NIOBE (Νιόβη, Niŏbe) e Niobidi
Niobe è una delle figure più note del mondo mitico dei Greci; figlia del re lidio Tantalo e perciò sorella di Pelope, andò sposa al tebano Anfione. La sua leggenda è già nota a Omero (Iliade, XXIV, 599-620). Niobe era fiera della sua prole, sei figli e sei figlie, e se ne vantava specialmente con Latona (già sua amica di fanciullezza e sua rivale), che ne aveva generati soltanto due, Apollo e Artemide; ma i due uccisero i dodici, saettandoli spietatamente finché furono tutti morti; la disperata madre, trasformata in sasso dal dolore, fu trasportata dagli dei sul monte Sipilo della Frigia, dove, pur essendo pietra, mai non cessa di piangere. Anche Esiodo aveva trattato il mito, attribuendo però a Niobe il numero di venti figli; s'intende così come, in tutta la tradizione posteriore, il numero dei figli di Niobe apparisca vario, allontanandosi però soltanto di due dalle due versioni più antiche e comparendo perciò come dieci, quattordici o diciotto, e ciò probabilmente a causa di una variante assai diffusa nel mito, che considerava scampati alla strage due dei figli di Niobe. I dodici nomi dei Niobidi sono dati per la prima volta da Ferecide: Alalcomeneo, Fereos, Eudoro, Lisippo, Xanto, Argeo, Chione, Clizia, Melia, Ore, Lamippe, Pelopia.
Il mito di Niobe fu di quelli più frequentemente e largamente trattati nella letteratura greca e nella latina; nella tragedia ha trovato numerose applicazioni, a cominciare da una Niobe di Eschilo, per noi perduta (un importante frammento è stato rinvenuto di recente in un papiro egiziano) e da un'altra di Sofocle, nella quale sappiamo che l'episodio finale della morte dei Niobidi era rappresentato sulla scena. Nella letteratura logografica (a eccezione di Ferecide) si modificò notevolmente la genealogia di Niobe, ricongiungendone la famiglia a quella dei re argivi; a cominciare infatti da Acusilao, Niobe è detta figlia di Foroneo e della ninfa Telodice ed è presentata come la prima donna mortale amata da Zeus, dal quale generò Pelasgo. Il mito di Niobe passò perciò nelle varie redazioni mitografiche e logografiche, attraverso molte versioni: dalle fonti alessandrine dipende la trattazione poetica di Ovidio nelle Metamorfosi (VI, 146-312), che è, d'altra parte, l'unica rappresentazione poetica d'insieme del mito che sia pervenuta fino a noi.
Sul significato di questo mito già molto specularono gli antichi, cercando di spiegarne razionalisticamente i vari elementi e i diversi momenti: i moderni si sono invece applicati a ricostruire l'etimologia del nome di N., dalla quale potrebbe essere suggerita la spiegazione più probabile del significato della saga. Così F. G. Welcker suppone che la radicale del nome di N. sia identica a quella dell'aggettivo νέος, e quindi N. sarebbe una Neaira, la natura ringiovanita, la quale presto muore, uccisa da Apollo, non direttamente, come Giacinto, ma nei suoi prodotti mortali, cioè nella sua prole. Non molto diversamente E. Thrämer, partendo da un'etimologia assai simile, interpreta il mito di N. come "la giovane terra che vede la sua prole (cioè la vegetazione primaverile) perire sotto i raggi del sole". K. B. Stark preferisce invece ricongiungere il nome di N. a νίζω, νίπτω "bagno", e ne fa una divinità dell'acqua e delle sorgenti, insistendo specialmente sul particolare del mito che rappresenta N. eternamente seduta, impietrita, sul monte Sipilo, donde seguita a versare senza posa rivi di lacrime. E, insistendo sempre nella localizzazione della metamorfosi di N. sul Sipilo, non mancano altre etimologie, che spiegano N. come "la nuova luce" o "la regina della neve".
Il mito di Niobe e della strage dei suoi figli offrì argomento a rappresentazioni artistiche fino dai tempi più antichi; ma dovette la sua maggiore fortuna all'essere stato presto trattato da grandi pittori e scultori: da Polignoto e da Fidia nel trono dello Zeus di Olimpia. Dalla composizione di Polignoto pare dipendano soprattutto le rappresentazioni posteriori, e forse quella stessa di Fidia: rappresentazioni che sono rimaste in pitture vascolari e parietali, in rilievi, fino ai più tardi sarcofagi romani, in sculture a tutto tondo. Notevoli fra le sculture sono un gruppo della prima metà del sec. V a. C., al quale appartengono la Niobide degli Orti sallustiani, al Museo Nazionale Romano, e due Niobidi della gliptoteca Ny Carlsberg, facenti parte forse di una composizione frontonale, e una serie di statue che furono rinvenute nel sec. XVI fuori Porta S. Giovanni a Roma e si trovano ora agli Uffizî a Firenze. Sono copie di una grande composizione famosa nell'antichità, portata a Roma da C. Sosio verso la fine della repubblica e da lui collocata nel tempio di Apollo del Campo Marzio. V'era dissenso fra gli antichi se autore di questa composizione fosse Scopa o Prassitele; la stessa incertezza è presso i moderni storici dell'arte, alcuni dei quali propendono per una terza ipotesi, e che cioè la composizione, che sembra avesse carattere pittorico e si potesse paragonare a quella ben nota del Toro Farnese, fosse stata invece lavorata nella prima età ellenistica, in ambiente pergameno.
Bibl.: C. E. J. Burmeister, De fabula quae de Niobe eiusque liberis agit, Wismar 1836; L. Curtze, Fabula Niobis Thebanae, Corbarch 1836-37; Heffter, Der Mythus von der Niobe, in Zeitschrift für Gymnasialwesen, IX (1855), p. 702 segg.; F. G. Welcker, Griech. Götterlehre, 1857-62, III, p. 124 segg.; K. B. Stark, Niobe und die Niobiden in ihrer liter.-künstlerisch.-und mythol. Bedeutung, Lipsia 1863; E. Thrämer, Pergamos, ivi 1888, pp. 3-33; A. Enmann, in Roscher, Lexicon der griech. und röm. Mythologie, III, coll. 372-396; O. Gruppe, Griech. Mythologie und Religionsgeschichte,Monaco 1906, passim; E. Loewy, Niobe, in Jahrb. arch. Instit., 1927, p. 80 segg.; 1932, p. 67 segg.