Niobe (Niobè)
Protagonista di uno dei miti più famosi dell'antichità, cui s'ispirarono anche molti scultori; celeberrima è la narrazione ovidiana (Met. VI 148-312).
Figlia di Tantalo e Taigete (secondo alcuni mitografi, Dione) e sorella di Pelope, N. fu moglie del re di Tebe Anfione, cui diede ben quattordici figli (secondo Omero Il. XXIV 602, dodici), sette maschi e sette femmine, ammirati in tutta la città per la vigoria fisica e la bellezza; per questa sua numerosa prole N. montò in superbia, cagionando la propria rovina (" felicissima matrum / dicta foret Niobe, si non sibi visa fuisset "): la narrazione ovidiana insiste soprattutto sull'esemplarità della tragedia di N. e la giusta vendetta divina che giunge a colpire l'empia superbia. Nonostante non le fosse ignota la sorte di Aracne, N. osà preporsi a Latona vantando la propria più illustre ascendenza e specialmente ironizzando sul fatto che la dea avesse solo due figli, a fronte dei suoi quattordici: numero che sembrava porre N. al di sopra di ogni possibile sventura. Spinta da questa sua superbia, N. volle impedire i riti religiosi in onore di Latona (ella ne sarebbe stata ben più degna), e la dea sdegnata se ne dolse con i propri figli Apollo e Diana (vedi LATONA). Apollo, per vendicare l'offesa recata alla madre, messa mano all'arco sterminò tosto tutti i figli maschi di N., che stavano esercitandosi in giochi ginnici. Anfione per il dolore si uccise; ma N., pur prostrata, uscì in una nuova esclamazione empia: le rimanevano pur sempre ancora sette figlie ! Le quali vennero perciò tutte trafitte dai dardi di Diana; e N. impietrì per la disperazione.
Il mito è ricordato da D. - sulla scorta appunto del racconto ovidiano - tra gli esempi di superbia punita scolpiti nella prima cornice purgatoriale: O Nïobè, con che occhi dolenti / vedea io te segnata in su la strada, / tra sette e sette tuoi figli spenti! (Pg XII 37). Per l'accentazione ossitona del nome non latino v. GRECISMI.