Nomadi e sedentari nella regione del medio Eufrate
Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, Antichità, edizione in 75 ebook
Il periodo paleobabilonese rappresenta una fase privilegiata per lo studio delle relazioni tra nomadi e sedentari grazie alla quantità di informazioni che ci deriva dagli archivi della città di Mari. Quest’ultima, collocata sul Medio Eufrate, rappresenta infatti il confine tra le terre fertili e arabili dell’alluvio mesopotamico e il tavolato semi-arido della Siria settentrionale. Dal punto di vista tipologico, il nomadismo in Mesopotamia nel II millennio a.C. è caratterizzato sotto il profilo sia economico che sociale da una tendenza alla simbiosi tra l’elemento nomade e quello sedentario, benché le fonti testuali, soprattutto letterarie, ce ne restituiscano invece un’immagine alterata e influenzata da tendenze urbanocentriche. Le tribù pastorali del Medio Eufrate sono di origine amorrea, in altre parole, appartengono ad un gruppo di popolazioni semi-nomadi che a cavallo tra il III e il II millennio a.C. si infiltrano progressivamente nelle aree urbane della Siria e della Mesopotamia. Molti Amorrei si sedentarizzano e riescono nel tempo a prendere il potere nelle città di adozione, dando origine alle dinastie reali che si contendono il potere in Mesopotamia nel corso del II millennio a.C.
La città di Mari è situata sul medio Eufrate, a valle rispetto alla sua confluenza con il fiume Khabur (non lontano dal confine moderno tra Siria e Iraq), sul sito della moderna Tell Hariri.
Nonostante l’importanza della città già nel III millennio a.C., confermata dai riferimenti nei testi di Ebla, il termine “età di Mari”, generalmente usato nella letteratura specialistica, si riferisce al periodo compreso tra il 1810 e il 1760 a.C., cioè il periodo coperto dai suoi archivi (20 mila tavolette ca.) che illustrano l’ultima fase della vita della città prima della sua distruzione ad opera di Hammurabi di Babilonia. Gli archivi di Mari documentano nello specifico tre fasi storiche: una prima fase, corrispondente ai regni di Yakhdun-Lim e Sumu-Yaman, termina con la conquista della città ad opera di Samsi-Addu, che pone suo figlio Yasmakh-Addu sul trono di Mari. Alla morte di quest’ultimo Mari riacquista la propria indipendenza durante i 13 anni di regno di Zimri-Lim. Hammurabi di Babilonia mette definitivamente fine al suo regno nel 1761 a.C. Gli archivi di Mari illustrano con estrema ricchezza di dettagli la struttura interna e le relazioni esterne di uno dei regni più importanti governati da una dinastia amorrea. In particolare gettano ampia luce sulla stretta interazione tra i pastori seminomadi che vivono ai margini delle ricche terre arabili, le comunità urbane e il governo centrale.
Nel Vicino Oriente è necessario distinguere tra un nomadismo orizzontale e un nomadismo verticale. Quest’ultimo prevede movimenti migratori tra i terreni di pascolo a valle usati durante l’inverno e quelli estivi a monte: esso è tipico dei gruppi che si muovono tra i monti Zagros, il Tauro (Turchia meridionale), quelli del Libano e le valli adiacenti. Il nomadismo orizzontale è invece basato sullo sfruttamento di pascoli invernali nella steppa o nel deserto, seguito da un movimento verso valli più umide – spesso all’interno o in prossimità delle zone agricole – durante l’estate.
Nel caso della Mesopotamia è inoltre fondamentale la distinzione tra un nomadismo che si sviluppa in stretta relazione con la realtà urbana e il suo sistema produttivo agro-pastorale e un nomadismo invece indipendente da questi fattori. Quest’ultimo, tipico delle steppe e dei deserti della penisola arabica, è attestato a partire dall’inizio del I millennio a.C. Per la Mesopotamia del II millennio a.C. si conoscono, invece, solo esempi del primo tipo di nomadismo, che è caratterizzato sotto il profilo sia economico che sociale da una tendenza alla simbiosi tra l’elemento nomade organizzato in gruppi tribali, e quello sedentario accentrato nelle città e nei villaggi circostanti. Il contesto geofisico in cui esso si inquadra è quello di una “zona dimorfica” – compresa tra le isoiete dei 200 e dei 400 mm di precipitazioni annue – che interessa principalmente la valle del Khabur e quella dell’Eufrate, nel tratto in cui il fiume si incunea tra alte falesie che delimitano l’altopiano stepposo utilizzato dai pastori per il pascolo invernale. Si noti che nel Vicino Oriente, a causa della siccità, una reale produzione agricola è possibile solo al di sopra di un tasso medio di 300 mm di pioggia annui. Le popolazioni agropastorali sfruttano abilmente questa zona di transizione tra deserto e regioni che ricevono abbastanza pioggia o che possono essere irrigate: le greggi che durante la stagione delle piogge, in inverno, pascolano nella steppa, alla fine della primavera vengono portate sulle rive dei fiumi o dei wadi, i corsi d’acqua stagionali, che restano in secca per gran parte dell’anno. Pecore e capre vengono fatte pascolare sui campi, che fertilizzano con i loro escrementi e dove si cibano con le stoppie. Solo alla fine del II millennio a.C., con il sorgere del nomadismo su lunga distanza, basato sull’utilizzo del cammello, diventa possibile la dislocazione di genti nomadi nelle zone desertiche, dove la piovosità è al di sotto dei 100 mm annui. Questi gruppi, muovendosi in regioni ben distanti dalle zone urbane di Mesopotamia e Siria-Palestina, continuano comunque ad avere strette relazioni con le comunità sedentarie, facendo del commercio la loro attività preminente.
Tradizionalmente le relazioni nomadi-sedentari nel Vicino Oriente sono state lette, senza differenziare tra le diverse tipologie di nomadismo, nei termini di una forte rivalità e di scarsa interazione. Questa visione è stata notevolmente influenzata dalle fonti testuali mesopotamiche, che riflettono un punto di vista urbanocentrico e che enfatizzano l’alterità dei gruppi nomadi e il pericolo che questi rappresentano per le popolazioni sedentarie. Ad esempio, un testo letterario sumerico descrive la popolazione dei Gutei con queste parole: “Non annoverati come persone, non conteggiati come parte del paese, Gutium, una gente che non conosce legami, con istinti umani, ma con intelligenza canina e fattezze scimmiesche”. Guidati da queste fonti, gli studiosi hanno inizialmente interpretato le relazioni tra nomadi e sedentari come l’effetto di presunte ondate migratorie di nomadi provenienti dal deserto siriano o dalle zone montuose (le catene degli Zagros e del Tauro) con l’intento di distruggere le comunità urbane approfittando di una loro debolezza a seguito di vicissitudini politiche, crisi economiche o significativi cambiamenti climatici. Di fronte a questa idea, ormai del tutto superata, prevale oggi l’attenzione per la varietà dei modelli di nomadismo documentati e la loro evoluzione nel tempo e nello spazio. Oltre a quello di “zona dimorfica” si è ormai affermato il concetto di “dimorfismo sociale” applicato al rapporto di interdipendenza di nomadi e sedentari in alcune regioni e in specifiche situazioni. Una delle manifestazioni più evidenti di questa interdipendenza è costituita dallo scambio di beni: i pastori forniscono prodotti animali e in cambio ricevono prodotti agricoli o di artigianato. Ma si trovano anche manifestazioni più complesse di interazione tra i due gruppi: i pastori nomadi possono ad esempio pascolare sotto contratto le greggi di gruppi sedentari o far pascolare le proprie sui loro campi. Inoltre, i gruppi nomadi più vicini ai centri urbani sono sottoposti a vari tipi di dipendenza: censimento, corvée, servizio militare, tassazione, accettazione della presenza nei villaggi di ufficiali responsabili del rapporto tra tribù e palazzo.
Pastori e agricoltori non solo sono in reciproco contatto: pastorizia nomade e agricoltura sedentaria possono essere lette come parte di un ampio spettro di possibili strategie economiche che prevedono una certa mobilità anche nello stile di vita adottato dai rispettivi gruppi. Ad esempio, in tempi difficili da un punto di vista climatico i sedentari possono acquisire lo stile di vita nomade come stile di vita alternativo. D’altra parte, anche i nomadi possono affiancare alla pastorizia altre attività come caccia, raccolta, commercio e agricoltura. Tutto questo ovviamente non impedisce il sorgere di relazioni anche ostili tra i due gruppi, ad esempio nella forma di razzie perpetrate da gruppi nomadi a danno delle comunità urbane.
Gli Amorrei sono il gruppo nomade maggiormente documentato nelle fonti mesopotamiche del II millennio a.C. Il termine usato per descrivere questo popolo, MAR.TU in sumerico e Amurru in accadico, utilizzato anche con il significato di “ovest”, non indica uno specifico gruppo etnico o tribale, ma raccoglie tutte le popolazioni seminomadi dislocate ad ovest rispetto alla Mesopotamia propriamente detta, cioè nella regione montuosa situata ad est di Ugarit, in Siria (Djebel Ansariyeh) fino al Djebel Bishri. Essi sono già documentati in testi sumerici del III millennio a.C., nei quali appaiono come dediti alla razzia nelle aree urbane, tanto da indurre i sovrani di Ur III a costruire un muro difensivo tra il Tigri e l’Eufrate (all’altezza dell’odierna Baghdad) per tenerli lontani. Le fonti scritte dell’epoca ne denigrano lo stile di vita (in tende distribuite nella steppa, nel deserto o sulle montagne) e finanche le pratiche funebri (si dice che non seppelliscono i loro morti). Ciò nonostante altre fonti indicano che a cavallo tra il III e il II millennio a.C. si attua un progressivo processo di integrazione di questi gruppi nella realtà urbana: alcuni Amorrei abitano nelle città di Sumer e Akkad impiegati in vari settori dell’amministrazione cittadina, in particolare quello militare, raggruppati secondo la loro filiazione tribale; altri, arricchitisi con la pastorizia, accrescono i propri guadagni stabilendosi nelle zone agricole.
Il cammino migratorio degli Amorrei dalle zone di origine a ovest verso la Mesopotamia non può essere tracciato con sicurezza, ma la toponimia antica ne ha preservato le tracce. Si è infatti constatato che nella prima metà del II millennio a.C. molti siti importanti portano gli stessi nomi sebbene siano collocati in aree diverse del Vicino Oriente. Questa “toponimia speculare” si può spiegare come esito dei movimenti degli Amorrei, che hanno rinominato i luoghi di arrivo usando i toponimi dei propri siti di origine.
Con il collasso di Ur III e la conseguente crisi politica, l’infiltrazione degli Amorrei nelle aree urbane della Mesopotamia e della Siria cresce in intensità. Molti di coloro che hanno fatto fortuna in città soprattutto con la carriera militare riescono a prendere il potere e creano delle vere e proprie dinastie.
L’affermazione politica degli Amorrei non determina tuttavia cambiamenti culturali: essi assorbono in buona parte la cultura preesistente e adottano l’accadico come lingua; residui della loro lingua d’origine, un dialetto semitico occidentale vicino all’ebraico, al fenicio, all’ugaritico e all’aramaico, si preservano solo nell’onomastica e in alcune parti del dialetto di Mari.
Queste dinastie assumono presto forme di governo adatte alla realtà urbana e cercano di sottomettere i gruppi nomadi, che da parte loro resistono e spesso di ribellano. La tensione tra le tendenze centralizzanti dello Stato e quelle autonomiste dei nomadi danno origine ad una serie di compromessi e conflitti a cui si devono molti dei dati che possediamo su questi gruppi.
Le fonti di Mari in particolare forniscono preziose informazioni sul nomadismo orizzontale nella steppa siriana durante il II millennio a.C. e testimoniano l’importante ruolo svolto da questa parte della popolazione sia da un punto di vista politico che economico.
La città controlla un’ampia area della valle dell’Eufrate nella quale sono dislocati i villaggi dei pastori che durante l’inverno si spostano nella steppa. Si tratta dei Khanei, principalmente divisi in due gruppi, Sim’aliti (sim’al quelli della sinistra: nord) e Yaminiti (jamin quelli della destra: sud). I Sim’aliti occupano la regione del triangolo superiore del fiume Khabur, mentre gli Yaminiti sono stanziati principalmente sul medio Eufrate con Terqa e Tuttul come centri principali. Questi ultimi sono ulteriormente divisi in cinque tribù di cui le principali sono gli Amnanu e i Yakhruru. I clan dei Sim’aliti, più numerosi, sono riuniti in due raggruppamenti: Yabasu e Asharugayu. Un terzo gruppo meno documentato nelle fonti dell’epoca, dunque probabilmente anche meno legato ai centri urbani, sono i Sutei, attivi nelle steppe del deserto siriaco e del Djebel Bishri, un massiccio montuoso collocato tra Mari e l’oasi di Palmira. Essi sono noti nelle fonti come ladri e assassini e si trovano spesso in contrasto con le aree suburbane per il controllo delle risorse. Sembra tuttavia che la loro attività principale sia di scorta alle carovane che attraversano il deserto siriano.
La nostra conoscenza dell’organizzazione sociale di queste tribù è abbastanza dettagliata. Si tratta anzitutto di seminomadi, cioè di comunità tribali costituite da famiglie che risiedono in villaggi, dedite all’agricoltura, e altre specializzate nella pastorizia. Gli Yaminiti, ad esempio, sono suddivisi in cinque tribù, ognuna delle quali raggruppa dei clan formati da un certo numero di famiglie. Le tribù sono governate da sovrani eletti dagli Anziani del clan tra i membri delle famiglie più importanti. Ogni re beduino ha al proprio fianco uno o due capi o guide della parte transumante della popolazione (merkhum in accadico). I rapporti con la città sono mediati da un ufficiale, o sceicco (sugagum), che dirige i clan, fungendo da capo tanto delle comunità di pastori quanto dei piccoli villaggi e la cui elezione viene normalmente ratificata dal re di Mari. Questo funzionario è soprattutto coinvolto in questioni di carattere militare come responsabile del censimento e della leva. Gli accordi tra il governo centrale e i gruppi nomadi sono sanciti tramite gesti rituali, anche cruenti come l’uccisione di un asino.
Il rapporto tra le tribù nomadi e la città è ambiguo. Da un lato esso deve essere letto nei termini di una reciproca dipendenza: i membri delle comunità di villaggio costituiscono parte della manodopera che il palazzo di Mari utilizza per far coltivare i propri campi e per far pascolare le proprie greggi. I nomadi forniscono anche la lana necessaria alla realizzazione di tessuti e abiti. Essi vengono inoltre impiegati nell’esercito come soldati ricevendo come ricompensa dei campi dal palazzo. In cambio di questi servizi le comunità tribali ottengono protezione militare e vantaggi economici. Ma sono anche tenute ad allearsi militarmente con il re di Mari in caso di conflitto. Tuttavia questo sistema non è in alcun modo stabile: le tribù nomadi si ribellano con estrema facilità, alleandosi tra di loro oppure con i nemici di Mari.
D’altra parte i sovrani di questo periodo si preoccupano di enfatizzare la loro appartenenza tribale, spesso comune, affermata nella titolatura reale e in lunghe liste di antenati: i re di Uruk e Babilonia (così come quelli di Qatna, Karkemish, Zalmaqqum ed Eshnunna) sono Yaminiti, mentre i re di Mari e di Aleppo sono Sim’aliti. I re di Mari in particolare si attribuiscono il titolo di “re di Mari e del paese di Khana”, reclamando in questo modo una sovranità sull’area urbana così come sui gruppi tribali, Sim’aliti e Yaminiti. L’importanza attribuita all’appartenenza ad una dinastia regale si manifesta anche sul piano religioso nella pratica di alcuni rituali comuni, come, ad esempio, il culto degli antenati.
Oltre che nella titolatura, tracce dell’origine tribale si preservano nello stile di vita di alcuni di questi sovrani. In una famosa lettera ritrovata a Mari, un ufficiale esorta Zimri-Lim, appena asceso al trono, a non entrare in città a cavallo, secondo lo stile nomade, ma su un baldacchino trainato da asini, come si conviene agli usi cittadini. Sembra che lo stesso Zimri-Lim abbia preferito abitare in un accampamento sull’Eufrate piuttosto che nello splendido palazzo di Mari, da lui usato solo per scopi ufficiali e come luogo di conservazione dei famosi archivi.
>La maggior parte dei sovrani amorrei appartiene a dinastie che sono diventate sedentarie solo da qualche generazione e molti degli antagonismi politici dell’epoca si spiegano di fatto come rivalità tribali, mentre viceversa, le numerose alleanze si basano sulla solidarietà tra le tribù, che possono essere invocate a scopo politico. Le relazioni tra questi sovrani sono organizzate secondo un codice molto complesso che tiene conto dei rapporti di età, ma anche della potenza dei singoli re. I re si definiscono secondo rapporti di fratellanza oppure rapporti di sottomissione. I re che hanno lo stesso status si trattano vicendevolmente come “fratelli”. I sovrani meno potenti sono considerati “figli” dei primi, che sono loro “padri”. Un altro modo di definire il rapporto tra re potente e re di status secondario prevede di considerare il primo come “padrone” del secondo, che ne è il “servo”. La metafora adottata è, dunque, quella della casa e della struttura famigliare nel senso più ampio: secondo una concezione che appare per la prima volta nel III millennio a.C. a Ebla, i diversi re della scena internazionale sono detti appartenere ad una stessa grande famiglia e sono dunque uniti da legami di fratellanza o di figliolanza.
Si è tuttavia dimostrato (B. Lafont) che le appartenenze tribali possono anche essere rimesse in causa e cambiare a seguito di una decisione personale, evidenziando una certa “permeabilità” della società amorrea e la possibile dissociazione tra gruppo di parentela da una parte e comunità politica o sociale dall’altra. Questa estrema mobilità e complessità che unisce re, principi e capi nomadi nel Vicino Oriente costituisce uno degli aspetti più interessanti e caratteristici del periodo paleobabilonese.
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, Antichità, Il Vicino Oriente Antico, Storia