Norme in tema di previdenza nel «collegato lavoro»
La l. 4.11.2010, n. 183, meglio nota come «collegato lavoro», pur non assumendo la previdenza come oggetto principale di intervento, contiene numerose norme in materia, alcune delle quali direttamente operative, altre aventi ad oggetto deleghe legislative già istituite da precedenti norme di legge, ma sinora non attuate. Nel presente contributo si illustrano le non univoche modalità con le quali detti interventi, unitamente a quelli operati attraverso i decreti delegati emanati nel 2011, si inseriscono nel complesso, proteiforme panorama normativo dell’attuale ordinamento della previdenza sociale.
Il 5.8.2008 la Camera dei deputati stralciava dal disegno di legge sulla manovra di finanza pubblica per il quinquennio 2009/2013 alcune norme in materia di lavoro e previdenza, che avrebbero dovuto essere oggetto di un provvedimento separato, ancorché «collegato» alla manovra stessa. Ma l’iter di approvazione è risultato ben più lungo (e sofferto) del previsto, tanto che il «collegato lavoro» ha visto la luce solo con la l. 4.11.2010, n. 183, e con un testo nel quale i 9 originari articoli si sono moltiplicati, sino a raggiungere quota 501. Il provvedimento, sin da prima del suo definitivo varo, ha suscitato grande attenzione (e non poche critiche) da parte di molti commentatori, che però si sono soprattutto concentrati sulle norme (in particolare gli artt. da 30 a 32) dirette ad incidere sui meccanismi di prevenzione e composizione stragiudiziale delle controversie e sui poteri dei giudici del lavoro e, dunque, essenzialmente sui profili del contenzioso, nonché a definire nuove regole in materia di impugnazione dei licenziamenti e di contratti a termine. Ma il «collegato» contiene molto di più, comprese norme che interessano la materia previdenziale, al cui esame è specificamente dedicata la presente analisi. Si tratta, comunque, di interventi normativi che si caratterizzano per una disorganicità tale da impedire la loro ricostruzione in un quadro unitario e da consigliare di procedere all’analisi per singole aree tematiche: modulazione dell’età pensionabile; tutele per la sospensione del rapporto di lavoro; danni alla salute, oneri per connesse prestazioni e risarcimenti; ammortizzatori sociali; regimi previdenziali speciali; discipline della contribuzione, vigilanza e contenzioso; organizzazione degli enti, assistenza sociale. I profili del contenzioso previdenziale, invece, sono stati del tutto trascurati, tanto che, considerato l’obiettivo di deflazionamento del contenzioso giudiziario (del quale parte considerevole è proprio quella che interessa le controversie previdenziali) che il «collegato» si è dichiaratamente proposto, detta carenza è stata immediatamente segnalata dai primi commentatori come un grave difetto del provvedimento2. Il legislatore, però, ha ben presto «recuperato», prevedendo, con l’art. 38, co. 1, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. nella l. 15.7.2011, n. 111, un ampliamento e un irrigidimento delle condizioni di procedibilità dei ricorsi, palesemente a fini deflattivi delle controversie, specie in materia di invalidità3. Tale disorganicità degli interventi «previdenziali» presenti nella legge n. 183/2010 non impedisce, tuttavia, di rintracciare in essa due caratteristiche che accomunano la maggior parte degli interventi. La prima di tali caratteristiche è il coinvolgimento nella medesima prospettiva del contenimento della spesa e, più in generale, degli oneri connessi alla gestione della previdenza: dalla «stretta» sui requisiti d’accesso alle prestazioni, alla predisposizione di maggiori controlli, sino alla ricerca di assetti organizzativi più efficienti. Si tratta di una prospettiva che, peraltro, trascende il «collegato», per influenzare anche gli interventi legislativi immediatamente successivi ed anche quelli che, a rigore, per la materia che coinvolgono, avrebbero dovuto (verosimilmente) essere caratterizzati dal favor per i soggetti protetti. È quanto è dato rinvenire, soprattutto, nella disciplina delegata dei lavori usuranti, la quale non fa nulla per evitare che i suoi destinatari restino egualmente soggetti ai progressivi innalzamenti dell’età pensionabile, che il legislatore ha da ultimo introdotto con caratteri di assoluta generalità, per far fronte alla crisi economica. Il secondo aspetto, che sembra accomunare tutte le norme previdenziali del «collegato», è la mancanza in esse di significativi elementi di novità (elementi che, invece, si rintracciano in alcune delle norme lavoristiche). Ed, invero, neppure negli interventi più significativi – dalle già citate discipline dell’età pensionabile a quelle in materia di vigilanza e verbali ispettivi, sino a quelle in materia di sospensione del rapporto di lavoro – la legge n. 183/2010 introduce un progetto, un’idea nuova: tutte le disposizioni limitandosi o a riproporre progetti preesistenti (si vedano, per tutte, le deleghe riprese dalla legge n. 247/2007), o a portare meri «aggiustamenti» alle discipline già vigenti (come ad esempio accade in materia di sospensione del rapporto e di vigilanza). Nel complesso, comunque, non può non sorprendere l’approssimazione del livello tecnico di non poche delle norme in riferimento. A tal proposito, oltre che la disorganicità del provvedimento, letto nel suo complesso, già oggetto di critica da parte del Presidente della Repubblica e di tutti i commentatori, va stigmatizzata la presenza di disposizioni che, mediante un vero e proprio abuso della tecnica della novellazione, introducono norme praticamente illeggibili (esemplari, in tal senso, sono gli interventi in materia di sospensione del rapporto). È piuttosto singolare che ciò avvenga ad opera di un legislatore che della «semplificazione normativa» aveva fatto una bandiera.
Precisato quanto sopra, si può dunque passare all’esame delle singole norme contenute nella legge e nei decreti delegati che l’hanno seguita, procedendo, come già detto, per aree tematiche.
2.1 Discipline dell’età pensionabile e disciplina pensionistica per addetti ai lavori usuranti
Dai primi anni ’90 il legislatore italiano sta attuando – pur con interventi eterogenei e non privi di contraddizioni – un processo finalizzato alla progressiva elevazione dell’età di pensionamento che, come dimostrano i provvedimenti emanati tra il 2009 e il 20114, è tutt’ora in atto. La scelta, compiuta con l’art. 1 del «collegato lavoro», di riaprire i termini della delega legislativa finalizzata a consentire l’anticipazione del pensionamento a coloro che svolgono lavori usuranti, già istituita dalla l. 24.12.2007, n. 247, trova la sua ragion d’essere in tale processo. Come noto, infatti, alcuni lavori impongono un logoramento psico-fisico che può essere soltanto limitato dal miglioramento delle condizioni di lavoro. Di conseguenza, per i soggetti coinvolti in tali attività la condizione di vecchiaia alla quale fa riferimento l’art. 38 Cost. è solita sopraggiungere, in via di fatto, prima che per gli altri. L’introduzione, accanto alle norme generali che rendono sempre più severi i requisiti per il pensionamento, di temperamenti che consentano a tali soggetti un’anticipazione nell’accesso ai trattamenti, pur essendo rimessa alla valutazione discrezionale del legislatore, può essere considerata come misura attuativa dei principi di eguaglianza ed effettività della tutela previdenziale; a patto, però, di non trascurare quanto si richiede dai principi costituzionali in merito alla tutela della salute e delle condizioni di lavoro: tutela che non ammette surroghe attraverso benefici previdenziali. Se sulle petizioni di principio si registra una generale convergenza, sia in dottrina che nel mondo politico, la travagliata evoluzione della disciplina in materia dimostra, tuttavia, le notevoli difficoltà che si pongono quando, in fase di concreta attuazione, si debbano definire le attività usuranti e, nel contempo, reperire le risorse finanziarie necessarie per la predisposizione delle tutele. Al riguardo, la «riforma Amato», nel prendere atto della limitatezza del campo d’applicazione delle specifiche discipline che già consentivano l’anticipazione del pensionamento a soggetti operanti in condizioni particolarmente gravose (minatori, addetti a determinati servizi pubblici, lavoratori ciechi ecc.), con l’art. 3, co. 1 (lett. f), l. 23.10.1992, n. 421, istituiva una delega legislativa a favore dei lavoratori sia subordinati che autonomi iscritti all’INPS, finalizzata a consentire loro l’anticipazione del pensionamento, in ragione di due mesi per ogni anno di svolgimento di «attività particolarmente usuranti », con il limite massimo di 60 mesi. Nonostante l’emanazione del d.lgs. 11.8.1993, n. 374 e di ulteriori, successive disposizioni5, la disciplina rimaneva inoperante per tutti gli anni ’90, a causa sia dell’incapacità delle parti sociali di formulare le proposte richieste dal decreto per poter concretamente definire le attività protette, sia dell’inerzia del legislatore, che ometteva di imporre la contribuzione aggiuntiva prevista per la copertura degli oneri finanziari6. Solo con l’art. 78, co. 8 e da 11 a 13, l. 23.12.2000, n. 388 veniva data parziale attuazione alla disciplina, attraverso il riconoscimento di riduzioni dei requisiti anagrafici e contributivi ai lavoratori che, dopo l’entrata in vigore del decreto n. 374/1993, avessero svolto le attività particolarmente usuranti indicate nel d.m. 19.5.1999, purché fosse loro possibile far valere detti requisiti ridotti, ai fini del pensionamento entro il 31.12.20017. Esauriti gli effetti di quella norma, decadeva anche l’ulteriore delega istituita dall’art. 1, co. 10 e 11, della l. 23.8.2004, n. 243 che, nel frattempo, aveva disposto ulteriori, progressivi aumenti delle età di pensionamento. La l. 24.12.2007, n. 247, mentre rallentava gli effetti di innalzamento dei requisiti pensionistici introdotti dalla l. n. 243/2004, istituiva (art. 1, co. 3 e co. da 90 a 92) una nuova delega sui lavori usuranti, con criteri direttivi più restrittivi rispetto a quelli posti nel 1992, essendo previsti sia l’esclusione dei lavoratori autonomi, sia l’accorciamento a tre soli anni dello sconto massimo sui requisiti anagrafici. Nel contempo, però, non si prevedeva l’istituzione di alcuna aliquota contributiva aggiuntiva. La crisi politica sfociata nelle elezioni anticipate del 2008, tuttavia, impediva anche l’attuazione di detta delega, nonostante che uno schema di decreto fosse già stato approvato dal Consiglio dei ministri. Si giunge, in tal modo, alla l. n. 183/2010, che, in sostanza, riapre i termini della delega del 2007, della quale richiama per relationem i principi direttivi. L’unica novità è data dalla sostituzione dell’innocuo meccanismo di monitoraggio degli oneri finanziari, previsto dall’art. 1, co. 3 (lett. g), della legge n. 247/2007, con una più severa clausola di salvaguardia, che impone di limitare gli accessi al pensionamento anticipato, qualora il numero delle richieste raggiunga un livello che implichi una spesa eccedente le somme stanziate nel periodo di riferimento. Si tratta dell’ennesimo esempio di precarizzazione della tutela previdenziale, attuata mediante condizionamento dei diritti soggettivi ai contingenti vincoli di bilancio, che replica meccanismi sempre più spesso utilizzati dal legislatore, sopratutto nel campo degli ammortizzatori sociali, ed in particolare di quelli cosiddetti in deroga. Va rilevato, comunque, che già l’art. 78 l. n. 388/2000 recava una clausola di salvaguardia, peraltro ispirata a maggiore severità, rispetto a quella in commento: il superamento delle disponibilità economiche, infatti, in quel caso determinava, per le domande eccedenti, la perdita del beneficio; oggi, invece, si prevede lo slittamento dei relativi effetti al momento in cui gli stanziamenti risulteranno di nuovo capienti, cosicché, alla fine, è probabile che il pregiudizio subito dagli interessati risulti solo parziale. Osservando la disciplina nella prospettiva dell’effettività, un più grave limite emerge dai contenuti dello stesso beneficio, così come prefigurato sia dalla norma attuale che dalle precedenti. La sola anticipazione della data di accesso alla pensione, non accompagnata da correttivi sul calcolo, infatti, impone a chi voglia avvalersi dell’agevolazione di barattarla con un trattamento più basso, rispetto a quello liquidabile con requisiti «normali». Sicuramente, nelle attuali condizioni della spesa pubblica e in assenza di aggravi contributivi, non si poteva dare di più; resta il fatto che, soprattutto negli anni a venire, quando l’affermarsi del sistema contributivo imporrà pensione sempre più basse, molti lavoratori, pur «usurati», probabilmente si troveranno indotti a continuare a lavorare8. Ma il quantum dei benefici fruibili dai lavoratori interessati risulta, di fatto, soggetto a una significativa erosione, anche per ciò che specificamente attiene alla definizione dell’età di pensionamento. A differenza di quanto lasciava prevedere la delega del 2007, che si accompagnava a provvedimenti di rallentamento degli effetti delle misure di elevazione dell’età pensionabile introdotte nel 2004, la disciplina attuale si inserisce in un contesto nel quale le più recenti modifiche alle discipline generali, introdotte nel triennio 2009/2011, hanno impresso nuove, brusche accelerazioni a tale elevazione; il fatto che, come si vedrà, i benefici concessi agli addetti ai lavori usuranti sono riconosciuti «al lordo» di dette innovazioni, di fatto ridimensiona, sempre più, la portata del beneficio. La delega sui lavori usuranti è stata concretamente attuata dal d.lgs. 21.4.2011, n. 67, che, per molti versi, si presenta di non agevole interpretazione. In primo luogo, il decreto definisce i quattro gruppi degli «addetti a lavorazioni particolarmente faticose e pesanti» interessati alla disciplina, ai quali faceva riferimento il legislatore delegante. Al riguardo, si considerano, in primis, gli addetti alle «mansioni particolarmente usuranti» previste dall’art. 2 d.m. 19.5.1999, e cioè coloro che svolgono lavori nelle gallerie, cave e miniere, in cassoni ad aria compressa, ad alte temperature (ad esempio nelle fonderie) o in spazi ristretti (ad esempio nella cantieristica navale), gli occupati nelle lavorazioni del vetro cavo, nell’asportazione dell’amianto e i palombari. Seguono i lavoratori notturni, e cioè i lavoratori a turni che prestano l’attività per almeno 6 ore, comprendenti il periodo definito notturno dal d.lgs. 8.4.2003, n. 66 (e cioè quello tra mezzanotte e le cinque); tale orario deve essere stato osservato per almeno 78 giorni l’anno, se i requisiti per l’accesso anticipato alla pensione maturano tra il 1.7.2008 e il 30.6.2009, e per almeno 64 giorni l’anno se la data di maturazione è successiva. Sono altresì considerati coloro che prestano attività per almeno tre ore nel suddetto periodo notturno, nell’intero anno lavorativo. Il terzo gruppo è quello dei lavoratori sottoposti a ritmi produttivi che impongono la retribuzione a cottimo (art. 2100 c.c.), addetti alla cosiddetta linea-catena, e cioè «impegnati all’interno di un processo produttivo in serie, contraddistinto da un ritmo determinato da misurazione di tempi di produzione con mansioni organizzate in sequenze di postazioni, che svolgono attività caratterizzate dalla ripetizione costante dello stesso ciclo lavorativo su parti staccate di un prodotto finale, che si spostano a flusso continuo o a scatti con cadenze brevi determinate dall’organizzazione del lavoro o dalla tecnologia». Rimangono esclusi gli addetti a lavorazioni collaterali, alla manutenzione, al rifornimento materiali, ad attività di regolazione o controllo computerizzato della produzione, al controllo di qualità. Con disposizione che suscita perplessità – sia perché potenzialmente discriminatoria, sia perché non prevista dalla legge di delega – il decreto circoscrive tale gruppo di beneficiari ai soli addetti alle lavorazioni incluse nelle voci della tariffa INAIL richiamate dalla tabella allegata9. Infine, accedono ai benefici i conducenti di veicoli di capienza complessiva non inferiore a 9 posti, adibiti a servizio pubblico di trasporto collettivo. In tutti i casi, il beneficio è condizionato all’esercizio «effettivo» di dette attività per almeno 7 anni negli ultimi 10 anni di vita lavorativa, qualora la «decorrenza» della pensione cada entro il 31.12.2017; per le pensioni di decorrenza successiva è, invece, necessario aver dedicato ai lavori usuranti almeno metà della vita lavorativa. Il decreto, come già emerge dalle disposizioni appena ricordate, impone di distinguere, di volta in volta, la data di «maturazione dei requisiti» pensionistici da quella di «decorrenza» del trattamento. A tal proposito, l’art. 1, co. 1, d.lgs. n. 67/2011 ribadisce l’operatività, anche nel proprio campo di applicazione, del «regime di decorrenza » previsto dall’art. 12 d.l. n. 78/2010, conv. nella l. n. 122/2010. Il beneficio concesso, dunque, consiste solo nell’anticipazione della data di conseguimento dei requisiti pensionistici, fermo restando che, rispetto a tale data anticipata, il godimento effettivo del trattamento slitta comunque, in forza della surrichiamata disciplina, di 12 mesi10. Per quanto, invece, specificamente attiene al meccanismo di anticipazione della data di maturazione dei requisiti, innanzitutto esso opera, in tutti i casi, solo se i beneficiari potranno far comunque valere almeno 57 anni di anzianità anagrafica e 35 di anzianità contributiva. Quando la disciplina opererà a regime, e cioè «a decorrere dal 1° gennaio 2013» (art. 1, co. 4, d.lgs. n. 67/2011: il riferimento deve intendersi alla data maturazione dei requisiti, al netto dei benefici di cui appresso), gli interessati potranno vedere ridotta di 3 anni l’età anagrafica richiesta dalla legge; ovvero ridotta di 3 unità la somma di anzianità anagrafica e contributiva prevista, per l’accesso alla pensione di anzianità, dalla tabella B allegata alla l. n. 247/2007. Va, tuttavia, sin d’ora considerato che detti riferimenti alla legge n. 247/2007 dovranno essere aggiornati. Nei prossimi anni, infatti, inizieranno ad operare gli ulteriori innalzamenti delle età di pensionamento «normali» introdotti in forza delle già citate leggi n. 122/2010 e n. 111/2011. Di conseguenza, anche i requisiti ridotti di cui al decreto in commento dovranno intendersi corrispondentemente incrementati. Per ciò che attiene, invece, al regime transitorio, l’art. 1, co. 5, d.lgs. n. 67/2011, riferendosi sempre alle date di maturazione dei requisiti ridotti, prevede che i benefici consistano: a) «per il periodo compreso tra il 1° luglio 2008 e il 30 giugno 2009», nell’anticipazione di un anno dell’età anagrafica rispetto a quella richiesta, per il godimento della pensione di anzianità, dalla tabella A allegata alla l. n. 247/2007; b) «per il periodo compreso tra il 1° luglio 2009 e il 31 dicembre del 2009», nella riduzione di due anni dell’età anagrafica, ovvero nella riduzione di due unità la somma di età anagrafica e anzianità contributiva prevista dalla tabella B allegata alla l. n. 247/2007; c) «per l’anno 2010», nella riduzione di due anni dell’età anagrafica, ovvero nella riduzione di una unità della somma di età anagrafica e anzianità contributiva prevista dalla predetta tabella B; d) «per gli anni 2011 e 2012» nella riduzione di tre anni dell’età anagrafica, ovvero nella riduzione di due unità della somma di età anagrafica e anzianità contributiva prevista dalla stessa tabella B11. Per coloro che hanno maturato i requisiti pensionistici tra il 1.7.2008 (prima data utile prevista) e l’entrata in vigore del decreto, l’ultimo comma dell’art. 1 d.lgs. n. 67/2011 conferma inoltre che la disciplina non attribuisce alcun trattamento «retroattivo», giacché i suoi effetti si realizzano, in concreto, dalla «prima decorrenza utile» e sempre che, per quell’epoca, sia cessato il rapporto di lavoro. Viene, infine fatta salva l’operatività delle norme di miglior favore, che già consentono l’accesso al pensionamento con requisiti ridotti rispetto a quelli previsti nel regime generale. Quei benefici, però, non possono cumularsi con quelli previsti dal decreto in commento (art. 1, co. 8). Stante quanto osservato in ordine alla limitatezza dei benefici in questione, è importante la previsione, già contenuta nella legge di delega e ribadita dal decreto delegato, per la quale l’acquisizione del diritto alla maturazione anticipata dei requisiti pensionistici spetta solo a seguito di domanda e quindi di libera scelta dell’interessato. Detta domanda, distinta da quella di pensione, ai sensi dell’art. 2 d.lgs. n. 67/2011 va presentata all’ente previdenziale entro il 30.9.2011, nel caso di requisiti maturati o maturandi entro il 31.12.2011, ed entro il 1° marzo dell’anno di maturazione dei requisiti, negli altri casi. Il ritardo, però, non comporta decadenza dal beneficio, ma solo uno slittamento, sino a 3 mesi, dei relativi effetti (salvi gli ulteriori slittamenti che, a causa del ritardo, possono determinarsi in caso di domande in soprannumero: v. infra). Lo stesso art. 2 impone di presentare una copiosa documentazione probatoria, la quale – unitamente agli obblighi di comunicazione alla Direzione territoriale del lavoro imposti dall’art. 5 ai datori di lavoro che utilizzino lavoratori notturni o cottimisti, alle attività ispettive previste dall’art. 6, co. 5, e alle ulteriori misure che saranno contenute nel decreto ministeriale attuativo preannunciato dall’art. 4 – dovrebbe consentire il (non semplice) controllo sulla effettiva ricorrenza, in capo ai richiedenti, delle condizioni di legge. L’art. 3 d.lgs. n. 67/2011 attua il già citato meccanismo di salvaguardia finanziaria, disponendo che, quando il numero delle domande presentate comporta uno scostamento rispetto al quantum delle risorse stanziate, gli effetti delle domande in eccesso vengano differiti, secondo criteri di priorità che il citato decreto ministeriale fisserà, avendo riguardo alla data di maturazione dei requisiti di pensionamento e a quella di presentazione delle domande. L’art. 6 d.lgs. n. 67/2011, infine, dispone che, ferma l’applicazione delle norme in materia di indebito e delle sanzioni penali, l’utilizzazione, ai fini dell’accesso ai benefici, di documentazione non veritiera sottopone il responsabile a una ulteriore «sanzione » di ammontare pari al doppio di quanto indebitamente erogato. La legge, però, non dice se tale sanzione ha natura civile, analoga a quelle operanti in materia contributiva (art. 116 l. 23.12.2000, n. 388), ovvero amministrativa (l. 24.11.1981, n. 689). Ritornando alla legge n. 183/2010, va infine ricordato come in essa si rintraccino anche ulteriori norme che, più o meno direttamente, hanno a che fare con l’età pensionabile. Nel ricco filone delle misure che, pur non imponendolo, tendono a favorire il posticipo del pensionamento, si inserisce la novella dell’art. 15 nonies d.lgs. 30.12.1992, n. 502, che, nel testo previgente, consentiva ai dirigenti medici del servizio sanitario nazionale di posticipare di non oltre un biennio la data di pensionamento, normalmente fissata a 65 anni. La modifica introdotta dall’art. 22 l. n. 183/2010 consente il posticipo a tutti i dirigenti, anche non medici, del ruolo sanitario in servizio al 31.1.2010, sino al 46° anno di servizio effettivo, salvo il limite massimo di 70 anni di età. Detta opzione, sulla quale l’amministrazione non sembra poter esercitare poteri discrezionali12, non può però determinare aumenti del numero dei dirigenti. Il co. 2 dello stesso art. 22 fa invece riferimento alla richiesta che, ex art. 16 d.lgs. 30.12.1992, n. 502, tutti i pubblici dipendenti possono avanzare, salvo il discrezionale vaglio dell’amministrazione, per posticipare il pensionamento di un biennio oltre i limiti di età normalmente previsti: se gli interessati sono in aspettativa non retribuita per cariche elettive, l’istanza va presentata almeno 90 giorni prima del compimento dell’età pensionabile.
2.2 La sospensione del rapporto di lavoro, la certificazione delle malattie e la contribuzione figurativa
Anche le discipline della sospensione del rapporto di lavoro incidono sulla materia previdenziale, non fosse altro che per l’attribuzione di specifiche prestazioni economiche e forme di tutela della continuità contributiva, operanti sopratutto mediante la concessione della contribuzione figurativa. È dunque opportuno dar conto, in questa sede, di alcune modifiche sulla disciplina del rapporto di lavoro, dichiaratamente finalizzate a contrastare forme di assenteismo che, soprattutto nell’area del pubblico impiego, si realizzano mediante abuso nel ricorso a detti istituti. Tali iniziative, a loro volta, sono parte di un più ampio (e non poco controverso) progetto di riforma del lavoro pubblico, finalizzato alla riduzione dei costi e all’aumento dell’efficienza, che trova la sua principale espressione nella l. 4.3.2009, n. 15 e nel d.lgs. 27.10.2009, n. 150, ma che influenza non poco anche i contenuti della legge n. 183/2010 e di numerosi altri recenti provvedimenti legislativi (in specie quelli emanati in occasione delle manovre finanziarie). In tale contesto, gli interventi hanno preso di mira, innanzitutto, le assenze per malattia dei dipendenti pubblici, sulle quali sono intervenuti dapprima l’art. 72 d.l. 25.6.2008, n. 112, conv. nella l. 6 agosto 2008, n. 133 e quindi gli artt. 55 quinquies e ss. d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, introdotti dal citato d.lgs. n. 150/200913, che hanno disposto, tra l’altro, peggioramenti nei trattamenti economici riferiti ai periodi di assenza, controlli più severi contro gli abusi e un pesante apparato sanzionatorio. Le disposizioni in materia di sospensione del rapporto di lavoro contenute nel «collegato» presentano significative linee di continuità con tali interventi legislativi. In primo luogo, l’art. 25 l. 183/2010, al dichiarato fine di creare, anche nel settore del lavoro privato, un più efficace sistema di controlli contro le certificazioni mediche compiacenti, estende al settore stesso le disposizioni che l’art. 55 septies d.lgs. n. 165/2001 detta «per il rilascio e la trasmissione della attestazione di malattia». Anche per i lavoratori privati, dunque, i medici sono obbligati, se non vogliono incorre in severe sanzioni, ad inviare i certificati per via telematica, come previsto da detta norma14. Il rinvio contenuto nell’art. 25, inoltre, appare idoneo ad estendere anche la regola per la quale i periodi di assenza protratti oltre al 10° giorno e quelli relativi al secondo evento di malattia occorso nell’anno solare possono essere certificati solo da strutture pubbliche o da medici convenzionati con il servizio sanitario15. Poiché detto articolo fa riferimento alle sole «attestazioni di malattia», non risultano, invece, estese al settore privato le disposizioni in materia di visite mediche di controllo e di fasce orarie di reperibilità, pure contenute nel medesimo art. 55 septies e nel d.P.C.m. 18.12.2009, n. 20616. Il legislatore si è interessato anche di altri istituti, ed in particolare dei permessi e dei congedi per l’assistenza ai familiari in condizione di handicap, la cui fruizione, dopo la «stretta» sulla malattia, sembra evidenziare un trend al rialzo. Tale tendenza può considerarsi il principale movente dell’istituzione della delega legislativa, con la quale l’art. 23 l. n. 183/2010 avrebbe voluto realizzare un complessivo «riordino della normativa vigente in materia di congedi, aspettative e permessi, comunque denominati », operanti nel lavoro pubblico e privato, al fine del «coordinamento formale e sostanziale» e della «razionalizzazione e semplificazione» delle suddette, disordinate discipline, unitamente alla «ridefinizione dei presupposti oggettivi e precisazione dei requisiti soggettivi», finalizzata a «garantire l’applicazione certa e uniforme» delle discipline stesse, ed in particolare di quelle operanti in favore di persone affette da handicap e da patologie di tipo neuro-degenerativo e oncologico17. Ben più limitati, in realtà, sono stati gli effetti introdotti dal d.lgs. 18.6.2011, n. 119, che ha attuato la delega, limitandosi ad intervenire su fattispecie particolari, molte delle quali (artt. 3 e 4) riguardano la materia dei permessi e congedi in favore dei familiari e parenti di soggetti affetti da handicap grave, regolata dall’art. 33 l. 5.2.1992, n. 104 e dagli artt. 33 e 42 d.lgs. 26.3.2001, n. 251, sulla quale era già intervenuto l’art. 24 dello stesso «collegato». Tale doppio intervento di novellazione è ben lungi dal realizzare l’auspicata semplificazione, anche se la volontà del legislatore di introdurre restrizioni nell’accesso alle provvidenze emerge chiaramente dalla maggior parte delle nuove disposizioni, e in particolare da quelle che consentono a persone diverse dai genitori del disabile di fruire dei permessi solo nell’ipotesi in cui tali congiunti manchino, ovvero siano invalidi o abbiano superato i 65 anni di età; o che impediscono che più familiari fruiscano dei benefici per assistere la stessa persona; ovvero che prevedono l’alternatività nella fruizione delle assenze da parte dei genitori dei disabili. Non mancano, però, disposizioni che introducono miglioramenti importanti (anche se di portata ben più limitata), quali quelle che consentono le assenze anche se i congiunti sono ricoverati in istituti di cura, qualora vi sia bisogno di assistenza, ovvero che, per il caso di affidamento o adozione, sganciano il periodo di fruizione dei benefici dall’età del minore, per riferirlo al momento del suo ingresso in famiglia. Per poter monitorare i dati relativi all’utilizzazione di tali istituti nel settore pubblico, il citato art. 24 istituisce una banca dati presso il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri. Per ciò che più specificamente attiene ai profili previdenziali, le modifiche introdotte lasciano sostanzialmente inalterate le previsioni che, per le suddette fattispecie, riconoscono trattamenti economici e contributi figurativi. Nel contempo, però, il citato art. 24 l. n. 183/2010 inserisce nell’art. 33 l. n. 104/1992 la previsione per cui, se l’INPS o il datore di lavoro accertano l’insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per la legittima astensione, il lavoratore decade dai relativi diritti e, se vi sono i presupposti, è soggetto a sanzioni disciplinari. Si tratta, in realtà, di effetti che ben potevano desumersi dai principi generali: la norma, quindi, inutile sotto il profilo giuridico, sembra avere (se ce l’ha) solo funzione di deterrente. L’art. 4 d.lgs. n. 119/2011 conferma anche il riconoscimento del trattamento economico a carico dell’INPS (ma anticipato dal datore di lavoro) nonché della contribuzione figurativa, in caso di congedo biennale a favore dei familiari che assistono persone portatrici di handicap, ai sensi del citato art. 42 d.lgs. n. 151/2001. Per il calcolo del valore dei benefici, il decreto delegato fa riferimento, così come il testo previgente, alla misura «corrispondente all’ultima retribuzione», mantenendo invariato anche il relativo tetto massimo18. Ciononostante, sembra che il criterio di calcolo debba considerarsi implicitamente mutato rispetto al passato, per effetto della restrizione della nozione di retribuzione imposta dall’art. 40 della stessa legge n. 183, del quale si dirà. Sempre nel decreto n. 119, l’art. 2 consente di interrompere il periodo di astensione obbligatoria per maternità (art. 16 d.lgs. n. 151/2001), nel caso di interruzione della gravidanza successiva al 180° giorno dall’inizio della gestazione ovvero nel caso di decesso del bambino alla nascita o durante il congedo di maternità, qualora un medico specialista accerti che ciò non arreca pregiudizio alla salute della lavoratrice. Il rientro al lavoro interrompe anche, con pari decorrenza, i trattamenti previdenziali. Quanto alle fattispecie di sospensione relative ad eventi che interessano esclusivamente la persona del lavoratore, l’art. 7 dello stesso decreto delegato conferma il diritto dei dipendenti affetti da invalidità superiori al 50%, già previsto dall’art. 26 l. n. 30.3.1971, n. 118, di fruire, per ogni anno, di un congedo per cure appositamente certificate, per un periodo non superiore a 30 giorni, che potrà essere anche frazionato. La norma dispone anche che detto periodo, pur non computabile ai fini del comporto, consente la fruizione del «trattamento calcolato secondo il regime economico delle assenze per malattia». L’art. 5, invece, modificando l’art. 2 l. 13.8.1984, n. 476, estende anche ai lavoratori privati l’obbligo di ripetizione dei trattamenti previdenziali fruiti durante l’aspettativa per frequenza di dottorati di ricerca senza borsa di studio, già previsto per i dipendenti pubblici, per il caso in cui il rapporto di lavoro si risolva, per volontà del lavoratore stesso, nei 2 anni successivi al termine di detta aspettativa. Infine, l’art. 46 della legge n. 183, che re-istituisce la delega in materia di lavoro femminile, riscrivendo il co. 81 dell’art. 1 l. n. 247/2007, mantiene – in evidente controtendenza rispetto a quanto rilevato per la maggior parte degli interventi sin qui ricordati – la direttiva che prevede l’estensione della durata dei congedi parentali e l’incremento delle relative indennità «al fine di incentivarne l’utilizzo». Lo stato dei conti pubblici, tuttavia, induce al pessimismo sulla possibilità che si possa effettivamente porre mano a tali miglioramenti di tutele. La contribuzione figurativa, oltre ad essere più o meno esplicitamente considerata dalle ricordate norme in materia congedi e permessi, costituisce oggetto delle specifiche previsioni degli artt. 40 e 45 l. n. 183/2010. L’art. 40 dispone che il valore dei periodi di contribuzione figurativa da considerare per il calcolo della retribuzione annua pensionabile, per ciascun periodo di accredito successivo al 31.12.2004, è pari all’importo della «normale retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore, in caso di prestazione lavorativa, nel mese in cui si colloca l’evento». Il meccanismo – che detto articolo applica anche per quantificare alle prestazioni a sostegno al reddito – implicitamente modifica la disciplina contenuta nell’art. 8 l. 23.4.1981, n. 155, che aveva fatto riferimento (pur con temperamenti dei quali qui non si dà conto), alla media delle retribuzioni settimanali effettivamente percepite in costanza di lavoro nell’anno solare nel quale si collocano i periodi figurativi, ovvero nell’anno di decorrenza della pensione. La disposizione, infatti, sostituisce ad una nozione di retribuzione effettiva, che doveva considerarsi, tendenzialmente omnicomprensiva, una nozione più ristretta, come conferma l’ultimo periodo dello stesso articolo, che chiede al datore di lavoro di procedere al calcolo (salvi, ovviamente, tutti i poteri di verifica dell’ente previdenziale) computando i soli «elementi retributivi ricorrenti e continuativi». In tal modo, la norma evidenzia anche un allontanamento dai criteri di omnicomprensività che caratterizzano la nozione di retribuzione imponibile e pensionabile, imposta per i periodi di contribuzione obbligatoria dall’art. 12 l. 30.4.1969, n. 153 e successive modifiche. La ragione di tale divaricazione non potrebbe essere più evidente: con le modifiche apportate negli ultimi decenni al suddetto art. 12, il legislatore ha, infatti, costantemente perseguito lo scopo di ampliare il più possibile la base imponibile dell’imposizione contributiva (tanto che la concorrente funzione che la norma esplica anche per la determinazione della base pensionabile è rimasta, per così dire, sullo sfondo). A nulla di tutto ciò, invece, serve la nozione di retribuzione valida ai fini della contribuzione figurativa, il cui restringimento è, piuttosto, significativo di quella volontà di ridurre le spese per prestazioni, che ispira gli interventi previdenziali contenuti nella l. n. 183/2010 e, più in generale, nella produzione legislativa degli ultimi anni. I criteri di computo posti dall’art. 40, comunque, sembrano suscettibili di essere applicati, per espressa previsione della norma, ai soli eventi «verificatisi nel corso del rapporto di lavoro»; devono, pertanto, ritenersi esclusi da suo ambito di operatività le fattispecie operanti al di fuori del rapporto (ad esempio le prestazioni di disoccupazione). L’art. 45 della legge, invece, modifica l’art. 1 d.lgs. 16.9.1996, n. 564, escludendo dall’operatività del limite massimo di 22 mesi imposto ai periodi di accredito figurativo per malattia le assenze di chi, a causa di infortuni sul lavoro, abbia subito una inabilità assoluta e permanente ai sensi dell’art. 8 l. 12.6.1984, n. 222. Tuttavia al beneficio non si accompagna quello della corresponsione dell’indennità economica di malattia, la quale, pertanto, anche in tali casi rimane soggetta ai limiti di legge.
2.3 Tutela della salute, invalidità e risarcimenti
Quanto alla tutela della salute del lavoratore, si pone dichiaratamente nella prospettiva della prevenzione l’art. 21 l. n. 183/2010, il quale novella gli artt. 1 e 7 d.lgs. n. 165/2001, inserendo tra gli obblighi fondamentali dei datori di lavoro pubblici, accanto alla tutela delle pari opportunità e alla lotta alle discriminazioni, il contrasto di «qualunque forma … di violenza morale e psichica» e la garanzia di «un ambiente di lavoro improntato al benessere organizzativo». Nel contempo, l’art. 57 dello stesso testo unico, egualmente novellato dall’art. 21, impone alle amministrazioni l’adozione delle misure previste dall’Unione europea per il «contrasto alle discriminazioni ed alla violenza morale e psichica»19. Per la verità, anche da tali disposizioni emerge la volontà del legislatore di snellire le strutture della pubblica amministrazione: la modifica del predetto art. 57, infatti, determina anche l’unificazione nei Comitati unici di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni, dei preesistenti Comitati per le pari opportunità e dei Comitati paritetici sul mobbing20. In materia di lavoro sportivo, l’art. 3 l. n. 183/2010 si occupa della composizione della Commissione per la vigilanza e il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive, mentre l’art. 6 autorizza i medici e gli altri professionisti sanitari operanti al seguito di delegazioni straniere a svolgere l’attività in deroga alle norme sul riconoscimento dei titoli esteri. È, infine, previsto che la riorganizzazione degli enti vigilati dal Ministero del lavoro, prefigurata dalla delega legislativa contenuta nell’art. 2 (v. § 3.2), coinvolga il Casellario centrale per gli infortuni, che rappresenta (anche) un importante strumento di monitoraggio dell’efficacia della legislazione prevenzionistica. Per ciò che attiene, invece, alle responsabilità risarcitorie conseguenti alla compromissione della salute dei lavoratori, va ricordato l’art. 20, la cui approvazione è la risultante di un iter particolarmente sofferto. L’articolo, infatti, era stato originariamente inserito nel testo come interpretazione autentica dell’art. 2, lett. b), l. 12.2.1955, n. 51, al fine di escludere i navigli di Stato dalle discipline generali poste a tutela della salute dei lavoratori da detta legge e da tutte le norme attuative. Il vero scopo della norma, in realtà, era – ed è rimasto, anche nella versione definitiva – quello di sottrarre i dirigenti della marina militare alle responsabilità penali conseguenti ai pregiudizi, spesso culminati con la morte, a suo tempo subiti dai lavoratori a causa del contatto con l’amianto, in passato impiegato per la costruzione di navi della flotta statale. Il testo, già all’epoca, prevedeva l’espressa salvezza del diritto degli stessi lavoratori al risarcimento dei danni eventualmente subiti. Ciononostante, il Presidente della Repubblica, con il messaggio del 31.5.2010, tra le varie censure poste a base della sua scelta di non promulgare il testo della legge inviatogli dal Parlamento, inseriva anche quelle relative alle problematiche sollevate da tale articolo, ed in particolare, per quanto qui specificamente interessa, quelle relative alla sua ritenuta insufficienza a garantire un’idonea tutela ai danneggiati. Una volta fatta venir meno l’efficacia delle norme generatrici della responsabilità – osservava infatti detto messaggio – rimaneva ai danneggiati solo la possibilità di chiedere il risarcimento secondo le norme generali, ed in particolare secondo l’art. 2043 c.c.; nel contempo, però, sembrava anche venir meno la possibilità di «individuare il soggetto giuridicamente obbligato» e di «configurare ipotesi di ‘dolo’ o ‘colpa’ nella determinazione del danno». Di conseguenza, si riteneva che il riferimento all’azione risarcitoria rimanesse una mera petizione di principio, a fronte della quale il lavoratore rischiava comunque di non poter fondare la propria pretesa su alcun titolo21. Il nuovo, successivo passaggio parlamentare ha portato all’emanazione del testo definitivo, che, innanzitutto, sposta l’oggetto dell’interpretazione autentica dalle disposizioni generali della legge n. 51 alle specifiche disposizioni penali attuative della legge stessa, di cui al d.P.R. 19.3.1956, n. 303. Inoltre, lo stesso articolo specifica, da un lato, che l’esonero della responsabilità penale si applica ai soli fatti avvenuti, a bordo delle navi, durante il periodo di vigenza di quel decreto e che, dall’altro lato, i provvedimenti adottati dal giudice penale non pregiudicano comunque le azioni risarcitorie, che possono essere promosse «in ogni sede» dai danneggiati e dai loro eredi, «per l’accertamento della responsabilità civile contrattuale o extracontrattuale derivanti dalle violazioni delle disposizioni del citato decreto n. 303 del 1956». In tal modo, è stata conferita maggiore certezza sul fondamento della tutela risarcitoria. Nel contempo, nel co. 1 dello stesso art. 20 sono stati introdotti specifici stanziamenti, con i quali lo Stato dovrebbe far fronte alle azioni giudiziarie22. La compromissione della salute dei lavoratori e, più in generale, degli aventi diritto alle prestazioni previdenziali e assistenziali, provoca anche un pregiudizio diretto sui conti pubblici. Il «collegato» si occupa anche di tali problematiche, con norme finalizzate ad agevolare il recupero degli oneri sopportati per l’erogazione delle prestazioni nei confronti dei soggetti civilmente responsabili degli eventi invalidanti. L’art. 42, co. 1, l. n. 183/2010, facendo riferimento a tutti, indistintamente, i casi di «infermità comportante incapacità lavorativa, derivante da responsabilità di terzi», dispone che il medico che redige il certificato di malattia (e che, come sopra ricordato, lo spedisce in via telematica) è tenuto segnalare tale responsabilità, «al fine di consentire all’ente assicuratore l’esperibilità delle azioni surrogatorie e di rivalsa». In realtà, la norma sembra imporre al sanitario un compito di indagine sulle cause e sulle responsabilità della patologia, che in concreto può risultare tutt’altro che agevole e che, comunque, esula dalle sue competenze. Lo stesso art. 42, co. 2, si rivolge poi alle compagnie di assicurazione, disponendo che queste, prima di procedere ai risarcimenti riferiti ad eventi occorsi a lavoratori aventi diritto all’indennità di malattia a carico dell’INPS, inviino all’Istituto una «immediata comunicazione», a fronte della quale, entro 15 giorni, l’INPS invia un «certificato di indennità corrisposte» (CIR), contenente l’indicazione dell’importo dell’indennità pagata (co. 3), onde consentire all’assicuratore di «accantonare e rimborsare preventivamente» all’Istituto le relative somme. L’utilità della procedura, che non deve comportare oneri aggiuntivi per la finanza pubblica (co. 5), appare in questo caso evidente, giacché consente di snellire la gestione dei recuperi degli oneri derivanti dall’indennizzo delle inabilità temporanee, soprattutto (ma non solo) nei casi di sinistri stradali. Diverso è il campo di applicazione dell’art. 41, ai sensi del quale le pensioni, gli assegni e le indennità spettanti agli invalidi civili, se corrisposti a seguito di fatto illecito di terzi, sono recuperati nei confronti dei civilmente responsabili e delle compagnie di assicurazioni, «sino a concorrenza dell’ammontare di dette prestazioni». A tal fine, un decreto ministeriale fisserà il «valore capitale della prestazione erogata». Si consideri, tuttavia, che, in base ai principi generali della responsabilità civile, l’ammontare delle prestazioni non esaurisce il danno effettivo subito dall’amministrazione, che deve anche sopportare oneri ulteriori per gli accertamenti medici e, più in generale, per la gestione delle procedure. Ciononostante, e a differenza di quanto disposto, ad esempio, per le «spese accessorie» in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (art. 11 d.P.R. 30.6.1965, n. 1124), la l. n. 183/2010 menziona solo l’ammontare delle prestazioni. La norma, pertanto, appare suscettibile di due diverse interpretazioni. Si può invero affermare che, in tal modo, il legislatore abbia voluto porre un limite alle pretese dell’amministrazione, consentendole solo il recupero del valore delle prestazioni ed impedendole, così, di far valere ogni altra voce di danno. Oppure si può assumere che il legislatore abbia dettato solo le regole per la liquidazione della voce di danno riferita al valore delle prestazioni, senza nulla disporre, e dunque lasciando salvo il diritto dell’amministrazione di richiedere voci ulteriori, sulla base delle regole generali. La finalità di tutela degli equilibri della spesa pubblica, che caratterizza la maggior parte delle succitate disposizioni, ivi comprese quelle contenute nel coevo art. 41, farebbe propendere per la seconda ipotesi, anche se la prima appare più aderente al dato letterale (secondo il primo comma dell’articolo, infatti, l’azione di recupero si realizza «fino a concorrenza dell’ammontare» delle prestazioni). L’opzione per l’una o l’altra interpretazione è peraltro destinata ad avere effetti concreti significativi, anche (e forse soprattutto) sulla sfera giuridica del soggetto protetto. Pur non potendo, in questa sede, approfondire la problematica, va infatti considerato che la pretesa della pubblica amministrazione è, in linea di principio, suscettibile di erodere la pretesa risarcitoria del soggetto reso invalido e che, pertanto, anche in questo campo si pongono complesse problematiche in ordine alla determinazione risarcimento del danno differenziale o complementare da questo invocabile; problematiche che, mutatis mutandis, appaiono per molti versi analoghe a quelle sulle quali, ancora oggi, si discute in materia di regresso e surroga dell’INAIL.
2.4 Le deleghe non attuate della l. n. 247/2007
L’art. 46 l. n. 183/2010 ripropone, con alcuni aggiornamenti, le ulteriori deleghe istituite dall’art. 1, co. 28 e ss., della citata l. n. 247/2007, in materia di servizi per l’impiego, apprendistato, incentivi all’occupazione, occupazione femminile, nonché la delega per la riforma della materia degli ammortizzatori sociali e degli istituti a sostegno del reddito, finalizzata a garantire «l’uniformità della tutela dei lavoratori sul territorio nazionale … anche con riguardo alle differenze di genere e alla condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati». Quella della riforma degli ammortizzatori sociali è un storia lunga, costellata di tentativi non riusciti, nei quali si inserisce anche quello della legge n. 247, fallito dapprima per il già ricordato avvento, nel 2008, delle elezioni anticipate, e poi per il sopravvenire, alla fine dello stesso anno, della crisi economica, che nel successivo biennio ha indotto il legislatore a preferire la via dell’utilizzazione dei cosiddetti ammortizzatori in deroga23. È, d’altra parte, dubitabile che l’ulteriore tentativo posto in essere dal «collegato» possa trovare miglior fortuna. L’improvvisa esplosione, nell’estate 2011, di una nuova crisi economico-finanziaria, dagli effetti imprevedibili, ma che ha imposto pesanti interventi incidenti anche sulla previdenza24, sposta nuovamente l’attenzione del legislatore su altre priorità. Giova comunque ricordare come, nei suoi principi direttivi, detta delega abbia previsto, tra l’altro, un graduale superamento dell’attuale frammentazione dei trattamenti di disoccupazione, al fine della creazione di uno strumento unico, finalizzato sia al sostegno del reddito che al reinserimento dei disoccupati, senza distinzione di qualifica, appartenenza settoriale, dimensione di impresa e tipologia contrattuale. Si è dunque prefigurato un modello tendenzialmente universalistico, anche se con trattamenti modulati in ragione dell’età e delle maggiori difficoltà di rioccupazione presenti nelle regioni del Mezzogiorno e per le donne. La continuità contributiva è assicurata dai contributi figurativi. È altresì prevista una progressiva estensione e armonizzazione dei trattamenti di integrazione salariale, che fa tuttavia salva la previsione di regolamentazioni differenziate, a seconda degli interventi da attuare, tra i quali dovrebbero essere inclusi anche quelli di protezione e risanamento ambientale provocanti sospensioni del lavoro. Particolare attenzione si vuol riservare alle azioni di ricollocamento dei lavoratori, che, in primo luogo, dovrebbe coinvolgere attivamente sia le aziende che gli enti bilaterali; questi ultimi sono chiamati anche ad erogare «eventuali» prestazioni aggiuntive rispetto a quelle di legge. Le politiche attive collegate all’utilizzazione degli ammortizzatori sociali dovrebbero poi favorire la stabilizzazione dei rapporti di lavoro, soprattutto per i giovani e le donne, ma anche (per non scontentare nessuno) i lavoratori «in età più matura al fine di potenziare le politiche di invecchiamento attivo». A tal fine, è previsto un maggior coordinamento, finalizzato a collegare l’erogazione delle prestazioni di disoccupazione a percorsi di formazione e inserimento lavorativo, tra enti previdenziali e servizi per l’impiego (anch’essi, come già detto, a loro volta interessati da una delega ad hoc). Il disegno, dunque, è molto ambizioso; forse troppo. La sua attuazione, in effetti, oltre a quanto già segnalato sul particolare momento storico e politico, sconta anche difficoltà, per così dire, strutturali: in particolare, l’imposizione della consueta clausola di invarianza degli oneri finanziari, prevista dal co. 93 della stessa legge n. 247, pone a priori una seria ipoteca sulla possibilità di raggiungere i risultati chiesti dallo stesso legislatore delegante25, che dunque può essere, in definitiva, criticato per il suo scarso realismo. Passando, invece, alle disposizioni del «collegato» suscettibili di incidere direttamente sulle vigenti discipline degli istituti di sostegno al reddito, in primo luogo va richiamato quanto già osservato sull’art. 40, in ordine alla nozione di retribuzione valida ai fini del calcolo delle prestazioni e del valore della contribuzione figurativa. L’art. 36 prevede invece che, con il Fondo per la formazione professionale di cui all’art. 9 d.l. 20.5.1993, n. 148, conv. nella l. 19.7.1993, n. 236, il Ministero del lavoro possa finanziare anche misure di sostegno al reddito per i lavoratori disoccupati o a rischio di esclusione dal mercato del lavoro. Sull’utilizzazione, anche a fini previdenziali e di sostegno del reddito dei lavoratori somministrati, delle risorse del Fondo alimentato dalle contribuzioni di cui all’art. 12 d.lgs. 10.9.2003, n. 276, nonché sulla disciplina della relativa contribuzione interviene invece l’art. 48 della stessa legge n. 183/2010. L’art. 35 riscrive l’art. 19 ter d.l. 29.11.2008, n. 185, conv. nella l. 28.1.2009, n. 2, in materia di concessione alle aziende commerciali in crisi dell’indennizzo, pari al trattamento minimo di pensione, previsto per gli iscritti alla gestione commercianti INPS, di cui al d.lgs. 29.3.1996, n. 20726. Poco o nulla, infine, si prevede in materia di agevolazioni contributive. Solo la già richiamata delega sul lavoro femminile le considera tra gli incentivi che potrebbero favorire la conciliazione tra lavoro e vita familiare e l’aumento dell’occupazione delle donne.
2.5 Le discipline previdenziali speciali per le Forze armate e di polizia e i Vigili del fuoco
La legge n. 183/2010 ribadisce la «specificità» delle discipline regolanti lo status degli appartenenti alle Forze armate, alle Forze di polizia e al Corpo nazionale di vigili del fuoco, che l’art. 19 riconosce «in dipendenza della peculiarità dei compiti, degli obblighi e delle limitazioni personali, previsti da leggi e regolamenti, per le funzioni di tutela delle istituzioni democratiche e di difesa dell’ordine e della sicurezza interna ed esterna, nonché per i particolari requisiti di efficienza operativa richiesti e i correlati impieghi in attività usuranti». Tale specificità non riguarda solo il rapporto di impiego, ma viene espressamente riconosciuta anche in relazione alla «tutela … pensionistica e previdenziale». Lo stesso riferimento che la norma compie allo svolgimento di attività usuranti va inteso quale implicito richiamo alle problematiche relative alla definizione dell’età pensionabile. In realtà, va anche ricordato come, con riferimento alle discipline pensionistiche, i settori considerati dall’art. 19, da sempre oggetto di normative specifiche, erano stati già fatti oggetto del provvedimento di armonizzazione di cui al d.lgs. 30.4.1997, n. 165, attuativo delle deleghe conferite dall’art. 2, co. 23, l. 8.8.1995, n. 335 e dall’art. 1, co. 97, lett. g), e 99, l. 23.12.1996, n. 66227. L’art. 19, però, neppure accenna a tale provvedimento, mentre introduce una petizione di mero principio, priva di riferimenti concreti, che rinvia a non meglio precisati «successivi provvedimenti legislativi, con i quali si provvede altresì a stanziare le occorrenti risorse finanziarie». In realtà, c’è il sospetto che, alla fine, i contenuti delle discipline – se e quando queste verranno emanate – dipenderanno soprattutto dall’esistenza e dal quantum di dette risorse. Allo stato, rimangono dunque ferme le normative vigenti, che comunque, anche per i profili previdenziali, già evidenziano significativi profili di specialità28. Ben più preciso è il contenuto della delega legislativa, istituita dal successivo art. 27, co. da 7 a 9, della stessa legge n. 183, al fine di armonizzare il sistema di tutela previdenziale e assistenziale applicato al personale permanente in servizio in forza al Corpo nazionale dei vigili del fuoco e a quello volontario. Al riguardo, in primo luogo si prevede che la pensione ai superstiti riconosciuta ai familiari dei vigili volontari deceduti per causa di servizio venga equiparata al trattamento economico spettante ai superstiti dei vigili in servizio permanente, anche nelle ipotesi in cui i primi siano deceduti nel corso di attività addestrative od operative diverse da quelle connesse al soccorso. Viene, altresì, prevista l’equiparazione del trattamento economico concesso ai volontari a quello riconosciuto ai vigili in servizio permanente per i casi di infortunio gravemente invalidante e di malattia contratta per causa di servizio. Si tratta di disposizioni che, al di là del loro limitato campo di applicazione, appaiono di rilevante importanza sotto il profilo sistematico, in quanto costituiscono espressione di una tendenza dell’ordinamento previdenziale ad allargare il proprio campo di applicazione per valorizzare attività che, pur non svolte a titolo oneroso e, quindi, non idonee a generare un reddito in capo agli interessati, comunque sono considerate, per le loro caratteristiche e per la funzione sociale svolta, meritevoli di particolare tutela. Tale tendenza – pur, sicuramente, in embrione29, e certamente non favorita dall’attuale, grave crisi economica, per i costi che essa è suscettibile di determinare – va dunque tenuta in debito conto, anche ai fini della definizione (o ridefinizione) della nozione di lavoratore fatta propria dall’art. 38, co. 2, Cost.
La l. n. 183/2010 è intervenuta su aspetti dell’attività di vigilanza, in tema di riorganizzazione degli enti previdenziali ed in materia di assistenza sociale.
3.1 Vigilanza, rapporti contributivi e contenzioso
L’art. 33 del «collegato» riscrive l’art. 13 d.lgs. 23.4.2004, n. 124 e con esso la disciplina degli accessi, dei verbali ispettivi e della diffida per gli illeciti amministrativi30. La norma incide su aspetti fondamentali dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e previdenza, sui quali si misura la capacità dell’ordinamento non solo di reprimere gli illeciti, ma anche di rispondere alle effettive esigenze del sistema delle imprese31. Secondo il novellato art. 13, nella fase di avvio della verifica gli ispettori devono redigere e notificare al datore di lavoro o alla persona presente alle attività il «verbale di primo accesso», nel quale devono indicare tutto quanto accertato in occasione del loro ingresso nel luogo di lavoro, ed in particolare le attività svolte e le dichiarazioni ricevute, i nominativi dei lavoratori presenti e la descrizione delle modalità del loro impiego32. Il verbale contiene, altresì, le richieste di documenti, informazioni e di quant’altro gli agenti reputino necessario per il prosieguo degli accertamenti. Al riguardo, viene confermato che, ancor oggi, non fornire dagli ispettori del lavoro le notizie richieste, ovvero fornirle in modo scientemente errato o incompleto, costituisce reato, ex art. 4, co. 7, l. 22.7.1961, n. 628. Il «verbale unico di accertamento e notificazione», invece, costituisce l’atto finale dell’ispezione, che, in caso di rilevate trasgressioni, va notificato all’autore e all’eventuale obbligato in solido e che deve, in primo luogo, dar conto «degli esiti dettagliati dell’accertamento, con indicazione puntuale delle fonti di prova degli illeciti rilevati»33. Sia da tale riferimento, sia dalle indicazioni relative al contenuto del verbale di primo accesso, appare evidente l’intenzione del legislatore di imporre precisi obblighi di «trasparenza dell’azione amministrativa di vigilanza»34. Da tali obblighi sembra, inoltre, lecito desumere anche un’implicita conferma del diritto dei destinatari dei verbali di conoscere, già prima della fase contenziosa, ed in preparazione di questa, tutto il materiale probatorio acquisito dagli ispettori, e dunque anche i verbali delle dichiarazioni raccolte, in linea con quanto già previsto dalla disciplina generale del diritto di accesso (artt. 22 e ss. l. 7.8.1990 n. 241). Nel suddetto verbale unico vanno, inoltre, inseriti: la diffida per la regolarizzazione degli illeciti amministrativi rilevati; l’avvertimento relativo alla possibilità di estinguere, con il pagamento in misura ridotta ex art. 16 l. 24.11.1981, n. 689, gli illeciti non diffidabili e quelli per i quali non si sia ottemperato alla diffida suddetta; l’indicazione degli strumenti e dei termini di impugnazione dell’atto (co. 4 dello stesso art. 13). Per quanto attiene, in particolare, alla diffida35, viene meno il potere, prima concesso agli ispettori, di determinare discrezionalmente il tempo concesso per i relativi adempimenti; ora, infatti, la legge fissa direttamente in 30 e 15 giorni i termini, decorrenti dalla notificazione del verbale, concessi al destinatario dell’atto rispettivamente per completare le operazioni di regolarizzazione e per procedere al conseguente pagamento della sanzione in misura «ridottissima». In tal modo si elimina – almeno secondo quanto ritiene la prassi amministrativa – anche la possibilità di concedere proroghe agli interessati che ne facciano richiesta; ciò, peraltro, potrebbe far sorgere non pochi problemi, qualora le operazioni di regolarizzazione risultassero particolarmente complesse. I co. 6 e 7 dello stesso art. 13 estendono il potere di diffida, rispettivamente, agli ispettori e ai funzionari degli enti previdenziali (che già potevano provvedere, ma con limitazioni di competenza che, invece, sembrano ora venir meno36) e agli ufficiali di polizia giudiziaria (per i quali, invece, l’attribuzione è una novità). Decorsi i termini per adempiere alla diffida (ovvero, sin dalla sua notifica, qualora non vi sia diffida alcuna), il verbale unico produce automaticamente gli effetti della contestazione di illecito amministrativo (art. 14 l. n. 689/1981) e soggiace ai gravami di legge37. Nel prevedere la notifica di un unico verbale finale, comprensivo sia del provvedimento di diffida che di quello di contestazione degli illeciti, nei confronti del quale dovrebbe poi svilupparsi il contenzioso, il legislatore ha inteso introdurre una semplificazione delle procedure che, però, è del tutto parziale. In effetti, sin dalla fase amministrativa, il puzzle dei provvedimenti adottabili e del relativo contenzioso rimane complesso. In primo luogo, già il verbale unico, a seconda dei contenuti delle relative contestazioni, può risultare di volta in volta soggetto, anche cumulativamente, al ricorso avanti al Comitato regionale per i rapporti di lavoro, a quelli avanti agli enti previdenziali e alle istanze ex art. 18 l. n. 689/1981. Anche nella fase giudiziale, il contenzioso quasi sempre si sfrangia in cause parallele, sottoposte a discipline processuali diverse (si pensi alla separazione tra i processi sulle sanzioni amministrative e quelli sui contributi; solo con il d.lgs. 1.9.2011 n. 150 è stata disposta l’applicazione anche ai primi del rito del lavoro). Ma va anche considerato che, accanto all’art. 13 del decreto n. 124, rimangono operative altre norme, che, ricorrendone i presupposti, consentono di notificare, in aggiunta al verbale unico, provvedimenti ulteriori, quali le diffide accertative per i crediti patrimoniali e le disposizioni, rispettivamente previste dagli artt. 12 e 14 dello stesso decreto; le sospensioni delle attività imprenditoriali ex art. 14 d.lgs. n. 81/2008, le prescrizioni ex art. 15 d.lgs. n. 124/2004 e art. 20 d.lgs. n. 758/1994; ulteriori provvedimenti potranno provenire dall’amministrazione finanziaria per gli eventuali rilievi di carattere tributario; ed, ancora, nelle fattispecie di rilevanza penale potranno essere adottati atti di polizia giudiziaria (ad esempio sequestri o perquisizioni). A sua volta, ciascuno di tali provvedimenti potrà essere contestato con atti specifici, destinati a sfociare in distinti procedimenti amministrativi e giudiziari. Tra le sanzioni amministrative soggette alla diffida, d’ora in poi rientra, per effetto della novella dell’art. 3 d.l. 22.2.2002, n. 12, conv. nella l. 23.4.2002, n. 73, introdotta dall’art. 4 del «collegato », anche la cosiddetta maxisanzione per lavoro irregolare38. Il nuovo testo limita l’area dell’illecito alle sole assunzioni di lavoratori subordinati39, effettuate di datori di lavoro privati (esclusi quelli domestici) «senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto» agli enti competenti40. A prima vista la norma sembra, dunque, introdurre un restringimento dell’ambito di operatività della sanzione, posto che il precedente testo non sembrava distinguere né i datori di lavoro né le tipologie di rapporto41. La comparazione tra il testo attuale della norma e quello previgente42 non è, però, così semplice. In precedenza, infatti, la sanzione era applicabile ai soli rapporti totalmente in nero, e cioè a quelli non risultanti «dalle scritture o altra documentazione obbligatoria». Ora, invece, in caso di omessa preventiva comunicazione, la sanzione viene esclusa solo se «dagli adempimenti di carattere contributivo precedentemente assolti» emerga «la volontà di non occultare il rapporto, anche se trattasi di differente qualificazione». Sotto tale profilo, dunque, v’è un allargamento dell’ambito di operatività della sanzione, poiché gli adempimenti non riguardanti i contributi previdenziali – ancorché idonei a far «emergere» il rapporto (si pensi all’avvenuta sottoscrizione di contratto o alla redazione di registrazioni e documenti fiscali) – non sembrano più idonei ad escluderne l’applicazione43. L’importo dovuto, come in precedenza, è compreso tra € 1.500 e € 12.000, con maggiorazione di € 150 per ogni giornata di lavoro irregolare; se, però, al periodo sanzionabile segue regolare assunzione, la sanzione si abbassano alla misura compresa tra € 1.000 e € 8.000, e la maggiorazione giornaliera è di € 30. Viene mantenuta anche la maggiorazione delle sanzioni civili sui contributi previdenziali evasi, che però è ora fissata nel 50% delle sanzioni stesse44. Competenti all’irrogazione della sanzione sono tutti gli «organi di vigilanza che effettuano accertamenti in materia di lavoro, fisco e previdenza »; competente a ricevere il rapporto ex art. 17 l. n. 689/1981 è, però, la sola Direzione del lavoro. Un inasprimento dell’apparato sanzionatorio specificamente finalizzato a reprimere gli illeciti contributivi deriva dall’art. 39 della legge n. 183, che estende il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali – già operante, ex art. 2 d.l. 19.9.1983, n. 463, conv. nella l. 11.11.1983, n. 638, nella sola area del lavoro subordinato – anche agli illeciti relativi ai «compensi dei lavoratori a progetto e dei titolari di collaborazioni coordinate e continuative iscritti alla gestione separata» dell’INPS. La norma si inserisce in quel processo di estensione al lavoro parasubordinato di significativi segmenti delle discipline imposte per il lavoro dipendente, ormai in atto da tempo45, ma che, a partire dalla cosiddetta riforma Biagi del 2003, il legislatore accompagna a misure apertamente volte a limitare il ricorso alle suddette collaborazioni46. L’ambito di applicazione delle nuova disposizione – che, definendo una fattispecie di reato, non si estende al di là di quanto espressamente previsto – risulta, comunque, significativamente limitato sotto vari profili. Risultano, infatti, escluse le posizioni dei lavoratori iscritti alla suddetta gestione INPS, che non possano essere, in concreto, qualificati come collaboratori a progetto o comunque continuativi coordinati; egualmente, risultano escluse le collaborazioni per le quali vi sia obbligo di contribuzione a gestioni previdenziali diverse da quella nominata (ed in particolare quelle degli iscritti agli enti di categoria). La formulazione della norma fa, inoltre, ritenere anche una restrizione dell’elemento oggettivo del reato, rispetto a quanto desumibile dalla disciplina del 1983. Con riferimento a quest’ultima, invero, la Suprema Corte è orientata a ritenere che, per la configurabilità dell’illecito, pur essendo necessario l’effettivo pagamento delle retribuzioni, non sia, invece, richiesta la materiale effettuazione delle ritenute. Al contrario, la nuova norma fa espresso riferimento – così come già l’art. 1, co. 1172, l. 27.12.2006, n. 296, applicabile ai rapporti di lavoro dipendente nel settore agricolo – alle sole ritenute «operate». Per il resto, invece, la disciplina del 1983 deve considerarsi applicabile in toto: in particolare, anche in questo caso è concesso al committente di estinguere il reato, versando le ritenute entro 3 mesi dalla ricezione della formale contestazione. Sempre in materia di collaborazioni, l’art. 48 della legge in commento apporta una lieve modifica alla definizione delle collaborazioni occasionali, escluse dalla disciplina del contratto a progetto, ex art. 61 d.lgs. n. 276/2003. Per le sole collaborazioni svolte «nell’ambito dei servizi di cura e di assistenza alla persona », infatti, la norma sostituisce il limite temporale annuo di 30 giorni con quello di 240 ore di lavoro; rimane invece fermo il limite di € 5.000 di retribuzione annua. Deve ritenersi che tale modifica si ripercuota anche sull’ambito di applicazione dagli obblighi di iscrizione e contribuzione all’INPS, che l’art. 44, co. 2, d.l. 30.9.2003, n. 269, conv. nella l. 24.11.2003, n. 326, esclude, appunto, per la sola attività qualificabile come «occasionale». In materia di contribuzione e relative sanzioni è, altresì, opportuno ricordare quanto previsto dall’art. 7 d.lgs. 1.9.2011, n. 167, che ha attuato la delega in materia di apprendistato, prevista dal già citato art. 46 della l. n. 183/2010. Tale articolo (co. 9), «in attesa della riforma degli incentivi all’occupazione» conferma le agevolazioni contributive previste dalle discipline vigenti47, che vengono mantenute anche nell’anno successivo alla prosecuzione del rapporto realizzatasi al termine della formazione. Detto regime viene, invece, escluso per i contratti di apprendistato, che (co. 4) possono essere stipulati con i lavoratori in mobilità, per i quali spettano le agevolazioni previste dagli artt. 25, co. 9, e 8, co. 4, l. 23.7.1991, n. 223. Infine, il suddetto articolo (co. 1) conferma, per le ipotesi di inadempimenti del datore di lavoro che abbiano impedito la realizzazione delle finalità dell’apprendistato, l’obbligo – già previsto dall’art. 53, co. 3, d.lgs. n. 276/2003 – di pagare la differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta per il rapporto di lavoro qualificato, maggiorata del 100%. Nel contempo, però, si impone agli ispettori che rilevino tali inadempimenti con riferimento ad un contratto di apprendistato in corso di esecuzione, di notificare un provvedimento di disposizione, ex art. 14 d.lgs. n. 124/2004, che assegni un congruo termine al datore di lavoro per adempiere. Nulla dice la norma circa le conseguenze dell’adempimento, ma, pur con ogni riserva di approfondimento, è lecito ritenere che esso possa «salvare» il datore di lavoro dall’applicazione della sanzione. Come emerge da quanto sin qui osservato, il «collegato» incide sulle discipline del contenzioso previdenziale solo in modo parziale, con riferimento a problematiche specifiche; e dunque è ben lungi dall’introdurre riforme di più ampio respiro, come invece lo stesso provvedimento tenta di praticare sul versante delle alternative dispute resolutions relative alle controversie individuali di lavoro. Tra tali disposizioni «di dettaglio», l’art. 43 interviene sulla controversa questione degli effetti previdenziali degli atti riguardanti le variazioni e cessazioni relative ai soggetti iscritti all’albo delle imprese artigiane, prevedendo che, «al fine del contenimento degli oneri previdenziali», tali atti non sono opponibili all’INPS, se non vengono portati a sua conoscenza entro tre anni dal momento in cui si sono verificati i presupposti per la loro adozione48. Gli artt. 37 e 44, invece, si inseriscono nel già ricco filone delle norme finalizzate a «governare» le iniziative di esecuzione forzata promosse nei confronti degli enti pubblici in genere e degli enti previdenziali in particolare49. L’art. 44 dichiara che l’art. 14, co. 1 bis, d.l. 31.12.1996, n. 669, conv. nella l. 28.2.1997, n. 30 – il quale ha imposto: che sia gli atti introduttivi del giudizio che quelli di pignoramento e sequestro contengano i dati completi degli interessati e siano notificati presso le strutture territoriali degli enti pubblici nella cui circoscrizione risiedono i privati interessati; che i procedimenti di pignoramento dei crediti promossi nei confronti degli enti previdenziali organizzati su base territoriale siano instaurati nella sede principale del Tribunale nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento posto in esecuzione; che il pignoramento perda di efficacia, se dopo un anno non è stata disposta l’assegnazione; che l’ordinanza ex art. 533 c.p.c. perda anch’essa efficacia, se entro un anno il creditore non provvede all’esazione – si applichi anche ai «pignoramenti mobiliari» di cui agli artt. 513 e ss. c.p.c., che siano «promossi nei confronti degli enti ed istituti esercenti forme di previdenza e assistenza obbligatorie organizzati su base territoriale». L’art. 37 estende la previsione di non assoggettabilità ad esecuzione forzata, già dettata dall’art. 1, co. 294, l. 23.12.2005, n. 266, per i fondi destinati a servizi di sanità pubblica, ai fondi intestati al Ministero del lavoro; non mancando di precisare che gli atti di pignoramento e sequestro promossi contro i fondi suddetti sono affetti di nullità rilevabile d’ufficio.
3.2 La razionalizzazione dell’organizzazione degli enti
La riorganizzazione degli enti vigilati dai Ministeri del lavoro e della salute, ivi compresi gli enti previdenziali, costituisce oggetto di una lunga catena di provvedimenti50, della quale è difficile che l’art. 2 l. n. 183/2010 rimanga l’ultimo anello. L’importanza della delega legislativa, con la quale la norma prevede la «riorganizzazione degli enti, istituti e società vigilati» e la «ridefinizione del rapporto di vigilanza dei predetti Ministeri», sta, forse, soprattutto in ciò che essa non dice espressamente, ma che chiaramente sottende. Si è, infatti, evidenziato51 che, in tal modo, il legislatore abbandona i progetti di fusione di enti previdenziali pubblici, che avevano ipotizzato anche la creazione di un ente previdenziale unico, cosiddetto SuperINPS52. La nuova delega, espressamente orientata alla semplificazione, allo snellimento e alla maggiore efficienza ed economicità delle strutture esistenti (nelle quali, peraltro, è espressamente compreso il Casellario centrale degli infortuni), si pone, invero, nella prospettiva già fatta propria dal «piano industriale» di cui all’art. 1, co. 8, l. n. 247/2007, attuato dal Governo anche dopo il cambio di maggioranza del 2008 e il commissariamento dei consigli di amministrazione di INPS, INPDAP e INAIL. In tale contesto – che, crisi politiche ed economiche permettendo, dovrebbe portare, entro il 2012, al completamento del progetto cosiddetto «Casa del welfare» – l’attuazione della delega dovrebbe assicurare «una corretta revisione della governance degli enti»53. L’art. 49 del «collegato» interviene, invece, sulla composizione del Comitato amministratore del Fondo di solidarietà per il settore credito, di cui al d.m. 28.4.2000, n. 158, e su quella del Comitato amministratore della gestione separata INPS di cui all’art. 2, co. 26, l. n. 335/1995. Il buon andamento delle attività di gestione dei rapporti previdenziali si misura anche dal modo in cui i datori di lavoro trattano, per gli adempimenti di propria competenza, i dati personali dei soggetti protetti. Al fine di tutelare i pubblici dipendenti dagli «eccessi di trasparenza» che possono discendere dall’obbligo, imposto alle amministrazioni dalla riforma del 2009, di pubblicare sui siti internet i dati relativi alle assenze, l’art. 14 della legge n. 183 vieta l’ostensione delle notizie relative alla natura delle infermità e degli impedimenti personali o familiari che causino l’astensione dal lavoro, nonché, in generale, di tutti i dati sensibili di cui all’art. 4, co. 1, lett. d), d.lgs. n. 196/2003, salve le sole deroghe di legge54. È, invece, volto a migliorare l’efficienza dell’attività amministrativa il co. 2 dello stesso art. 14, che impone agli enti previdenziali di trasmettere alle amministrazioni richiedenti i dati relativi all’anzianità contributiva dei dipendenti interessati a provvedimenti di trattenimento in servizio o di risoluzione del rapporto.
1 Cazzola, Collegato lavoro: una storia lunga 27 mesi, in Argomenti dir. lav., 2011, 249.
2 Cfr. Cinelli, Ferraro, La giustizia del lavoro nella visione del Collegato: crisi del processo e tecniche deflattive, in Il contenzioso del lavoro nella legge 4 novembre 2010, n. 183 (Collegato lavoro), a cura di Cinelli-Ferraro, Torino, 2011, XV.
3 Ma si vedano anche le disposizioni che, nello stesso decreto, definitivamente introducono, anche per le controversie previdenziali (oltre che per quelle di lavoro) l’onere di pagamento del contributo unificato.
4 Si tratta dei provvedimenti finalizzati principalmente a modulare l’età pensionabile in funzione dell’aumento della speranza di vita, a parificare l’età di pensionamento delle donne a quella degli uomini e a posticipare la decorrenza dei trattamenti rispetto alla data di maturazione dei requisiti: cfr. art. 22 ter d.l. 1.7.2009, n. 78, conv. nella nella l. 3.8.2009, n. 102; art. 12 d.l. 31.3.2010, n. 78, conv. nella l. 30.7.2010, n. 122; art. 18 d.l. 6.7.2011, n. 198, conv. nella l. 15.7.2011, n. 111.
5 V. art. 12 l. 23.12.1994, n. 724; art. 1, co. 34 ss., l. 8.8.1995, n. 335; art. 59, co. 11, l. 27.12.1997, n. 449; d.m. 19.3.1999.
6 Per l’evoluzione della disciplina e l’analisi delle problematiche alle quali si accenna nel testo, v. Olivelli, I lavori usuranti, in Lavoro, competitività, welfare. Commentario alla legge 24 dicembre 2007, n. 207 e riforme correlate, a cura di Cinelli-Ferraro, Torino, 2008, 570.
7 Sull’attuazione di tale norma, v. d.m. 17.4.2001 e circ. INPS 20.5.2001, n. 115.
8 Olivelli, I lavori, cit., 582.
9 E cioè quelle di produzione dolciaria e di additivi per alimenti (voce 1462), di lavorazione di resine sintetiche, materiali polimerici termoplastici e termoindurenti e simili (voce 2197), di fabbricazione di macchine da cucire e rimagliatrici (voce 6322), autoveicoli e rimorchi (voce 6411), apparecchi termici, di produzione di calore, di riscaldamento, refrigerazione e condizionamento (voce 6581), alle aziende di produzione di elettrodomestici (voce 6582) e di altri strumenti (voce 6590), di produzione di abbigliamento e calzature (voci 8210 e 8230).
10 L’art. 18, co. 22 ter, d.l. n. 98/2011, conv. nella l. n. 111/2001 ha inoltre previsto un ulteriore differimento di tale decorrenza, per coloro che vanno in pensione in forza della sola anzianità anagrafica, che dal 2012 sarà pari a un mese, per giungere a 3 nel 2014.
11 Sul regime transitorio applicabile ai lavoratori notturni, v. i co. 6 e 7 dello stesso art. 1.
12 Fuso, Disposizioni particolari per il personale dirigenziale, in La riforma dei rapporti e delle controversie di lavoro, a cura di Proia-Tiraboschi, Milano, 2011, 317, afferma sussistere discrezionalità tecnica.
13 Ma sull’invio dei certificati telematici, v. già l’art. 1, co. 149, l. 30.12.2004, n. 311.
14 Sulle modalità della trasmissione telematica, mediante il collegamento in rete previsto dall’art. 1, co. 810, l. 27.12.2006, n. 296, v. Poso, Le certificazioni e le prestazioni sanitarie, in Lavoro, competitività, welfare. Dal d.l. n. 112/2008 alla riforma del lavoro pubblico, II, Torino, 2009, 190.
15 Contra v. però circ. INPS 31.1.2011, n. 21, per la quale «rimane sempre riconosciuta al lavoratore privato la possibilità di richiedere al proprio medico curante, anche qualora questi non sia un medico del SSN o con esso convenzionato, la certificazione attestante lo stato di incapacità lavorativa».
16 Per la modifica di dette disposizioni e la loro estensione ai dipendenti pubblici non contrattualizzati di cui all’art. 3 d.lgs. n. 165/2001, v. art. 16, co. 9 e 10, d.l. n. 98/2011, conv. nella l. n. 111/2011.
17 Sugli obiettivi della delega, v., ancorché con riferimento al testo dell’art. 17 del d.d.l. n. 1167, Casillo, Disposizioni in materia di congedi, aspettative e permessi, in Lavoro, competitività, welfare. Dal d.l. n. 112/2008 alla riforma del lavoro pubblico, cit., 213.
18 Il decreto indica infatti l’importo di «euro 43.579,06 per il congedo di durata annuale», già applicato nel 2010, disponendo la sua rivalutazione, già dal 2011, in base agli stessi indici ISTAT richiamanti nel precedente testo.
19 In attuazione del nuovo testo dell’art. 57, v. dir. P.C.m. 4.3.2011.
20 Di Biase, Le pari opportunità come garanzia di ottimizzazione della produttività nel lavoro pubblico, in La riforma dei rapporti e delle controversie di lavoro, cit., 328- 329, osserva che la lotta alle discriminazioni e alle violenze deve considerarsi parte integrante della strategia di riorganizzazione tesa a conferire maggiore efficienza alla pubblica amministrazione.
21 V. amplius, Mignacca, Disposizioni in materia di personale e ruolo del comparto difesa e di lavoro sul naviglio di Stato, in La riforma dei rapporti e delle controversie di lavoro, cit., 378 ss.
22 V. però Riverso, Norme ad processum e morti da amianto «vittime del dovere», in Lav. giur., 2011, 572, che, fortemente critico nei confronti della norma, evidenzia, tra l’altro, come gli stanziamenti confluiscano nel Fondo della cosiddette vittime del dovere, di cui all’art. 1, co. 562, l. n. 266/2005, tra le quali è arduo ricomprendere le vittime dell’amianto.
23 Garofalo, Gli ammortizzatori sociali in deroga, Milano, 2011; Miscione, Gli ammortizzatori sociali in deroga (federalismo previdenziale), in Lav. giur., 2011, 545; Barbieri, Ammortizzatori in delega e modelli di welfare negli accordi Stato-Regioni e Regioni-Parti sociali, in Riv. giur. lav., 2011, I, 379.
24 Cfr. le citate l. n. 111/2011 e l. n. 148/2011.
25 Cinelli, Il riassetto degli ammortizzatori sociali, in Lavoro, competitività, welfare, Commentario alla legge 24 dicembre 2007 n. 207 e riforme correlate, cit., 496- 497; sul contenuto della delega, v. anche Gentile, La riforma degli ammortizzatori sociali, ivi, 511.
26 Viespoli, Le misure di sostegno al reddito, in La riforma dei rapporti e delle controversie di lavoro, cit., 418.
27 Una ulteriore delega, non attuata né riproposta dalla legge n. 183, finalizzata ad adeguare le discipline dell’accesso al pensionamento all’elevazione delle età di pensionamento, comprendente anche i settori delle Forze armate e di polizia, era stata prevista dall’art. 1, co. 6, l. n. 247/2007.
28 Per una più ampia panoramica delle discipline, anche recenti, riferite a tali categorie, v. Migliacca, Disposizioni in materia di personale e ruolo del comparto difesa e di lavoro sul naviglio di Stato, cit., 376 ss.; per ciò che attiene alle Forze armate, cfr. anche il nuovo codice dell’ordinamento militare, d.lgs. 15.3.2010, n. 66, che contiene anche numerose norme previdenziali; per le ripercussioni che su tali categorie si realizzeranno a seguito delle modifiche alle discipline delle pensioni introdotte dalla l. n. 111/2011, v. circ. Ministero dell’interno n. 26/2011.
29 Per alcuni riferimenti, v. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, Torino, 2010, 149 ss.
30 La disciplina era già stata in parte già anticipata dalla cd. macrodirettiva del Ministero del lavoro 18.9.2008: Rausei, I verbali di ispezione e la riforma della diffida, in Il contenzioso del lavoro nella Legge 4 novembre 2010 n. 183 (Collegato Lavoro), a cura di Cinelli-Ferraro, Torino, 2011, 349.
31 La necessità di armonizzare, sulla scorta di quanto praticato in campo fiscale, le esigenze di efficienza dell’attività investigativa con quelle di tutela dell’attività delle imprese è alla base delle disposizioni in materia di modalità di svolgimento degli accessi ispettivi, introdotte dall’art. 7 d.l. 13.5.2001, n. 70, conv. nella l. 12.7.2011, n. 106, che ha imposto, tra l’altro, limiti massimi alla durata e alla ripetizione di detti accessi, obblighi di programmazione e coordinamento dei controlli in materia fiscale e contributiva, divieti di duplicazioni degli interventi, nonché l’applicazione agli accessi ispettivi effettuati dagli enti previdenziali dell’art. 12 dello Statuto del contribuente (l. 12.7.2000, n. 212).
32 Rileva l’importanza di tale verbalizzazione, che consente agli ispettori di precostituire una prova fornita di fede privilegiata, ex art. 2700 c.c., di quanto direttamente accertato, Rausei, I verbali, cit., 355-356.
33 Se, invece, non si riscontrano illeciti, va data «comunicazione di regolare definizione degli accertamenti »: circ. Ministero del lavoro 9.12.2010, n. 41.
34 Rausei, I verbali, cit., 360 e passim.
35 Sulla illegittimità delle sanzioni irrogate senza previa diffida v. Rausei, I verbali, cit., 370-371.
36 V. però quanto ritenuto da circ. Min. lavoro 9.12.2010, n. 41 e circ. INPS 13.5.2011, n. 75.
37 Sulla determinazione del dies a quo per il decorso dei termini di presentazione dei ricorsi, nei vari casi di verbale avente ad oggetto illeciti diffidabili, non diffidabili ovvero di entrambi i tipi, v. ancora circ. Ministero del lavoro 9.12.2010, n. 41.
38 Viene meno, infatti, la antecedente previsione della non diffidabilità: Gentile, Sanzioni e procedura amministrative nel lavoro sommerso, in Il contenzioso del lavoro nella Legge 4 novembre 2010 n. 183, cit., 345.
39 Sulla qualificazione del rapporto, al fine dell’irrogazione della sanzione e sulle ulteriori problematiche applicative, v. circ. Ministero del lavoro 12.11.2010, n. 38.
40 Sull’introduzione di semplificazioni sulle procedure di assunzione nel settore turismo e in quello pubblico, cfr., rispettivamente, il co. 2 dello stesso art. 4 e l’art. 5 della legge n. 183.
41 Gli ispettori applicavano la sanzione anche ai rapporti di lavoro autonomo, ivi compresi quelli instaurati con lavoratori non iscritti alla Camera di commercio: circ. INPS 13.10.2006, n. 111.
42 A sua volta oggetto di numerose modifiche: Gentile, Sanzioni e procedura, cit., 328.
43 In tal senso circ. Ministero del lavoro 12.11.2010, n. 38.
44 Circ. INPS 7.12.2010, n. 157.
45 Cinelli, Lavoro parasubordinato e reato di omesso versamento di ritenute previdenziali, in Il contenzioso del lavoro, cit., 410.
46 Nonché alla «conversione» delle collaborazioni in corso in rapporti di lavoro dipendente: al riguardo, si veda anche l’art. 50 l. n. 183/2010, in materia di definizione, tra le parti del rapporto, delle pendenze connesse alle offerte di assunzione formulate ai sensi dell’art. 1, co. 1202 e ss., l. n. 296/2006.
47 Cfr. art. 1, co. 773, l. n. 296/2006.
48 Circ. INPS 11.3.2011, n. 47.
49 V. il quadro tracciato da Carbone, Le procedure esecutive nei confronti dei soggetti pubblici e degli istituti previdenziali, in Il contenzioso del lavoro nella Legge 4 novembre 2010 n. 183, cit., 398.
50 Sulla quale v. Carbone, La razionalizzazione degli enti previdenziali, in Lavoro, competitività, welfare, Commentario alla legge 24 dicembre 2007 n. 207 e riforme correlate, cit., 671.
51 Nicolini, La riorganizzazione degli enti vigilati dal Ministero del lavoro e dal Ministero della salute, in La riforma dei rapporti e delle controversie di lavoro, cit., 408-409. Tali progetti, tuttavia, sembrano essere ripresi dall’art. 1 l. n. 148/2011 che rilancia la prospettiva dell’«accorpamento degli enti della previdenza pubblica».
52 Carbone, La razionalizzazione, cit., 675. Sulla soppressione di alcuni enti minori, tra cui l’IPSEMA e l’IPOST, comunque realizzata dall’art. 7 d.l. n. 78/2010, conv. nella l. n. 122/2010, unitamente alla semplificazione delle strutture interne degli altri enti, v. Fedele - Morrone, La sicurezza sociale nel 2010 e la prospettiva di risanamento della finanza pubblica, in Riv. dir. sic. soc. 2010, 626 ss.
53 Nicolini, La riorganizzazione, cit., 408.
54 Per la ricostruzione delle discipline in materia v. Fuso, Il rafforzamento dei principi della trasparenza e della semplificazione nell’organizzazione del lavoro pubblico, in La riforma dei rapporti e delle controversie di lavoro, cit., 307; sul monitoraggio dei dati relativi alle assenza per l’assistenza dei congiunti in condizioni di handicap, si veda invece l’art. 24 della legge n. 183, già commentato supra.