NICCOLI, Nicolò
– Nacque a Firenze nel 1365, come si deduce dal Catasto del 1430, in cui risulta di anni 65 (Arch. di Stato di Firenze, Catasto 1430, f. 275v), primogenito di Bartolomeo, figlio a sua volta di un oste di Pistoia.
Bartolomeo, che ebbe altri 5 figli (Piero, Iacopo, Bernardo, Giovanni e Vittorio), era cittadino fiorentino e apparteneva al ramo meno abbiente della ricca famiglia Niccoli. Esercitava l’arte della lana in via Maggio e costruì una tomba di famiglia presso la chiesa di S. Spirito; morì prima del 1401, anno in cui Bernardo, Piero e Vittorio chiesero la riduzione della «gravezza» in quanto poveri e non residenti a Firenze (Zippel [1894] 1979, p. 162). Iacopo, addotoratosi a Bologna, insegnò diritto presso lo Studio fiorentino nel 1402, fu nel 1412-13 consultore della Repubblica e nel 1420 si recò come ambasciatore presso Alfonso d’Aragona.
Nicolò continuò con i fratelli il lavoro del padre; fu estratto la prima volta per il quartiere di S. Spirito nel 1392 e poi nel 1393, 1398, 1401, 1403, 1404 (Martines, 1963, p. 161). Visse nella casa paterna insieme con Giovanni finché il ritorno di Bernardo non suscitò forti contrasti, tanto da spingerlo a prendere in affitto una casa di Nerone di Nigi nel quartiere di S. Lorenzo. Continuò però a occuparsi dei figli di Giovanni, di cui tenne presso di sé il primogenito Cornelio; nel testamento del 1437 li designò tutti e quattro suoi eredi.
Le notizie sulla sua formazione sono inesistenti; è presumibile che fosse entrato fin da giovanissimo in contatto con Luigi Marsili, che nel 1382 era tornato a Firenze da Parigi e radunava intorno a S. Spirito, nello stesso quartiere cioè della famiglia Niccoli, un gruppo di giovani, come pure è presumibile che avesse iniziato a frequentare Coluccio Salutati, cancelliere di Firenze dal 1375. Con Salutati negli anni successivi avrebbe condiviso non solo la frequentazione di Manuele Crisolora, chiamato a insegnare nel 1397 la lingua greca presso lo Studio fiorentino, ma comuni interessi, come il progetto per l’edizione dell’Africa di Petrarca, tanto da recarsi a Padova – non nel 1382, all’età cioè di 17 anni, ma probabilmente nel 1396 – per acquisire l’edizione curata da Pier Paolo Vergerio e portarla a Firenze (Fera, 1984, p. 89). Se da Marsili probabilmente sviluppò l’interesse per i Padri della Chiesa, tanto da ricopiare un codice delle Divinae Institutiones di Lattanzio (Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 264) già negli ultimi anni del XIV secolo (attribuzione dovuta a De Robertis, 1990), da Salutati apprese la passione per i libri, da leggere, annotare e qualche volta trascrivere.
Intorno a Salutati e a Crisolora, che rimase a Firenze fino al 1400, e accanto al gruppo composto da Roberto de’ Rossi, Leonardo Bruni, Iacopo Angeli e Poggio Bracciolini si consolidò una costante frequentazione di libri, fatta di letture dei testi, di restauri testuali, di commenti ai classici: vari studi hanno messo in luce il ruolo attivo di Niccoli, che, sui margini dei codici di Salutati, intervenne accanto alla mano di Crisolora, come per esempio nel codice di Tolomeo (Vat. lat. 2056; De Robertis, 2008) o di Cicerone (Laur. 49,7; Daneloni, 1995), collazionò i testi, appose postille e commenti; in alcuni casi sorvegliò le trascrizioni che Bracciolini stava portando avanti (Ullman, 1965; de la Mare, 1977).
Già in quegli anni, attingendo ai profitti del lavoro di mercante, dovette iniziare la raccolta di codici della sua biblioteca, al cui allestimento si dedicò con tenacia e dedizione, come emerge dall’epistolario di Bracciolini, che a lui dedicò l’intero primo libro delle sue Lettere, dall’Epistolario di Leonardo Bruni e, non ultimo, dall’Epistolario di Ambrogio Traversari: in tutti sono documentate le richieste di trascrizione, di acquisto, di prestito dei codici di Niccoli e dei suoi amici. La passione per i libri lo spinse anche a far sistemare nel 1408 a proprie spese la biblioteca di Boccaccio che si trovava in S. Spirito. Dopo aver acquistato dagli eredi di Salutati alcuni codici, continuò a incrementare la sua biblioteca, dando spazio alle recenti traduzioni latine dal greco e intervenendo in prima persona come avviene per il ms. Escorial N. III 7, con la traduzione bruniana del Gorgia di Platone, dove i primi fogli furono trascritti dal copista Giovanni Aretino, il resto dallo stesso Niccoli, mentre Bracciolini vi aggiunse i titoli e la prefazione.
Allo stesso tempo, spinto da una sempre crescente ammirazione per lo studio dei classici e, di conseguenza, dalla svalutazione della poesia in volgare, al pari di Coluccio Salutati che aveva tradotto in latino alcune terzine dantesche, dovette contrapporsi a Cino Rinuccini, come si deduce dall’Invectiva contro a cierti caluniatori di Dante e di messer Francesco Petrarca e di messer Boccacci i nomi de quali per onestà si tacciono di questo (Tanturli, 1976) e come viene confermato da una lettera di Bruni a Niccoli, spedita da Roma nel 1405 circa, dove si definiscono come «ineptias nostras» i «libros poetarum novarum» (Bruni, 2007, I, p. 55). Del resto nei Dialogi ad Petrum Histrum Bruni lo scelse come l’interlocutore che pronuncia la requisitoria contro la letteratura volgare e le tre corone. La forte amicizia tra Bruni e Niccoli era consolidata anche dal fatto che Niccoli, oltre a essere il referente per la trascrizione di testi e il commercio di codici, tenne presso di sé i libri dell'amico quando questi si trovava in Curia.
Su suggerimento di Bruni, e utilizzando le proprie risorse economiche, Niccoli accettò di corrispondere, attraverso una società privata, un salario a Guarino Veronese che nel marzo 1410 si trasferì a Firenze per insegnare il greco: l’ambiente fiorentino, però, non accettò di buon grado la presenza del veronese, che da parte sua scrisse nel 1413 una lettera all’amico fiorentino Biagio Guasconi (Epistolario di Guarino Veronese, 1915, I, pp. 33-46) nella quale criticava ampiamente Niccoli. La presenza di Guarino a Firenze si concluse nel 1414, probabilmente a causa dei contrasti con Niccoli. Di lì a poco comunque si riappacificarono, anche per l’intervento di Francesco Barbaro, il quale, tra l’altro – come si deduce da una lettera del settembre 1415 – inviò a Niccoli il catalogo di libri greci che Leonardo Giustiniani aveva portato da Cipro (Sabbadini, 1971, p. 31).
Nello stesso 1414 Niccoli è nominato tra gli ufficiali del riaperto Studio fiorentino (Gherardi, 1881, p. 191), a conferma del prestigio cittadino ormai raggiunto. Nel 1415 con la dedica del Cicero novus di Bruni (Baron, 1928, p. 113 s.), venne in qualche modo consacrato come l’alfiere della nuova cultura, politicamente ‘inventata’ e ideologicamente legata all’imitazione dell’antico. Anche Cristoforo Buondelmonti gli dedicò nel 1417 la prima redazione della Descriptio Insulae Cretae, lo stesso anno in cui a Pisa, dove si era rifugiato per la peste, Niccoli acquistava da Giovanni Aurispa un codice di Tucidide.
Nell’esaltante avventura della scoperta dei codici che Poggio Bracciolini andava conducendo nei suoi numerosi viaggi ad antichi monasteri della Svizzera, della Germania e della Francia durante il Concilio di Costanza, Niccoli ricoprì un ruolo determinante, probabilmente di finanziatore dei viaggi, ma soprattutto di attento e saldo riferimento per le nuove ‘scoperte’: infatti, come emerge chiaramente dalla lettera di Bracciolini del 16 dicembre 1416 che descrive a Guarino la scoperta di un Quintiliano integro, avvenuta nel monastero di S. Gallo (Bracciolini, 1984, II, p. 446), fu proprio Niccoli, accanto a Bruni, che, verificando i testi trascritti da Bracciolini, o anche solo gli indici dei manoscritti rinvenuti, controllò e riconobbe la novità del testo ‘scoperto’. Lo scambio con Bracciolini, sempre intessuto di notizie riguardanti testi e libri, continuò negli anni successivi, quando questi era in Inghilterra, lontano dalla Curia, in un rapporto di amicizia che rimase saldo fino alla morte.
Se con Bracciolini non entrò mai in conflitto, Niccoli fu il protagonista di numerosi scontri e polemiche: intorno al 1420 Lorenzo di Marco Benvenuti scrisse una Oratio in Nicolaum Nicolum (edita in Zippel, 1894), nella quale contestava la vita privata di Niccoli e lo esortava ad allontanarsi da Firenze per rifugiarsi in quella Grecia di cui si era infatuato («ut infatuisti»: ibid., p. 170). Ma la rottura più traumatica fu quella con Bruni, che scrisse l’Oratio in nebulonem maleficum, dove in particolare prendeva di mira Benvenuta di Pagnano, la donna che viveva con Niccoli e con il nipote Cornelio. Anche questo dissidio fu poi ricomposto nel 1426 da Francesco Barbaro.
L’attenzione per le nuove scoperte non venne mai meno: nel 1423 Giovanni Corvini, durante un'ambasciata a Firenze, portò a Niccoli l'Orator e il Brutus, che erano stati da poco rinvenuti a Lodi. Inoltre Niccoli si interessò della diffusione delle Philippicae di Cicerone (Magnaldi, 2002), ebbe modo di avere tra le mani la Germania di Tacito, intervenne sull’Ammiano Marcellino scoperto a Fulda (l’attuale Vat. lat. 1873: Cappelletto, 1978), su un codice di Valerio Flacco (Labardi, 1983) e sul testo delle 12 commedie di Plauto (Cappelletto, 1977), ma soprattutto nel 1431 stilò un Commentarium in peregrinatione Germaniae (edito in Sabbadini, 1971, pp. 7-9), consegnato ai cardinali Giuliano Cesarini e Niccolò Albergati che partivano per il Concilio di Basilea, nel quale si elencavano i desiderata da ricercare nei monasteri della Germania (Frontino, Tacito, Cicerone, Livio), libri che in realtà gli erano stati descritti dallo stesso Bracciolini.
Fu anche appassionato raccoglitore di antichità, sculture, gemme, tra cui il più famoso è un calcedonio rappresentante il rapimento di Palladio; Ciriaco d’Ancona gli inviò un «antiquissimum phoenicibus characteribus epigramma» (Weiss, 1969, p. 181); Traversari gli spedì da Venezia il calco di una moneta d’oro rappresentante Berenice. Come racconta Vespasiano da Bisticci e come è del resto verisimile, fu in rapporti di amicizia con Filippo Brunelleschi, Donatello, Luca Della Robbia e Lorenzo Ghiberti (Vespasiano da Bisticci, 1976, p. 237).
Era sua intenzione andare in Palestina, come si apprende da una lettera del 1420 di Traversari, nonché in Grecia, a quanto racconta Poggio Bracciolini nel febbraio 1421. Solo nel 1424 arrivò a Roma, dove pure desiderava recarsi fin dal 1406; ad accoglierlo, nei mesi tra il febbraio e il luglio 1424, c’era Bracciolini, entusiasta per l’arrivo dell’amico a cui avrebbe mostrato le rovine e i cimeli dell’antichità. Poco probabile invece un secondo viaggio a Roma nel 1426, al tempo dell’ambasceria di Bruni al pontefice Martino V, in quanto dedotto solo dal dialogo De voluptate di Lorenzo Valla; è anche vero, però, che nel Catasto del 1427 non risulta il nome di Niccoli, elemento questo che avvalorerebbe la sua assenza da Firenze.
Al 1428 risale una breve corrispondenza de moribus curiae con Pier Candido Decembrio, anch’egli reduce da un soggiorno romano, ma le epistole inviate da Niccoli non si sono conservate.
Intorno al 1430 si colloca la rottura con Francesco Filelfo che pure con il sostegno dello stesso Niccoli era stato da poco chiamato a insegnare presso lo Studio fiorentino e che poi si sarebbe trasferito a Siena, da dove ancora nel 1433 lamentava le maldicenze di Niccoli, ipotizzando che gli fossero state suggerite da Carlo Marsuppini (Francisci Philelphi Epistolarum libri XXXVII, Venetiis 1502, f. 11v) e componendo la Satyra in hominem impurissimum Nicolaum Nichilum (Baldassarri, 1995-96, pp. 33-36).
Nel 1430 insieme con la famiglia Medici e Marsuppini, Niccoli si allontanò da Firenze a causa della peste; prima di partire, l’11 giugno, aveva fatto testamento, con il quale lasciava la sua biblioteca al monastero camaldolese di S. Maria degli Angeli, dove viveva il suo grande amico Traversari. Si diresse verso Verona, con sosta (in agosto) a Rimini, dove poté apprezzare la ricchezza delle biblioteche; compì un viaggio a Venezia (in ottobre) per poi tornare a Verona, dove, come racconta Traversari (Zippel, [1890], 1979, p.120), conobbe Vittorino da Feltre e non mancò di trascrivere codici.
Non venne meno, anche negli ultimi anni, il desiderio di incrementare la sua raccolta libraria: nel 1433 Alberto da Sarteano gli scriveva a proposito di alcuni libri greci e latini presenti a Napoli (Opera omnia, I, pp. 270-277).
Rimasto sempre legato alla famiglia Medici, al ritorno degli stessi Medici dall’esilio fu nominato, il 4 novembre 1434, tra gli Ufficiali dello Studio di comprovata adesione alla parte guelfa (Gherardi, 1881, p. 248).
Morì il 3 febbraio 1437 e fu sepolto nella chiesa di S. Spirito (la sua tomba fu distrutta nell’incendio del 1470). Marsuppini, come si apprende da una lettera a Giovanni Pontano, declinò l’invito a scrivere l’elogio funebre: recitò invece l’orazione funebre Bracciolini (Opera omnia, IV, pp. 170-174).
Il 14 gennaio precedente aveva nominato suoi procuratori in vita e in morte Giovanni Bechi e Lorenzo della Stufa, mentre il 22 gennaio, definito «prestantissimus ac licteratissimus vir» dal notaio Angiolo di Pietro, aveva steso il suo secondo testamento (edito anche in Ullman-Stadter, 1972, pp. 295-299) nel quale lasciava tra l’altro 20 fiorini per la costruzione della nuova chiesa S. Maria del Fiore e indicava 16 esecutori testamentari (tra cui Traversari, Bracciolini, Bruni, Marsuppini), con al primo posto Cosimo de’ Medici, ai quali affidava il compito di destinare la sua biblioteca, ricca di codici greci e latini, ad communem utilitatem nella forma che fosse più idonea. I suoi libri costituirono il nucleo della famosa biblioteca del Convento domenicano di S. Marco eretta da Michelozzo Michelozzi per volere dello stesso Cosimo, rimanendo in molti casi riconoscibili per la nota apposta sui fogli di guardia «ex hereditate Nicolai Nicoli» (ibid., p. 16). La Consignatio librorum ai frati di S. Marco avvenne tra il 6 e il 24 aprile 1441 (ibid., pp. 299-306) ed essi accettarono il 6 luglio 1441.
A Niccoli spetta la singolare caratteristica di essere stato prescelto quale interlocutore all’interno di numerosi dialoghi, come il De volupate di Lorenzo Valla, il De medicinae et legum praestantia di Giovanni Tortelli e numerose opere di Bracciolini (De avaritia, An seni uxor sit ducenda, De nobilitate e De infelicitate principum). Del resto, ebbe rapporti con gli uomini più colti del suo tempo, come scrisse Paolo Cortesi (De hominibus doctis, a cura di G. Ferraù, Palermo 1979, pp. 123 s.): «magnam gloriam adeptus est in colendis amicitiis doctissimorum hominum».
Tranne due lettere in volgare (edite in Foffano, 1969, pp. 115-117 e 120 s.) indirizzate a Cosimo de’ Medici, nulla è rimasto delle lettere che pure dovette inviare ai suoi interlocutori come Traversari, Poggio, Bruni. Sembra che abbia scritto solo un’opera, l’Orthographia di cui parlano Giuseppe Brivio e lo stesso Guarino (Epistolario di Guarino Veronese, 1915, I, p. 38), peraltro perduta o non rintracciata. Sul piano paleografico le ricerche di Berthold Louis Ullman e di Albinia de la Mare hanno messo in luce il ruolo decisivo svolto da Niccoli per il recupero della littera antiquae formae, con l’individuazione da parte della de la Mare della sua textual hand, a cui si sono aggiunte le importanti osservazioni di Teresa De Robertis.
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