che metteva in luce sia le impostazioni contrastanti di tipo tattico sia una sostanziale incapacità di aggiornamento sulle necessità di un tipo di guerra non convenzionale quale si stava combattendo.
Degli Uscocchi che avevano la loro base principale a Segna vicino a Fiume, il D. diede un'efficace e colorita descrizione nella relazione al termine del suo generalato, nel 1599: "Gente arrogante, superba, ingorda, rapace, in che consumano li loro crapulosa in estremo. mal acquistati bottini"; gente poi che pur considerando lecito rubare aveva pure una sua religiosità: "In apparenza nel resto vivono religiosamente, confessandosi et comunicandosi, et ben spesso ricorendo a Dio con publiche orationi et con voti, rispondendo insieme le decime delle prede al loro vescovo". Tanto più pericolosi, quindi, perché potevano godere di ambigue protezioni nel consorzio cristiano oltre che a livello politico in quello asburgico-spagnolo. Erano portatori - rilevava il D. - di nuove tattiche di guerra marittima che sconcertavano ancor più l'apparato difensivo veneziano e costringevano i responsabili della guerra della Serenissima a estenuanti tentativi per venirne a capo.
Feroci spedizioni punitive si alternarono per decenni a tentativi di compromesso e a trattative. In una situazione che richiedeva dunque capacità, decisione militare e prudente duttilità insieme, il D. parve rispondere meglio di altri a queste caratteristiche. La scelta del D. sembrò tuttavia anche una vittoria di quella parte del patriziato che, nel desiderio di venire a capo del problema uscocco, non intendeva inasprire i rapporti con gli Asburgo d'Austria e più in generale optava per soluzioni che non alimentassero ulteriormente i rapporti già tesi con le potenze cattoliche e il pontefice. E in questo il D. si sarebbe contrapposto anche al fratello Leonardo.
Di rivalità tra i due fratelli si parlò sempre e qualcuno attribuirà anche la morte del doge Leonardo alle conseguenze di un violento litigio con il fratello minore. Affermazione non provata, naturalmente, con un valore di spia dei dissapori che effettivamente intercorsero tra loro. Dissapori che avevano motivazioni politiche senza dubbio ma forse anche caratteriali, psicologiche o che più semplicemente scaturivano da un modo diverso di vedere e valutare le cose.
Le ragioni di carattere politico che possono aver determinato la scelta del D. a guidare l'azione dello Stato contro la pirateria erano irrobustite da quelle di ordine prettamente tecnico. Tecnico il D. era certamente, temprato da decenni di attività marinara e di vera e propria guerra combattuta. Aveva prestato servizio in una marineria ancora all'avanguardia: tecnicamente e nei materiali, con equipaggi di buon livello, fondata su modalità d'impiego ancora valide, e, cosa assai importante, sostenuta da una solida vocazione tanto nei patrizi che nei popolari. Egli però, soprattutto quando poté disporre di un comando elevato e avere un quadro generale della situazione, si confermò sempre più nell'idea che le cose erano cambiate. Cambiate in peggio. Dopo la prima esperienza come provveditore generale nel '99, accanto a una approfondita disamina delle operazioni contro gli Uscocchi, aveva prodotto anche una serie di precise considerazioni sulle modalità d'impiego della forza militare veneziana, sul materiale umano a disposizione e sulle capacità dei comandanti. Ne era uscito un quadro sconsolante fatto di schemi di impiego superati, di approssimazione, inefficenza e demotivazione. Una visione pessimistica che trovò conferma ulteriore dopo la sua seconda esperienza nella stessa carica nel 1603. Anche negli anni successivi, il D. non mancò di intervenire con discorsi al Senato, con lettere e con memorie su questi argomenti: ancora una volta elemento conduttore e caratterizzante era il confronto tra il presente e il passato.
Un confronto che non celava il rimpianto per tempi migliori anche se veniva sempre accompagnato da una costruttiva offerta di pareri tesi a rimediare la situazione e a rilanciare l'immagine militare e civile della Venezia marittima. Allora ecco il D. scendere in campo contro gli schemi del passato e contro l'utilizzo delle galee "grosse" giudicate inadeguate a fronteggiare navi più adatte, come i "bertoni", più manovrabili e con miglior tenuta di mare, oltre che più confortevoli per gli equipaggi. Contro i conservatori, egli, uomo del passato glorioso, rispondeva con gli argomenti che erano diventati ormai il suo punto fermo: quelli - diceva - erano altri tempi con altri uomini. Uomini ben più abili e motivati di quelli di oggi e avvezzi a sopportare incognite e intemperie. Allora era possibile adoperare navi come quelle, ora inadeguate ad affrontare i "bertoni" corsari, e spiegava con energia il perché, avvalendosi di considerazioni insieme tecniche e umane. Le ciurme erano composte di "gente spolgiada, vile, mancante del suo ordinario vivere, bagnata di sopra dalla pioggia, di sotto dal mare, e non ha da mutarsi: molte volte se le bagna anco il pane che ha da mangiare; con poco riposo, perché di quando in quando si alza la vella o si abassa, sempre agitada in qualche servitio onde in poco tempo convien cadere et annichilarsi" (cfr. Bibl. d. Civico Museo Correr, Fondo Donà dalle Rose, b. 43). Il tipo di naviglio che usano i corsari, invece, tondo o di alto bordo - come il galeone e il bertone - può portare viveri e acqua per molti mesi evitando i frequenti rifornimenti cui sono obbligate le galeazze; gli equipaggi si possono riposare, sulle galeazze no: negli inseguimenti la galeazza ha bisogno di bonaccia, rara nei periodi in cui i corsari operano più di frequente. In caso di lotta - prosegue il D. - l'uso delle artiglierie è possibile solo con mare calmo se si vuol avere la possibilità di colpire e basta un po' di maretta per renderlo impreciso, figuriamoci con il mare grosso! Quanto alla manovrabilità il "bertone" avrà sempre la meglio perché le galee "havendo le velle da taglio, prima che buttino da brazzo con velle da immensa grandezza, antenne pesantissime, marinarezza languida e forsi spaventada, può l'istesso navilio discostarsi da esse tanto che è ridotto in sicuro". Conclude il D., mostrandosi ancora conoscitore degli uomini, che "voler condur il soldato in mare a combatter da basso a l'alto, scoperto, con chi è di tutto punto copertissimo ... è temerità e un tentar Dio e impresa da non commettersi", e un capitano che disponesse anche di due galee grosse se affrontasse uno di quei navigli corsari ne uscirebbe malconcio. Di questo tenore erano le opinioni che il D. andava ripetendo, con scarso successo, e che sempre più sfiduciato, affiderà a memoriali o a lunghe lettere ad amici. Mentre le ragioni del D. erano affidate a un rigoroso esame dei fatti e delle esperienze, gli avversari sembravano opporre ragioni di campanile, di ostinato nazionalismo, "per non dar da pensare al mondo che questa serenissima Republica, quale... si è per spacio di migliari d'anni mantenuta padrona del mare con vasselli del suo stimato et celebrato arsenale, sia ridotta hora in punto di dover provedersi di legni forestieri per servitio de' suoi bisogni" (Tenenti, p. 182). 1 problemi restarono irrisolti e gli Uscocchi continuarono a tormentare la Serenissima.
La carriera del D. continuava sostenuta da una considerazione sempre più solida e da un prestigio crescente nel patriziato, cui non dispiaceva una sua certa qual modestia. Nel 1585fu eletto senatore straordinario, nel 1592 ordinario. Tre volte fu provveditor generale da Mar, nel 1599, nel 1603e nel 1612. Fu savio alle Biave nel 1592, provveditor alle Biave nel '95, provveditore all'Arsenal nel '97e per la prima volta consigliere nello stesso anno. Nominato nel '98 podestà a Brescia, non ricopri l'incarico perché gli giunse quello di provveditore generale da Mar. Intensi furono anche i primi anni del secolo perché si sentiva il bisogno della sua presenza in settori delicati: consigliere nel 1600, sopraprovveditore alle Biave due volte, nel 1601 e nel 1602; savio grande nel 1602, consigliere dei Dieci nel 1600e nel 1602, nuovamente savio grande nel 1604 e nel 1605.
Anche durante il dogado di Leonardo (1606-1612) il D. continuò a servire lo Stato con generosità e spirito di servizio seppure con una certa fatica, non soltanto fisica. Per il D. fu un momento difficile, quello dell'interdetto, accanto al protagonista, il doge Leonardo, al quale era accomunato dalle stesse idee sostanzialmente, dalle stesse ansie e preoccupazioni.
Nel 1607 il D. si ritirò nella proprietà di Bosco, nel Veronese, tra lo sconcerto e la disapprovazione di molti. Per "recreatione" - scriveva a degli amici - e per "dar qualche sesto alle cose peculiari rovenate" dal cattivo tempo e dalle tempeste (cfr. Bibl. d. Civico Museo Correr, Fondo Donà dalle Rose, b. 217, cc. 83 ss.). Stanchezza e desiderio di isolarsi dunque, ma anche delusione politica perché aveva l'impressione che non ci fosse spazio per le sue posizioni, specialmente quelle riguardanti la politica marittima. I periodi di ritiro a Bosco furono frequenti tra il 1607 e il 1609 e a volte lunghi, ma il D. continuò a tenere i contatti con le persone e gli avvenimenti ricevendo e soprattutto scrivendo lettere, non desistendo, seppur con delusione e scetticismo, dal trattare gli argomenti che gli stavano più a cuore: la politica marittima e la difesa dell'Adriatico. Erano trascorsi gli anni e il problema degli Uscocchi era sempre vivo come lo erano quelli riguardanti la difesa del potere marittimo. del commercio, della vita stessa, insomma, della Repubblica. Proprio in quegli anni il D. affidò alla penna numerosi appunti, discorsi e memorie. Sono disquisizioni tecniche come la necessità di disporre le navi in convoglio per meglio difenderle, e così via. Ma sono anche sfoghi - lui uomo poco incline agli eccessi -contro quella che considerava insipienza e cecità da parte del Senato: "Sanno pure quei signori - scriveva al figlio Leonardo - che la sua piazza da pochissimi anni in qua ha perso per queste depredationi [dei corsari] quattro o cinque mellioni d'oro. Vedono pur a che detrimento sono venuti li suoi datii, sentono li lamenti de mercanti, devono anco sentir quelli del popolo che non havendo da lavorar, non so come potriano sopportar la carestia, se carestia haveremo questo anno de pan e vino, come si può dubitar". Si vuole distruggere la fonte della nostra stessa esistenza e loro si perdono "sopra cose communi". E continua, suggerendo rimedi, sostenendo che bisogna badare alla qualità delle attrezzature degli equipaggi e dei comandanti (ibid.).
A questi problemi il D. non smise mai di pensare cercando di influenzare le scelte del Senato in senso più deciso. Che non fossero per lui solo questioni legate agli Uscocchi o alla guerra ma in senso più ampio alla vita, al "sostentamento" dello Stato, lo dimostrò intervenendo decisamente nel dibattito anch'esso emblematico e importante sul ruolo dei forestieri nel commercio veneziano. Nel 1610fu presentata al Senato da alcuni savi del Collegio tra i quali il figlio del D. Antonio, allora savio agli Ordini, una "parte" favorevole a un allargamento agli stranieri del commercio veneziano. Il discorso, letto da uno dei figli del D., contiene tutte le ragioni e le convinzioni dell'ex provveditore generale sul tema del ruolo marittimo di Venezia.
Emergono i sentimenti più profondi di un uomo di mare che su di esso aveva impostato la sua esistenza e che se ne era dovuto distaccare. I richiami al passato sono insieme la spia di una nostalgia mai sopita e i sussulti di una intera generazione che dolorosamente aveva lasciato i traffici con amarezza e senso di impotenza. La nostalgia era stata sublimata in un impegno ancor più operoso sul piano politico e di fattività coraggiosa. Anche la presenza degli stranieri doveva essere accettata e finalizzata al benessere della Repubblica. Un discorso meditato, come testimoniano altri appunti autografi del D. sul medesimo argomento, conservati tra le carte di famiglia.
Anche dopo la scomparsa del fratello, il D., pur oltre i settant'anni, manteneva intatto il prestigio e l'ascendente sul patriziato veneziano che lo onorò con l'eleggerlo a cariche di fiducia. Sono di questi anni le chiamate a conservatore del Deposito in Zecca, di sopraprovveditore alle Decime del clero, ai riformatori allo Studio di Padova, all'Esazione del denaro pubblico e ancora al seggio di savio grande. Molte di queste cariche non ricopri sia perché le scelte si sovrapponevano sia perché nel settembre del 1613 fu chiamato per la terza volta al provveditorato generale in Dalmazia e Albania, e con poteri più ampi, essendo rincrudito nel frattempo il problema uscocco. Non voleva accettare, ricorda il figlio Gerolamo, "ed era salito in renga ad escusarsi per la sua grave età, et per altri gravi rispetti della casa" (Arch. Donà dalle Rose alle Fondamenta Nuove, Zornale, reg. 9). Per pochi voti il suo rifiuto non fu accettato, "onde si rissolse d'obbedire a publici commandamenti come haveva fatto tutt'il corso di sua vita, e così parti dal Lido di questa città il primo di dell'anno 1613 More Veneto". Colpito dopo poco da "infermità di pietra", morì il 24 febbr. 1614 (m.v 1613) a Veglia (od. Krk. Iugoslavia).
Fonti e Bibl.: Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Fondo Donà dalle Rose, buste 24, 25, 43, 72, 121, 136, 154, 215, 217, 218, 228, 231, 232, 418, 448; Ibid., Fondo Cicogna, ms. 3781: G. Priuli, Prettiosi frutti del Maggior Consiglio, I, c. 266; Ibid., ms. 1994, Materie politiche 1602, III, cc. 97v, 145-148; Ibid., Mss. P.D., b. 2058.27; Venezia, Archivio Donà dalle Rose alle Fondamenta Nuove, buste 11-17, 22, 23; regg. 1 (1574-1581) 3 (1581-1593) 5, Zornale (1593-1607) di Leonardo di Giov. Battista Donà; reg. 2 (1578-1584) di Leonardo e Nicolò di Giov. Battista; reg. 7 (1607-1612) di Leonardo di Giov. Battista; reg. 9, Zornale (1614-1628) di Leonardo di Nicolò; reg. 10 (1614-1628) di Leonardo di Nicolò, busta n. n.: Libri arbori della famiglia ... autografo di Leonardo di G. B., con aggiunte posteriori; Archivio di Stato di Venezia, Segretario alle Voci-Elezioni in Maggior Consiglio, reg. 4, cc. 194v, 199v; reg. 5, c. 207v; reg. 7, c. 17v; reg. 8, cc. 1, 2v, 160v; Ibid., Elezioni in Pregadi, reg. 4, cc. 59, 98v, 105v, 106; reg. 5, cc. 77, 78v, 169v; reg. 6, cc. 26v, 28v, 56v, 68, 109, 135; reg. 8, cc. 2v, 33, 119v; reg. 7, cc. iv, 3v, 27v, 79v, 85v, 86v, 119v, 149; reg. 9, cc. 60, 94v, 100v, 119v, 139, 154; Ibid., Avogaria di Comun-Libro d'oro-Nascite, II, c. 331; Ibid., Notarile-Atti (Atti Ziliol Giulio) 1246/745; Ibid., Notarile- Testamenti, 1250.III.150; Ibid., Secreta-Materie miste not. , 67, cc. 27-30; Ibid., Collegio-Relazioni, b. 62, c. 153 (relaz. del D. al ritorno da Capodistria, 1580); Ibid., b. 79, c.2; Ibid., Provveditori di Terra e da Mar, filza 1363, c. 27; Ibid., Dieci savi sopra le Decime di Rialto, b. 96 (condizione 58 del 1537, Cannaregio), 98 (cond. 758 e 835 del 1537, Cannaregio), 159 (cond. 155 del 1582, Castello), 165 (cond. 52 del 1582, S. Polo); Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., classe VII, cod. 1818 (= 9436): G. C. Sivos, Cronache, III, Delle vite de dosi di Venezia, c. 175; Ibid., cl. VII, cod. 151 (= 8036): Magistrature di Venezia e Reggimenti dal 1597 al 1630, c. 270v; Ibid., cl. VII, cod. 915 (= 8593), cc. 231-285; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, IV, Venezia 1834, pp. 412-432; VI, ibid. 1853, p. 641; P. Sarpi, La Repubblica di Venezia, la Casa d'Austria e gli Uscocchi, a cura di G. Cozzi-L. Cozzi. Bari 1965, pp. 419-435; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, Venezia-Roma 1958, pp. 18 ss., 57, 72 s., 140; F. Seneca, Il doge Leonardo Donà…, Padova 1959, in particolare pp. 6 s. e passim; A. Tenenti, Venezia e i corsari. 1580-1615, Bari 1961, pp. 182-86; G. Hill, A history of Cyprus, Cambridge 1972, III, pp. 941, 948, 957, 989, 1004; P. Donazzolo, I viaggiatori veneti minori, Roma 1927, p. 150; J. C. Davis, A Venetian family and its fortune 1500-1900. The Donà and the conservation of their wealth, Baltimore 1975, passim; F. C. Lane, Le navi di Venezia fra i secoli XIII e XVI, Torino 1983, p. 198.