DONÀ (Donati, Donato), Nicolò
Figlio di Giovanni di Nicolò di Luca e di Elisabetta Morosini di Cristoforo nacque a Venezia il 28 genn. 1539 (more veneto, 1540 more communi).
Ultimogenito di tre fratelli, cui si deve aggiungere una sorella andata sposa a Vincenzo Querini, apparteneva al ramo della famiglia di riva di Biasio, detto "dalle tresse d'oro". Il padre Giovanni, sposatosi nel 1525, morì nel 1571. Il fratello maggiore, Francesco, con il quale convisse nella casa a S. Giovanni Novo, sposatosi nel 1565 con Marietta Morosini di Piero, morì nel 1588, lasciando otto figli - tra maschi e femmine - cui andarono, dopo la morte del D., sostanze e titolo della casata.
Il D. studiò a Padova presso lo zio paterno Girolamo e il cardinale Agostino Valier, uomo di fede e letterato, e ricevette un'educazione accurata nella quale lo studio del latino e delle lettere ebbe rilevante importanza tanto da connotare sostanzialmente la retorica e l'eloquio del D. anche nell'agone politico. Nel 1560 estrasse la balla d'oro e poté usufruire del privilegio di entrare con anticipo in Maggior Consiglio. Iniziò la carriera politica nel 1564, chiamato alla carica di savio agli Ordini, notoriamente trampolino di lancio per patrizi che aspirassero a un brillante futuro al servizio dello Stato.
Fu l'inizio di un'attività intensa e multiforme che durò senza interruzioni per oltre mezzo secolo, tra avvenimenti politici interni e internazionali dei più importanti nella vita della Serenissima. Il D. fu partecipe di questi eventi, quasi sempre in posizioni importanti, dove ebbe modo di esercitare un peso non trascurabile nelle scelte e nei dibattiti che ebbero luogo.
Riconfermato savio agli Ordini per l'anno seguente, il D. venne eletto anche alle Cazude. Nel 1566 fu sindico e avogador in Dalmazia, la prima di una lunga serie di missioni fuori della Dominante. Dopo Lepanto, cui partecipò, nel 1574 andò a Vicenza in qualità di podestà restandovi un anno, fino alla nomina a podestà e capitano a Capodistria.
Qui il D. si impegnò a fondo nella lotta per la difesa della giurisdizione veneziana sul piano commerciale contro i Triestini che esercitavano una forte concorrenza nello sfruttamento delle saline. A questo proposito il D. condusse una campagna militare che portò alla distruzione delle saline di Rosanda allestite in violazione del trattato stipulato in precedenza tra Veneziani e Triestini.
Le capacità dimostrate dal D. nei reggimenti sostenuti ne accrebbero il prestigio. Tornato a Venezia, vi ricopri alcune cariche amministrative fino alla elezione ad avogador di Comun nel 1583, incarico che gli fu riaffidato anche nel 1588.
Erano anni, questi, che, caratterizzati da un ridimensionamento del potente Consiglio dei dieci, restituirono agli avogadori parte del prestigio e della incisività di azione che si erano un po' appannati. In questi stessi anni '80 il D. consolidò la sua posizione di prestigio presso il patriziato: per tre anni consecutivi 1585, '86, '87 fu eletto savio di Terraferma, carica che consentiva a chi la ricoprisse di esercitare una influenza maggiore sulla direzione delle scelte politiche dello Stato. La sua vicinanza al partito dei "giovani", le capacità oratorie e una sufficiente ambizione, permisero al D. di entrare in Pregadi. In questo Consiglio ebbe modo di far valere quella che un cronista contemporaneo chiamò (cfr. Da Mosto, p. 422) "una fiocante et dolce eloquenza, con la quale facilitava ogni arduo negotio in Senato e fuori proferendo dalla sola sua bocca tutte quelle ragioni che da molti scaturire dovevano".
Il 29 ott. 1589 il D. fu eletto luogotenente della Patria del Friuli e andò a Udine l'anno seguente. Il posto era di quelli che mettevano alla prova le doti di fermezza e di mediazione di chi andava a ricoprirlo e il D. possedeva queste qualità. Quando rientrò a Venezia fu nuovamente savio di Terraferma, nel 1592 censore e l'anno appresso entrò nel Consiglio dei dieci. Era ormai entrato a far parte di quel gruppo di patrizi che senza soluzione di continuità finivano per ricoprire le cariche più significative dell'amministrazione dello Stato per le loro doti di impegno e duttilità insieme. Nel 1594 il D. venne mandato a Brescia come capitano e vi si fermò un anno - sarà di nuovo nella città lombarda nel 1601 - dopo di che, ritornato a Venezia, fu eletto consigliere. Le sue doti di accorto organizzatore gli valsero il conferimento, nel 1598, dell'incarico di provveditore generale alla Sanità e alla Peste, con il compito di debellare l'epidemia scoppiata in quelle terre.
La carica era nuova e il D. fu il primo a ricoprirla. Una carica che gli dava pieni poteri, offrendogli l'opportunità di affrontare l'emergenza con quella autonomia che gli consentiva di scavalcare le autorità locali, attuando i provvedimenti che riteneva più opportuni, eliminando il dualismo tra provveditori alla Sanità e rettori. Con l'ausilio tecnico del medico Ascanio Olivieri e con la collaborazione del provveditore a Cividale Alvise Marcello, "et non pur con la sua prudenza et buoni ordini, liberò quella terra da ogni male, ma preservò quella patria et la città stessa dal pericolo", ricorda il Priuli. Il D., infatti, preso alloggio nel convento di S. Maria delle Grazie, diresse, girando in lungo e in largo il territorio, l'azione di risanamento. Attuò misure profilattiche assai drastiche - si arrivò alla condanna capitale di chi tentava di uscire dalle zone interdette senza permesso - che ebbero infine l'effetto di limitare e di circoscrivere il propagarsi del male. La popolazione gliene fu grata e lo onorò mediante una lapide posta sul castello di Udine.
A Venezia attendevano il D. nuovi incarichi, mentre si facevano sempre più nere le nubi che minacciavano i rapporti tra Venezia e la Sede apostolica. Tra la fine del '500 e il 1618 il D. ricopri per ben diciassette volte la carica di savio del Consiglio: erano gli anni del duro contrasto con la Sede apostolica, sfociato nel 1606-07 nell'interdetto. Il D. fu tra coloro che, pur avversando Roma, non desideravano un inasprimento del confronto, e lo dimostra una "parte" del Senato che egli, con altri, aveva presentato nel corso della discussione sull'invio di un'ambasceria per ristabilire i normali rapporti diplomatici con Roma. Al contrario, il D. fu tra i promotori di una legge favorevole ai mercanti stranieri a Venezia, nel 1610, che trovava la più aperta ostilità della Sede apostolica e della parte più conservatrice del patriziato veneziano. Nello stesso anno però - ennesimo episodio che serve a delineare la personalità "indipendente" del D. - riuscì a persuadere il Senato ad accogliere le istanze fatte da Alfonso de la Queva, ambasciatore ' di Spagna, per la concessione del passaggio sul territorio della Repubblica ad alcune migliaia di soldati tedeschi, in un momento di tensione internazionale e tra Venezia e gli Asburgo in particolare. Le argomentazioni del D. avevano fatto perno sul fatto che non si poteva negare agli Spagnoli ciò che non si era negato ad alcuno che non fosse un nemico e sulla necessità di evitare una guerra. Era dunque in una posizione che lo poneva in contrasto con l'ala bellicista del patriziato, a quell'epoca ancora influente e attiva. Nel 1611, in qualità di membro del magistrato dei riformatori allo Studio di Padova, dette invece parere favorevole all'elezione a docente di diritto canonico di G. A. Marta, personaggio di un certo rilievo ma anche apertamente gradito a Roma. Nel 1617 infine - ultimo esempio - fu tra coloro che proposero una mozione di censura all'operato dei plenipotenziari veneziani a Parigi, O. Bon e V. Gussoni, firmatari del trattato di Parigi e Madrid, che chiudeva la guerra tra Venezia e gli Arciducali e quella tra Spagnoli e il duca di Savoia.
Nelle diverse prese di posizione, comunque, a favore o in opposizione a questa o a quella linea politica "portò sempre con molta facondia al Senato le sue opinioni - annota il Priuli - onde molti offitii fatti da lui in quello sono degni di memoria". Indipendenza di giudizio, quindi, e capacità di dar vigore e autorevolezza alle sue opinioni, connotarono la carriera politica del D. che rimase, anche dopo il periodo dell'interdetto, in posti chiave del governo della Serenissima, con la medesima duttilità e dedizione e "con tanta assiduità - nota sempre il Priuli - et diligenza che, sempre il primo a esser in Colleggio et l'ultimo a partirsi, faceva e la parte sua e quella anco di qualche d'un altro".
Il numero invero rilevante di cariche ricoperte, la loro qualità e la continuita con la quale gli venivano affidate sono indizio non solo della considerazione di cui godette il D., ma anche dell'energia di cui era dotato, perché la serrata vita politica non gli precluse un impegno altrettanto vigile e assiduo nel campo dei propri affari privati, nella cura di un patrimonio personale che con il tempo si era incrementato diventando ragguardevole.
La dichiarazione dei redditi del 1582, presentata insieme col fratello Francesco, con il quale era unito in "fraterna", mostra già una ricchezza non disprezzabile: case e terreni in Terraferma, a Piove di Sacco, a Rovigo, Loreo, Lendinara, un po' ovunque nell'area rodigina e dei territori tra Padova Rovigo e Venezia. A questi beni fondiari si devono aggiungere poi i frutti di abili speculazioni nel campo del commercio dei cereali, grano in particolare, che gli permisero di incrementare notevolmente la sua ricchezza proprio negli anni di più intensa e impegnativa attività politica. Nel 1615 quando, morto già da vari anni il fratello, addivenne allo scioglimento della fraterna e alla divisione del patrimonio con i nipoti, i beni immobiliari, fondiari e mobiliari raggiungevano una consistenza ragguardevole e si parlava di una rendita di almeno 12.000 ducati l'anno. La sua solida posizione finanziaria gli aveva permesso qualche tempo prima di acquistare alcuni terreni nel territorio di Rovigo dal duca di Ferrara e soprattutto la grande e bella dimora di S. Fosca nel sestiere veneziano di Cannaregio, "dove habitemo - si legge nel testamento - che ho dal serenissimo signor Duca d'Urbin, ... che è tanto grande - aggiunge riferendosi ai famigliari che gli sarebbero sopravvissuti - che potranno sempre accomodarsi in essa o tutti o la maggior parte di loro".
Fama, considerazione e fortuna economica attirano anche invidia e maldicenza e il D. non sfuggi a questa sorte. Si attirò la nomea di spilorcio. La sua propensione al risparmio e alla parsimonia e il fatto che i suoi guadagni provenissero in larga misura dal commercio di beni di prima necessità, gli crearono, specie tra il popolino, un'ostilità incline al dileggio. Neppure i suoi interventi per alleviare la carestia che colpi la città nel 1613 e nel 1617 la dissiparono. Anzi, sulla sua avarizia e sul suo aspetto fisico, per di più, si appuntarono le cronache, anche quelle più benevole, della sua elezione al dogado. Alla più alta carica dello Stato, il D. aveva aspirato da tempo: si era messo in corsa già alla morte dei doge M. A. Memmo, senza successo, anche se riusci ad entrare nel numero dei 41 elettori. Vi concorse nuovamente nel 1618. Fu un conclave contrastato e difficile, tra i più lunghi della storia della Repubblica. Solo al trentacinquesimo scrutinio venne fuori il suo nome, che si impose il 5 apr. 16 18, con 39 voti su quello di avversari quotati come il procuratore e cavaliere Gerolamo Giustinian.
"Quando fu publicata la creatione di questo dose - riferisce il cronista Sivos - non fu persona alcuna che ne sentisse alegrezza, né il popolo fece moto alcuno di giubilo". Diversamente e con maggior benevolenza si esprime G. Priuli nei suoi Pretiosi frutti ... : "Et con la sua accurata et assidua diligenza nel maneggio delle cose avvanzò tanto la sua fortuna che si portò al dogado quando meno gl'huomini lo credevpLno". Questo commento può offrire una chiave d'interpretazione dell'avvenimento in un frangente politico caratterizzato da un'aspra lotta interna al patriziato, tra opposti orientamenti e in un contesto internazionale assai ingarbugliato e ormai dominato dai primi bagliori di un devastante conflitto tra le potenze europee per un nuovo assetto del continente. Il D. si trovò, ormai vecchio ma ancora in possesso delle qualità di equilibrio che molto probabilmente lo avevano favorito, in mezzo a questi avvenimenti, mentre il clima veneziano era ulteriormente intorbidato dalla vicenda della congiura di Bedmar. Il doge ebbe appena il tempo di iniziare il suo mandato perché, a soli trentaquattro giorni dall'elezione, il 9 maggio 1618, morì, a Venezia, "da apoplessia e cataro", precisa lo scarno appunto nel necrologio ufficiale.
Lasciò tutti i suoi beni ai nipoti, i figli del suo amato fratello, in una lunga, intricata e un po' bizzarra serie di disposizioni, informate peraltro ad un profondo sentimento dell'unione famigliare e del significato assai alto del casato. Aveva dato disposizioni di essere sepolto accanto al fratello Francesco, "nella nostra archa in la chiesa di S. Chiara di Muran", ai piedi dell'altar maggiore, e così fu fatto. Qualche tempo dopo venne apposta anche una lapide. Sia l'arca che la lapide, tuttavia, andarono disperse quando nel 1810 la chiesa passò al demanio prima e poi fu ridotta a deposito di una vetreria.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, Libro d'oro, Nascite, II, c. 190v; Ibid., Provveditori alla Sanità. Necrologi, r. 849 (9 maggio 1618); Ibid., Dieci savi alle Decime di Rialto, Condizioni 1582, S. Marco, b. 157 (cond. 296); Ibid., Notarile, Testamenti, b. 1245, n. 584; b. 1258, n. 394; Ibid., Misc. codd., I, Storia veneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de'patritii veneti, III, cc. 304-313; Ibid., Segretario alle Voci, Elezioni in Pregadi, 3, cc. 15v, 28v, 108; 6, cc. 155v, 160v; 7, cc. I, 2v, 3v, 4v, 54v, 87, 107v, 108, 112v, 113, 141; 8, cc. 1, 25, 27v, 54v, 59v, 80, 81v, 95, 104v, 107v, 112v, 136v, 139; 9, cc. 1, 2, 4, 60, 83, 101v, 141; Ibid., Elezioni in Maggior Consiglio, 3, c. 30v; 5, c. 146v; 7, cc. 5v, 7v, 168v, 185v; 8, cc. 1, 158v; Ibid., Archivio Marcello Grimani Giustinian Donà, b. 174, passim; b. 175, passim; il fondo contiene numerosi documenti di carattere patrimoniale ed economico in generale del D. e altri membri del ramo. Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Codd. Cicogna, 3282/19; Ibid., 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti..., I, c. 267; Ibid., Mss. Correr, 464: M. Barbaro, Arbori... (fotocopiato), ad vocem Donà, pp. 169 s.; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 122 (= 8863): G. C. Sivos, Cronaca veneta, IV, cc. 101-108; Ibid., cl. VII, 2492 (= 10145): G. Priuli, Cronaca, II, passim; Venezia, Bibl. della Fondazione Querini Stampalia, Mss., cl. IV, cod. 50, passim; Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, I, La Patria del Friuli (Luogotenenza di Udine), Milano 1973, pp. 113 s., 123; V, Provv. di Cividale del Friuli, ibid. 1976, pp. 44 s.; XI, Podestaria e capitaniato di Brescia, ibid. 1978, p. LIV; A. Morosini, Istorie veneziane, Venezia 1720, libro XVIII, pp. 433 ss.; E. A. Cicogna, Saggio di bibliografia veneziana, Venezia 1847, ad vocem Donà, Alvise di Giovanni; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, Roma 1958, pp. 117, 131, 140; A. Da Mosto, Idogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1966, pp. LI, 320, 421-427; M. Brozzi, Peste fede e sanità in una cronaca cividalese del 1598, Milano 1982, passim; P. Preto, La società veneta e le grandi epidemie di peste, in Storia della cultura veneta, IV, 2, Il Seicento, Vicenza 1984, p. 386 e passim; M. Gottardi, Le guardie alla "gran porta d'Italia". Strutture sanitarie in Friuli tra Cinque e Settecento, in Sanità e società. Friuli-Venezia Giulia, Udine 1986, ad Ind.