DORIA, Nicolò
Nacque a Genova agli inizi del sec. XIII da Manuele e da Giorgia (o lurgia), figlia di Comita [II], giudice di Torres.
Definire le sue vicende biografiche non è facile, perché a lui contemporanei furono altri -personaggi omonimi (come il figlio di Oberto o il figlio di Pietro di Simone), che non sono sempre distinti col patronimico nei documenti pubblici e privati. Nel 1229 un Nicolò Doria assistette all'accordo tra il Comune genovese e Marsiglia (7 maggio). Verso il 1231, poi, il D. sposò Preziosa, figlia naturale di Mariano [II], giudice di Torres, e sorella di Adelasia, moglie di Ubaldo Visconti, giudice di Gallura. Tale unione incrementò i già cospicui possessi territoriali della famiglia nel Logudoro, dove si venne costituendo uno Stato doriano, svincolato dal controllo sia del giudice turritano sia del Comune genovese.
Il 15 sett. 1234 il D. fu presente agli accordi stipulati da suo padre con alcuni esuli sardi, tra cui Michele Zanche, per ottenere il ritorno di questi ultimi nel Logudoro. In seguito, è probabile che egli abbia lasciato la città, schieratasi apertamente contro l'imperatore Federico II, quando anche il padre fu costretto alla fuga nel 1241; nei documenti rogati a Genova in questi anni è ricordato, invece, un altro Nicolò, il figlio di Oberto, che fu attivo mercante. Dopo la morte di Federico II il D. fece ritorno in città: non è possibile, tuttavia, chiarire quale personaggio sia il consiliator con questo nome che assistette alla pace tra Genova e Venezia (26 giugno 1251), all'accordo tra Genova e Firenze (13 sett. 1251), alla lega con Lucca e la stessa Firenze contro Pisa (20 ott. 1251) e all'accordo con gli uomini di Brehl (22 marzo 1252).
Delle difficoltà finanziarie che travagliarono Giacomo Del Carretto, marchese del Finale, dopo la morte dellImperatore svevo e la sconfitta del partito ghibellino, dovettero approfittare alcuni genovesi, tra cui il D., che risulta compartecipe della redditizia gabella dei sale commerciato nel territorio finalese (27 maggio 1253). Nello stesso anno, secondo il Ferretto, accolse a Genova Michele Zanche (Codice diplomatico, II, p. XXIII). Il 17 novembre 1256 affiancò Percivalle, forse suo fratello, nel ratificare gli accordi intercorsi tra il Comune e Chiano, marchese di Massa e giudice di Cagliari, passato all'alleanza genovese. Nel 1261 fu scelto come arbitro nelle controversie che opponevano i Malocello ai Del Carretto; il 10 luglio dello stesso anno approvò il fondamentale accordo, detto di Ninfeo, tra Genova e l'imperatore bizantino.
Nel frattempo in Sardegna il controllo della famiglia sul Logudoro conobbe serie difficoltà, dopo la morte senza eredi della giudichessa Adelasia; Enzo (che l'aveva sposata grazie agli sforzi dei Doria, desiderosi di sottrarla al controllo pisano) aveva inviato nel Giudicato come vicario Ugolino Della Gherardesca. Questa decisione, che spalancava il Logudoro al controllo pisano, rese critica la situazione che, tuttavia, rimase tranquilla almeno sino al 1259, dato che nell'ottobre Simone di Percivalle Doria e Mariano, figlio del D., potevano promettere i loro buoni uffici a Pasqualino Di Negro, per consentirgli permute di terre nel Giudicato. Negli anni seguenti i Doria dovettero essere privati dei loro beni: il 16 apr. 1262 il D. e Percivalle "maior" ricevettero dal podestà di Genova in prestito 2.000 lire di genovini per finanziare una campagna militare volta al recupero delle loro terre nel Giudicato turritano; i Doria si impegnarono ad armare 50 milites e 100 pedites e a ottenere l'appoggio di re Manfredi.
A recarsi alla corte sveva fu il D. che, il 13 ott. 1263, ottenne da Percivalle Nmpegno al rimborso delle spese sostenute per il viaggio. La spedizione doriana in Sardegna, secondo il Besta, ebbe successo, perché già nel 1264 la famiglia riprese il controllo delle sue terre. I pericoli dell'espansionismo pisano non furono, però, cancellati; le vicende isolane, che erano state alla base delle profonde divergenze di interessi tra il Comune genovese e il ramo "sardo" della famiglia Doria all'epoca della lotta contro Federico II, finirono negli anni successivi col riavvicinare le due potenze; esse erano unite dal proposito di colpire Pisa (la cui politica mediterranea aggressiva creava serie difficoltà alle colonie genovesi ed allo Stato doriano in Sardegna) e di mantenere aperto il canale di rifornimento cerealicolo tra la città e l'isola (dove il commercio d el grano nel Logudoro era monopolio doriano), in un periodo in cui le conquiste angioine stavano mettendo in crisi i tradizionali punti di approvvigionamento granario per Genova.
Per questi motivi, il ramo "sardo" della famiglia poté riprendere il suo ruolo politico in città: quando fallì, nel 1265, il tentativo di colpo di Stato organizzato da Oberto e Tommaso Spinola con l'appoggio dei populares, ildelicato compito di amministrare Genova in attesa della nomina di un nuovo podestà fu affidato a Guido Spinola e a Nicolò Doria (con ogni probabilità da identificare col D., dotato di un prestigio politico superiore al suo omonimo, figlio di Oberto).
Sulla Sardegna in questi anni nutrì mire di conquista anche Enrico di Castiglia; il Ferretto individua nel D. il cavaliere genovese, indicato con la sola lettera iniziale "N", che ebbe un lungo colloquio col papa Clemente IV perché facesse opera di convincimento sull'infante, inducendolo ad abbandonare i progetti di conquista dell'isola (5 genn. 1267).
Nel 1268 un Nicolosio Doria (forse il D.), come tutore di Enrico e Antonio, figli del defunto marchese Giacomo Del Carretto, si accordò con l'altro erede, Corrado. per dividere il feudo paterno (21 ottobre). Nel dicembre 1271, insieme con Percivalle e Babilano, forse suoi fratelli, cedette all'abate di S. Fruttuoso di Capodimonte il giuspatronato sulla chiesa di Nulauro, nella diocesi turritana. L'anno seguente, nell'agosto, fu inviato a capo di un contingente di truppe contro il castello di Stella, che i Grimaldi, in lotta contro la diarchia Doria-Spinola, avevano fortificato. L'assalto ebbe esito felice: i ribelli fuggirono, permettendo al D. di distruggere la roccaforte.
Il D. morì, probabilmente a Genova, nel gennaio 1276 e fu sepolto nell'abbazia di S. Fruttuoso di Capodimonte, presso Portofino, dove si trova ancora la sua tomba.
Il 3 maggio i beni del D. furono divisi tra i figli Brancaleone, Rizzardo, Bonifacio e Babilanino (sotto tutela); un altro figlio, Mariano, morto in precedenza, fu rappresentato dalla vedova Orietta, tutrice dei figli Saladino e Nicolò; un sesto figlio, Loterengo, non ebbe nulla, non sappiamo per quali motivi. L'elenco dei beni testimonia l'enorme potenza economica raggiunta dal D.: gli eredi si divisero un vastissimo patrimonio immobiliare in città, parte in case parte in aree edificabili, concentrato nelle zone di S. Matteo, domoculta e Castelletto e valutato parecchie migliaia di genovini (compreso il palazzo di rappresentanza della famiglia, stimato 2.000 lire); poderi nella Riviera di Levante (presso Santa Margherita Ligure) e a Molassana, nel suburbio genovese; il feudo di Montoggio; diritti daziari sul pedaggio di Torriglia ed altre rendite. I territori in Sardegna, che il D. ebbe in dote dalla moglie Preziosa ed in eredità dal padre Manuele, passarono ai figli ed ai nipoti e costituirono, come abbiamo detto, uno Stato autonomo sia rispetto al Giudicato turritano sia rispetto al Comune genovese.
Nel 1287 i discendenti del D. (i figli Brancaleone, Bonifacio, Rizzardo e Babilano; i nipoti Salado e Nicolò), insieme con altri membri della famiglia, si accordarono con Genova: accanto all'impegno reciproco di impedire fughe di uomini, liberi o schiavi, da un territorio all'altro, essi concessero libertà di commercio e totale esenzione fiscale (eccettuato il dazio sul commercio del grano) nel loro Stato ai Genovesi; abolirono il diritto di albinaggio; permisero a Genova di nominare propri consoli in materia giudiziaria, con esclusione delle cause di omicidio, rimaste di pertinenza della curia doriana; il Comune genovese, infine, fu incaricato dalla famiglia di curarne gli interessi nelle trattative di pace in corso con Pisa.
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