TRON, Nicolò
– Nacque (forse a Venezia), in un anno compreso fra il 1396 e il 1399, da Luca Tron (avogador di Comun e consigliere ducale, figlio di Donato, della famiglia detta di Sant’Agata ossia di San Paterniano) e da Lucia detta Bianca, figlia di Antonio di Nicolò Trevisan (da Sant’Angelo).
Nel 1421 dimostrò di avere più di venti anni di età, ma – singolarmente – non è registrata a suo nome alcuna prova dei requisiti per partecipare all’estrazione a sorte della Barbarella (che consentiva ai giovani patrizi di entrare in Maggior Consiglio prima dei venticinque anni).
Si è sostenuto che in gioventù Nicolò avesse contratto un primo matrimonio con Laura Nogarola, nobile veronese: ma di ciò non vi è alcuna prova. Nel 1424, invece, egli prese in moglie Dea (Alidea), figlia di Silvestro Morosini dalla Sbarra, ambasciatore in Francia e provveditore dell’Armata. Contemporaneamente il suocero Silvestro, vedovo per la seconda volta, sposò Agnese Tron, cugina di Nicolò, e in seguito il legame fra le due famiglie sarebbe stato rafforzato dalla collaborazione in campo finanziario e commerciale. Le vicende biografiche di Filippo e Giovanni, i due figli di Nicolò e Dea, avrebbero giocato (in modi diversi) un ruolo rilevante nel dogado del padre.
Negli anni seguenti Tron iniziò a ricoprire cariche di rango intermedio (fu in Quarantia nel 1432); tuttavia, come altri patrizi di quel tempo, egli dedicò giovinezza e prima maturità non al servizio dello Stato, ma all’attività di mercante e finanziere (in Oriente), per la quale dimostrò una grande attitudine; del resto, in quegli anni, difficilmente avrebbe potuto emergere in politica, essendo il padre e il suocero ancora nel pieno delle loro carriere. E così egli visse per quindici anni a Rodi, accumulando un’impressionante ricchezza (60.000 ducati in denaro liquido o impegnato in varie attività, oltre a stabili per altri 20.000).
Fra 1444 e 1452, rientrato a Venezia, partecipò anche al finanziamento delle annuali spedizioni commerciali (mude) nel Mediterraneo (galee della Tana, di Aigues Mortes e di Barberia), spesso a fianco dei familiari della moglie. Proprio in quegli anni, peraltro, si situa anche la svolta decisiva nella sua vita, cioè l’abbandono della direzione degli affari familiari in favore della carriera politica, cui forse non fu estranea la morte del fratello maggiore Donato.
Questi precedenti ebbero comunque un ruolo importante in seguito, per varie ragioni: le ampie possibilità offerte dalle ricchezze accumulate, l’ambigua fama di usuraio che lo circondava e anche le conoscenze acquisite nel settore finanziario, cui è ricollegabile la carica di ufficiale agli Imprestidi (1446). La sua elezione al prestigioso incarico di capitano delle galere di Romania (1449-50) può invece essere messa in relazione con l’esperienza in Oriente; in quegli anni, comunque, egli evitò di assumere le cariche da Mar di castellano di Modone e duca di Creta, cui era stato eletto. Dal 1445, invece, sedette regolarmente nei grandi consigli cittadini: fu in Senato (fra i Pregadi ordinari o nella zonta), in Collegio (come savio di Terraferma e poi, dal 1454, come savio del Consiglio o grande) e nei Dieci; dal 1451, ritiratosi il padre, fu anche ripetutamente consigliere ducale per il sestiere di S. Polo. Solo due volte, invece, fu eletto a cariche in Terraferma: nel 1451 a podestà di Bergamo (ma non prese servizio e rimase in Collegio) e nel 1461 a capitano di Padova (ove il padre era stato due volte, nel 1444-45 e nel 1450-51).
Nel 1457 – nel primo conclave dogale dopo trentaquattro anni, a conclusione del lunghissimo dogado Foscari – partecipò a due collegi elettorali intermedi. Nel 1463, all’inizio della guerra con i turchi, in cui Venezia era alleata del sovrano persiano Uzun Hasan, Tron fu eletto capitano generale da Mar e dimostrò di possedere notevoli doti strategiche, riportando varie vittorie navali; quell’esperienza accrebbe molto il suo prestigio personale e gli fruttò, negli anni seguenti, onori e incarichi non comuni. Nel 1464 fu affiancato con altri tre consiglieri al doge Moro (costretto da papa e Signoria a mettersi di persona al comando della flotta veneziana), e ai quattro fu accordato l’uso di stendardi e trombettieri personali, inusuali in una Repubblica attentissima al controllo delle pompe. Pochi mesi dopo, da savio grande partecipò alla missione di omaggio inviata al nuovo papa Paolo II, il veneziano Pietro Barbo, e quindi, il 12 febbraio 1467, divenne procuratore di S. Marco de supra: si trattava di una carica a vita, seconda per prestigio solo al dogado, che per di più, dal 1453, dava diritto a un seggio permanente in Senato.
Tre anni dopo (1470) Tron fu colpito dalla più grande sciagura della sua vita, da cui però il suo prestigio uscì ancora aumentato, tanto che, dal punto di vista simbolico-politico, essa fu forse determinante nella sua elezione a doge: nel conflitto turco-veneziano per Negroponte, suo figlio Giovanni, fatto prigioniero durante un tentativo di riprendere la città, fu impalato sul posto. In segno di lutto, il padre non si sarebbe più fatto rasare la barba.
Nel 1471 morì il doge Moro e fu subito chiaro che il procuratore Tron, da poco orbato di un figlio «per la fede e per el stado» (secondo le parole dell’anonimo autore del codicetto marciano Laus [...] Nicolai Troni, Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, It. VII, 299 (7868), c. 2r) sarebbe stato tra i favoriti per la successione (suoi concorrenti furono l’umanista Ludovico Foscarini e i futuri dogi Piero Mocenigo e Andrea Vendramin); egli fu quindi eletto fra i correttori della Promissione (che dovevano stabilire le eventuali ulteriori limitazioni al potere del nuovo capo della Repubblica), e poi, durante il conclave dogale, partecipò a ben quattro collegi, compreso quello, decisivo, dei Quarantuno.
Gli avversari cercarono di bloccare la sua elezione rievocando le discutibili attività esercitate a Rodi, definite usura conclamata, ma Tron seppe mostrare le sue doti di abile politico: scelse di non negare l’accusa, e si difese invece ricordando che aveva «dato grande utilità alla Terra» (Cicogna, 1853, p. 656); l’appello agli effetti economici positivi del suo operato non cadde nel vuoto, e il 23 novembre egli fu eletto doge.
Il suo dogado era destinato a essere piuttosto breve (meno di due anni); ma certamente, in quel periodo, l’ormai anziano Tron fu coinvolto in alcuni eventi di grande rilievo, alcuni dei quali ricordati come significativi già da Marcantonio Sabellico (1556). Alla sua esperienza di uomo di mare e militare si ricollega l’inizio della costruzione dell’Arsenale nuovissimo, nel giugno del 1472; e pochi mesi prima, in febbraio, era stato proprio Nicolò ad accompagnare Caterina Corner – a bordo del Bucintoro, l’imbarcazione ducale – fino al porto di San Nicolò di Lido, dove la nobildonna s’imbarcò per andare in sposa al re di Cipro, Giacomo di Lusignano. Il breve matrimonio (il re morì già nel 1473, ancora prima del doge) avrebbe posto le premesse per l’acquisizione veneziana dell’isola. Essa, in quel momento, non era certo prevedibile, ma le nozze regali di una patrizia e l’ingresso di Cipro nella propria sfera d’influenza costituivano comunque un notevole successo. Inoltre, Tron rafforzò i legami di alleanza con il sultano persiano Uzun Hasan (già al suo fianco quando era stato generale da Mar) nello scacchiere mediterraneo. Un ulteriore alleato contro gli ottomani fu poi reperito in Carlo il Temerario, duca di Borgogna, desideroso di accreditarsi come guida della cristianità in competizione con l’imperatore e i maggiori sovrani europei. La lega con il duca fu stipulata il 15 giugno 1472 e pubblicata il 14 agosto, ma non ebbe gli effetti sperati a causa della morte dell’ambizioso principe nel 1477.
Tron dovette inoltre gestire le crescenti evidenze di un altro problema di lunga durata nella politica veneziana, il tormentato rapporto con il papato. A far scoppiare il caso furono i rapporti dei familiari di papa Paolo II con la Curia romana: il 15 febbraio 1472 i Dieci con la zonta ordinarono l’arresto della sorella del defunto pontefice, Isabetta Barbo Zeno, nonché di due suoi nipoti ex fratre, cui si aggiunsero poi anche altri patrizi. Tutti erano sospettati di spionaggio, organizzato dai due cardinali nipoti di Paolo – Giovanni Battista Zeno, figlio di Isabetta, e suo cugino Giovanni Michiel – che cercavano di assicurarsi il favore di Sisto IV, successore dello zio, e nutrivano risentimento verso la Signoria per la mancata conferma dei vescovati di Vicenza e Verona.
Su proposta del doge, il Consiglio decise di relegare Isabetta a Capodistria, con condizioni molto dure (il confino fu perpetuo, come voluto da Antonio Venier capo dei Dieci, e non decennale come nella prima proposta). Per un altro imputato, Pantalon Barbo, Tron propose il carcere a vita (poi mitigato, ma con l’aggiunta dell’ineleggibilità perpetua).
Durante il dogado Tron fu anche approvata un’importante riforma monetaria per contrastare il progressivo deterioramento delle monete argentee tradizionali e soprattutto le scadenti imitazioni di monete veneziane fatte coniare da alcuni signori dell’Italia centro-settentrionale.
Esse avevano scacciato la «moneta buona» dal mercato, il che fu considerato «pesor nuova che il perder di Negroponte» (M. Sanudo, Le vite dei dogi..., a cura di A. Caracciolo Aricò, II, 2004, p. 174). Per questo il Consiglio dei dieci – in cui sedeva anche il doge con la Signoria – approvò nel maggio del 1472 una serie di contromisure: poste fuori corso legale le monete «cattive» e sospesa la coniazione dei «grossi», il giorno 27 si decise – ed era la prima volta in assoluto – di battere una moneta (il tron) del valore di 20 soldi, cioè pari alla tradizionale unità di conto, la lira (di piccoli); l’anno successivo, quando Tron era ormai vicino alla morte, si stabilì anche di coniare mezze lire.
Venne anche ribadito (in Senato) lo standard del ducato e, grazie alla riforma, si mantenne fissa per quarant’anni la parità fra monete auree e argentee; tuttavia, gli sforzi profusi furono in parte vani, perché le nuove monete vennero tesaurizzate o fuse per il loro alto contenuto di fino, tanto che negli anni Novanta ne erano rimaste poche in circolazione (M. Sanudo, Le vite dei dogi..., cit., p. 174).
Tron non diede a questi provvedimenti (gestiti sostanzialmente dai capi dei Dieci nelle sedute ristrette senza il doge) un contributo significativo, nonostante la sua indubbia esperienza ‘monetaria’. Tuttavia, è indicativo il fatto che la lira Tron e i soldi di rame portavano sul recto il profilo del doge, in forma di medaglia: una raffigurazione del tutto estranea alle usanze veneziane, nonostante un precedente sotto Cristoforo Moro (Cicogna et al., 1864, II, n. 67). Essa non mancò di suscitare critiche e dopo la morte di Tron venne espressamente proibita.
Quell’immagine, peraltro, fu solo uno dei motivi per cui venne rimproverato al doge uno stile di governo non consono: a prescindere dalle splendide feste a palazzo e dal nuovo ruolo attribuito alla dogaressa, che compariva vestita di abiti sfarzosi, ciò che soprattutto suscitò ripugnanza fu l’elezione di Filippo Tron a capo dei Dieci, un incarico ritenuto assolutamente precluso ai figli del doge. Su questo punto il padre fece subito marcia indietro, ma il fatto non venne dimenticato e, dopo la sua morte, il divieto fu esplicitamente inserito nella Promissione.
Morì il 28 luglio 1473 e fu sepolto nella chiesa dei Frari, i francescani conventuali cui la sua famiglia era legata almeno da due generazioni. Il figlio gli fece erigere un imponente monumento addossato a un lato del presbiterio, di fronte a quello di Francesco Foscari.
Nel manufatto il defunto fu effigiato due volte, quasi a ricordare due aspetti di una personalità complessa, ma coerente: una volta in maniera solenne, in posizione giacente su un’arca, come a testimoniare la sua dignità di capo della Repubblica (da lui espressa, peraltro, soprattutto tramite il fasto esteriore); e la seconda in piedi, in una nicchia, raffigurato come un uomo corpulento dal viso intelligente, ma volgare, come era nella realtà (Malipiero, 1843-1844, II, p. 661). È probabile, infatti, che egli non si sia mai vergognato della sgradevolezza del suo aspetto e nemmeno – si potrebbe dire – di quella della sua anima, come aveva dimostrato perorando con successo la propria elezione a doge. Gli uomini come lui lasciavano di certo i sensi di colpa ad altri, a cominciare dalla moglie Dea, famosa per «pietà e beltà» (Palazzi, 1681, p. 117), che, testando nello stesso anno, rifiutò una sepoltura a fianco del marito (come invece al suo fianco era stata nei fastosi ricevimenti a palazzo), e preferì riposare in una modesta – o meglio, come riportato nell’iscrizione, «umile» – tomba nel chiostro degli osservanti a S. Giobbe.
Oltre ai due maschi, da Nicolò e Dea nacquero anche Franceschina, Cassandra, Cecilia, Lucia e Orsa, maritatesi rispettivamente nelle famiglie Dolfin, Duodo, Michiel, Querini e Contarini, con le quali Tron mantenne significativi rapporti. Diversi nipoti ex filia replicarono le gesta belliche del nonno: nel primo Cinquecento tre di loro (e il genero superstite del doge) ricoprivano le maggiori cariche militari della Repubblica. La linea maschile, invece, si estinse con Filippo (1501) e il patrimonio fu poi amministrato, come Commissaria, dai procuratori de supra: nel 1514 la rendita era di circa 500 ducati annui.
Fonti e Bibl.: Treviso, Biblioteca comunale, ms. 777: Genealogie Barbaro, pp. 803-807; Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di Comun (Balla d’Oro), regg. 162-1, cc. 142r, 143v, 158r; 162-2, c. 395rv; Avogaria di Comun (Prove di età per patroni di galere e altre cariche), regg. 177-1, c. 40r; 178-2, cc. 102rv, 151r, 189v, 209r, 219v, 266r; Cancelleria inferiore, Misc. Testamenti, b. 25, n. 1999; Collegio, Notatorio, regg. 5-10, passim; Consiglio di Dieci, Misti, regg. 17, cc. 146v-150v, 160v-165v, 168v, 172v, 186v-193r; 18, cc. 12v, 15rv, 56v; Dieci savi alle decime in Rialto (Redecima 1514), b. 41: San Marco, 15; Maggior Consiglio, Deliberazioni, Registri, Regina (23), cc. 17rv, 98r, 101v-102r, 121rv; Notarile, Testamenti, b. 1186, nn. 32, 226; Segretario alle Voci, Misti, regg. 4, cc. 40v, 75r, 78v, 82v, 89v, 93v-94r, 115v, 118r, 119v-120r, 125r, 127v, 130r, 134r, 136r, 139v, 142v, 144r, 145rv, 148r-149r; 6, c. 88v; Senato, Secreti, regg. 16-25, passim (in partic. reg. 13, cc. 65 ss.; reg. 20, cc. 34r, 108r, 128v); Misc. codici, Storia Veneta, b. 23 (M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de’ patritii veneti, VII), pp. 135-141; Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, It. VII, 299 (7868): Laus illustrissimi Venetiarum principis Nicolai Troni; It. VII, 18 (8307): G.A. Capellari Vivaro, Campidoglio Veneto, cc. 138r-141v; M. Sabellico, Historiae rerum Venetarum, Basilea 1556 (Venezia 1487), pp. 898, 907 s., 911, 940 s.; D. Malipiero, Annali Veneti, Firenze 1843-1844, I, pp. 23, 52, 64, 162, 191, II, pp. 658-661; I Libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, V, Venezia 1901, reg. XIV, nn. 193, 334; reg. XV, nn. 96, 194; reg. XVI, nn. 50-65; M. Sanudo, Le vite dei dogi, 1423-1474, a cura di A. Caracciolo Aricò, I, Padova 1999, pp. 454, 457, 478, 524, 532, II, 2004, pp. 73, 158-162, 164, 166 s., 169 ss., 174-179, 188-191.
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