BOBBIO, Norberto
Nacque a Torino il 18 ottobre 1909 da Luigi, noto medico chirurgo e primario ospedaliero in città, e da Rosa Caviglia. La famiglia era di origine alessandrina.
L’intera sua formazione fu torinese. Al liceo D’Azeglio, tra il 1919 e il 1927, subì l’influenza di autorevoli insegnanti antifascisti, come Umberto Cosmo, Arturo Segre, Zino Zini, Augusto Monti (il maestro di Piero Gobetti), ma anche di compagni precocemente entrati nelle file della cospirazione come Leone Ginzburg, Massimo Mila, Gian Carlo Pajetta, Vittorio Foa, Franco Antonicelli. Fra il 1927 e il 1931 frequentò la facoltà di giurisprudenza, dove si laureò con Gioele Solari, discutendo una tesi su «Filosofia e dogmatica del diritto»; a questa laurea fece seguito nel 1933 una seconda in filosofia (con Annibale Pastore) su «La fenomenologia di Husserl».
In quegli anni fu iscritto al GUF (Gruppo universitario fascista) e non partecipò a iniziative di protesta contro gli atti intimidatori del regime, ma le sue frequentazioni di amici che invece si erano esposti come antifascisti e della casa editrice fondata nel 1933 da Giulio Einaudi ebbero come conseguenza un primo arresto il 15 maggio 1935, quando finirono in carcere tutto il gruppo degli amici del d’Azeglio e anche il direttore della Rivista di filosofia, Piero Martinetti. A differenza di altri ‘congiurati’, Bobbio fu trattenuto in carcere solo una settimana, ma l’ammonizione di cui fu fatto oggetto, e che era destinata a compromettere la carriera universitaria alla quale si stava avviando (nell’autunno 1935 ebbe il primo incarico di filosofia del diritto a Camerino), lo indusse a indirizzare al capo del governo Benito Mussolini quella lettera di discolpa e adesione al fascismo che in tarda età gli sarebbe stata rimproverata e sarebbe stata per lui motivo di amarezza e di 'vergogna' (Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari generali e riservati, sez. I, Confino, protocollo n. 710-11647).
Il suo ingresso nell’antifascismo attivo data dal 1939 a Siena, dove da gennaio fu chiamato a ricoprire la cattedra di filosofia del diritto lasciata libera da Felice Battaglia. A questa stagione risale la sua frequentazione di Aldo Capitini (da cui avrebbe tratto ispirazione per i suoi studi su pacifismo e non violenza e con il quale avrebbe partecipato nel 1961 alla prima marcia della pace ad Assisi) e Guido Calogero, da lui definito il più giovane dei suoi maestri (e a cui Bobbio dovette invece l'orientamento verso il ‘liberalsocialismo’, una formula peraltro coniata proprio da Capitini). Passato nel 1942 alla cattedra di filosofia del diritto dell’Università di Padova come successore di Giuseppe Capograssi, partecipò nell’ottobre di quell’anno a Treviso alla riunione di fondazione del Partito d’Azione veneto. In conseguenza della sua attività clandestina venne arrestato a Padova il 6 dicembre 1943 e tradotto prima in una caserma e poi nel carcere di Verona, proprio nei giorni in cui venivano fucilati i membri del Gran Consiglio che avevano congiurato contro Mussolini.
Scarcerato a fine febbraio, rientrò a Torino per partecipare come membro del Partito d’Azione alle attività del Comitato di liberazione nazionale nel settore della stampa clandestina, dando vita al giornale L’Ora dell’Azione, su cui apparve il suo primo articolo politico, Chiarimento, in cui, anticipando una tesi che avrebbe sempre connotato la sua posizione, metteva in guardia dagli opposti pericoli in cui abitualmente incorrevano gli intellettuali, il ‘politicantismo' e l’‘apoliticità’. Dopo la liberazione collaborò attivamente con Giustizia e libertà, quotidiano torinese del Partito d'Azione, diretto da Franco Venturi, iniziando la sua battaglia, che sarebbe durata una vita, per la democrazia come regime politico fondato sul primato delle istituzioni e sulla cultura delle regole. Questo impegno lo condusse alla sua prima e unica discesa (senza successo) nell’arena politica, come candidato per il Partito d’Azione alle elezioni per l’Assemblea costituente del 1946.
Non si comprendono né il retroterra politico e culturale di Bobbio né il suo progetto intellettuale se non lo s’inserisce nella tradizione gobettiana della ‘rivoluzione liberale’, che negli anni della Resistenza sarebbe confluita nel Partito d’Azione, crogiuolo della cultura politica laica della futura Repubblica. In questo retroterra ebbe le sue radici la battaglia per un’altra Italia, quell’‘Italia civile’ fustigatrice del malcostume nazionale, della corruzione, della litigiosità endemica, della grettezza provinciale, di cui la cultura azionista fu l’interprete più autentica.
Come è stato sostenuto dal suo più autorevole antagonista, Augusto Del Noce, con il suo magistero Bobbio avrebbe sviluppato, elevandolo alla dignità della teoria, quel che in Gobetti era rimasto solo intuizione o programma di ricerca, proponendo un coerente ‘profilo ideologico del Novecento’ (come è intitolata una sua importante opera, apparsa nel 1969). Sul fascismo Bobbio non avrebbe però condiviso l’interpretazione gobettiana come ‘autobiografia della nazione’, fornendone piuttosto una lettura in termini di ‘controrivoluzione’, di negazione della storia risorgimentale e postrisorgimentale in quanto governo antiparlamentare, antiliberale e antidemocratico. Contestando che il fascismo fosse andato al di là della riduzione a formule demagogiche di un «magma di idee» ereditate e avesse prodotto una cultura, Bobbio distinse tra la posizione di chi nel fascismo aveva visto un «inveramento del liberalismo» o la «sintesi di liberalismo e di socialismo» e chi interpretava in senso rivoluzionario il fascismo come «alternativa storica al bolscevismo» (in Il dubbio e la scelta, 1993, pp. 93 s.). Ma si trattava, a suo giudizio, di autointerpretazioni illusorie: più che sintesi il fascismo si era rivelato ‘antitesi’.
A tentare una sintesi sarebbe stato piuttosto il socialismo liberale di Carlo Rosselli e il liberalsocialismo di Guido Calogero. Sulla sintesi liberalsocialista Bobbio avrebbe comunque maturato crescente scetticismo: essa sarebbe apparsa una soluzione troppo costruita a tavolino, dotata di debole valore teorico, una sintesi insomma più facile a dirsi che a farsi. La coniugazione di nazionalismo e socialismo tentata dai fascismi europei lo avrebbe sempre indotto a essere diffidente nei confronti delle commistioni ideologiche (anche se pragmatica e non dogmatica, questa diffidenza conservava forse un’eco dell’idiosincrasia crociana verso gli ‘ircocervi’).
Negli anni della transizione (1943-46) fu il personalismo a costituire per il giovane filosofo torinese l’orizzonte filosofico unificante del programma azionista. Nella prolusione di Padova del 1946, dedicata a La persona e lo Stato, tanto la critica al totalitarismo quanto quella al liberalismo erano svolte a partire dalla concezione personalistica. Vi si delineava in positivo un progetto di ‘umanizzazione dello Stato’ che doveva passare attraverso la democrazia, come metodo per far coincidere la formazione della volontà generale con la volontà di tutti; attraverso il federalismo, come sistema di disarticolazione e riorganizzazione autonomistica dello Stato unitario; attraverso la coniugazione di liberalismo e socialismo, cioè perseguendo un’effettiva redistribuzione dei poteri sociali entro la cornice istituzionale democratica.
Nel dicembre 1945 intraprese un viaggio in Inghilterra, alla scoperta dei fondamenti di quella democrazia liberale che in Italia era stata soffocata sul nascere e del ruolo che in essa dovevano svolgere i partiti politici. Ai lavori dell’Assemblea costituente, che aveva alla base l’accordo dei partiti antifascisti, riconobbe un contenuto innovativo: se non si poteva parlare né di rivoluzione socialista in senso gramsciano né di rivoluzione liberale in senso gobettiano, esso creava le condizioni istituzionali per l’avanzata del processo di democratizzazione. Il compromesso storico, di cui si sarebbe parlato negli anni Settanta, era già insito nell’atto fondativo dell’ordine repubblicano. Tuttavia Bobbio, negli anni dell’egemonia democristiana, non mancò di denunciare i pericoli di una costituzione parzialmente inattuata.
L’impegno per affermare i valori dell’Italia civile coincise con l’impegno per la democrazia e per la costituzione ispirato a tre obiettivi: acuire la consapevolezza dei problemi e delle minacce incombenti su acquisizioni democratiche che non potevano essere considerate definitive; ricercare con ragionevolezza e pragmatismo le soluzioni tecniche di quei problemi, senza lasciarsi abbagliare da promesse massimalistiche (e questo significava la scelta di campo per il riformismo); svolgere infine opera di dialogo per conseguire e mantenere il reciproco riconoscimento delle parti politiche, presupposto dell’integrazione sociale e della stabilizzazione delle istituzioni democratiche.
La battaglia politica per la liberazione dal fascismo si identificò nel suo itinerario con quella per la liberazione dall’idealismo. Gli anni del dopoguerra furono anni di grande fervore scientifico. Il Centro di studi metodologici, fondato con Ludovico Geymonat e Nicola Abbagnano, offrì un forum per la diffusione di un nuovo razionalismo (che è insieme neoilluminismo e neoempirismo) e la promozione di ricerche, e a Bobbio toccò, nel corso degli anni Cinquanta, dare un contributo sul versante della teoria e metateoria giuridica e su quello della scienza politica. L’uscita della cultura dalle secche dell’autarchia nazionale corrispose per lui all’apertura all’Occidente, la culla della ‘società aperta’. Fin dalla sua fondazione nel 1950 aderì alla Société européenne de culture fondata da Umberto Campagnolo – che aveva conosciuto negli anni di Padova come segretario del Movimento federalista – e sulla cui rivista Comprendre avviò quella politica del dialogo orientata al superamento del clima della guerra fredda, nella convinzione che una nuova coscienza europea avrebbe dovuto e potuto nascere prima di tutto sul piano della cultura. Parallelamente condusse la sua battaglia per la politica della cultura sulle riviste Occidente, Nuovi Argomenti, il Ponte (in cui sotto la direzione di Piero Calamandrei si raccolse lo sconfitto ma non disorientato gruppo di intellettuali azionisti che si accollò il compito di proseguire la «resistenza in prosa»: P. Calamandrei, La desistenza, in Il Ponte, 1946, n. 10, pp. 837 s.9) e infine sulla Rivista di filosofia, di cui Bobbio assunse nel 1952, con Nicola Abbagnano, la co-direzione.
Sul versante politico il catalizzatore dell’allontanamento dall’idealismo e dal personalismo fu l’opera di Carlo Cattaneo, a cui Bobbio dedicò nel 1945 l'importante saggio Stati Uniti d’Italia, palinsesto di ulteriori ricerche, concepito come introduzione a un’antologia di scritti politici dell’intellettuale milanese. Il liberalismo italiano era stato segnato dalla ragion di Stato, e incarnato da un politico come Cavour. Il democratismo italiano era stato invece retorico, come emerge dall’opera di Mazzini, un autore a cui Bobbio non si fa spesso riferimento nei suoi scritti. La preferenza andava a uno sconfitto, promotore di una terza via, tra quella realistica di Cavour e quella idealistica di Mazzini: la via del federalismo pragmatico e concreto di Cattaneo. Contro la tradizione spiritualistica nazionale (quella che Bobbio avrebbe definito la vera e propria ‘ideologia italiana’), fu la filosofia di Cattaneo, non positivista ma scienziato positivo, non razionalista ma uomo di ragione, «illuminista rinato nel secolo dello storicismo, ma illuminista sotto certi aspetti genuino» (Una filosofia militante, 1971, p. 5), ad accompagnarlo verso l’approdo del neoilluminismo. La sua ‘filosofia positiva’, in cui la scienza non è mai disgiunta dalla tecnica e il pensare dal fare, lo indirizzava verso il neoempirismo.
A correggere l’eredità dell’idealismo, in cui si rifletteva la debolezza del pensiero democratico italiano, intervenne anche la lezione di Gaetano Salvemini. Fu da Salvemini che Bobbio apprese la lezione sul primato delle istituzioni democratiche (diritti di libertà, diritti politici e forme rappresentative) rispetto agli ideali e insieme il rifiuto di una concezione puramente formale e strumentale della democrazia. Salveminiana è anche la convinzione che esista un’affinità elettiva tra la democrazia come metodo o insieme di norme procedurali e le regole cui deve obbedire la ricerca scientifica. Questo nuovo razionalismo, maturato su un terreno storicistico, non si sviluppa in opposizione ma in sinergia con quelle correnti che rivendicavano «il valore filosofico della scienza contro l’antiscientismo degli idealisti» (La mia Italia, 2000, p. 100). Nel quadro di tale razionalismo, Bobbio poneva attenzione, come Geymonat, e come Abbagnano, a non disgiungere la ricerca teoretica dall’indagine storica, per non correre il rischio di ritrarsi nella ‘torre d’avorio’ di una sterile speculazione.
La prima stagione della maturità di Bobbio si colloca nel clima della guerra fredda, quando ormai si era consumato il fallimento del progetto politico del Partito d’Azione. I saggi di Politica e cultura (1955), l’opera che diede all’autore rinomanza oltre le cerchie degli specialisti perché in essa si confrontava con il Partito comunista sul tema della libertà della cultura, anticipano già i grandi temi della sua riflessione politica. Discutendo con gli intellettuali del partito, e con lo stesso Togliatti, Bobbio rivendicava l’autonomia della cultura dai partiti, contrapponendo la «politica della cultura» alla «politica culturale», e prendeva posizione per una concezione liberale delle istituzioni democratiche contro la presunta democrazia sostanziale propagandata dai comunisti. Pur criticando l’incomprensione crociana del nesso sussistente tra dottrina giusnaturalistica dei diritti e tecnica dei limiti giuridici del potere, Bobbio mostrava di non volersi discostare dalla tesi sostenuta da Croce (in una polemica del 1931 con Einaudi) sulla divaricazione di liberalismo e liberismo, negando che tra Stato borghese e reggimento liberale, come tra Stato proletario e dittatura, sussistesse un rapporto necessario, per cui, come era accaduto che il capitalismo facesse ricorso a regimi autoritari e violenti per risolvere le sue crisi, così non si poteva escludere che il regime collettivista si avviasse sulla via delle riforme democratiche. Di questo orientamento è indicatore anche il giudizio sul mondo comunista formulato da Bobbio dopo il viaggio in Cina compiuto nel 1955: un regime che conculcava le libertà, ma pur sempre vettore di progresso civile.
Anche qui, all’azionismo gobettiano è riconducibile quella condiscendenza a sinistra che a Bobbio è stata spesso rimproverata. Quella tradizione aveva infatti maturato un atteggiamento critico nei riguardi del socialismo italiano, responsabile del processo di burocratizzazione e di molte cadute nel tatticismo, e un’apertura di credito nei confronti dei comunisti, cui andava il merito d’aver animato con nuove e antiche virtù morali, lo spirito di disciplina, il coraggio, l’intransigenza, le lotte del movimento operaio. È su questo giudizio morale, che accomunava Gobetti a Gramsci, non su un’analisi circostanziata del funzionamento della dittatura sovietica e del suo carattere totalitario, che si fondava in questa fase, soprattutto dopo il rapporto di Nikita Chruščëv al XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), la sua convinzione che la dittatura sovietica potesse conoscere un graduale processo evolutivo interno verso lo Stato di diritto liberal-democratico.
Nel 1948 Bobbio era stato chiamato dall´Università di Torino alla cattedra di filosofia del diritto nella facoltà di giurisprudenza che era stata del suo maestro Solari: l'avrebbe tenuta (nonostante le sollecitazioni che nel 1957 gli vennero a ricoprire la cattedra di filosofia del diritto di Roma dopo il pensionamento di Giorgio Del Vecchio) fino all'anno accademico 1971-72 (insegnando per incarico, dal 1962, anche scienza politica), per poi passare nel 1972-73 a quella di filosofia politica presso la facoltà di scienze politiche – di cui, con Luigi Firpo e Alessandro Passerin d’Entrèves, fu fra i fondatori – fino al collocamento a riposo, avvenuto nel 1979.
In questo trentennio Bobbio fece dei tre temi più trascurati dalla cultura politica postrisorgimentale e da Benedetto Croce – pace, diritti, democrazia – l’oggetto principale della sua opera, coniugando una rigorosa concezione proceduralistica della democrazia a una costante riflessione sui valori e gli ideali della vita associata. Ai classici del pensiero politico moderno su cui più spesso ritornò – Hobbes, Hegel, Marx, Kelsen (a ciascuno di essi dedicò una raccolta di saggi) – affiancò lo studio dei maestri del liberalismo, Locke e Kant, e quello dei massimi esponenti del realismo politico contemporaneo, Pareto e Weber. Ma il primo e più importante dei suoi autori restò sicuramente Thomas Hobbes, alla cui fortuna novecentesca contribuì con un’esemplare edizione del De cive (1948): anche l’incontro con Kelsen, cui approdò sulla via di studi tecnici di teoria del diritto, fu mediato da Hobbes. Attraverso questi classici Bobbio intraprese un percorso entro due grandi cantieri intellettuali del secolo: la revisione critica del positivismo giuridico e la rinascita del contrattualismo come paradigma di legittimazione della democrazia costituzionale.
In questi anni diede contributi specialistici alla teoria generale del diritto e della politica, diventando in Italia il maggiore studioso di Hobbes e di Kelsen: per sintetizzare in una formula la cifra di questi studi, si potrebbe dire che Bobbio è stato il più kelseniano degli interpreti di Hobbes e il più hobbesiano degli interpreti di Kelsen; ma a partire da questo paradigma interpretativo ha rivisitato l’intera storia della filosofia politica e definito una mappa straordinariamente nitida dei suoi problemi. Si è confrontato con i protagonisti del dibattito intellettuale italiano del Novecento, Croce, Gramsci, Salvemini, accostandosi alla loro opera con distacco critico e sforzo di comprensione; e con i classici di quella scienza politica elitistica che nell’opera di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto ha proseguito la tradizione inaugurata da Machiavelli. In particolare, il sofferto confronto con l’opera del primo dei suoi maestri, Croce, si sarebbe protratto fino agli ultimi anni. Per quanto le differenze fossero molte e significative sia sul piano filosofico (lo storicismo come concezione del mondo) sia su quello giuridico (nel sistema di Croce non vi era posto, o non vi era un posto adeguato, per il diritto) sia su quello ideologico (le opposte valutazioni su conservatorismo e azionismo), Bobbio si è sempre riconosciuto debitore di Croce per due insegnamenti fondamentali: «la maniera di porre il rapporto tra impegno pratico e impegno intellettuale», quindi tra politica e cultura, e la concezione metapolitica del liberalismo, che in lui era «condizione necessaria se non sufficiente di ogni governo democratico»(Benedetto Croce in Dal fascismo alla democrazia, 1997, p. 219).
Il metodo analitico di Bobbio è eminentemente metodo giuridico: ma di un metodo giuridico che si è incontrato con la filosofia del linguaggio neoempiristica (senza dimenticare la lezione crociana della dialettica dei distinti). Da filosofo del diritto, si è concentrato sulla grande controversia tra giusnaturalismo e positivismo giuridico, prendendo posizione per quest’ultimo come modo d’avvicinarsi allo studio del diritto e come teoria del diritto, ma non come ideologia della giustizia (imperativismo); da studioso di politica si è aperto alle scienze sociali, con lo studio dell’opera di Vilfredo Pareto, e alla scienza politica e delle relazioni internazionali, in particolare con Il problema della guerra e le vie della pace (1979). In questo volume è contenuto anche il celebre saggio Sul fondamento dei diritti dell’uomo (1965), nel quale Bobbio argomentava che, rispetto ai diritti umani, più importante del problema della loro giustificazione è quello della loro realizzazione, cioè delle politiche atte a espanderli e renderli effettivi. Per quanto tecniche, tutte queste opere ruotano intorno ai due problemi fondamentali del mondo contemporaneo: l’ordinamento democratico all’interno dello Stato e l’ordinamento pacifico nei rapporti fra gli Stati: due problemi che in realtà sono per lui «alla radice lo stesso problema: il problema della eliminazione, o per lo meno della massima limitazione possibile, della violenza come mezzo per risolvere i conflitti fra individui e fra gruppi» (Il problema della guerra e le vie della pace, cit., p. 7).
Dopo due decenni interamente dedicati agli studi, la vita politica tornò a coinvolgere Bobbio nella seconda metà degli anni Sessanta: con l’adesione (1966) al nuovo Partito socialista unificato – da cui la proposta del vicepresidente del Consiglio Pietro Nenni di una candidatura a un seggio senatoriale, che rifiutò – e soprattutto con la tempesta del ’68 studentesco (di cui fece esperienza in due epicentri, Torino, con la prima occupazione universitaria nel ‘67, e Trento, dove con Beniamino Andreatta e Marcello Boldrini fu incaricato di gestire la trasformazione in facoltà dell’Istituto superiore di scienze sociali. In entrambi i casi, nei confronti del movimento manifestò un’apertura non consueta per la classe accademica del tempo). Da queste esperienze – il fallimento della stagione del riformismo e le ricadute violente delle velleità rivoluzionarie, che inaugurarono la stagione delle stragi e poi del terrorismo in Italia – nacque il libro Quale socialismo? (1976), intorno al quale si sviluppò un intenso dibattito. Vi si sostenevano tesi che agli intellettuali comunisti risultavano indigeribili: l’aver sviluppato Marx una «teoria realistica del potere statale» ma non una teoria altrettanto realistica delle istituzioni democratiche; l’essere la democrazia rappresentativa l’unica forma di democrazia attuabile in una società moderna; l’essere una politica socialdemocratica, dunque riformista e non rivoluzionaria, l’unica via praticabile per la sinistra in una società capitalistica che, a fronte del declino dei paesi socialisti, si mostrava più viva e più forte che mai. La ‘terza via’, ovvero la strada intermedia tra il comunismo e la socialdemocrazia, delineata dal Partito comunista italiano nella stagione dell’eurocomunismo, gli appariva, come ebbe modo di argomentare in un vivace dibattito pubblicistico, una prospettiva illusoria. L’opzione per il riformismo aveva poi il suo corollario nel rifiuto del massimalismo in materia di riforme costituzionali: il suo scetticismo sull’illusione di una grande riforma costituzionale andava qui a colpire il nuovo orientamento del Partito socialista craxiano, che nel frattempo aveva voltato le spalle alla linea dell’alternativa di sinistra.
L’Italia civile era per Bobbio l’Italia consapevole della necessità di profonde ma graduali riforme: le sue patologie non erano rimediabili con soluzioni massimaliste e rivoluzionarie. Nell’immediato dopoguerra gli era stato subito chiaro che alla guerra di liberazione e alla guerra civile non si poteva porre fine con una guerra rivoluzionaria. In una lettera a Paolo Spriano del 24 luglio 1964, nella quale definiva il PCI «il più grande e il più inutile partito comunista del mondo» (occidentale), a fronte di una storiografia che continuava a interrogarsi se in questa o in quella congiuntura della storia del paese una rivoluzione fosse stata possibile, argomentava che la questione prioritaria da porsi era se una rivoluzione fosse necessaria, e rispondeva: «Un grosso partito rivoluzionario è un lusso che il movimento operaio italiano ha pagato con continue sconfitte nel 22 come nel 48» (Torino, Centro studi Pietro Gobetti, Archivio Norberto Bobbio).
La sconfitta del progetto di razionalizzazione riformistica della società italiana rappresentò per Bobbio la sconfitta dell’intera area socialista. In una lettera ad Antonio Giolitti del 4 luglio 1968, all’indomani della sconfitta elettorale del PSI e della fine di un ciclo politico di riforme mancate, scrisse: «Il nostro sistema democratico si sta sgretolando. Non mi stupisce che questo sgretolamento cominci proprio dal partito che ne avrebbe dovuto costituire insieme la garanzia e la forza per un continuo rinnovamento» (ibid.). E in una lettera a Nenni del 9 giugno 1973 – un suo contributo era apparso nel volume in omaggio al leader socialista – scriveva: «Ritengo che la grande occasione storica per la nostra generazione siano stati gli anni del centro-sinistra. Bisogna riconoscerlo, è stata un’occasione perduta» (ibid.).
Al PSI, cui si sarebbe sentito idealmente vicino fino alla catastrofe della prima Repubblica, avrebbe però rimproverato negli anni Ottanta l’uso spregiudicato del potere e la propensione verso una concezione plebiscitaria della democrazia, prendendo posizione contro l’elezione diretta del segretario del partito al congresso di Palermo (1981) e contro la sua elezione per acclamazione al congresso di Verona del 1984. Soprattutto nei suoi carteggi di quegli anni emerge la sua insofferenza per lo stile politico di quello che era divenuto il ‘partito degli attaccabrighe’: un partito autoreferenziale entro un sistema ‘partitocentrico’, che aveva fatto sua la massima «Tutto per il partito, niente al di fuori per il partito, niente contro il partito» (lettera a Bruno Pellegrino dell'11 novembre 1982, ibid.).
Buona parte degli interventi giornalistici di questa stagione – dal 1976 aveva iniziato la collaborazione a La Stampa – ruotò intorno al tema delle degenerazioni della partitocrazia ed era volta a fustigare i partiti e ad ammaestrare una classe politica poco dotata di quelle doti di lungimiranza e senso di responsabilità che Max Weber richiedeva ai politici di professione: inviti alla ragionevolezza, alla moderazione, a prendere sul serio i precetti della moralità pubblica, che troppo spesso però avrebbero sortito l’effetto delle einaudiane ‘prediche inutili’.
Dalla consapevolezza delle promesse mancate della democrazia presero forma i saggi del volume Il futuro della democrazia (1984), un altro testo cui arrise notevole (e questa volta anche internazionale) fortuna. La riflessione in esso svolta sulle «promesse non mantenute della democrazia» (pp. 3-31) ha una portata generale, ma contiene in pari tempo una severa denuncia delle patologie del sistema politico italiano (il «potere invisibile», pp. 85-113). Se nei primi anni della Repubblica la preoccupazione primaria era stata per la costituzione inattuata, soprattutto per la difficoltà pratica del passaggio dalla democrazia liberale a quella sociale, ora era la costituzione formale svuotata (o riempita) dal gioco strategico degli interessi organizzati della costituzione materiale a destare in Bobbio vero e proprio allarme. Con L’età dei diritti (1990) e soprattutto con il suo maggiore successo editoriale, il saggio Destra e sinistra (1994), che in pochi mesi vendette 500.000 copie, si può dire che la sua opera si estenda per tre quarti del secolo, offrendo uno specchio intellettuale particolarmente rappresentativo del Novecento politico. La fortuna di quest’ultimo saggio, senza dubbio legata alla crisi politica e morale che il paese stava attraversando dopo le inchieste giudiziarie conosciute come ‘Mani pulite’, va individuata anche nel suo essere un lucido e accorato congedo dal ‘secolo socialdemocratico’.
Il 18 luglio 1984 Bobbio venne nominato senatore a vita «per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario» dal presidente della Repubblica Sandro Pertini. In tale ruolo si iscrisse prima come indipendente nel gruppo socialista, poi dal 1991 al gruppo misto e infine dal 1996 al gruppo parlamentare del Partito democratico della sinistra. Nel 1992, quando il Parlamento fu chiamato a votare per il successore di Francesco Cossiga alla presidenza della Repubblica, il suo nome fu avanzato da più parti, incontrando però la sua indisponibilità.
Eletto senatore, avrebbe potuto ripetere con Calamandrei di sentirsi appartenente a quella piccola schiera di «uomini ingenui che si trovano coinvolti senza vocazione nella politica e che non riescono a staccarsi dalla vecchia utopia della amica veritas» (Calamandrei scrittore e politico, in Maestri e compagni, 1984, p. 132). Sotto l’urto del degrado della cultura democratica, l’ultima stagione del suo pensiero fu dominata dalla questione della duplice crisi della sinistra occidentale e del sistema politico italiano. Per un verso, al finire del secolo socialdemocratico, la sinistra gli appariva incapace di creare, davanti all’enormità dei compiti posti dalla società globale, consenso politico e programmi efficaci: la sinistra era egualitaria, mentre ovunque la diseguaglianza aumentava; la sinistra era internazionalistica, mentre ovunque tornavano a esplodere i conflitti etnici; la sinistra era laica, mentre ovunque le chiese riconquistavano terreno. I dibattiti su ‘terza via’ e ‘alternativa di sinistra’ apparivano ormai, nel quadro di una globalizzazione di segno neoliberista, del tutto remoti; anche se, come scriveva il 19 maggio 1991 a Paolo Sylos Labini, le due tesi generali di Marx risultavano confermate dalla storia: «a) il primato dell’economia sulla politica e sull’ideologia b) il processo di mercificazione universale prodotto dall’universalizzazione del mercato» (Torino, Centro studi Pietro Gobetti, Archivio Norberto Bobbio).
Per altro verso, c'era il crollo del sistema dei partiti del vecchio ‘arco costituzionale’. Se la ‘questione morale’ aveva da ultimo precluso al PSI di raccogliere l’eredità del Partito d’Azione, l’attaccamento all’ortodossia (sia pure gramsciana e non leninista) aveva reso irrisolvibile la ‘questione politica’ (il blocco dell’alternanza) posta dal PCI al sistema politico italiano. La conversione dei comunisti al liberalismo giungeva fuori tempo massimo – la ‘rottura della diga’ avveniva solo dopo il 1989, quando ormai il ritardo era irrecuperabile e la frana del sistema politico italiano inevitabile. Bobbio si trovava così a dover rimproverare gli eredi del PCI per essersi spinti troppo oltre nell’issare la bandiera della ‘rivoluzione liberale’ e nell’ammainare quella della ‘giustizia sociale’. Venuta meno un’anomalia storica della democrazia italiana, la mancanza di alternanza, ne erano poi subentrate altre: il partito personale di massa, con la conseguente degenerazione in senso patrimoniale e plebiscitario della sfera pubblica; la politica di quello stesso partito che, proclamandosi rappresentante dei moderati, agiva da soggetto eversivo nei confronti delle istituzioni; il leader di quella formazione che con il suo ‘conflitto d’interessi’ affossava il principio-base della costituzione materiale di una società liberale, cioè la separazione tra potere economico, potere politico e potere d’influenzare l’orientamento dell’opinione pubblica.
La biografia di Bobbio conobbe infine la sconfitta di quella democrazia riformista e moderata, fondata sul patto di non aggressione tra le forze politiche, agli antipodi del populismo, per cui si era battuto per tutta la vita. Negli anni Novanta la democrazia sembrò infatti regredire fino a mettere in discussione, almeno sul piano simbolico, anche questo patto di non aggressione. Alla cultura del dialogo fondato sul riconoscimento vide subentrare una cultura dell’invettiva e della falsificazione (anche del passato, evidente nell’astiosa polemica anticomunista). Il bilancio degli ultimi anni fu pertanto sconsolato. All’acuta percezione della crisi della democrazia e della sinistra si accompagnò l’amaro disincanto per l’impotenza dell’intellettuale. Anche il mutare del clima internazionale, a onta dell’ottimismo, da lui non condiviso, generato dalla fine della guerra fredda, lo induceva a ritenere che stava ormai prevalendo il disorientamento. E le polemiche intorno al suo ricorso al concetto di ‘guerra giusta’ in relazione alla prima guerra del Golfo (1991) non fecero che confermarlo. Ragionando delle due grandi utopie della vecchia Europa, il cosmopolitismo e il comunismo, si sarebbe comunque conclusa la sua parabola di interprete della storia.
Morì a Torino il 9 gennaio 2004. La salma venne tumulata, con una cerimonia civile strettamente privata nel cimitero di Rivalta Bormida, accanto a quella della moglie, Valeria Cova (con cui era sposato dal 1943 e da cui aveva avuto tre figli), deceduta nel 2001.
A riconoscimento di un'intera vita lucidamente dedicata alle scienze del diritto, della politica, della filosofia e della società, Bobbio ricevette lauree honoris causa da molti atenei, tra i quali quelli di Parigi (Nanterre), Buenos Aires, Madrid (in tre diverse università), Bologna, Sassari, Camerino e vinse il Premio Balzan nel 1994, il Premio Agnelli nel 1995 e ancora nel 2000 il premio della città di Stoccarda intitolato a Hegel. Fu socio dell’Accademia delle Scienze di Torino, dell'Accademia dei Lincei e della British Academy.
L’indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e giuridica, Torino 1934; Scienza e tecnica del diritto, ibid. 1934; L’analogia nella logica del diritto, ibid. 1938; La consuetudine come fatto normativo, Padova 1942; La filosofia del decadentismo, Torino 1944; Introduzione a C. Cattaneo, Stati Uniti d’Italia, ibid. 1945; Introduzione a T. Hobbes, De cive, ibid. 1948; Teoria della scienza giuridica, ibid. 1950; Politica e cultura, ibid. 1955 (ibid. 2005); Studi sulla teoria generale del diritto, ibid. 1955; Teoria della norma giuridica, ibid. 1958; Introduzione alla Costituzione. Testo di educazione civica per le scuole medie superiori (in collaborazione con Franco Pierandrei), Bari 1959; Teoria dell’ordinamento giuridico, ibid. 1960; Il positivismo giuridico, ibid. 1961; Italia civile. Ritratti e testimonianze, Manduria 1964; Da Hobbes a Marx. Saggi di storia della filosofia, Napoli 1965; Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano 1965; Profilo ideologico del Novecento, ibid. 1969; Saggi sulla scienza politica in Italia, Bari 1969; Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Torino 1971; Società e Stato da Hobbes a Marx, ibid. 1973; Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, ibid. 1976; La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, ibid. 1976; Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Milano 1976; Trent’anni di storia della cultura a Torino: 1920-1950, Torino 1977; Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna 1979; Il modello giusnaturalistico, in N. Bobbio - M. Bovero, Società e Stato nella filosofia politica moderna. Modello giusnaturalistico e modello hegelo-marxiano, Milano 1979; Studi hegeliani. Diritto, società civile, stato, Torino 1981; Le ideologie e il potere in crisi. Pluralismo, democrazia, socialismo, comunismo terza via e terza forza, Firenze 1981; Il futuro della democrazia (1984), Torino 1991; Maestri e compagni, Firenze 1984; Stato, governo e società. Frammenti di un dizionario politico, Torino 1985; Liberalismo e democrazia, Milano 1985; Italia fedele: il mondo di Gobetti, Firenze 1986; Thomas Hobbes, Torino 1989; Il Terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra, ibid. 1989; Saggi su Gramsci, Milano 1990; L’utopia capovolta, Torino 1990; Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Venezia 1991; Diritto e potere. Saggi su Kelsen, Napoli 1992; Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, Roma 1993; Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, ibid. 1994 (ibid. 2004); Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano 1994; Tradizione ed eredità del liberalsocialismo, in I dilemmi del liberalsocialismo, a cura di M. Bovero -V. Mura - F. Sbarberi, Roma 1994; Progresso scientifico e progresso morale, Torino 1995; Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana, con una nota storica di T. Greco, Roma 1996; Autobiografia, a cura di A. Papuzzi, Roma-Bari 1997; Dal fascismo alla democrazia. I regimi, le ideologie, le figure e le culture politiche, a cura di M. Bovero, Milano 1997; Né con Marx né contro Marx, a cura di C. Violi, Roma 1997; Verso la Seconda Repubblica, Torino 1997; La mia Italia, Firenze 2000.
Carteggi, dialoghi, sillogi postume: Carteggio inedito Bobbio - Arangio-Ruiz, in Nuova Antologia, CXVI (1981), pp. 117-38; Dialogo sulle istituzioni (carteggio tra Bobbio e P. Ingrao), in MicroMega, 1986, n. 1, pp. 63-88; Un carteggio tra Norberto Bobbio e Perry Anderson, in Teoria politica, V (1989), 2-3, pp. 293-308; Dialogo sul male assoluto (carteggio tra Bobbio e A. Del Noce), in MicroMega, 1990, n. 1, pp. 231-237; N. Bobbio - A. Del Noce, Centrismo: vocazione o condanna?, a cura di L. Cedroni, Milano 1995; N. Bobbio - R. De Felice - G.E. Rusconi, Italiani, amici nemici, Milano 1996; Der Briefwechsel Schmitt-Bobbio, in P. Tommissen, In Sachen Carl Schmitt, Wien-Leipzig 1997, pp. 113-155; Dialogo intorno alla Repubblica, a cura di M. Viroli, Roma-Bari 2000; La vita degli studi. Carteggio Gioele Solari - Norberto Bobbio 1931-1952, a cura di A. D’Orsi, Milano 2000; Norberto Bobbio. Il dubbio e la ragione, a cura di M. Assalto, A. Papuzzi, A. Sinigaglia, Torino 2004; Cinquant’anni e non bastano. Scritti di Norberto Bobbio sulla rivista “Il Ponte” 1946-1997, a cura di P. Polito, Firenze 2005; Compromesso e alternanza nel sistema politico italiano. Saggi su «Mondo Operaio», 1975-1989, Roma 2006; N. Bobbio - G. Tamburrano, Carteggio su marxismo, liberalismo, socialismo, Roma 2007; Contro i nuovi dispotismi. Scritti sul berlusconismo, premessa di E. Marzo, postfazione di F. Sbarberi, Bari 2008; N. Bobbio - E. Garin, “Della stessa leva”. Lettere (1942-1999), a cura di T. Provvidera - O. Trabucco, Torino 2011; A. Capitini - N. Bobbio, Lettere 1937-1968, a cura di P. Polito, Roma 2012.
Bibliografia degli scritti di N. B. 1934-1993, a cura di C. Violi, Roma-Bari 1995; sito web allestito dal Centro Studi Piero Gobetti di Torino (www.erasmo.it/bobbio). Ampie raccolte degli scritti: Contributi ad un dizionario giuridico, a cura di R. Guastini, Torino 1994; Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Torino 1999; Elementi di politica, a cura di P. Polito, Milano 1998; Etica e politica. Scritti di impegno civile, a cura di M. Revelli, Milano 2009; La teoria generale del diritto. Problemi e tendenze attuali. Studi dedicati a N. B., a cura di U. Scarpelli, Milano 1983; Per una teoria generale della politica. Scritti dedicati a N. B., a cura di L. Bonanate - M. Bovero, Firenze 1986; P. Anderson, The affinities of N. B., in New Left Review, 1988, n. 170, pp. 3-36 (trad. it. in Al fuoco dell’impegno, Milano 1995, pp. 115-162); E. Lanfranchi, Un filosofo militante. Politica e cultura nel pensiero di N. B., Torino 1989; P. Borsellino, N. B. metateorico del diritto, Milano 1991; F. Sbarberi, L’utopia della libertà eguale. Il liberalismo sociale da Rosselli a B., Torino 1999; W. v. Collas, N. B. und das Erbe Benedetto Croces. Politik und Kultur - Liberalismus - Demokratie, Neuwied 2000; Diritto e democrazia nella filosofia di N. B., a cura di L. Ferrajoli-P. Di Lucia, Torino 1999; T. Greco, N. B. Un itinerario intellettuale tra filosofia e politica, Roma 2000; P. Costa, Una filosofia militante? Rileggendo «Politica e cultura» di N. B., in Iride, 2005, n. 46, pp. 543-553; R. Dahrendorf, Erasmiani. Gli intellettuali alla prova del totalitarismo, trad. it. a cura di M. Sampaolo, Roma-Bari 2007; Omaggio a N. B. (1909-2004). Metodo, linguaggio, Scienza del diritto, a cura di A. Punzi, Milano 2007; P.P. Portinaro, Introduzione a B., Roma-Bari 2008; D. Zolo, L’alito della libertà. Su B., Milano 2008; B. e il suo mondo. Storie di impegno e di amicizia nel ’900, a cura di M. Revelli - P. Agosti, Torino 2009; G. De Angelis, B. era nostro padre. Viaggio ideale nel mondo dell’Italia civile, Città di Castello 2011; F. Sbarberi, Quel che resta di Marx. La riflessione di B. durante e dopo la Resistenza, in Laboratoire italien, 2012, n.12, pp. 185-202; G. Scirocco, L’intellettuale nel labirinto. N. B. e la “guerra giusta”, Milano 2012; B. Piatti Morganti, Dialoghi interrotti. Vita e destino degli intellettuali nel pensiero di N. B., Fano 2012.