Nobiltà
Chi si proponga di fornire una definizione della nobiltà che ne consideri al tempo stesso le caratteristiche strutturali e l'evoluzione storica, deve preliminarmente prendere atto della pluralità di accezioni di tale concetto. Ad esempio, 'nobiltà' ha significato e continua a significare una qualità positiva di carattere spirituale, intellettuale, morale, ma anche fisica, propria dell'uomo e però estensibile a qualunque altra realtà (un animale, una pianta, una pietra preziosa, un luogo). Nell'ambito dell'antropologia politica, il concetto di nobiltà in questa accezione è stato spesso usato come sinonimo di aristocrazia, per indicare un ceto dominante ristretto ai 'migliori' per forza fisica, capacità intellettuali, ricchezze, attitudine al comando. In un senso più specifico e in connessione alla storia europea dall'antichità all'età moderna, col termine 'nobiltà' si intende una particolare condizione giuridica e sociale, legata al possesso spesso ereditario di onori e privilegi esclusivi, e per estensione l'insieme degli individui, delle famiglie e dei 'corpi' dotati di tale status privilegiato. A quest'ultimo significato farà riferimento la presente trattazione.
Il termine nobilitas derivante dal verbo cognosco e perciò legato all'idea di notorietà comparve a Roma nel corso del IV secolo a.C. per indicare il gruppo politico dominante, costituito dalle famiglie i cui membri avevano raggiunto le cariche supreme della Repubblica. Si trattava in teoria di una élite aperta, per accedere alla quale bastava percorrere la carriera politica fino al vertice. In realtà per i cosiddetti homines novi non era facile farsi strada: è stato calcolato che più dell'ottanta per cento dei consoli uscirono da famiglie già consolari, e quindi appartenenti alla nobilitas. C'è inoltre da considerare che, oltre che a questa egemonia nell'esercizio del potere politico supremo, la nobiltà era associata all'idea di ricchezza. È stato tuttavia sottolineato dagli studiosi che il titolo di nobilis era a Roma puramente onorifico e non veniva regolato dalla legge; in altre parole, non esisteva un riconoscimento giuridico della condizione di nobiltà, che era determinata e definita solo dalla tradizione.
Presso i popoli germanici, che diedero vita sulle rovine dell'Impero romano d'Occidente a quelle formazioni politiche comunemente note come regni romano-barbarici, non esisteva un concetto analogo alla nobilitas romana: la lingua tedesca conserva ancor oggi, per definire il nobile e la nobiltà, i termini antichi Edel e Adel, che non si prestano ad accostamenti etimologici con le forme latine e sembrano essere completamente isolati nell'ambito indoeuropeo. Queste differenze linguistiche erano presumibilmente una spia di situazioni politiche e sociali molto diverse: se a Roma la nobiltà comprendeva un gruppo di famiglie che per tradizione consolidata esercitavano le supreme magistrature dello Stato, presso i popoli germanici era decisivo, per la determinazione dello status di nobile che veniva a coincidere con quello di uomo libero, il carisma derivante dal valore guerresco e dalla capacità di mobilitare al proprio seguito un gruppo numeroso e solidale di compagni armati. L'incontro e il confronto con la mentalità e le situazioni romane e lo stanziamento in regioni già appartenute all'Impero d'Occidente determinò una parziale modifica della fisionomia originaria dei popoli germanici: a seguito di questa trasformazione, le aristocrazie militari assunsero il carattere di aristocrazie fondiarie, mentre l'antica struttura politico-militare delle assemblee di guerrieri progressivamente si disgregò nell'anarchia dei singoli potentati locali.
Quel che tuttavia rimase costante per gran parte del Medioevo fu il principio di ascendenza germanica, in base al quale la professione militare era il segno distintivo della supremazia sociale. Nell'immagine tripartita della società, diffusa dai chierici a cominciare dall'XI secolo e destinata a lunga fortuna, agli oratores (chierici e monaci) e ai laboratores (contadini e ministeriali) erano contrapposti non i nobiles, ma i bellatores (cioè i guerrieri, definiti anche milites). Dunque, portare le armi significava automaticamente appartenere alla cerchia dei domini e dei loro seguaci, in contrapposizione alla massa dei rustici, all'imbelle vulgus disarmato e sottomesso al banno signorile. Da questo punto di vista un uomo d'armi, per quanto di origine modesta, finiva per acquisire un modo di pensare e uno stile di vita molto simili a quelli del signore di cui era al servizio. Ciò non significa che la nozione di militia, che indicava una professione, si confondesse e si identificasse immediatamente con quella di nobilitas, legata a una condizione: perché ciò avvenisse, occorrevano circostanze specifiche, che si verificarono tra il XII e il XIII secolo ed ebbero come teatro principale l'area francese e fiamminga.
A questo riguardo, è significativo che in lingua d'oïl il termine noble non ebbe almeno fino al Duecento alcuna connotazione di tipo giuridico né alcun esplicito riferimento alla nascita e neppure un richiamo diretto all'esercizio delle armi. Come il corrispettivo latino nobilis, esso si limitava a indicare nel linguaggio comune una condizione sociale elevata: come sostenne lo storico francese Marc Bloch, il termine nobile indicava semplicemente "in mancanza di qualsiasi accezione giuridica precisa, una preminenza di fatto o di opinione, secondo criteri quasi sempre variabili". L'unico dato costante, derivato dalla tradizione romana, era il parallelismo tra nobiltà e ricchezza. Più confuso e non univoco era il rapporto con una ininterrotta e prolungata ascendenza di sangue, sia per i limiti della memoria genealogica, sia anche perché l'assenza di leggi in materia rendeva superflua la rivendicazione di un potere ereditario documentato.
La svolta si ebbe appunto a partire dalla fine del XII secolo, grazie a una serie di fattori concomitanti: la compilazione delle coutumes, cioè delle raccolte di diritti consuetudinari delle singole regioni, in cui l'idea di una nobiltà giuridicamente definita in base alla nascita trovò una prima manifestazione organica; l'introduzione da parte della monarchia delle cosiddette patenti di nobiltà (lettres d'annoblissement), con cui si conferiva uno status privilegiato a uomini distintisi nel servizio regio; la fortuna delle opere aristoteliche, e in particolare della Politica, da cui era possibile trarre l'identificazione della nobiltà con la discendenza da antenati illustri e ricchi (virtus generis et antiquae divitiae, secondo una formula che ritroviamo nel Convivio di Dante); la diffusione della letteratura genealogica, in parallelo con la moda dei poemi cavallereschi. Questi ultimi erano a loro volta la manifestazione di quello che molti studiosi considerano il fattore decisivo della trasformazione duecentesca, cioè la diffusione e la formalizzazione dei riti della cavalleria attraverso i quali, e in particolare l'adoubement (consegna delle armi), la nobiltà trovò il modo di definirsi sul piano giuridico come una classe militare, animata da valori e ideali comuni, e dotata di privilegi trasmissibili ai propri discendenti. Più controversa è la funzione che, nella formazione dell'ideologia nobiliare-cavalleresca, avrebbe svolto la dottrina cristiana, e più in generale la cultura ecclesiastica. Ma le pur documentate e perduranti diffidenze e incomprensioni reciproche tra mondo dei chierici e mondo dei milites non possono oscurare un dato fondamentale: il fatto cioè che con le crociate (come scrisse lo storico austriaco Otto Brunner) "il vitale impulso dei ceti nobili all'espansione e alla conquista, che fino a quel momento si era consumato nelle lotte intestine, viene ora posto al servizio della cristianità".
L'affermazione di una cultura cavalleresca che aveva come connotati distintivi la virtù e l'onore e si esplicava nella difesa del proprio sovrano, delle donne e dei poveri, nonché nella guerra santa contro gli infedeli, procedette dunque di pari passo con l'emergere e il consolidarsi di un ceto ereditario di milites, che nei riti cavallereschi, nel possesso del feudo e nel legame vassallatico trovava la sua legittimazione giuridica, e che proprio grazie alle sue funzioni militari rivendicava una serie di privilegi nei confronti dell''uomo comune'. Si può affermare in conclusione, sulla base di numerosi e convergenti studi relativi soprattutto all'area francese, che la nobiltà emerse come classe giuridicamente definita nella tarda età feudale e caratterizzò con la sua presenza la struttura politica e sociale dei secoli dell'antico regime.
Sarebbe tuttavia un errore isolare la nascita della nobiltà militare-cavalleresco-feudale decritta sin qui dal generale e grandioso processo di trasformazione che caratterizzò l'Occidente europeo nei secoli del tardo Medioevo e della prima età moderna. Per limitarci all'ambito istituzionale e sociale, due fenomeni non possono essere trascurati: l'emergere delle monarchie e dei principati territoriali da un lato, la fioritura delle città dall'altro. Già a metà Ottocento Alexis de Tocqueville aveva osservato che l'"antica costituzione dell'Europa", giunta a maturazione nel XIV secolo, era sì dominata dalla signoria e dal feudo, ma anche dalle istituzioni municipali e dalle corporazioni, e dall'incipiente potere dei monarchi e della loro amministrazione accentrata, oltre che dalla Chiesa che "si trovava naturalmente immischiata in tutte le vecchie istituzioni". Principi, nobiltà e città, insieme alle istituzioni della Chiesa cattolica, costituirono dunque a partire dai secoli centrali del Medioevo i grandi protagonisti della storia politica europea; e l'intreccio reciproco, spesso conflittuale, tra queste diverse componenti influenzò il corso degli eventi storici e contribuì all'evoluzione differenziata delle varie aree regionali tra il tardo Medioevo e la prima età moderna. Per quanto riguarda queste peculiarità regionali, e in particolare il rapporto tra nobiltà e città, meritano attenzione i casi della Germania e dell'Italia settentrionale e centrale.
A prima vista definire la nobiltà tedesca dai tempi degli imperatori sassoni all'inizio del XIX secolo sembrerebbe molto facile: essa comprendeva i vassalli immediati o mediati dell'imperatore, i quali nell'ambito dei territori del Sacro Romano Impero esercitavano una giurisdizione signorile su un numero più o meno vasto di sudditi. Questa formulazione, che richiama nella forma più nitida la struttura gerarchica feudale, non corrisponde però alla realtà effettiva della costituzione imperiale fra tardo Medioevo e prima età moderna. Intanto c'è da osservare che, dalla metà del XIV secolo, l'imperatore era eletto non da tutti i nobili dell'Impero, ma da un collegio di sette (cresciuti poi a nove) principi elettori ecclesiastici e laici (Kurfürsten); e se l'eleggibilità era in teoria estesa a qualsiasi vassallo imperiale, di fatto dal 1452 in poi, con una sola eccezione a metà del Settecento, la dignità imperiale fu sempre conferita a un membro della casa degli Asburgo. Questi elementi costituivano già di per sé una limitazione al principio dell'uguaglianza giuridica tra tutti i nobili dell'Impero, ulteriormente minata dall'egemonia detenuta nella Dieta imperiale dai principi territoriali (Reichsfürsten) a scapito dei semplici cavalieri (Ritter), signori di piccoli e talvolta minuscoli feudi, che erano portati ad arrotondare le loro magre e decrescenti rendite attraverso rapine e saccheggi a danno dei villaggi, delle città, dei monasteri circostanti. Ma il problema non si esauriva nella dicotomia tra grande nobiltà dei principi e piccola nobiltà dei cavalieri: infatti nell'ambito della Dieta imperiale esisteva un autonomo collegio delle libere città dell'Impero, dove sedevano i rappresentanti eletti di quei centri urbani che godevano per privilegio dello status di immediata dipendenza dall'imperatore. Una questione ricorrente della storia tedesca nei secoli dell'età moderna riguardò appunto la condizione dei cittadini che governavano tali città attraverso la partecipazione agli organi consigliari municipali, quelli che con un termine derivato dalla tradizione romana venivano detti patrizi (Patrizier): costoro erano nobili allo stesso titolo dei principi e dei cavalieri dell'Impero, oppure rappresentavano un'anomalia rispetto alla genuina costituzione germanica? I sostenitori di questa seconda posizione insistevano su due punti. In primo luogo, la forma di governo delle città libere, sia che fosse aristocratica sia che tendesse alla democrazia, escludeva il rapporto tra signore e sudditi, che era la base dell'intero edificio del Reich: e ciò poteva condurre a esiti traumatici, come dimostrava il caso delle città svizzere, che si erano sottratte all'ubbidienza imperiale e si erano date una struttura confederata. Inoltre, i patrizi altro non erano che discendenti di artigiani e mercanti, e talvolta essi stessi esercitavano queste attività ritenute indegne di un nobile: come tali dovevano essere ritenuti estranei al mondo nobiliare propriamente detto. Questo dualismo tra patriziato e nobiltà, reso più complicato dalla frattura confessionale del XVI secolo, segnò nel profondo la storia sociale dei territori dell'Impero almeno fino all'epoca della guerra dei Trent'anni, il cui esito portò a un declino sostanziale (pur con qualche significativa eccezione) delle città libere, dei patriziati e della cultura al tempo stesso aristocratica e borghese che questi impersonavano. Quanto alla piccola nobiltà dei cavalieri, malgrado il processo di concentrazione della ricchezza e del potere nelle mani dei grandi signori (Adelstand), e malgrado le fosse precluso l'accesso alle dignità maggiori dell'Impero (come gli stalli dei capitoli delle cattedrali, riservati all'Adelstand), essa non scomparve in quanto ceto distinto, e anzi continuò a rappresentare fino al tramonto dell'Impero una sorta di gruppo depositario del patriottismo tedesco e dei valori cavallereschi del Medioevo. In realtà, il Ritter, pur riconoscendo come naturale la superiorità di un grande nobile, al tempo stesso era consapevole e orgoglioso di appartenere, sia pure su un gradino inferiore, alla medesima scala gerarchica che aveva alla sua sommità l'imperatore della nazione germanica.
Diversa fu l'evoluzione del rapporto tra nobiltà e città nell'Italia settentrionale e centrale, e particolarmente in Toscana, dove le famiglie cittadine affermatesi nel corso della fioritura comunale del XII-XIII secolo furono in grado, come ha scritto lo storico italiano Marino Berengo, di "proporsi e imporsi come unica possibile classe dirigente e assorbire, senza scorie e strascico di ricordi, la vecchia nobiltà" di ascendenza signorile-feudale. In gran parte d'Italia nobiltà e patriziato vennero dunque a coincidere in un omogeneo ceto di governo urbano. Le pur importanti sopravvivenze, soprattutto nelle zone montane, di signorie rurali, non bastavano a oscurare l'immagine caratterizzante il paesaggio politico italiano dalle Alpi al Tevere: un fitto reticolo di città autonome, governate da magistrature di tipo collegiale, la cui giurisdizione si estendeva sui territori circostanti, detti generalmente contadi. Il dominio politico ed economico delle città si espresse sul piano culturale in una ideologia peculiare, che pur senza spregiare del tutto i paradigmi cavallereschi dominanti nei secoli centrali del Medioevo, rivendicava il primato della virtù, intesa come partecipazione alla vita civile, cioè al governo della repubblica, e come volontà di arricchimento attraverso la mercatura, cioè il commercio, le attività finanziarie e assicurative, l'industria manifatturiera. Non meno importante fu il contributo dei giuristi, legati alle istituzioni comunali urbane, nel dare una definizione di nobiltà che, per la limpida chiarezza dei termini adoperati e al tempo stesso per la straordinaria adattabilità a situazioni politiche e sociali differenti, godette di una lunga e meritata fortuna. Al perugino Bartolo da Sassoferrato (XIV secolo) va ascritto il merito di aver introdotto nella sfera del diritto il concetto di consuetudo loci, grazie al quale la nobilitas politica et civilis era propria di chi, sulla base dello statutum vigente in un determinato luogo, possedeva una qualitas in grado di porlo al di sopra degli honestos plebeios; tale qualità poteva essere conferita per la prima volta oppure riconosciuta come già esistente da chi deteneva il principatum, categoria che, agli occhi di Bartolo, non comprendeva solo l'imperatore, i re e i principi, ma anche un populus dotato della potestà di promulgare proprie leggi. Qui sorgeva però un problema, che non era solo terminologico, ma derivava dalle origini e dalle vicende di molti Comuni italiani: come mai nelle leggi di città come Firenze o Bologna coloro che venivano definiti nobili o magnati erano esclusi dall'accesso alle magistrature urbane e, per poter accedere al governo municipale come appartenenti alla nobilitas politica et civilis, dovevano rinunciare al proprio cognome originario, cioè alla propria condizione originaria di nobili? La questione non poteva essere risolta attraverso il ricorso al linguaggio giuridico: essa rimandava infatti al processo storico che aveva visto contrapposti molti Comuni italiani ai castellani del territorio (i magnati), la sconfitta dei quali aveva determinato un curioso sdoppiamento semantico del termine nobile, oggetto di disdegno e di ostracismo se applicato ai medesimi magnati, e viceversa qualifica d'onore per i cittadini che avevano distrutto le basi del potere delle signorie rurali. Insomma, in uomini fortemente segnati dalle tradizioni comunali (oltre che a Bartolo, si pensi a Dante Alighieri) un concetto come quello di nobiltà conservava una certa ambivalenza semantica. Nel corso del XIV e del XV secolo, il consolidarsi al potere in gran parte delle città italiane di omogenee oligarchie mercantili-terriere uscite vittoriose dallo scontro con il 'popolo minuto' degli artigiani; la formazione di Stati regionali che superavano la dimensione puramente urbana della politica e dell'amministrazione; l'affermarsi di dinastie signorili che, pur senza distruggere le tradizioni patrizie, amavano indulgere ai modelli culturali della nobiltà cavalleresca e feudale d'oltralpe (basti ricordare i Gonzaga, gli Estensi, i Montefeltro): tutti questi fattori portarono a un progressivo attenuarsi dell'antica contrapposizione tra cittadini e magnati, mentre il concetto di nobiltà assumeva ovunque una connotazione indiscutibilmente positiva. Forse questo quadro risulta un po' troppo schematico, in quanto per definizione il particolarismo italiano richiede un'attenzione costante alla specificità delle singole situazioni locali: su questo punto erano molto sensibili i letterati umanisti del Quattrocento, precisi nel mettere a fuoco le diversità esistenti, in materia di consuetudini, di leggi e di comportamenti quotidiani, tra le varie nobiltà d'Italia, dal patriziato marittimo di Venezia, ai mercanti-banchieri fiorentini e senesi, ai baroni latifondisti del Lazio e del Napoletano. E tuttavia, malgrado le differenze, le nobiltà italiane presentavano sullo scorcio del XV secolo alcuni connotati comuni e peculiari, determinati dall'influenza ovunque esercitata dai modi del vivere civile, cioè dal perdurare (sia pure in forme attenuate) del modello di organizzazione politica e sociale che era stato proprio del mondo comunale-urbano.
Se l'ascesa economica e politica delle città fu uno dei processi più importanti che caratterizzarono la storia d'Europa a partire dai secoli centrali del Medioevo, non minore attenzione dev'essere riservata alla formazione, tra il XV e il XVI secolo, dei cosiddetti Stati moderni, caratterizzati sia da dimensioni territoriali sconosciute alle monarchie feudali dei secoli precedenti, sia da una crescente concentrazione dei poteri giudiziari, militari e fiscali nelle mani dell'amministrazione regia. Un tale sviluppo infatti presenta molteplici intrecci con la storia dei ceti nobiliari. Qui ci soffermeremo brevemente sul rapporto tra la costituzione di grandi eserciti statali e il ruolo svolto da quella che, durante il Medioevo, era stata per definizione la classe dei guerrieri armati: due esempi ci aiuteranno a mettere in evidenza l'importanza di tale relazione.
In Francia, con una serie di riforme attuate nel corso del Quattrocento dopo la fine della guerra dei Cent'anni, la monarchia cercò di dar vita a un grande esercito regolare stipendiato, costituito in parte da truppe mercenarie straniere, in parte da milizie nazionali (le ordonnances) arruolate nelle varie province del regno; a questa fanteria si affiancava la tradizionale cavalleria pesante dei nobili feudatari, i gentilshommes eredi dei milites del Medioevo, che servivano il re in base ai principî della fedeltà vassallatica. Per far fronte alle spese necessarie al pagamento e al mantenimento dei mercenari e delle milizie nazionali, fu istituita nel 1439 la taille royale, un'imposta diretta cui furono soggetti tutti i sudditi laici della monarchia, tranne appunto i gentilshommes; in tal modo proprio l'esenzione ereditaria dalla taille rappresentò da questo momento e fino alla Rivoluzione l'elemento fondamentale per definire i confini della nobiltà francese e distinguerla dal 'terzo stato' dei roturiers, che invece erano soggetti a quell'imposta.
Nella penisola iberica le guerre condotte dai sovrani cristiani di Castiglia e d'Aragona per la reconquista dei territori soggetti ai Mori, che si conclusero nel 1492 con la fine del regno musulmano di Granada, rappresentarono un fattore decisivo per la definizione dei caratteri nazionali della nobiltà. Infatti i nobili spagnoli del Cinquecento erano giuridicamente coloro che potevano dimostrare la propria purezza di sangue (limpieza de sangre), cioè la discendenza dai 'vecchi cristiani' o hidalgos che avevano combattuto contro gli infedeli; tutti gli altri, i marranos, che non andavano in guerra, avevano nelle loro vene sangue musulmano o ebreo. In tal modo nella Spagna del Cinquecento il carattere militare tipico di gran parte delle nobiltà europee assunse un connotato di esclusivismo confessionale e razzistico, con conseguenze importanti anche sul piano culturale e sociale. Infatti, dato che musulmani ed ebrei vivevano nelle città e per lo più si dedicavano al commercio e al prestito, prese forza l'idea che discendere da un contadino fosse la miglior prova di appartenenza ai 'vecchi cristiani'. Ciò favorì il successo della figura del 'soldato gentiluomo', il nobile-contadino castigliano arruolato nei tercios che combatteva per l'ingrandimento della corona di Spagna, per la propagazione della fede cattolica, ma anche per il proprio arricchimento personale, che gli avrebbe consentito di acquistare una signoria con giurisdizione o l'abito di un ordine cavalleresco, entrando così nella sfera socialmente più elevata del mondo nobiliare.
Sul tema del rapporto tra carriera delle armi e nobiltà un itinerario molto diverso da quello delineato per la Francia e per la Spagna fu quello percorso dall'Inghilterra. Infatti quella che era stata una delle più bellicose aristocrazie feudali dell'Europa cristiana mutò profondamente i propri connotati dopo l'avvento della dinastia dei Tudor, che pose termine alle sanguinose lotte intestine tra fazioni contrapposte, e in seguito al prolungato disimpegno dell'esercito inglese dalle guerre combattute nel continente europeo. Così, se all'avvento al trono di Elisabetta I metà dei nobili titolati (chiamati peers o lords) poteva ancora vantare almeno un'esperienza guerresca, verso il 1640 pochissimi dei loro eredi possedevano qualche forma di preparazione militare. Viceversa, durante quel periodo molti nobili inglesi si erano rivolti ad attività commerciali e imprenditoriali e anche alle professioni liberali. Per questo nel tardo Cinquecento risultava assai difficile definire il confine giuridico e sociale tra i veri e propri nobili e quanti erano considerati tali dall'opinione comune nella misura in cui vivevano in modo non dissimile dai primi. La parola-chiave era gentleman: se nei secoli XIV e XV essa era servita a definire sia i figli minori dei lords, che non potevano fregiarsi del titolo attribuito al solo primogenito, sia il gradino inferiore della nobiltà minore dei knights (cavalieri), nella seconda metà del Cinquecento era definito gentleman, come scrisse William Harrison nella sua Description of Britain (1587), "un uomo di nobili sentimenti, conosciuto grazie alla sua famiglia, al suo sangue, o perlomeno alla sua situazione sociale", acquisita tramite l'insegnamento nelle università, l'esercizio della medicina o dell'avvocatura, il servizio nell'esercito o nell'amministrazione pubblica. I gentlemen costituivano dunque un gruppo (la gentry) non facile da definire: si trattava dello strato inferiore di una nobiltà che aveva al suo vertice il re, i membri della famiglia reale e una sessantina di lords, oppure dello strato superiore di una borghesia di mercanti, professionisti, intellettuali, ufficiali dello Stato e proprietari-coltivatori? Come vedremo nel prossimo capitolo, la risoluzione di questo dilemma, che ha suscitato nell'ultimo cinquantennio un vivace dibattito tra gli storici inglesi, appassionava gli stessi contemporanei e non era certo limitato alle isole britanniche.
Dalla metà del Cinquecento ai primi decenni del secolo seguente godette di una eccezionale fortuna editoriale una trattatistica incentrata sull'idea di nobiltà e sulle caratteristiche proprie dell'uomo nobile. Le opere a stampa che ci sono pervenute costituiscono, d'altra parte, una percentuale limitata di quanto in quel periodo fu scritto e dibattuto sull'argomento: è dunque lecito concludere che le discussioni sulla nobiltà rappresentarono in quell'epoca un argomento capace di appassionare e coinvolgere le persone acculturate dell'intera Europa. Quanto si è accennato a proposito del termine di gentleman nell'Inghilterra dei Tudor può fornire una prima spiegazione: nel corso del Cinquecento la crisi della nobiltà in quanto classe egemone di tradizione signorile e cavalleresco-militare e il parallelo emergere di una nuova élite legata agli uffici, alle professioni liberali, alle università, costrinse a ripensare i criteri in base ai quali definire la classe dominante di un paese. Come ha scritto lo storico inglese Lawrence Stone, la crisi dell'aristocrazia "implicò un fondamentale riadattamento in quasi tutti i campi del pensiero e dell'azione per adeguarsi a un ambiente in rapida trasformazione". È però interessante osservare come il grande dibattito sulla nobiltà e sul gentiluomo avesse il suo primo sviluppo non in Inghilterra o in Francia, cioè nelle roccaforti della nobiltà feudale, ma in quell'Italia che era stata una delle aree più caratterizzate dalla presenza dei patriziati urbani, e da qui si diffondesse nel resto d'Europa. È dunque necessario cercare di capire i motivi di questo apparente paradosso.
La catastrofe del sistema politico italiano basato sull'equilibrio tra gli Stati regionali, in seguito alle guerre di cui l'intera penisola fu teatro a partire dalla spedizione del re di Francia Carlo VIII nel 1494, ebbe ripercussioni molto importanti anche sul modo di considerare la nobiltà che si era affermato in Italia dai tempi dei Comuni. Il confronto obbligato con le istituzioni e le consuetudini delle altre nazioni, che si erano rivelate tanto superiori sul piano militare, suscitò dubbi e ripensamenti sulla bontà del vivere civile negli eredi della tradizione comunale e patrizia, e in particolare in scrittori politici fiorentini come Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, Paolo Vettori. Per ricostituire un ordine gravemente turbato, e non solo dalle guerre (basti pensare al contemporaneo insorgere dei movimenti di dissenso religioso legati alla Riforma protestante), occorreva elaborare un nuovo modello politico e culturale. Sul piano politico il processo più importante fu quello delle cosiddette serrate o chiusure dei consigli, che coinvolse l'intero panorama dell'Italia urbana, dalle città ai borghi minori e fin ai villaggi, dal Piemonte alla Marca pontificia, dal Veneto alla Puglia. Grazie a questa separazione di ceto, l'accesso ai consigli e l'esercizio dell'amministrazione locale furono riservati a quanti potevano dimostrare di vivere nobilmente (more nobilium) e ai loro discendenti; la vita nobile comportava l'astensione da lavori manuali, d'ora in avanti considerati disdicevoli. Queste misure politiche si collegavano, traendone forza, agli esiti del grande dibattito culturale cui presero parte i migliori intellettuali italiani del Cinquecento. I punti d'arrivo di questa riflessione possono essere così sintetizzati: il cosiddetto governo largo e populare, cioè la partecipazione di tutti i cittadini alla vita politica, era una fonte di disordine continuo, in quanto sfociava inevitabilmente nelle lotte tra fazioni contrapposte; occorreva perciò separare il popolo dalla nobiltà, e riservare a questa sola le magistrature; per definire chi fosse il nobile o, come si preferiva dire, il gentiluomo, criteri fondamentali erano il possesso dell'onore derivante dalla virtù degli antenati, un armonioso equilibrio tra forza fisica e capacità di conversare, l'astensione dall'esercizio delle arti vili e meccaniche. Le difficoltà sorgevano al momento di definire il significato e i reciproci rapporti tra i concetti di onore, virtù, arti vili, nobiltà, popolo: se ci si fosse rifatti alla storia e alle tradizioni dell'Italia comunale, sarebbe stato difficile raggiungere il consenso sull'idea che il commercio o l'esercizio del notariato e della medicina fossero arti vili, così come sarebbe apparso incongruo escludere dalla nobiltà i cittadini. Lo sforzo dei trattatisti del Cinquecento consistette nell'attenuare le contraddizioni, nell'astenersi prudentemente dal richiamo alle vicende storiche, nel negare la possibilità di alternative diverse dal modello oligarchico che si voleva imporre, e nel fornire così (pur senza rinnegare completamente il criterio della consuetudo loci che consentiva di introdurre nel quadro generale una serie di eccezioni) un'idea di gentiluomo coerente, omogenea e applicabile a Milano come a Bologna, a Firenze come a Napoli. Ciò era in sintonia da un lato con le tendenze prescrittive, gerarchiche e disciplinatrici della cultura della Controriforma, e dall'altro con la volontà delle classi superiori della penisola di presentare all'esterno un'immagine di ordine capace di smentire la diffusa rappresentazione di un'Italia in preda alle discordie civili.
Un tale sforzo di sistemazione concettuale, con la connessa ricerca di criteri universali per definire la nobiltà, favorì la fortuna di questa trattatistica al di fuori dei confini della penisola, come testimoniano le innumerevoli traduzioni in francese, in inglese, in tedesco, e la presenza di questi libri nelle biblioteche nobiliari di tutta l'Europa. Uno dei più celebrati prodotti di questa letteratura sul gentiluomo fu certamente il Libro del cortegiano (1528) di Baldassar Castiglione, che, benché cronologicamente anteriore alla fioritura di tale genere, godette di una larga fortuna italiana ed europea soprattutto nella seconda metà del secolo, e dunque merita di essere accostato a opere più tarde, come il Galateo (1558) di Giovanni Della Casa, Il gentiluomo (1571) di Girolamo Muzio, La civil conversazione (1574) di Stefano Guazzo, i Discorsi (1585) di Annibale Romei (cui si deve una delle più fortunate definizioni di nobiltà: "un bene di fortuna che all'uomo accade nella sua prima origine, fabbricatogli dalla onorevolezza dei suoi maggiori e dallo splendore della patria, per il quale meritamente si suppone ch'egli sia molto più atto alla virtù del nato di mecanico in patria vile"), il Trattato della nobiltà (1603) di Lorenzo Ducci. Si ricordi che un Leit-motiv del dialogo del Castiglione era l'idea che il perfetto gentiluomo, pur riconoscendo nell'esercizio delle arti militari la sua professione principale, non s'identificava completamente con l'uomo d'armi: egli doveva infatti possedere altre qualità, come la grazia, che si esprimeva nella capacità di conversare e derivava da un lungo e faticoso studio.In conclusione, questo modello italiano di gentiluomo, capace di conciliare onore e virtù, vita di corte e partecipazione al governo della città, armi e lettere, poteva essere esportato in tutta Europa, in quanto veniva incontro alle esigenze di classi dominanti un po' incerte e disorientate di fronte alle grandi trasformazioni della prima età moderna.
Se la ricerca e la proposta di una sintesi tra cultura cavalleresco-militare e umanesimo civile ebbero in Italia uno sviluppo lineare e in un tempo relativamente breve approdarono all'accettazione concorde del modello del gentiluomo, altrove questo processo fu molto più tormentato e si trascinò a lungo in mezzo a conflitti profondi. Ad esempio, nella Francia del Cinquecento il crescente peso numerico e sociale dell'apparato burocratico dipendente dalla monarchia, che (a differenza che nell'esercito) non coincideva con il ceto dei milites medievali, creò una sorta di dicotomia tra due aristocrazie diversissime per storia, idealità e prospettive. I magistrati regi (come ha osservato lo storico americano George Huppert) "sono figli o nipoti o pronipoti di mercanti; e personalmente sono capitalisti, prestatori di denaro, usurai. Appartengono poi a una professione, quella legale, il cui status sociale è non ben definito. Quando esercitano la loro professione, ricevono ricompense e onorari per il loro lavoro e, d'altra parte, non vanno a caccia di gloria sul campo di battaglia, né indulgono a divertimenti come la caccia e lo scialo fastoso. Per tutti questi aspetti, la loro condotta non presenta i tratti tipici della condotta dei nobili. Ma è pur vero che non sono direttamente impegnati in attività commerciali e che possiedono feudi signorili e possedimenti terrieri". Ma allora questi ufficiali (officiers), detti anche 'togati' (robins), erano nobili o no? La questione rimase aperta fino all'inizio del Seicento, quando un editto di Enrico IV stabilì che, per fruire di una nobiltà ereditaria, erano necessarie due generazioni successive nell'esercizio di una serie di cariche che venivano dettagliatamente specificate; a tali cariche erano connessi molti privilegi, il più significativo dei quali era l'esenzione dalla taille. In tal modo era ufficialmente riconosciuta l'esistenza di una nobiltà di creazione regia e legata alle cariche, che dal punto di vista legale non differiva dalla nobiltà antica di quelli che continuavano a essere definiti gentilshommes de race, il che ci sembra molto significativo, in quanto (come s'è visto) l'analogo termine di gentleman aveva nell'Inghilterra del tardo Cinquecento una valenza semantica molto diversa. La creazione nel 1615 della carica di 'giudice d'armi', col compito di verificare gli ascendenti delle famiglie per poter concedere a chi ne aveva diritto i privilegi connessi alla condizione nobiliare, sancì il principio che solo la monarchia, e non la fama e la memoria collettiva, poteva legittimare e riconoscere la nobiltà di un individuo. Questo orientamento, che ebbe una espressione celebre nelle inchieste araldiche e genealogiche promosse nella seconda metà del Seicento dal ministro Colbert, tipico esponente della noblesse de robe, si scontrò con vivaci resistenze da parte dei gentilshommes. Questi ultimi non comprendevano soltanto il ristretto gruppo dei 'grandi', formato dalle famiglie di coloro che da secoli coadiuvavano il re nelle maggiori dignità militari ed ecclesiastiche della monarchia ed erano chiamati 'cugini del re' (alti prelati, marescialli di Francia, governatori delle province), ma anche i piccoli nobili provinciali (i cosiddetti hobereaux o gentilshommes campagnards), che avvertivano con disagio lo stridente contrasto tra il proprio sempre più scarso potere politico ed economico e l'orgoglio del proprio passato legato al mito della conquista franca. Sviluppato da Étienne Pasquier negli anni sessanta del Cinquecento e ulteriormente arricchito da molti eruditi secenteschi e del primo Settecento, il più celebre dei quali fu sicuramente Henri de Boulainvilliers autore di un Essai sur la noblesse de France (pubblicato postumo nel 1732), questo mito postulava che gli unici nobili francesi degni di questo nome erano i discendenti dei Franchi guerrieri che avevano conquistato le terre della Gallia, instaurando una separazione con la popolazione conquistata, dalla quale discendeva la gente comune (i roturiers). Dunque i gentilshommes de race godevano di un diritto storico incontestabile a esercitare il comando: per cui si configurava come una vera rottura nella storia di Francia la politica svolta a partire dal XV secolo dalla monarchia, che aveva sovvertito le gerarchie fissate al tempo della conquista attraverso la creazione di nobili tratti dalla sfera ignobile dei roturiers. Viceversa, i fautori della nobiltà degli uffici, come il giurista Charles Loyseau autore del Traité des ordres (1613), sostenevano, anche sulla base della legislazione regia in materia, che non esisteva alcuna differenza di grado fra redditieri, giuristi, medici, finanzieri di recente nobilitazione, e i gentiluomini poveri di campagna, che senza alcuna prova documentaria pretendevano di discendere in linea diretta dai milites del Medioevo, dai paladini di Carlo Magno e addirittura dai guerrieri franchi. Di fronte a queste tesi contrapposte, gli storici si sono chiesti se le due nobiltà finissero per fondersi in un gruppo unico oppure continuassero a rimanere distinte, e in questo secondo caso, se fosse riconosciuta dall'opinione comune la superiorità della nobiltà di vere o presunte ascendenze cavalleresco-feudali (noblesse d'épée) su quella degli uffici (noblesse de robe). Secondo François Bluche, non esisteva differenza tra le due nobiltà, sia perché entrambe godevano dei medesimi privilegi giuridici, sia perché la monarchia attribuiva la stessa importanza al servizio prestato nell'amministrazione e a quello prestato nell'esercito, sia soprattutto perché furono frequenti i matrimoni 'misti' tra famiglie di gentilshommes e di robins. Secondo Roland Mousnier, invece, il dato innegabile di una comune condizione giuridica non può annullare il peso della mentalità, il fatto cioè che la grande nobiltà di spada considerava semplici borghesi anche funzionari regi del calibro di Colbert e Louvois; quanto ai matrimoni, dato che vi erano coinvolti per lo più uomini della nobiltà di spada e donne della nobiltà di toga, essi non implicavano l'amalgama tra i due gruppi, in quanto presso la nobiltà francese vigeva un regime patrilineare e dunque il ruolo delle donne nella determinazione della nobiltà era trascurabile.
La questione resta aperta. Ci pare necessario aggiungere che bisogna evitare di credere che l'ordinamento della società francese, e in particolare il ruolo in esso ricoperto dalla nobiltà, si mantenesse costante nel tempo. Nei conflitti civili che sconvolsero a più riprese la Francia, alla fine del Cinquecento con le guerre di religione e alla metà del Seicento con le 'fronde' dei principi e dei parlamenti, affiorava costantemente, insieme ad altri motivi, la non risolta contraddizione tra una struttura nobiliare di tipo feudale-vassallatico, che proprio in Francia aveva avuto la sua terra d'elezione, e una nuova struttura nobiliare gerarchica e burocratica, contrassegnata da un corpo ereditario di funzionari regi sempre più coscienti e orgogliosi del proprio ruolo nell'organizzazione politica del regno.
Come si è visto nei capitoli precedenti, la nobiltà europea presentava origini e caratteristiche molto diversificate tra Stato e Stato, tra le varie regioni, province e città all'interno di uno stesso Stato, e anche nell'ambito di una stessa area geografica. Per questo risultarono molto importanti quelle istituzioni che, nel corso del Cinquecento e del Seicento, svolsero la funzione di legittimazione sovranazionale, sovrastatale e sovralocale delle diverse nobiltà. Qui ne prenderemo in esame una in particolare, la cui influenza si manifestò soprattutto nell'area confessionale cattolica.
Tra le diverse religioni cavalleresche sorte all'epoca delle crociate, quella che in età moderna godette della maggiore rinomanza fu quella degli ospitalieri di san Giovanni di Gerusalemme, meglio noti col nome di cavalieri Gerosolimitani o di Malta. L'isola a sud della Sicilia, infatti, già parte del regno di Aragona, fu concessa in feudo da Carlo V nel 1530 all'ordine, che nel 1522 aveva dovuto abbandonare Rodi conquistata dai Turchi; a Malta affluirono molti cavalieri dalla Francia, dalla penisola iberica, dall'Italia, distinguendosi nella difesa dell'isola dall'assedio della flotta ottomana nel 1565. Da quel momento la religione di Malta godette di grande fama presso i nobili dell'Europa cattolica, e mantenne un carattere internazionale, testimoniato dal fatto che nel periodo 1530-1797 la suprema carica di gran maestro fu tenuta da 12 francesi, 9 spagnoli, 4 italiani, 2 portoghesi e 1 tedesco; inoltre sia a Malta sia sulle navi coesistevano cavalieri di diverse nazionalità. Si consideri poi che, in seguito a una serie di riforme degli statuti dell'ordine attuate nella seconda metà del Cinquecento e nei primi decenni del Seicento, furono fissate regole molto precise e rigorose per la concessione dell'abito di cavaliere da parte delle otto lingue in cui l'ordine era diviso (Francia, Alvernia, Provenza, Italia, Aragona, Castiglia-León, Inghilterra, Alemagna). Il candidato doveva sottoporsi alle cosiddette prove di nobiltà, che consistevano in un esame condotto da commissari dell'ordine presso i luoghi d'origine del candidato stesso e dei suoi avi, per accertare i due criteri imprescindibili per essere accettati tra i cavalieri maltesi: l'astensione da parte del candidato e dei suoi antenati dall'esercizio di arti vili e meccaniche, e la presenza di una formale separazione di ceto tra nobiltà e popolo nel luogo d'origine dell'aspirante cavaliere e dei suoi ascendenti, i quali naturalmente dovevano risultare membri della nobiltà. È da osservare che nelle diverse lingue erano previste modalità differenziate di espletamento delle prove: ad esempio, ai candidati della lingua di Alemagna era richiesta la nobiltà dei sedici quarti, cioè fino ai trisavoli compresi, mentre ai futuri cavalieri d'Italia bastava provare la nobiltà dei quattro quarti, cioè dei genitori e dei nonni paterni e materni. Ma nel complesso l'uniformità prevaleva sulle differenze: come per i candidati delle altre lingue, anche a quelli italiani e ai loro avi era interdetto l'esercizio del notariato e della mercatura, che pure fino a un recente passato erano stati considerati in molte città della penisola professioni onorevoli e degne di essere praticate da un cittadino ascritto al consiglio; l'unica eccezione riguardava i gentiluomini delle città di Genova, Firenze, Siena e Lucca. Inoltre in occasione delle prove l'obbligo di produrre scritture autentiche, e di non accontentarsi delle deposizioni orali dei testimoni, era un fortissimo deterrente per numerosi aspiranti dalle origini nebulose. Insomma, l'accesso all'ordine di Malta veniva a costituire una sorta di legittimazione per chi non voleva fondare la propria nobiltà sulla consuetudo loci, cioè su una fama riconosciuta solo localmente, ma intendeva vedersi riconosciuto universalmente come gentiluomo. Si comprende allora perché la documentazione delle prove per l'accesso all'ordine maltese fosse conservata gelosamente negli archivi familiari e prodotta in tutte le occasioni in cui fosse necessario dimostrare l'indiscutibile nobiltà del proprio casato.
Rispetto alle nobiltà medievali, quelle dei secoli dell'età moderna presentano una caratteristica peculiare: la documentata continuità delle famiglie lungo l'arco di più secoli. In parte si tratta, appunto, di un problema di documentazione: mentre per l'età medievale sono andati quasi per intero distrutti gli archivi nobiliari, per l'età moderna se ne conserva un numero non trascurabile. Questo stato delle fonti, d'altra parte, non è frutto del caso: fu appunto in età moderna, in seguito alla formalizzazione dei criteri di accesso alla nobiltà sia nelle repubbliche oligarchiche sia nelle monarchie, che si avvertì con sempre maggior forza da parte delle famiglie la necessità di conservare la documentazione del proprio passato illustre. Ma la miglior conservazione degli archivi familiari non basta a spiegare la durata nel tempo delle famiglie nobili: questa fu dovuta soprattutto all'introduzione di particolari forme di trasmissione ereditaria, miranti a evitare la divisione e la dispersione dei patrimoni per poterli far pervenire nella loro interezza a un membro della famiglia preventivamente designato. Fondamentale fu, a tale riguardo, la generale diffusione, soprattutto dalla seconda metà del Cinquecento in poi, dell'istituto del fedecommesso, mediante il quale un privato poteva vincolare per testamento i propri beni immobili ai discendenti per una o più generazioni o spesso all'infinito (in perpetuum). Il fedecommesso era spesso collegato a un altro istituto, presumibilmente di origine spagnola, il maggiorascato (mayorazco) o primogenitura, mediante il quale unico beneficiario del patrimonio familiare indiviso era il primogenito maschio. L'introduzione di queste consuetudini successorie in gran parte delle nobiltà europee, secondo tempi e modalità che variarono da zona a zona, ebbe come conseguenza l'inferiorità sociale, giuridica ed economica dei figli maschi minori (cadetti) e di tutte le figlie femmine. Ma al tempo stesso l'inalienabilità del patrimonio e la sua concentrazione in un unico erede comportarono spesso per quest'ultimo l'obbligo di garantire il mantenimento a tutta una serie di aventi diritto, espressamente indicati nel testamento del capofamiglia: fratelli minori, sorelle, madre vedova, zii e zie dal lato paterno, e così via. Questo dovere poteva essere inteso in due sensi diversi: o come obbligo di provvedere una volta per tutte alla sistemazione dell'avente diritto, o come mantenimento in casa vita natural durante. Nel primo caso rientrano le doti matrimoniali per le figlie e le sorelle, che costituivano una delle voci d'uscita più onerose della famiglia nobile. Nei paesi cattolici la dote poteva anche essere monastica: in questo secondo caso si trattava di una somma data a un monastero come tassa d'entrata della novizia; e dato che l'esborso era di regola di entità molto inferiore rispetto a quello necessario per accasare una donna nobile, si comprende perché rinchiudere le figlie e le sorelle in un monastero fosse considerato una soluzione molto vantaggiosa per il bilancio domestico. Per i maschi cadetti l'uscita dalla famiglia offriva più numerose alternative: la carriera militare, che rimase per molta parte della nobiltà europea lo sbocco più naturale e consono alle tradizioni del ceto; l'abito religioso, soprattutto all'interno di quegli ordini più vicini a un modo di pensare aristocratico, come i benedettini, i teatini e soprattutto i gesuiti; la carriera ecclesiastica secolare, per raggiungere le più alte dignità in patria o presso la curia romana. Un istituto giuridico che segnala lo stretto legame instauratosi durante l'antico regime tra nobiltà e mondo ecclesiastico fu il giuspatronato laicale: chi deteneva questo diritto (un singolo nobile, oppure i membri di una consorteria parentale) poteva designare un membro della propria famiglia come fruitore della rendita legata a un beneficio ecclesiastico, cioè a un ufficio sacro riservato a un chierico, come un canonicato, una parrocchia, una cappella. In tal modo la fondazione di un giuspatronato rappresentava per una famiglia nobile un vero e proprio investimento economico di lungo periodo, perché consentiva il mantenimento dignitoso di un maschio della famiglia per più generazioni; si potrebbe dire, in conclusione, che un beneficio di giuspatronato laicale era una specie di fedecommesso a favore dei figli cadetti.
Finora ci siamo occupati degli istituti giuridici di trasmissione ereditaria dei patrimoni nobiliari. Ma da che cosa erano costituiti tali patrimoni? Pur senza voler minimizzare le peculiarità regionali, un dato pare essere stato comune alle nobiltà dell'Europa d'antico regime: il ruolo fondamentale della terra. L'identificazione fra terra e nobiltà, che è stata sostenuta da molti storici, economisti e sociologi, risulta pienamente condivisibile, se si vuole intendere che le classi dominanti europee del Medioevo e della prima età moderna ebbero come carattere comune e peculiare il dominio sulla terra e sugli uomini che la lavoravano. Allo stesso modo si può giustamente sostenere che fino al Settecento, e in molte regioni - soprattutto, ma non solo, dell'Europa orientale - anche nell'Ottocento, i grandi proprietari terrieri furono in maggioranza nobili. Sarebbe invece riduttivo ritenere che durante l'antico regime l'agricoltura fosse l'unica fonte di ricchezza della nobiltà, perché i patrimoni di molte famiglie mostrano una notevole varietà nelle voci di entrata: ai prodotti derivanti dalla conduzione diretta delle terre, alla rendita fondiaria in denaro e in natura, alla rendita feudale che proveniva dai diritti di natura signorile-feudale di antica origine o ripristinati coattivamente tra XVI e XVII secolo, si affiancavano infatti: i profitti e le quote di compartecipazione ad attività industriali, commerciali, armatoriali, assicurative e bancarie; le rendite finanziarie derivanti dall'investimento in titoli del debito pubblico e da un'intensa attività di piccolo e grande prestito; gli stipendi, le pensioni, i donativi legati al servizio di corte presso un sovrano o ad altri incarichi pubblici retribuiti.
Malgrado l'entità e la varietà di tali entrate, una delle caratteristiche proprie dei nobili che emerge con maggiore chiarezza dalle fonti documentarie è la loro propensione all'indebitamento. La spiegazione di questo apparente paradosso va cercata, più che nell'economia, nella storia della mentalità: l'esigenza di mantenere una vita consona al proprio status, in grado di dimostrare la superiorità rispetto ai non-nobili e l'uguaglianza coi pari grado, comportava un livello di spese di lusso che, in presenza di congiunture sfavorevoli, poteva creare nei bilanci familiari cospicui deficit. Tra queste spese una delle più gravose, soprattutto a partire dal tardo Cinquecento, riguardò la costruzione, il restauro e l'abbellimento di edifici di abitazione in città e in campagna. Il palazzo urbano e la villa erano infatti il simbolo tangibile del potere e della durevole preminenza di una famiglia; alcune arterie urbane (come via Toledo a Napoli, o la Strada Nuova a Genova, o il Canal Grande a Venezia) o certi quartieri (come il Marais a Parigi) divennero una sorta di monumento vivente della supremazia nobiliare. Un'altra categoria di spesa molto importante era costituita dagli alimenti; questo tipo di consumo era accresciuto dalla presenza della servitù e dal frequente passaggio di invitati per i quali si amava fare sfoggio di abbondanza e di ricercatezza di cibi. Accanto al vitto deve essere considerato il vestiario, nonché l'acquisto di gioielli e ornamenti vari. Tutto ciò era simbolo della condizione sociale; e infatti le spese per il vitto e per l'abbigliamento non riguardavano solo i membri della famiglia nobile in senso stretto, ma si estendevano alla famiglia allargata che comprendeva i domestici e i servitori. C'erano poi le spese per i mezzi di trasporto, in particolare cavalli e carrozze; le spese per l'istruzione dei figli (che per le nobiltà nordiche comprendeva il grand tour, cioè un periodo di soggiorno in Francia e in Italia) e per le doti delle figlie; le spese per le cure mediche, per i servizi legali, per i funerali e le sepolture, cui vanno aggiunte le elargizioni di tipo caritativo, che incidevano sui redditi nobiliari in misura certo enormemente inferiore rispetto ai salassi provocati da un vizio che era comune a ricchi e poveri: il gioco.
Questo flusso inarrestabile di spese poteva essere esiziale per il patrimonio di una famiglia nobile, qualora fossero venuti a mancare alcuni redditi su cui si faceva conto per coprire l'indebitamento: ad esempio, la perdita del favore di un sovrano poteva azzerare la voce di entrata costituita da pensioni e donativi. Tuttavia se molte famiglie rischiarono la rovina, relativamente poche scomparvero in seguito a indebitamento. Piuttosto, l'eventuale insolvenza del nobile provocava un danno più grave e difficilmente rimediabile agli artigiani e ai mercanti che erano stati suoi fornitori di beni e servizi, e che raramente riuscivano a recuperare quanto era loro dovuto. D'altra parte, la propensione al lusso e all'ostentazione della nobiltà fu alla base delle imponenti dimensioni assunte dal gruppo dei servitori, che nel caso delle grandi famiglie dell'aristocrazia feudale o cittadina potevano superare la cinquantina o addirittura avvicinarsi al centinaio. Tra i servitori, alcuni erano più strettamente legati all'economia della casa, altri avevano soprattutto la funzione di rendere palese la posizione di prestigio della famiglia. La servitù comprendeva quindi il maestro di casa o maggiordomo, il guardarobiere, il sovrintendente alla tavola, il cuoco, il giardiniere, lo stalliere, il palafreniere, lo staffiere, ma anche il segretario, il bibliotecario, il precettore, il cappellano.
Da quanto si è detto in precedenti capitoli, risulta evidente la persistenza lungo i secoli dell'età moderna di una varietà di criteri atti a legittimare la nobiltà di una famiglia e di un individuo, ma anche la difficoltà da parte delle autorità statali di imporre norme universalmente valide ed effettivamente osservate in materia di nobiltà all'interno del territorio sottoposto alla loro sovranità. Da qui deriva la difficoltà per lo studioso odierno di dare un'attendibile valutazione quantitativa della nobiltà nei diversi Stati europei nel corso di quei secoli. Si può dire che in alcune aree (come la Spagna, l'Ungheria, la Polonia) i nobili costituivano una percentuale della popolazione relativamente elevata, compresa forse tra il 5 e il 10%; mentre in Francia e in Svezia la percentuale doveva essere nettamente inferiore, fra l'1 e il 3%. Ma come estendere il calcolo all'Italia, dove potevano legittimamente definirsi nobili perfino le famiglie dei centri minori (i borghi e le terre), in cui si fosse attuata una separazione di ceto nell'accesso ai consigli? È corretto o meno comprendere anche queste famiglie tra quelle della nobiltà italiana? E che dire dell'Inghilterra, dove l'entità numerica dei nobili varia in modo macroscopico a seconda che si calcolino solo i lords e la nobiltà in possesso di un titolo acquistato (come quello di baronet, introdotto al principio del Seicento dal re Giacomo I), oppure anche i semplici gentlemen?
Questa medesima difficoltà riguarda pure il Settecento, anche se progressivamente si impose in quel secolo la volontà da parte dei governi di riconoscere senza ombra di equivoco chi fosse nobile, e dunque potesse legittimamente godere di tutta una serie di privilegi (primo fra tutti quello fiscale) nell'ambito dello Stato. Come ha scritto lo storico francese Jean-Pierre Labatut, "nel secolo XVIII si fece sistematica la politica intesa a eliminare dai ranghi della nobiltà quei nobili che vantavano la loro appartenenza all'ordine senza averne sufficiente titolo". Così ci si sforzò di far funzionare meglio, dove già esistevano, o di creare ex novo dove non se ne aveva traccia, gli uffici araldici, preposti a questa funzione di controllo e registrazione; e inoltre furono emanate leggi che definivano senza ambiguità le condizioni richieste per il legittimo possesso dello status nobiliare. Da questo punto di vista risulta di notevole interesse il caso degli Stati regionali italiani, dove (a parte qualche eccezione, come i domini dei Savoia) era mancata fino alla metà del XVIII secolo una legislazione che precisasse senza equivoci i criteri di accesso alla nobiltà su base non locale, ma appunto statale. Esamineremo qui due casi, quello toscano e quello napoletano.
È del 1750 la legge sulla nobiltà e cittadinanza per il granducato di Toscana, che un quindicennio prima era passato dal governo di casa Medici a quello di Francesco Stefano di Lorena, marito di Maria Teresa d'Austria e dal 1745 imperatore germanico. Il primo articolo della legge elencava coloro che, per essere riconosciuti come veri nobili, dovevano presentare documenti autentici a una deputazione di ministri granducali che li avrebbe iscritti in un libro d'oro: "tutti quelli che posseggono o hanno posseduto feudi nobili, e tutti quelli che sono ammessi agli ordini nobili, o hanno ottenuto la nobiltà per diplomi nostri o de' nostri antecessori, e finalmente la maggior parte di quei che hanno goduto e sono habili a godere presentemente il primo e più distinto onore delle città nobili loro patrie". Nell'ordine, dunque, la legge elencava i feudatari, che in Toscana erano in stragrande maggioranza di creazione granducale (cioè di epoca successiva alla metà del Cinquecento), i membri degli ordini cavallereschi, e in particolare dell'ordine di santo Stefano creato dal granduca Cosimo I de' Medici nel 1562, coloro che avevano ottenuto diplomi di nobiltà dallo stesso Cosimo e dai suoi successori, e infine i patrizi delle città maggiori (Firenze, Siena e altre cinque) che potevano vantare origini risalenti all'epoca repubblicana, quando la nobiltà in Toscana si estrinsecava nella partecipazione alle magistrature supreme di una città. In tal modo questo articolo della legge del 1750 capovolgeva il tacito ordine di precedenza, conservatosi anche dopo il passaggio dalle forme comunali e repubblicane di governo a quelle principesche, in virtù del quale la vera nobiltà toscana continuava a essere quella che discendeva dai cittadini di governo al tempo delle libertà comunali. Ma in un successivo articolo della legge era espressamente salvaguardata la peculiarità sociale dei ceti dominanti toscani, in quanto si diceva che in nessun modo avrebbero derogato alla nobiltà la gestione di case di negozio o banchi di cambio, l'immatricolazione nelle arti della lana o della seta, la professione medica, l'avvocatura, la pittura, la scultura, l'architettura civile e militare. Una simile esplicita equiparazione tra nobiltà e professioni borghesi non era certo una novità per le consuetudini toscane: la novità consisteva nel fatto che il documento che la riportava non era una consulta giuridica o un trattato letterario, ma un testo legislativo promulgato da un sovrano lorenese-austriaco. In conclusione, l'importanza di una legge come questa risiedeva da un lato nel riuscito compromesso tra una visione gerarchico-feudale propria dei nuovi ministri stranieri e le tradizioni delle famiglie patrizie toscane, e dall'altro nell'affermazione rigorosa che la fonte del riconoscimento della nobiltà risiedeva nell'autorità del sovrano.
Nel regno di Napoli, che dal 1734 era governato da un ramo dei Borbone di Spagna, un dispaccio regio del 1756 distinse la nobiltà in tre classi. Al vertice si collocava la nobiltà generosa, comprendente sia le famiglie che possedevano feudi da almeno due secoli (e cioè dall'epoca di Carlo V, precedente all'ondata di infeudazione che aveva caratterizzato la politica spagnola nel Napoletano soprattutto dalla seconda metà del Cinquecento in poi), sia gli ammessi ai consigli nobili delle città regie (cioè la cosiddetta nobiltà di seggio o di piazza), sia coloro che potevano dimostrare la discendenza da un avo che "per la gloriosa carriera delle armi, della toga, della chiesa o della corte avesse ottenuto qualche distinto e superiore impiego o dignità", e soprattutto la continuità nella famiglia di un modo di vita nobile senza alcuna caduta nell'esercizio di arti meccaniche e ignobili. C'era poi la nobiltà per privilegio, che il sovrano concedeva per servizi prestati allo Stato in impieghi giudiziari, militari o di corte. Infine, la nobiltà legale ossia civile, riconosciuta a chi poteva dimostrare per sé, il padre e l'avo di aver vissuto "sempre civilmente con decoro e comodità" e di godere presso il pubblico della nomea di uomini onorati e da bene. Una tale divisione non era fine a se stessa, ma si collegava alla riforma dell'esercito: i cadetti dei reggimenti provinciali, destinati a diventare capitani o alfieri, potevano essere reclutati solo tra i nobili generosi; per essere ammessi negli altri corpi di fanteria e cavalleria bastava la nobiltà per privilegio; per diventare cadetti nelle truppe era sufficiente la nobiltà civile. È importante osservare che, per essere accolti in uno dei tre gradi, erano richieste prove legali in larga parte coincidenti con quelle previste per l'ammissione all'ordine dei cavalieri di Malta; in tal modo, quelli che erano stati criteri sovranazionali e sovrastatali per il riconoscimento della nobiltà diventavano parte integrante della legislazione con cui uno Stato definiva i confini e i gradi della propria nobiltà nazionale.
Gli elementi che accomunano queste due leggi, e tante altre emanate nello stesso volger d'anni, sono soprattutto tre: il costante richiamo al diritto-dovere del monarca di fissare i criteri di nobilitazione; la validità di queste norme per tutto il territorio di uno Stato, col conseguente superamento sia della consuetudo loci sia dei patti bilaterali tra il sovrano e una specifica città o provincia a lui subordinata; l'affermazione del principio che la nobiltà era una classe della società. Su quest'ultimo punto vale la pena di soffermarsi, perché segna una svolta epocale non solo per quanto concerne la nobiltà, ma per l'intera storia costituzionale dell'Europa d'antico regime.
Come è emerso in più occasioni nel corso di questa esposizione, il concetto di nobiltà teorizzato, divulgato e comunemente accolto dal Medioevo al Seicento aveva connotazioni non solo politiche, economiche e sociologiche, ma anche etiche e talvolta antropologiche. In altre parole, il nobile si definiva e si distingueva dagli altri uomini non solo per il suo potere di comando, per la sua ricchezza e per l'appartenenza a un gruppo omogeneo, ma anche per una virtù legata al sangue, che lo rendeva indiscutibilmente degno e meritevole di una serie di privilegi. Come ha scritto lo storico inglese Michael L. Bush, "privilegio e nobiltà erano così strettamente connessi, che la seconda non era pensabile senza il primo"; mentre il già citato Labatut ha ricordato che "la legittimità della nobiltà poggiava sulla convinzione che dovesse esistere un ordine in cui la disuguaglianza costituiva una necessità dell'organizzazione sociale: e ciò era un fatto voluto da Dio". Una serie di processi politici e culturali, maturati tra la fine del Seicento e la metà del Settecento, epoca che è stata felicemente definita della 'crisi della coscienza europea', misero in discussione anche l'intangibilità di questo legame tra privilegio e nobiltà. Molti uomini di lettere e di scienze di quei decenni, spesso di origine nobile, tra i quali ci limiteremo a ricordare per la Francia il signor de Fénelon, e per l'Italia il marchese veronese Scipione Maffei, sostennero che i nobili dovevano meritarsi i loro privilegi attraverso l'impiego in funzioni svolte per utile pubblico. In altre parole, il nobile poteva giustificare la sua esistenza sociale in quanto imprenditore agricolo, scienziato, medico, professore di università, non più in quanto appartenente a un ordine privilegiato grazie a due qualità ereditarie come la virtù e l'onore. Quest'idea, sia pur fieramente contrastata dai difensori dell'ordine tradizionale, fu un caposaldo della riflessione di alcune tra le più importanti correnti culturali settecentesche. Oltre ai nomi notissimi di Voltaire e Montesquieu, ricorderemo la scuola fisiocratica, che identificò la classe dei nobili con quella dei proprietari, primi motori dell'accrescimento del prodotto netto dello Stato; o il giuseppinismo austriaco, che considerava come campo proprio della nobiltà la pubblica amministrazione; o ancora il gruppo degli illuministi lombardi, tra i quali Pietro Verri (che era un patrizio milanese) identificò la nobiltà con la classe dei direttori "che rappresentano la maestà del sovrano, i tribunali, i giudici, i soldati, i ministri della religione", mentre Alfonso Longo scrisse che la nobiltà meritava di sopravvivere solo se si fosse conformata all'"ordine naturale più vantaggioso alle società politiche". Assumere un tale punto di vista poteva però comportare anche una critica radicale della situazione esistente: se il criterio doveva essere quello dell'utilità sociale e del servizio pubblico, che senso aveva continuare a credere in un onore ereditario? Il barone d'Holbach espresse con chiarezza questa posizione, auspicando in un'opera pubblicata nel 1776 che il legislatore "accordasse la nobiltà, le dignità, le decorazioni di ogni specie soltanto a coloro che si facessero notare per le loro personali qualità".
Non c'è dunque da stupirsi se, dati questi precedenti, la questione della nobiltà fosse all'ordine del giorno fin dagli esordi della Rivoluzione in Francia. Nel suo famoso opuscolo del 1789 l'abate Sieyès scriveva che "l'ordine dei nobili non trova posto nell'ordine sociale; esso non solo è un peso per la nazione, ma non potrebbe nemmeno farne parte. Una tale classe è senza dubbio, per il suo 'non fare nulla', estranea alla nazione". Il celebre preambolo della seduta dell'Assemblea nazionale del 4 agosto 1789 avrebbe proclamato che "non esistono più nobiltà né aristocrazia, né distinzioni ereditarie né distinzioni di ordini, né regime feudale, né giustizie patrimoniali, né alcuno dei titoli, denominazioni e prerogative che ne derivano, né alcun ordine di cavalleria, né alcuna delle corporazioni o distinzioni per le quali era necessario provare la propria nobiltà, o che implicavano delle distinzioni di nascita, né qualunque altra superiorità che non sia quella dei pubblici funzionari nell'esercizio delle loro funzioni". Questo principio così solennemente affermato conteneva in sé un'idea destinata a grandissima fortuna, anche presso i nobili che, superata la bufera rivoluzionaria, sarebbero stati riaccolti nell'amministrazione napoleonica: l'idea del merito. Come scrisse nel 1815 Giandomenico Romagnosi a bilancio dell'epoca appena trascorsa, "non si può ammettere la nobiltà [·^^] come un ordine dello Stato", o come una base organica della monarchia nazionale rappresentativa; l'unica nobiltà da conservare era quella personale e vitalizia "per affezionare e premiare le persone le quali più delle altre influiscono su lo Stato o per i loro meriti o per la loro possidenza".
Tra la metà del Settecento e l'epoca napoleonica si era dunque consumata la plurisecolare vicenda dell'egemonia nobiliare in Europa. Ciò dipendeva da vari fattori: oltre a quelli ricordati nelle pagine che precedono, val la pena di ricordare il controllo sempre maggiore assunto dalle nuove strutture degli Stati su ambiti di potere prima controllati dai nobili, come la giustizia locale, e per i paesi cattolici il venir meno del potere economico e giurisdizionale della Chiesa di Roma, che per molti aspetti aveva costituito fin dal tardo Medioevo uno storico alleato dei ceti nobiliari.Giunti al primo Ottocento, la storia della nobiltà in Europa si potrebbe considerare esaurita. Ma un simile punto di vista non terrebbe conto di una interpretazione oggi molto in auge, secondo la quale fino al 1848, o addirittura fino al 1914 (come ha sostenuto tra gli altri lo storico americano di origine tedesca Arno J. Mayer) i nobili "permearono dei loro valori l'apparato statale [...] occupando posizioni-chiave nei nuovi eserciti e burocrazie". Questo fenomeno si inseriva nel quadro di un più generale neofeudalesimo, che si accompagnò alla permanenza dell'antico regime fino alla prima guerra mondiale. La tesi è suggestiva, ma difficilmente potrebbe essere accolta per l'intera Europa in queste forme estremizzanti. Anche se in gran parte degli Stati la nobiltà conservò fino agli ultimi decenni dell'Ottocento e oltre una larga quota del possesso fondiario, e partecipò al servizio statale soprattutto nell'esercito e nella diplomazia, ciò non dipese da un legame organico e riconosciuto (salvo forse che in Prussia e in Russia) tra nascita, ricchezza, signoria fondiaria e potere nello Stato. Come ha scritto con efficacia il già citato Otto Brunner, "nel secolo che seguì il 1848 fu ancora possibile essere un 'aristocratico', un 'signore', un 'gran signore', ma soltanto per l'atteggiamento interiore, lo stile di vita, le relazioni personali con altri. Nessuno ormai da tempo era più signore dei sudditi per diritto proprio". Con un'immagine pregnante aveva espresso un'idea simile, nella prima metà dell'Ottocento e dunque poco dopo il tramonto dell'antico regime, il grande romanziere Honoré de Balzac: "oggi non c'è più una nobiltà, c'è soltanto un'aristocrazia".
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