DORIA, Nicolò
Nacque attorno al 1460 da Giovanni di Domenico Bartolomeo e da Luigia Doria di Lazzaro, che si sposarono probabilmente giovanissimi. Il D. e il padre cominciarono la loro attività pubblica, il D. come soldato e Giovanni come politico, più o meno nello stesso periodo, nell'arco cioè del penultimo decennio del XV secolo. Giovane cadetto di una numerosa famiglia (sette fratelli maschi e tre femmine), il D. cercò precocemente fortuna nelle armi: nel 1484 era a Roma capitano al servizio del nuovo papa Innocenzo VIII, che, come appartenente alla famiglia genovese dei Cibo, legata ai Doria da fitti legami di parentela, aveva preso il D. al proprio servizio. Dallo stesso periodo data probabilmente anche il legame del D. con la famiglia Colonna (i cui voti tanto avevano contribuito all'elezione di Innocenzo VIII), della quale condivise prima le simpatie filofrancesi (almeno fino alla discesa di Carlo VIII) e poi lo spostamento verso la Spagna: spostamento del resto comune alla famiglia del D. e alla linea politica in seguito prevalsa anche nella Repubblica di Genova per opera di Andrea Doria.
Quest'ultimo fu introdotto proprio dal D. alla carriera delle armi, quando diciottenne, nello stesso 1484, arrivò a Roma in cerca di fortuna militare. Il D., suo lontano parente e di lui maggiore di pochi anni, lo prese sotto la sua protezione e lo fece nominare dal pontefice "uomo d'arme", cioè soldato nobile col dovere di obbedienza solo al principe per cui combatteva.
La morte di Innocenzo nel 1492 e la salita al soglio pontificio di papa Borgia provocò, col mutamento di tutte le cariche, anche l'interruzione della carriera romana del D. e di Andrea. Se di quest'ultimo, grazie alla futura fama, conosciamo dettagliatamente anche gli spostamenti di questo periodo (Urbino, poi Napoli, la Terrasanta, infine Urbino e Roma al servizio di Giovanni Della Rovere e poi della sua vedova), sul D. non siamo altrettanto documentati, anche se sembra probabile che, almeno in alcuni spostamenti, si sia trovato a fianco di Andrea.
Di certo, all'inizio del nuovo secolo, il D. era tornato a Genova: infatti, per incarico del Banco di S. Giorgio, nel 1503 venne inviato una prima volta in Corsica per disperdere la fazione dei baroni di Leca. Il Banco diede al D. il comando di una discreta flotta, di cui faceva parte una grossa nave che era di proprietà del D. stesso. L'anno successivo una nuova e più vasta rivolta, sollevata da Ranuccio Della Rocca, costringeva il Banco a inviare di nuovo in Corsica il Doria. Per partecipare a questa seconda spedizione, nel 1504 arrivò a Genova Andrea Doria, per il quale - segno di un ormai solido legame di stima e di amicizia - il D. ottenne dal Banco la luogotenenza. In tal modo il D. poté lasciare ad Andrea la conduzione delle operazioni in Corsica nel periodo in cui, con il permesso del Banco, si recò a Roma per ossequiare il nuovo Pontefice Giulio II Della Rovere, al servizio del quale ambiva passare. Infatti, tornato in Corsica, cercò di concludere il più rapidamente possibile le operazioni ricorrendo a sistemi di estrema durezza; ma, nonostante la cattura e l'uccisione per rappresaglia di alcuni parenti del capo dei ribelli, non ne ottenne la resa, anche se riuscì a ricondurre all'obbedienza vaste zone dell'isola. Forte di questo parziale successo, il D. nel 1507 chiese ed ottenne dal Banco di S. Giorgio licenza di tornare a Roma, passando ad Andrea il comando delle operazioni in Corsica.
Alla decisione del D. non dovette essere estraneo (oltre alle migliori prospettive che Giulio Il gli aveva offerto) il desiderio di lasciare Genova ormai guidata dai popolari, i quali avevano utilizzato la sua "nave grossa" da 20.000 cantari (circa 1.000 tonnellate) per portare, nel gennaio 1507, soccorsi alle truppe che assediavano Monaco, nel quadro appunto di riconquista dei feudi rivieraschi da parte del governo popolare.
Nel periodo tra il 1507 e il 1510 il D. fu probabilmente impegnato con l'esercito pontificio alla "riconquista" del territorio sottratto ai papi dalle autonomie signorili (Baglioni a Perugia, Bentivoglio a Bologna) e forse anche nel conflitto con Venezia; di certo, il 5 luglio 1510 riceveva dal pontefice, insieme con Ottaviano Fregoso e alla presenza dell'ambasciatore di Venezia (nuova alleata dei papa), l'ordine di salpare la notte stessa per Viareggio, da dove, unitisi all'esercito di Marcantonio Colonna, avrebbero dovuto marciare su Genova per liberarla dai Francesi.
Secondo le affermazioni di M. Sanuto (Diarii, X, Venezia 1883, p. 804) il Fregoso e il D. avrebbero fornito per la spedizione 6.000 loro "partesani e cifra eccessiva e smentita da altre fonti, che tuttavia confermano che il D. disponeva di una personale numerosa "compagnia".
La famiglia paterna del D. si trovava in questa circostanza in una posizione complessa e ambigua, al punto che non si può escludere che fosse del tutto estranea al fallimento della spedizione.
Il padre del D., Giovanni, ancora nella pubblica seduta del 6 luglio, confermava ai Francesi "l'affetto" della città e ne organizzava le difese. Però la madre del D., Luigia, era trattenuta dalle autorità francesi, probabilmente in quanto sorella di Gerolamo Doria: quest'ultimo, uomo del papa a Genova, confermava la propria colpevolezza con la fuga per unirsi al D. e al Colonna. Anzi, sembra probabile che, mentre la flotta pontificia si avvicinava a Genova (il 12 luglio era a Sarzana, il 14 prendeva La Spezia, il 17 era a Recco, a poche miglia dal capoluogo), il D. sbarcasse ed entrasse clandestinamente in Genova per raccogliere lo zio Gerolamo e per abboccarsi col padre, che forse lo persuase dell'opportunità politica e familiare di rimandare l'impresa.
Sta di fatto che il 18 tutta la flotta veneto-pontificia, resasi conto di non poter più sfruttare Peffetto sorpresa, batté in ritirata senza che ce ne fosse la necessità, considerata la modesta reazione francese: operazione ambigua, tanto che l'ammiraglio veneto, Gerolamo Contarini, comunicò al suo governo la propria perplessità sulle scelte operative del Colonna e del Fregoso e sulla "tepidezza" con cui tutta l'operazione era stata condotta.
Il D. non prese parte alla seconda spedizione del'agosto- settembre; prese invece parte alla terza, a fianco di Ottaviano e Giano Fregoso, del Contarini e di Andrea Doria (tornato anche lui al servizio del papa grazie alla mediazione del D., che lo aveva anche introdotto presso i Fregoso).
La spedizione salpò da Civitavechia il 14 ott. 1510, con un esercito di 700 fanti distribuito su cinque galee (quattro veneziane ed una pontificia) e vari brigantini. Il 24 attraccò in una baia nascosta del monte di Portofino, per assalire di notte e di sorpresa il porto di Genova. Ma la luna rese la flotta facile bersaglio delle artiglierie francesi del Castelletto, e, nonostante la generosa sfida di Giano che si avvicinò al molo su un brigantino, Ottaviano, il D. e Andrea ordinarono la ritirata: ancora una volta il Contarini sospettò il D. e Andrea di andare "come bisse all'incanto a questa impresa". Dopo aver bombardato Portovenere il 27 ottobre, e dopo il rifiuto del Contarini alle richieste del D. e di Andrea e degli altri "partigiani" genovesi (circa l'effettuazione di qualche azione militare in Lunigiana, o del servizio di scorta per introdurre clandestinamente milizie dei Fregoso in Genova), tutti rientrarono a Portoferraio il 28 ottobre.
Rientrato a Roma, il D. tornò al suo incarico di capitano pontificio, mantenendo però rapporti segreti con Genova, da dove finalmente i Fregoso avrebbero - temporaneamente - cacciato i Francesi nel giugno 1512. In quella circostanza il D. non tornò a Genova, ma, per incarico del pontefice, espresse al governo genovese, tramite suo padre Giovanni, la volontà papale che Genova stringesse pronti accordi con la restaurata signoria medicea in Firenze e che, al fine di concretarne la procedura, inviasse subito una ambasceria a Roma. Ma la presenza dei Fregoso alla guida di Genova dovette essere per il D. più attraente della stessa corte pontificia, tanto più che le precarie condizioni di salute del pontefice rendevano ormai insicuro il suo incarico. Perciò, poco prima della morte di Giulio II, il D., il 9 febbr. 1513, accettò l'incarico offertogli dal governo genovese di capitanare una piccola flotta in funzione anticorsara e antifrancese.
La paga concessa era di commissario (inferiore quindi al suo grado di capitano), ma conguagliata dalla concessione di una comitiva di quaranta uomini (definiti "trombete, famuli, coqui, cancellarij, et similes viri" in Arch. di Stato di Genova, Diversorum, reg. 185-679) al suo servizio personale: era cioè il riconoscimento della sua compagnia di ventura. La flottiglia era costituita da cinque barche, un galegne e due brigantini, ai cui patroni doge e ufficiali del Mare comunicavano il 9 marzo la nomina a capitano del D. e l'ordine di obbedirgli. Quindi, il 12 marzo, dopo una cerimonia che apparve sproporzionatamente fastosa in palazzo ducale (il D., accompagnato da tutta la famiglia, vi recò lo stendardo dei Doria e, a fianco del doge, tenne una "conveniente orazione"), il D., scortato dagli ufficiali del Mare, si avviò solennemente tra due ali di folla alla spiaggia di Sarzana e salpò.
Trascorsi i due mesi previsti dal contratto, il D. rientrò a Genova quando la situazione si era fatta critica per i Fregoso e la città era direttamente minacciata dal ritorno dei Francesi preparato da Adorno e Fieschi. Il governo allestì allora una grande flotta di 45 navi, con arruolamenti straordinari e il concorso delle flotte rivierasche, e ne affidò al D. il comando. L'arrivo della imponente flotta francese persuase i Fregoso a lasciare subito la città: dopo averli imbarcati, il D. affrontò l'attacco della formazione navale comandata da Claudio de Durre, di cui riuscì a danneggiare due vascelli; poi proseguì senza danno per La Spezia, dove ancorò la flotta.
Il governo genovese, retto dagli Adorno e sostenuto dalla Francia, cercò di persuadere il D. a rientrare a Genova con le navi, prima in maniera ufficiosa (gli inviò Giovanni di Camogli, detto il Trapanese, padrone di una feluca, che il D., in inequivocabile risposta, fece prigioniero), poi con regolare ambasceria. Il 31 maggio i quattro nobili (Melchiorre Negrone, Ansaldo Grimaldi, Vincenzo Sauli e Agostino De Ferrari), che dovevano garantire al D. condizioni di assoluta sicurezza per il ritorno, arrivarono a La Spezia; ma non solo il D. si rifiutò di riceverli: gli abitanti di Portovenere li assalirono ed essi furono costretti a salvarsi con la fuga.
La flotta francese attaccò allora il D. che, nello scontro del 3 giugno, riuscì ad eliminare due tra le migliori galee avversarie: la "Sainte Claire", che fu costretta ad incagliarsi, e la "Sainte Lucie", che affondò dopo aver perso nel combattimento quasi tutto l'equipaggio. Pochi giorni dopo la battaglia di Novara provocava la caduta dell'egemonia francese in Italia e la fine del dogato di Antoniotto Adorno in Genova. Il 15 giugno il D. ancorava la flotta, ridotta a 28 navi, alla foce del Bisagno, mentre quella francese lasciava il porto: il 18 giugno Ottaviano Fregoso era eletto doge.
Tale nomina avrebbe dovuto garantire al D., che si era dimostrato così inflessibile nella difesa della causa dei Fregoso, una prestigiosa carriera: cio non sembra essersi verificato. Egli era ancora a capo della flotta l'11 nov. 1513, quando gli venne ordinato di recarsi con 500 uomini a Chiavari per riprenderla agli Adorno; ma l'impresa non ebbe successo e sembra addirittura che, per imprecisate ragioni (dissensi? nuove alleanze?), egli si fosse fermato a Recco.
Al ritorno dalla infelice spedizione, la flotta del D. era affiancata dalle due galee di Andrea Doria, sopraggiunte nel frattempo: il ritorno dei due uomini d'arme e di mare sembra simbolico del prossimo cambio della guardia alla guida della flotta genovese. In effetti, mentre il padre del D. si faceva, in seno al governo, sostenitore del programma di potenziamento navale voluto da Ottaviano Fregoso e la nave del D. entrava a far parte della flotta di otto galee armate nel 1514 in funzione antifrancese e anticorsara, la carriera navale del D. sembra finita, ben prima che gli eventi politici esterni possano giustificarlo.
Forse, dopo il 1514, il D. preferì accettare l'invito di Francesco Maria Della Rovere (che lo volle capitano delle sue milizie), al quale il D. era legato fin dagli anni romani di Giulio II; ma forse, piuttosto, avvertiva la superiorità di Andrea Doria e la crescita del suo prestigio presso quei Fregoso cui egli stesso aveva presentato il giovane lontano parente, che si stava rivelando così dotato sia sul piano militare sia, soprattutto, sul piano politico: e nei confronti del quale egli non avrebbe potuto comunque accettare una posizione subordinata. Comunque la scomparsa del D. dalla scena marittima genovese non coincide né con la sua morte, di cui si ignora la data, né con l'abbandono dei suoi legami politici ed affettivi con la madrepatria. Infatti, nel 1528, insieme con i fratelli Bartolomeo e Ludovico, risulta iscritto al Libro d'oro della nobiltà di istituzione doriana.
Dalla moglie Nicolosia Fieschi di Giovanni aveva avuto quattro femmine (Giacoma, in Filippo Doria fu Francesco; Peretta, in Filippo Lercari; Bianca e Darietta, nubili) e tre maschi: Stefano, Domenico ed Ettore. Domenico prese parte alla vita politica e assicurò la discendenza.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Diversorum, reg. 185/679; B. Senarega, De rebus Genuensibus commentaria, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XXIV, 8, a cura di E. Pandiani, ad Indicem; A. P. Filippini, Storia della Corsica, Pisa 1822, II, pp. 139 ss.; N. Battilana, Genalogie delle famiglie nobili di Genova, Genova 1825, I, p. 52; J. Doria, La chiesa di S. Matteo, Genova 1860, p. 220; E. Pandiani, Un anno di storia genovese, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, XXXVII (1905), pp. 25, 183, 365; F. Donaver, Storia della Repubblica di Genova, Genova 1913, II, pp. 105, 146; C. Bornate, Genova e la Corsica alla fine del Medioevo, Milano 1940, ad Indicem; I. Luzzatto, Andrea Doria, Milano 1943, pp. 14, 34; D. Martini-D. Gori, La Liguria e la sua anima, Genova 1967, p. 297; E. Grendi, Andrea Doria, uomo del Rinascimento, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, XCIII (1979), I, pp. 97 s., 100.