Norme in tema di previdenza nella finanziaria 2011*
Come in ogni manovra finanziaria, anche in quella estiva 2011 trova posto la materia della previdenza sociale. La manovra previdenziale non ha solo un rilievo economico/quantitativo, ma deve anche confrontarsi con le precedenti scelte di sistema e con i valori costituzionali conclamati e, in caso di pensione, anche con le attese, oltre che con i diritti consolidati (meglio che quesiti). Da ciò, una premessa classificatoria, in funzione dell’effetto di ciascuno degli interventi. Per ciascuna delle aree di intervento, il legislatore si sforza di concentrare le scelte in uno specifico segmento normativo. Se l’ossatura del saggio è condizionata – salvo il diverso ordine di classificazione – dalle indicazioni legislative, è del tutto personale la scelta dei temi di approfondimento: la parità uomo donna in tema di età pensionabile, anche per l’evidente influsso delle soluzioni adottate nel lavoro pubblico sulla base della giurisprudenza comunitaria; ancora la parità, come criterio guida, nella questione del matrimonio anagraficamente squilibrato. Una sola battuta sul riassetto ordinamentale degli enti previdenziali di diritto pubblico e quelli degli enti previdenziali privati.
Che la previdenza, specialmente quella pensionistica, in quanto spesa, a produttività redistributiva, gravante sul sistema economico del Paese, sia una rilevante componente del bilancio nazionale è stato da tempo affermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 2/1994, che – in ragione della rilevata sussistenza di «quello stretto collegamento delle disposizioni legislative oggetto dei quesiti referendari con le leggi di bilancio»1 – ha dichiarato a suo tempo la inammissibilità del referendum abrogativo dell’art. 3 l. n. 421/1992 e del d.lgs. n. 503/1992, noti come il primo intervento di contenimento della spesa previdenziale pensionistica. Il richiamo dei due provvedimenti del 1992 induce a riflettere sulla circostanza che, oramai a quasi venti anni di distanza, l’azione di governo continui ad occuparsi dei tre segmenti principali della spesa pubblica, per contenerla. È sufficiente il confronto fra i titoli dei provvedimenti2. Si tratta di riflessioni che valgono anche prescindendo – almeno per ora – dalla tecnica di reperimento delle risorse per il relativo finanziamento3. Questo preliminare approccio spiega come sia diffusa la linea della stessa Corte costituzionale, che ha sistematicamente utilizzato il parametro di costituzionalità offerto dall’art. 81, co. 4, Cost. del quale si coglie la funzione di strumento per la realizzazione e mantenimento dell’equilibrio di bilancio – ovviamente, nel presupposto di una situazione di partenza equilibrata –, che si deve dunque assumere come già presente nell’impianto costituzionale vivente, grazie all’opera sistematica del giudice delle leggi4; ed anzi, va sottolineato, questa tecnica di formazione del giudizio di legittimità costituzionale delle leggi assume oramai da tempo il valore di rigoroso contemperamento dell’applicazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., inducendo una scelta di ragionevole pareggiamento delle situazioni regolate, ma non più nella direzione dell’espansione dei benefici/privilegi, atta ad accrescere la spesa, sebbene, all’opposto, verso un livellamento realizzato proprio eliminando privilegi e non più dalla loro dilatazione5. Se allora vuol darsi credito alle dichiarazioni che, in accompagno della manovra in esame, puntano a valorizzare l’equilibrio di bilancio come nuovo principio costituzionale, si deve puntare a che l’argine dell’art. 81, co. 4 operi in via preventiva, mediante adeguate ed affidabili procedure parlamentari di prevalutazione delle norme, secondo la responsabilità del legislatore (complessivamente inteso), posto che la diga disposta dalla Corte costituzionale è inevitabilmente seconda nel tempo e quindi operante solo quando le scelte legislative hanno eventualmente già prodotto i paventati effetti di squilibrio6. Il punto è che in ambito pensionistico – al di là dell’uso disinvolto in passato delle erogazioni facili7 – esistono fattori di squilibrio della cui esistenza si è faticosamente acquisita consapevolezza: alcuni di essi sono suscettibili di valutazione programmatica, come per il fattore demografico; altri sono non valutabili programmaticamente, come i mutamenti del mercato del lavoro nelle sue componenti nazionali ed internazionali; altri ancora sono correlati ai comportamenti sociali, significativamente, ma non solo, riferibili ai nuovi valori e modi di intendere la famiglia e la relativa regolamentazione. Sono, comunque, fattori di squilibrio che, insieme o singolarmente, possono alterare la prevalutazione degli effetti, ipotizzati, delle norme via via predisposte, a fronte di comportamenti elusivi se non evasivi, spesso commisti con vere e proprie distorsioni funzionali, non lontane dall’abuso del diritto. La situazione è per di più oltremodo fluida e la disamina, qui affrontata, dei temi previdenziali presenti nella manovra iniziale (l. 15.7.2011, n. 111)8, deve estendersi alle integrazioni della manovra bis (l. 14.9.2011, n. 148), tenendo conto del rischio di ulteriori interventi, che non consente ragionevoli certezze in ordine allo sviluppo delle posizioni individuali; ed è perciò almeno illusorio creare affidamenti, attraverso il lancio dell’idea di utilizzare, secondo la moda svedese, la famosa «busta arancione», che dovrebbe rappresentare con sufficiente approssimazione il frutto della accumulazione di anzianità contributiva. Se queste riflessioni introduttive valgono essenzialmente per la previdenza pensionistica di base, esse non sono estranee alle altre branche del sistema previdenziale pubblico, anche esse produttrici di spesa o comunque rilevanti per l’equilibrio della spesa previdenziale. Anche questi segmenti del sistema previdenziale sono caratterizzati dalla correlazione nel rapporto contributi-prestazioni, secondo tuttavia una logica di breve periodo: cosicché, nei relativi ambiti, risultano quanto meno attenuate le questioni di salvaguardia dei diritti quesiti e le connesse tecniche di gradualità temporale nell’introduzione di regole modificative dei regimi in essere. Non è casuale, pertanto, la loro marginalità in una manovra finanziaria così rilevante come quella in esame, così da essere sufficiente un breve cenno: si registra da un lato, in tema di sostegno del reddito, lo specifico intervento del co. 2 (dichiaratamente a parità di oneri) concernente l’integrazione – annualmente prorogata - della indennità di disoccupazione per chi non fruisce della indennità di mobilità; da altro lato, in tema di contributo per il trattamento economico di malattia (co. 16), si fa marcia indietro rispetto al vantaggio concesso all’inizio della legislatura con l’art. 20, c. 1, d.l. n. 112/2008 (l. conv. n. 133/2008), mediante esonero dalla relativa contribuzione ove il trattamento fosse garantito direttamente dal datore di lavoro9. Ancor più marginale è l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, presente nella manovra (c. 21) in ragione di una mera esigenza organizzativa, connessa alla prospettiva di realizzazione di un polo «salute-sicurezza del lavoro».
Ancorché le misure adottate nella manovra a quattro tempi dell’estate 2011 (pur se a rischio di ulteriori strascichi) abbiano di massima un loro peso finanziario, a parte le non poche norme definite non suscettibili di valutazione finanziaria10, gli interventi legislativi in ambito previdenziale non si esauriscono in mere variazioni quantitative. Deve anzi darsi atto che le modifiche strutturali sono idonee a determinare di per sé un effetto di stabilizzazione, sia sotto il profilo di contenimento della spesa, sia di razionalizzazione del sistema stesso: da ciò il loro rilevante impatto, da valutare in termini di congruità giuridica, oltre che di redistribuzione delle risorse. È per questo utile una classificazione degli interventi in tema di previdenza (concentrati essenzialmente, ma non esclusivamente, nell’art. 18 d.l. n. 98/2011), in relazione alla loro incidenza di ordine sistematico sul settore, fermo restando che tutti – indipendentemente da specifiche enunciazioni (cfr. l’incipit del co. 3) – hanno come obiettivo l’equilibrio finanziario dello Stato oppure il rilancio dell’economia, se non entrambi. Al di là dei possibili intrecci fra gli uni e gli altri, si distinguono interventi di radicale innovazione, cui si affiancano interventi di mera accelerazione degli effetti di altri pregressi, nonché interventi estensivi o modificativi della portata di altri precedenti – talvolta dissimulati dalla tecnica di interpretazione autentica –, oltre che di reiterazione delle misure di contenimento. È evidente che, rispetto a quelli di radicale innovazione, si pongono più acute le questioni di congruità giuridica (dal rispetto della parità di trattamento, alla salvezza dei diritti quesiti, alla resistenza nei confronti di tecniche elusive); ma esse si pongono, seppur in termini attenuati, addirittura rinnovandosi se si tratta di reiterazione. Dato il taglio dell’opera, l’approfondimento analitico sarà effettuato solo nei confronti di taluni interventi, bastando per il resto gli spunti di riflessione, che verranno svolti direttamente in corso di classificazione. Appartengono alla tipologia di interventi radicalmente innovativi: a) l’elevazione dell’età pensionabile per le donne dipendenti private ed autonome (infra § 3.1), sottoposta a successive accelerazioni durante la manovra; b) il condizionamento dell’accesso alla prestazione pensionistica ai superstiti, in caso di matrimonio sospetto in ragione della differenza di età (infra § 3.3). A quella degli interventi di accelerazione appartiene, oltre la testé segnalata anticipazione dei tempi di operatività dell’aumento dell’età pensionabile delle donne, anche l’anticipazione della prevista operatività di variazione dei requisiti di accesso alle pensione correlati agli incrementi di speranza matematica di cui al co. 4 (infra § 3.2). A quella degli interventi estensivi o correttivi di precedenti statuizioni appartengono le disposizioni in tema di persistenza dell’obbligo contributivo in capo ai professionisti pensionati ancora attivi (co. 11), cui si collega per un verso la previsione (co. 12 qualificato come di interpretazione autentica) concernente la portata dell’art. 2, co. 26, l. 8.8.1995, n. 335, e per altro verso l’estensione delle procedure di controllo incrociato anche agli enti di previdenza privati (su questo punto, infra § 3.6). La combinazione dei co. 11 e 12 definisce la condizione contributiva di coloro che, conseguita la pensione, continuino l’esercizio della professione. Tale condizione, comportante, secondo l’impianto originario (d.lgs. n. 509/1994 e d.lgs. n. 103/1996), l’esclusione dell’obbligo contributivo nello specifico regime professionale, ha determinato il dubbio della insorgenza a carico di detti soggetti dell’obbligo del contributo proprio della quarta gestione INPS (art. 1, co. 26, l. n. 335/1995). Un tale dubbio11 era frutto del travisamento della funzione della quarta gestione, istituita dal 1.1.1996 per conseguire, anche nell’ambito del lavoro autonomo, la cd. universalizzazione della tutela previdenziale, avendo attenzione alla esistenza di relativamente vaste aree di lavoratori autonomi allora sprovviste di tutela pensionistica. Questo obiettivo è stato faticosamente conseguito con vari assestamenti normativi, in un contesto di pluralità di regimi pensionistici per l’area del lavoro autonomo (artt. 2083, 2222 e 2229 c.c.). Un pluralismo di regimi risultante, oltre che dall’articolazione delle quattro gestioni INPS per gli autonomi, anche dalla articolazione istituzionale degli enti privatizzati e privati di cui ai citati d.lgs. n. 549/1994 e d.lgs. n. 103/1996, fra loro coordinati per effetto di sintomatici rinvii. L’ordinamento pensionistico di questa area professionale disposto dalla riforma Dini risponde ad un criterio di verticalizzazione dei regimi per categorie professionali: del che è conferma la sequenza normativa presente nell’art. 3, co. 1, d.lgs. n. 103/1996, che assume come scontata premessa la esistenza di una serie di regimi consolidati ai sensi del d.lgs. n. 509/1994. Lo spazio di operatività del co. 26 stava già tutto e solo (per quanto concerne i soggetti esercenti attività libero professionale nel quadro dell’art. 2229 c.c.) nell’ambito di quelle categorie professionali che al termine delle operazioni di privatizzazione ex d.lgs. n. 509/1994 e di istituzione dei nuovi enti privati pensionistici ex d.lgs. n. 103/1996 fossero per avventura rimaste fuori – anche dopo le sintomaticamente rinnovate opportunità di accorpamento ed inclusione offerte dalla l. n. 243/2004, nell’art. 1, co. 36 – degli specifici ambiti di ciascun regime libero-professionale. Questa è la precisa portata di operatività del co. 26 quanto ai liberi professionisti: «nel caso di mancata adozione delle delibere di cui al co. 1, i soggetti appartenenti alle categorie interessate sono inseriti nella gestione di cui al co. 1, lett. d)»; formula che demarca i regimi dell’area del lavoro autonomo libero professionale: da un lato, gli appartenenti alle categorie professionali dotate di un regime proprio, dall’altro quelli sforniti di tutela pensionistica specifica. Su questa situazione reagisce ora il co. 12, con una interpretazione autentica confermativa della tesi sopra esposta. Il co. 11, nel mantenere la specificità e la separatezza dei regimi professionali di previdenza pensionistica, ne innova tuttavia l’impianto normativo, imponendo (mediante opportuni adeguamenti statutari degli enti interessati) la eliminazione della lacuna normativa che aveva alimentato il dubbio, prolungando direttamente l’obbligo contributivo – seppure in misura ridotta – a carico dei professionisti pensionati ancora esercenti. A quella degli interventi di reiterazione di misure di contenimento già sperimentate appartengono: a) il blocco parziale della perequazione automatica (co. 3); b) il prolungamento della finestra per i pensionamenti di anzianità maturandi entro il 2012, 2013, e dal 2014 (co. 23 ter), a parte i lavoratori nelle varie ipotesi di mobilità (co. 22 quater). Quanto al blocco parziale della perequazione, il co. 3, nella versione corretta dalla legge di conversione, sempre ai fini del conseguimento degli obiettivi della finanza pubblica, dispone per il biennio 2012-2013 la non concessione della perequazione automatica, garantendo comunque una erogazione limitata al 70% della perequazione calcolata sull’importo fino a tre volte il minimo e salvaguardando comunque l’erogazione della perequazione fino al limite risultante, volta per volta, dall’importo di cinque volte il minimo maggiorato della relativa quota di perequazione. Rispetto a quella iniziale12, la complessa e più contenuta riformulazione è l’evidente frutto della preoccupazione di evitare il rischio di un intervento della Corte costituzionale. Sul punto è, infatti, recentissima la sentenza n. 316/201013, di rigetto, dalla quale è dato ricavare una serie di criteri, risultanti anche dai numerosi precedenti richiamati dalla stessa Corte in materia di contenimento della spesa pensionistica, sui quali fondare la legittimità della rinnovata scelta di blocco parziale della perequazione. Essi sono:
a) innanzitutto l’obiettivo perseguito, di concorso al riequilibrio delle conseguenze finanziarie indotte dal correttivo allo scalone: finalità non dissimile da quella attuale, sebbene quest’ultima risulti più ampia e generale;
b) la marginalità della misura rispetto al profilo della adeguatezza, specialmente in ragione della elevata consistenza dei trattamenti colpiti, ricavandosi da ciò l’attenzione della Corte alle diverse esigenze dei trattamenti di minore importo;
c) la discrezionalità riconosciuta al legislatore nella determinazione dei trattamenti pensionistici, nella ricerca di un bilanciamento di valori contrapposti, anche in relazione alle disponibilità finanziarie ed alle esigenze di bilancio;
d) la non invocabilità del principio di uguaglianza, in ragione della «sicura rilevanza» degli importi compressi dal blocco;
e) in conclusione, la valorizzazione della finalità di contenimento della spesa. Ma, in cauda venenum, la Corte esprime la preoccupazione che «la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo (l’adeguamento), esporrebbe il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità, perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta»: qui qualche dubbio potrebbe nascere proprio dalla reiterazione a breve della manovra di blocco, seppur parziale, e dalla più modesta misura dei trattamenti colpiti; per non parlare dell’impatto che deriva dalla contemporanea manovra di prelievo per contributo di perequazione di cui al co. 22 bis. Quanto all’ulteriore prolungamento delle finestre, già disposto con l’art. 12, co. 2, d.l. n. 78/2010, prosegue la penalizzazione della pensione di anzianità per effetto dell’ulteriore e graduale differimento della data di decorrenza – co. 22 ter, 22 quater e 22 quinquies, aggiunti dalla legge di conversione – salvo un numerus clausus, operante secondo un discutibile meccanismo di priorità nel tempo, ormai invalso come criterio di distribuzione delle limitate risorse, «per l’attribuzione dei trattamenti di mobilità». Non mancano infine provvedimenti di interpretazione autentica, volti a stabilizzare orientamenti amministrativi e giurisprudenziali adottati, vuoi per dirimere contrasti sorti in sede giurisprudenziale o anche solo amministrativa, vuoi per contrastare pratiche elusive: essi concernono: a) il calcolo dell’indennità integrativa speciale nel regime INPDAP (commi 6, 7, 8 e 9); b) quanto al fondo presso l’INPS per la transizione dei regimi ex esonerativi e sostitutivi del credito (co. 10, in relazione al d.lgs. n. 357/1990), la neutralizzazione degli effetti moltiplicativi della garanzia INPS a fronte delle diffuse pratiche di liquidazione in capitale; c) l’obbligo contributivo pregresso per i professionisti pensionati, ma ulteriormente attivi (co. 12, in relazione al co. 11, entrambi esaminati supra); d) la natura giuridica del trattamento ENASARCO, del quale si ribadisce la natura integrativa rispetto al trattamento di base (co. 13, in relazione alla l. n. 12/1973). Sia consentito esprimere perplessità sulla diffusa utilizzazione della tecnica di interpretazione autentica in un provvedimento caratterizzato dall’obiettivo di conseguire risultati economico-finanziari e semmai di sviluppo economico: questa tecnica da un lato appesantisce il testo, e dall’altro fa nascere il sospetto sulla genuinità della funzione interpretativa.
2.1 Gli interventi al di fuori dell’art. 18
A questo punto, prima di procedere all’approfondimento dei segmenti sopraindicati, in quanto ritenuto meritevole di attenzione sistematica, si deve qui segnalare che nel contesto degli interventi innovativi, oltre quelli volti a modificare la portata dei singoli istituti e delle misure delle prestazioni, se ne collocano – peraltro fuori dell’art. 18 – taluni che attengono, volta a volta: a) a profili istituzionali, in cui si colloca la previsione del programma di accorpamento degli enti di previdenza pubblici ex art. 01 d.l. n. 138/2011 e l. conv. n. 148/2011 (infra § 3.5). o la norma di estensione agli enti di previdenza privati dell’attività della COVIP quanto alla vigilanza su investimenti e patrimonio ex art. 14, co. da 1 a 5 (infra § 3.6); b) la dilazione da sei a ventiquattro mesi nella erogazione del TFR ai pubblici dipendenti che cessino dal servizio non per raggiungimento di limiti di età o di servizio, nonché dell’anzianità massima di servizio: sul punto ci si limita a rilevare che la norma non modifica in sé l’istituto, ma determina un repentino differimento della disponibilità finanziaria di importi in corso di avanzata maturazione, in linea, a ben guardare, con la segmentazione in tre rate dei relativi importi già adottata nell’art. 12, co. 7, l. n. 122/2010; c) a problemi in tema di controversie previdenziali, sia mediante l’introduzione nelle controversie del contributo unificato di iscrizione a ruolo, per il caso di vertenza introdotta da soggetto titolare di un reddito irpef non inferiore a € 31.884 (art. 76 d.P.R. n. 115/2002), con l’evidente obiettivo di filtrare le controversie anche previdenziali (art. 37, co. 6), sia mediante lo sfoltimento del contenzioso per effetto del riconoscimento comunque della pretesa avanzata e della estinzione d’ufficio dei processi il cui valore accertato non superi i 500 euro, sia mediante l’obbligatorietà dell’accertamento tecnico nelle cause per invalidità civile e simili: sul punto, è evidente il prevalere del profilo processuale della innovazione, ma interessa rilevare le implicazioni previdenziali implicite in queste scelte; d) a profili di collegamento del regime contributivo con l’azione contrattuale collettiva: lo specifico riferimento è alla contrattazione aziendale e territoriale, nei termini previsti dall’art. 26, cui si correla l’art. 8 l. n. 148/2011(infra § 3.7). A parte va considerata la disposizione del co. 22 bis, che anzi neppure può configurarsi come norma previdenziale in senso proprio (nonostante la sua collocazione nell’art. 18, che si spiega solo in ragione della circostanza che soggetto delegato al calcolo ed alla relativa trattenuta è l’INPS stesso, quale ente erogatore), mirando esclusivamente ad un prelievo forzoso sulla pensione di natura obiettivamente fiscale, a carattere temporaneo (dall’1.8.2011 al 31.12.2014, variabile in ragione della misura della pensione (5% sugli importi complessivi che superano euro 90.000 e 10% oltre i 150.000 euro). A detto prelievo, denominato contributo di perequazione – confermato (art. 2, co. 1, d. l. n 138/2011) in sede di conversione insieme con la quantitativamente identica riduzione delle retribuzioni per il pubblici dipendenti (art. 9 d.l. n. 78/2010 e l. conv. n. 122/2010) – ha fatto riscontro nel d.l. n. 138/2011 in sede di conversione (art. 2, co. 2) l’introduzione del discusso contributo di solidarietà, fortemente ridimensionato rispetto all’originaria ed allineata previsione (3% oltre i 300.000 euro, anche esso temporaneo, dall’1.1.2011 al 31.12.2013), non casualmente introdotto dal medesimo incipit, che così suona: «In considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica »14. Nel computo del contributo di solidarietà si è inevitabilmente previsto di tener conto del contributo di perequazione, che pure evidenzia non piccole differenze almeno nella durata del prelievo, tanto che si può ragionevolmente configurare l’art. 2, co. 2, testé citato, se non come una estensione del co. 22 bis, almeno come una derivazione dello stesso, così trovando conferma i forti dubbi in termini di uguaglianza determinati dalla ben più pesante imposizione a carico dei pensionati e dei dipendenti pubblici. In aggiunta a queste sommarie riflessioni, merita di essere qui sottolineato che, nella sua puntuale formulazione, la norma ribadisce la scelta di stretta assimilazione, ai fini del cumulo, fra trattamento di base e trattamento pensionistico di secondo livello, ma solo da prestazioni aggiuntive o integrative del tipo a prestazione definita di qualunque derivazione, secondo la definizione adottata dall’art. 2 d.lgs. n. 252/2005. Si tratta di una conferma dell’orientamento espresso dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 393/2000, sebbene la questione degli indicati limiti di operatività del cumulo sia destinata a perdere, seppure solo in parte (a causa, per un verso, della sfasatura temporale e, per altro verso, della ben diversa soglia di imponibilità), il suo rilievo proprio in ragione della successiva introduzione del contributo di solidarietà, sul reddito complessivo del singolo, esso sì comprensivo anche delle prestazioni a contribuzione definita.
Come anticipato, gli approfondimenti che seguono – in coerenza con la natura dell’opera – sono svolti avendo attenzione ai soli profili qualitativi e non anche all’impatto quantitativo della innovazione sulla manovra complessivamente considerata. Essi, dunque, prescindono, in linea di massima, da ogni considerazione sulla efficacia economico-finanziaria dei singoli interventi, che si da per scontata salva perplessa indicazione della stessa relazione tecnica.
3.1 L’elevazione dell’età pensionabile delle donne (art. 18, co. 1)
L’intervento più significativo è quello concretantesi nell’elevazione dell’età pensionabile delle donne in vista del raggiungimento della medesima età pensionabile che per l’uomo. Qui viene in rilievo la modifica in sé della disciplina, indipendentemente dai tempi previsti per la sua concreta attuazione, che hanno subito una importante variazione dal testo della l. n. 111/2011 al testo della l. n. 148/2011, che avvia dal 2014 il processo di graduale elevazione dell’età. Quanto alla programmata tempistica, essa risponde comunque al criterio di gradualità, che – a parte gli effetti finanziari della manovra15 – costituisce applicazione dal criterio giuridico di salvaguardia della progressione dei diritti in formazione. La vicenda viene sicuramente da lontano e si sviluppa variamente per l’area del lavoro privato e per quella del lavoro pubblico (oramai in progressiva convergenza in ordine all’età pensionabile), nonché grazie all’intreccio con la disciplina dei licenziamenti individuali. Punto di partenza è la sentenza della Corte costituzionale 1.7.1969, n. 123, resa con riferimento ad un regime allora speciale (l. 2.4.1958, n. 377), conforme – quanto all’età pensionabile – alla disciplina dell’assicurazione generale obbligatoria, ma con l’ulteriore previsione della risolubilità del contratto di lavoro per effetto del conseguimento del diritto al trattamento pensionistico. La Corte ritenne la non illegittimità di questa parte della normativa sottopostale con un (imbarazzato) riferimento alla diversità di attitudini della donna, sulle quali trovava fondamento la discrezionalità tecnica della scelta del legislatore. La Corte ritenne di aggiungere un ulteriore passaggio in termini di ammissibilità, ex art. 3 Cost., di un differenziato regime pensionistico in sé, al fine di consentire, nell’interesse della donna e della stessa società, la realizzazione di «condizioni di lavoro che le permettano di curare gli interessi familiari». Questa affermazione ha continuato a reggere, attraversando la stagione della progressiva generalizzazione della disciplina di limitazione del licenziamento libero (l. n. 604/1966), che notoriamente correlava il regime di stabilità (obbligatoria, e poi anche reale) all’accesso alla prestazione di vecchiaia. In questa prospettiva – fermo il differenziato requisito di accesso al trattamento pensionistico – è risultato sufficiente introdurre l’opzione di differimento della fruizione della pensione per ritenere realizzata la parità di trattamento uomo-donna, come effetto della estensione nel tempo del regime di protezione dal libero licenziamento. Preceduta dalla l. 9.12.1977, n. 903, il fondamento di questa soluzione in termini di legittimità costituzionale è ribadito in C. cost., 11.6.1986, n. 13716. La sentenza ha affrontato il tema della parità di trattamento esclusivamente sotto il profilo della parità delle condizioni di lavoro, per la correlazione fra età pensionabile e licenziamento, risolvendo la questione solo in relazione al recesso, rispetto al quale la Corte – in sintonia con la Corte di giustizia – afferma che «anche l’ordinamento comunitario è venuto evolvendosi nel senso di una sempre più incisiva applicazione del principio di parità fra uomo e donna, in particolare con l’emanazione delle direttive consiliari 75/117 e 76/207, interpretata, quest’ultima, come idonea ad impedire la possibilità di licenziamento della donna, per la sola ragione del compimento dell’età pensionabile, eventualmente fissata con riferimento ad un limite meno elevato di quello stabilito per l’uomo». Il problema dell’età pensionabile resta per così dire in secondo piano17, limitandosi la Corte costituzionale a ripercorrere i passaggi già sviluppati dalla sentenza n. 123/1969, pur con qualche sottolineatura dei momenti di criticità della stessa: si rinviene così, per un verso, il richiamo alla «essenzialità» della funzione familiare, che viene però collocata in un contesto non più statico, bensì di dinamico riscatto della «donna dal residuo stato di inferiorità sociale e giuridica che aveva rispetto all’uomo». per altro verso, la rielaborazione del concetto di «attitudini», sul quale la precedente sentenza aveva costruito il giudizio di legittimità costituzionale del diverso requisito pensionistico, ritenendolo «comprensivo, tra l’altro, in particolare (sent. n. 123/1969) della capacità al lavoro e della resistenza fisica». Insomma, un complesso ragionamento che sul finire induce la Corte «a ritenere che siano venute meno quelle ragioni e condizioni che prima potevano giustificare una differenza di trattamento della donna rispetto all’uomo. In particolare rispetto all’età del conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, rispetto alla disciplina del licenziamento fondata su detto evento», con un passaggio che sembra ad un passo dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma differenziatrice fra uomo e donna dei requisiti di accesso alla pensione, passo però rimasto incompiuto. Questo è l’assetto normativo in cui si consumano le vicende della parità uomo–donna in generale, a parte quella proprio dell’età pensionabile. Fa peraltro da contorno, legittimante questa scelta, la stessa normativa europea (dir. CE n. 7/79), che consente – in ragione della esistenza di situazioni storicamente e socialmente non eguali, ritenute comunque meritevoli di tutela – agli ordinamenti degli Stati membri una ragionevole differenziazione tra uomo e donna nel regime di accesso al trattamento pensionistico legale18. A fronte di questo clima di conservazione, e nel mentre si avvia con la l. n. 421/1992, il processo legislativo di lievitazione dell’età pensionabile in generale, si registra per l’area del pubblico impiego – che a partire da quella legge e dal decreto attuativo, n. 503/1992, subisce il processo di omogeneizzazione ed armonizzazione alle esperienze dell’AGO-IVS e registra la istituzione dell’INPDAP nel 1994 – una manovra di segno opposto a quella allora in discussione, seppur tiepida, nell’area del lavoro privato. Ciò anche se fin dal 1973, ed ancor prima, il regime pensionistico di vecchiaia per i pubblici dipendenti (per altri profili, caratterizzato da una estrema variegatezza di presupposti sulla base dei quali veniva regolato l’accesso alle prestazioni pensionistiche) fosse stato impostato sul criterio della parità uomo-donna, della quale sembrava imminente la affermazione sul piano generale, l’art. 5 d.lgs. 30.12.1992, n. 503 disponeva invece che i dipendenti pubblici avessero diritto alla pensione di vecchiaia alla stessa età prevista dal sistema pensionistico gestito dall’INPS per le categorie generali di lavoratori, e dunque di 60 anni per le donne e di 65 per gli uomini (cfr. combinato disposto dell’art. 5, n. 1, e della tabella A del citato d.lgs. n. 503/1992), così come successivamente ribadito dall’art. 1, co. 6, lett. b, l. n. 243/2004. La vicenda legislativa testé descritta risulta di poco successiva all’avvio di una linea giurisprudenziale della Corte di Giustizia, che nel caso Barber, con la sentenza 17.5.1990, in causa C-262/88 fissa questo principio: «l’ art . 119 (ora 141) del Trattato vieta qualsiasi discriminazione in materia di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile, quale che sia il meccanismo che genera questa ineguaglianza . Pertanto la fissazione di un requisito di età che varia secondo il sesso per le pensioni versate nel contesto di un regime professionale privato che si sostituisce in parte al regime legale è in contrasto con detto articolo, anche se la differenza tra l’età di pensionamento degli uomini e quella delle donne è analoga a quella stabilita dal regime legale nazionale». È un’avvisaglia di quello che – salvo il punto fermo della delimitazione temporale degli effetti, che la stessa sentenza della Corte di giustizia fissa con riferimento alla data di sua emanazione (cfr. § 44 della sentenza Barber) – risulterà essere un vero e proprio torrente, che travolgerà vari regimi pensionistici professionali anche di dipendenti pubblici (per l’Olanda, caso Beune, C-7/93; per la Francia, caso Griesmar, C- 366/99). Esso si consoliderà nella dir. CE 2005/54 del 5.7.2006, considerando n. 1419, e, soprattutto, per quanto riguarda in particolare l’accesso al trattamento pensionistico delle dipendenti pubbliche nel nostro ordinamento, si è concretato nella sentenza di condanna C-46/07 del 13.11.2008, affermando che per effetto della «normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’art. 141 Trattato CE»20. Per quanto discutibile possa essere considerata questa linea rispetto alla dir. CEE n. 7/79, specialmente per la scelta di qualificare il regime INPDAP come professionale, questo è oramai il quadro normativo comunitario e ad esso l’ordinamento italiano si è adeguato dapprima con l’art. 22 ter d.l. n. 78/2008 e l. n. 102/2009, con una lenta gradualità, che è stata accelerata per evitare il rischio di una ulteriore condanna della Corte di giustizia o l’insorgenza di controversie nazionali nell’intervallo temporale della gradualità originaria21. Al di là delle implicazioni sul regime INPDAP, non si può mettere in dubbio la portata paradigmatica di questo episodio, giurisprudenziale e legislativo, rispetto al criterio generale operante nelle categorie generali, per le quali l’ammissibilità di una diversa regolazione dell’accesso è comunque dall’ordinamento europeo oramai non tanto consentita, quanto più che altro tollerata. Il richiamo alla questione del regime pensionistico delle pubbliche dipendenti non è, dunque, una mera divagazione letteraria, ma vale a ricostruire il clima politico nel quale si consuma, con la manovra del 2011, la spallata per la parità pensionistica uomo-donna nell’AGO-IVS, spallata che sul piano della politica di governo si spiega principalmente come esigenza finanziaria, ma trova terreno fertile nel descritto processo di avvicinamento delle regole pensionistiche ex artt. 3 e 37 Cost. ed alla fine attribuisce alla nuova disciplina dell’età pensionabile delle donne in via generale il carattere di riforma di sistema, prescindendo dalla questione della gradualità dei tempi di realizzazione.
3.2 Anticipazione di operatività del meccanismo di speranza matematica (art. 18, co. 4)
Il co. 4 concerne l’anticipata operatività del regime di collegamento fra età pensionabile e variazioni della speranza matematica di vita. Benché norma solo acceleratoria, la circostanza che l’operatività di questo meccanismo risulti comunque ancora differito al 1.1.2014, induce qualche riflessione sul suo valore innovativo22. Uno dei problemi di crisi del sistema pensionistico deriva dall’allungamento della vita (longevità), nella duplice componente dell’aumento della vita professionale e dell’aumento della vita anagrafica. Al termine legale di esaurimento della vita professionale, si lega l’accesso al trattamento pensionistico, mentre al termine della seconda componente si lega la cessazione della prestazione principale e la eventuale trasformazione in prestazione indiretta. Questa, fin troppo ovvia, constatazione chiarisce la portata della normativa originaria23, che mira alla continuità nel processo di elevazione del requisito di accesso secondo le variazioni della speranza matematica di vita. L’introduzione di questo meccanismo automatico è destinato ad eliminare interventi occasionali e più o meno arbitrari, quali in passato verificatisi. Ovviamente, in questo meccanismo assume rilievo determinante l’intervallo temporale ed il periodo di riferimento per il calcolo della variazione, entrambi rimessi alla discrezionalità del legislatore, cosicché in tempi successivi lo stesso potrebbe variare gli elementi del calcolo: ne è conferma la circostanza che nella manovra il secondo accertamento Istat avviene dopo un biennio e non più dopo un triennio. Ne risulta attenuata la certezza, seppure attuariale, che l’automatismo potrebbe introdurre nel sistema, così come confermato dalla circostanza che l’utilizzazione dei calcoli attuariali come fattore di automatismo del regime pensionistico non costituisce una novità, posto che, già in occasione della riforma Dini, si correlò il coefficiente di trasformazione nel calcolo della rendita generata dal montante accumulato con il metodo contributivo alla variazione della speranza matematica di vita, donde le tabelle di cui alla lettera A, cui rinviava il co. 6 dell’art. 1 l. n. 335/1995, con l’impegno di aggiornamento della stessa e dei relativi coefficienti alla scadenza dei dieci anni (co. 11 successivo). Emblematica delle incertezze derivanti dalla manipolazione degli automatismi è la vicenda successiva alla scadenza del decennio, cui non seguì l’attivazione della procedura di aggiornamento; tanto da costringere il legislatore (art. 14 l. n. 247/2007) a rielaborare legislativamente (e non già amministrativamente, come previsto dalla l. n. 335/1995) le tabelle recanti i coefficienti di trasformazione, con decorrenza 1.1.2010 (dunque con un complessivo ritardo di cinque anni rispetto al già lungo periodo di dieci anni), ragionevolmente accorciando con l’occasione il periodo di aggiornamento dei coefficienti, da dieci a tre anni. Questo non brillante precedente spiega l’addossamento (quasi un macigno) della responsabilità erariale (ma, forse, anche politica?) da mancato aggiornamento sulle spalle del dirigente preposto (art. 12, co. 12 bis, penultimo periodo, l. n. 122/2010).
3.3 Pensione ai superstiti e matrimonio anagraficamente squilibrato (art. 18, co. 5)
Sarebbe peccare di superficialità ove si intendesse semplicisticamente affermare che il co. 5 – riferito all’ipotesi di matrimonio contratto da ultrasettantenne con coniuge di oltre venti anni in meno di età – sia destinato a subire la stessa sorte, di dichiarazione di incostituzionalità24, cui sono andate incontro le varie fattispecie di penalizzazione pensionistica del superstite tale per effetto del decesso di coniuge di età sproporzionatamente maggiore. Esse furono cancellate in varie riprese dalla Corte costituzionale in ragione della affermata «libertà scelta autoresponsabile» in che si concreta anche la libertà di matrimoniale, intesa come diritto essenziale della persona, e perciò non condizionabile da conseguenze negative sul piano previdenziale (come la perdita della intera prestazione). Vero è che la norma risulta formalmente neutra, posto che non c’è distinzione se l’ultrasettantenne sia uomo o donna, né se si tratti di superstite di nazionalità italiana o straniera; ma l’ipotesi social-tipica sottesa è quella dell’ultrasettantenne maschio, che contragga matrimonio con la badante, frequentemente extra-comunitaria; quest’ultima variante è, fra altre, quella che distingue la fattispecie da quella di «Pensaci Giacomino», dell’antiveggente Pirandello: Lillina era siciliana e pure incinta, ma non di Toni; un’idea per la pensione subito! La rinnovata, seppur diversa rispetto al passato, disciplina di questa ipotesi, dichiaratamente funzionale al contenimento della spesa – non tanto in via immediata25, quanto e soprattutto in prevenzione di una ulteriore, possibile espansione del fenomeno – si colloca in un momento nel quale è accesa la polemica in tema di regole, anche matrimoniali, da applicare agli immigrati per l’accesso al territorio nazionale ed ai correlati benefici offerti dall’ordinamento ai cittadini ed ai residenti: sintomatica è la recente decisione della Corte costituzionale 25.7.2011, n. 245, intervenuta per dare corretta applicazione alle disposizioni che presiedono il matrimonio dei clandestini. Qui la Corte non ha avuto esitazione – assumendo il consueto criterio di bilanciamento degli interessi di rilievo costituzionale, fra i quali quello del cittadino italiano che intenda contrarre matrimonio con un clandestino – a ritenere che una norma che disponga una generale preclusione (nel caso, per mancanza di un documento attestante la regolarità del permesso di soggiorno) alla celebrazione delle nozze con un/a clandestino/a debba essere dichiarata costituzionalmente illegittima, tanto più in presenza della esistenza di altri istituti volti a contrastare i così detti «matrimoni di comodo». Dunque, la Corte, nell’assumere una così delicata decisione, non ha escluso affatto la possibilità/necessità di contrastare tale fenomeno, purché attraverso norme «non palesemente irragionevoli e non contrastanti con obblighi internazionali», ciò al di là dei possibili profili addirittura di ordine penale26. Non è, questa, una mera divagazione, perseguendosi qui l’obiettivo di individuare il possibile clima culturale in cui potrebbe maturare una nuova decisione di costituzionalità sulla rinnovata normativa di penalizzazione pensionistica dei matrimoni anagraficamente sbilanciati. Ecco, in sintesi, i precedenti: al di là del caso di ritenuta incomparabilità fra il regime di reversibilità per i dipendenti pubblici e quello dell’assicurazione generale obbligatoria27, è consolidata fino a questo momento la decisione di ammissibilità ed accoglimento con dichiarazione di illegittimità di tutte quelle disposizioni che, in passato, disponevano tout court la non attribuibilità del trattamento ai superstiti in presenza di matrimonio contratto oltre una certa età con una rilevante differenza anagrafica o di breve durata all’atto del decesso del de cuius28. Nell’introdurre il tema dei matrimoni anagraficamente sbilanciati, si è immediatamente evidenziata la differenza della attuale fattispecie legislativa, sia nei presupposti (essa è infatti positivamente, per il superstite, integrata dalla previsione di favore per il caso di presenza di figli di minore età, studenti ovvero inabili29) sia negli effetti di penalizzazione, che risulta mai radicale, per effetto di una gradualità continua riferita alla maturazione del decennio di durata del matrimonio, volta ad attribuire progressivamente il trattamento pensionistico di superstite in proporzione agli anni e frazioni di anno di durata del matrimonio. È dato cogliere qui un evidente segnale di adattamento a quel suggerimento presente in una delle sentenze richiamate, C. Cost., n. 123/1990, laddove si legge che «è di chiara evidenza, dunque, come tale contesto di realtà assolutamente contraddica ad una presunta genesi (sospetta n.d.r.) del coniugio tardivo, che si vorrebbe altrimenti ristretta a fini abnormi o fraudolenti per i quali, là dove in effetti posti in essere, diversamente dovrebbero ritrovarsi le remore opportune», con una formulazione che apre la strada a soluzioni di non automatica penalizzazione, semmai consentendosi una progressiva valorizzazione dell’istituto matrimoniale in ragione della durata dello stesso. Questa scelta si presenta come una equilibrata combinazione dei fattori in causa, nella quale la componente del gravame finanziario a carico dello Stato non è esclusiva, cedendo progressivamente alla emersione della condizione di bisogno correlata appunto alla durata del matrimonio. Quanto alla decorrenza del nuovo regime, fissata al 1.1.2012, non dà adito a dubbi sulla sua applicazione ai trattamenti pensionistici ai superstiti da detta data decorrenti, e non alimenta corse dell’ultima ora alla contrazione di matrimoni del tipo in esame, se non per guadagnare qualche frazione di anno (a parte l’ipotesi di matrimonio e decesso che dovessero in sequenza verificarsi entro il 31.12.2011).
3.4 Nuovi assetti istituzionali ed estensione delle funzioni di vigilanza di COVIP
La manovra finanziaria 2011 incide fortemente sul complessivo assetto istituzionale della previdenza pubblica e di quella privata di base; la manovra progetta un nuovo assetto istituzionale della previdenza pubblica, inserendo la previsione di «accorpamento degli enti della previdenza pubblica» nel programma di revisione integrale della spesa pubblica (art. 01 d.l. n. 138/2011, quale risultante dalla l. conv. n. 148/2011); quanto alla previdenza di base privata, gestita dagli enti di cui al d.lgs n. 509/1994 e al d.lgs n. 103/1996, essa dispone il trasferimento delle funzioni di controllo sugli investimenti di detti enti dal Ministero del lavoro alla Commissione di vigilanza sui fondi pensione (COVIP). Salvi i successivi approfondimenti, una primissima osservazione concerne l’effetto di separazione verticale, che risulta implementata dalla manovra. La linea di demarcazione delle funzioni di controllo segue, allorché il progetto sarà completato, una valorizzazione del profilo istituzionale, rispettivamente pubblico e privato, del tutto prescindendo dalla circostanza che entrambe le aree realizzano una funzione obiettivamente pubblica. Questa opzione non è tuttavia in linea con la successiva disposizione (art. 18, co. 14), che apre all’intreccio in unica rete convenzionale delle azioni di contrasto alla omissione contributiva, pubblico o privato che sia l’ente; il tema è sicuramente delicato, sebbene la omissione contributiva deve fare differenziatamente i conti nell’ambito di regime di lavoro dipendente (in quanto caratterizzati da, una seppur limitata, automaticità delle prestazioni) ed in quelli di lavoro autonomo, ove questo rimedio sociale all’inadempimento contributivo è sconosciuto. Volendo spigolare ulteriormente sulle coerenze della scelta di separazione derivante dall’art. 01, si noti che appena un anno prima, in occasione della manovra di stabilità di cui alla l. n. 122/2010, gli enti di previdenza privati sono stati attratti nell’area pubblica, ai fini del contenimento della spesa per il personale (assunzioni, promozioni, stipendi) attraverso la tecnica del rinvio alla classificazione ISTAT, secondo una scelta confermata ancora dall’art. 10, co. 13, d.l. n. 138/2011.
3.5 L’accorpamento degli enti di previdenza pubblica (art. 1 d.l. n. 138/2011)
Quanto al programmato accorpamento degli enti di previdenza pubblica, occorre attenderne la realizzazione; giacché si tratta di un disegno presente da tempo nei programmi dei governi che si sono succeduti, può essere utile qualche, pur breve, riflessione a ritroso. Il sistema previdenziale italiano, specialmente quello pensionistico, tuttora si caratterizza: a) per un pluralismo oggettivo, in ragione dell’articolazione delle tutele, riferite agli eventi indicati nell’art. 38, co. 2, Cost.; b) per un pluralismo soggettivo, in ragione della articolazione delle tutele per aree più o meno grandi di soggetti professionalmente qualificati; c) per un pluralismo istituzionale, in ragione della articolazione degli enti cui è affidata la gestione delle forme non uniformemente regolate. L’elenco di cui alla norma citata, per un verso esclude la eventualità che possa essere soppressa una delle forme in riferimento, a parte la possibile evoluzione e diversificazione dei regimi sui quali ha operato già utilmente il processo di armonizzazione imposto dalla l. n. 335/1995, per altro verso non consente che forme, o bisogni, in esso non ricompresi possano pretendere una tale garanzia, rimettendosi alle scelte del legislatore l’eventuale loro soppressione, pur nel rispetto del criterio di gradualità e di salvaguardia dei diritti quesiti. Le diverse configurazioni del bisogno previdenziale riferibili al mondo del lavoro dipendente ed al mondo del lavoro autonomo, nel quale spiccano le attività libero professionali, trovano nel principio della universalizzazione delle tutele, oramai di portata generale, la formula di chiusura, atta ad eliminare sacche di sottrazione al valore costituzionale della protezione sociale. I primi due profili seguono un percorso evolutivo di cui è evidente traccia nella manovra finanziaria che ci occupa ed in quelle precedenti, con il supporto della giurisprudenza, specialmente costituzionale ed europea, nell’ambito dei binari tracciati dalla lettura sistematica e storica del co. 2 dell’art. 38 Cost. Il profilo del pluralismo istituzionale si svolge – nel quadro delle linee di azione amministrativa dello Stato e degli enti strumentali dei quali esso si avvale – all’interno del co. 4 dello stesso art. 38. Come tale esso – dopo l’affermazione della competenza statale ex art. 117, co. 2, Cost. in materia di previdenza sociale – segue un percorso distinto da quello del merito delle scelte di sistema, quand’anche le modifiche dell’assetto istituzionale siano a volte l’inevitabile riflesso di modifiche dei contenuti delle tutele: emblematiche sono le vicende di INPDAP e di INPDAI. È propriamente questo il profilo coinvolto nel ricordato programma di «accorpamento degli enti di previdenza pubblica», che per la verità è presente sul campo delle riforme ordinamentali già da quasi venti anni, con alterne fortune. Un punto fermo dell’assetto istituzionale degli enti di previdenza, cd. maggiori, è costituito dall’art. 1 l. n. 88/1989, nel quale – di poco anticipandosi la riforma della restante pubblica amministrazione, quale sarebbe stata disposta con la l. n. 421/1992, art. 1 – si riconoscono agli enti di previdenza quei caratteri di economicità ed efficienza che, pur senza farli assurgere ad ente pubblico economico, propongono questi enti come modelli di riferimento, fino al punto da far nascere la nota questione dell’assoggettamento dell’INAIL alla disciplina della concorrenza, respinta dalla Corte di giustizia con la sentenza 22.1.2002, C-218/2000, in nome della prevalenza della funzione solidaristica. Le fasi successive del processo di razionalizzazione30, propedeutiche dell’ora (ri)annunciato programma di accorpamento degli enti pubblici di previdenza, risalgono a poco prima della metà degli anni Novanta, per provvedimenti di ordine generale, in termini di riordino, soppressione, fusione di enti, esauritisi essenzialmente nell’area dei regimi pensionistici dei pubblici dipendenti31, cui ha fatto seguito a distanza di qualche anno l’incorporazione dell’INPDAI, l’ente di previdenza dei dirigenti di aziende industriali, già soggetto alla privatizzazione. Il tema del riordino si riaffaccia più di recente nell’art. 1, co. 31, l. n. 243/2004, con apposita delega di dodici mesi in tema di riordino degli enti pubblici previdenziali, che si esaurisce per inerzia del Governo; viene ripreso con l’art. 1, co. 482, l. n. 296/2006, riferito alla generalità degli enti pubblici e all’intero apparato dell’amministrazione pubblica indiretta e non solo all’area degli enti previdenziali, questa volta con previsione di una attività regolamentare da realizzare entro il 30.9.2007 per il riordino, trasformazione (anche in termini di privatizzazione), soppressione e liquidazione; sempre nell’ambito della medesima legislatura, con l’art. 1, co. 7, 8 e 9, l. 24.12.2007, n. 247, la testé indicata norma del 2006 viene rivitalizzata con specifico riferimento agli enti previdenziali pubblici mediante l’attribuzione della facoltà di prevedere sinergie ricorrendo a gestioni unitarie, uniche o in comune, di attività strumentali, con finalità di «risparmi di spesa»: la norma, che fissa il termine di un mese per la presentazione di un piano industriale allo scopo, definendo anche la misura dei risparmi da conseguire in un decennio, per 3,5 miliardi di euro, ha finito per essere travolta dalle vicende della legislatura. È dunque questo, in estrema sintesi, il quadro dei tentativi – taluni parzialmente riusciti – di razionalizzazione della selva degli enti di previdenza e su questo quadro si innesta la norma programmatica del co. 01 citato, del quale si attendono ora le applicazioni, in vista della sperata economia di scala e della implementazione di efficienza, nel rispetto – è dato ipotizzare ed auspicare – delle specificità delle varie forme che sono affidate alla gestione degli enti accorpandi.
3.6 Estensione delle funzioni di vigilanza della COVIP (art. 14, co. 1-5)
Quanto alla estensione delle funzioni di vigilanza della COVIP (commissione di vigilanza sui fondi pensione), essa risulta dall’art. 14, co. 1-5 e si inserisce in un complesso di disposizioni dedicate alla «soppressione, incorporazione e riordino di enti ed organismi pubblici», dunque con una qualche sfasatura rispetto al titolo dell’articolo. A ben guardare, le nuove norme si affiancano – ma con obiettivi molto diversi – al programma di riassetto istituzionale degli enti pubblici di previdenza sociale, testé esaminato, coprendo l’area delle forme private di previdenza pensionistica di base (specialmente riferite ai liberi professionisti: cfr. supra § 2), ad oggi rette dal d.lgs. n. 509/1994, integrato per le forme più recenti dal d.lgs. n. 103/1996; alcune di esse sono immediatamente operative, per altre è prevista una procedura regolamentare stringente, atta a renderle in breve operative. La COVIP – ente pubblico con funzioni di vigilanza e di indirizzo nel ruolo di autorità di settore, seppure sottoposta a sua volta alla vigilanza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – istituita in occasione della sistematica impostazione della disciplina della previdenza pensionistica complementare (d.lgs. n. 124/1993 e poi d.lgs. n. 252/2005), ha finora svolto le sue funzioni nell’ambito originariamente assegnatole, caratterizzato da un contesto integralmente privatistico, nonché dalla libertà dell’adesione e della scelta della forma pensionistica, nonostante il semiautomatismo della destinazione del TFR in caso di inerzia del lavoratore. Non è di questo che ci si deve qui occupare, bastando individuare in estrema sintesi le funzioni svolte dalla COVIP – delle quali si è disposta una parziale estensione –, quali risultano dall’art. 19 d.lgs. n. 252/2005: definizione delle condizioni atte a garantire trasparenza, comparabilità e portabilità; valutazione di conformità degli atti di autoregolazione dei fondi pensione (atti costitutivi, statuti, regolamenti) e conseguente rilascio degli essenziali atti autorizzativi dell’esercizio dell’attività; predeterminazione del contenuto delle convenzioni di gestione e vigilanza sull’andamento delle stesse, in funzione della qualità e bontà degli investimenti, che in via di principio devono essere solo di natura mobiliare, nell’ambito di una griglia definita dal Ministero dell’economia (d. m. Tesoro 703/1996); definizione degli assetti cui deve conformarsi l’amministrazione del patrimonio dei fondi pensione; minuziosa regolazione del rapporto con gli aderenti in tutte le sue fasi. In breve, la COVIP indirizza, autorizza, vigila, sanziona l’intera azione amministrativa dei fondi pensione, seppure sia priva di strumenti idonei a contrastare la gravemente destabilizzante l’omissione contributiva. Orbene, sotto l’impressione di crisi finanziarie che hanno colpito, anche seriamente, taluni enti di previdenza privati di base, è maturata la scelta di attribuire alla COVIP il controllo sugli investimenti delle risorse finanziarie e sulla composizione del patrimonio degli enti di previdenza privati di base come sopra indicati, avendo fatto premio per tale scelta la circostanza che si tratta di soggetti privati, fruitori come tali degli strumenti dell’autonomia privata, con assimilazione dunque ai fondi pensione, piuttosto che la funzione previdenziale di base dagli stessi assolta, correlata alla obbligatorietà della iscrizione, donde la natura pubblica della stessa, espressamente enunciata dal legislatore (art. 2, co.1, d.lgs. n. 509/1994), riconosciuta anche dalla Corte costituzionale (sentenze nn. 248/1997 e 15/1999), e ribadita dalla ricomprensione nell’elenco ISTAT (supra, § 3.4, in fine)32. Ma, poi, sul piano della tassazione delle rendite, l’assimilazione si esaurisce, essendo gli enti privati di previdenza di base gravati dell’aliquota del 20%, mentre i fondi pensione continuano a fruire dell’aliquota più contenuta dell’11,5%33. Comunque, al di là delle riflessioni sui non confortanti segnali provenienti dall’amministrazione centrale competente e dell’evidente apprezzamento del ruolo finora svolto da COVIP nell’area di sua originaria competenza – ancorché l’ampliamento delle funzioni ponga in forte evidenza la questione della composizione in concreto della Commissione sotto il profilo della estrazione sindacale di alcuni dei suoi componenti – va posta attenzione alla soluzione mediana che il legislatore ha ritenuto di adottare. Il trasferimento, immediato, della funzione di controllo degli investimenti, avviene utilizzando lo stesso strumentario a disposizione del Ministero, con l’aggiunta, per quanto compatibile, di quello a disposizione della Commissione; entro i previsti sei mesi, l’implementazione dei parametri da utilizzare per la corretta gestione finanziaria degli enti coinvolti oggi dalla manovra – quanto a tipologia degli investimenti e regolazione del conflitto di interessi, nella prospettiva della, da tempo annunciata, revisione del d.m. Economia n. 703/1996, nonché quanto all’obbligo della banca depositaria, che si propone come garanzia della corretta gestione del portafoglio – da un lato evidenzia la componente dell’equilibrio tecnico-attuariale, tipico della previdenza di base, attraverso il richiamo nel co. 3, all’art. 2, co. 2, d.lgs. n. 509/1994, dall’altro non vale a sganciare gli enti stessi dalla sottoposizione alla vigilanza primaria del Ministero del lavoro. Infatti, il co. 2 dell’art. 14 rinvia alla decretazione ministeriale la fissazione delle modalità con le quali la COVIP riferisce al Ministero dei risultati del controllo, essendo riservata a quest’ultimo l’adozione dei provvedimenti correlati alle ipotesi di squilibrio, contemplati dall’art. 2, co. 2, 4, 5 e 6 (ivi sono previste varie ipotesi di commissariamento), del d.lgs. n. 509/1994. Questa segmentazione delle competenze non risulta meritevole di apprezzamento, rischiandosi uno scoordinamento delle iniziative da assumere in questa area, con il grave rischio di inefficienza del nuovo sistema e della possibile corto-circuitazione fra vigilanza ed azione amministrativa.
3.7 Effetti previdenziali della contrattazione aziendale incentivante
Da tempo (basti ricordare già le timide ipotesi di agevolazione al salario di produttività nel d.l. n. 67/1997, l. conv. n. 135/1997) alla contrattazione aziendale o di secondo livello, senza ulteriori specificazione (così anche nell’art. 1, co. 67, l. 247/2007, e poi nell’art. 53 d.l. n. 78/2010, l. conv. n. 122/2010, che sostituisce l’espressione «secondo livello» con il termine «territoriali»), è stata attribuita la funzione di realizzare assetti organizzativi idonei a stimolare l’efficienza produttiva, e questa scelta – che si concreta in agevolazioni tributarie e contributive – viene proposta come misura incentivante l’economia. Nell’attuale manovra, la corrispondente misura di sviluppo è nell’art. 26, che integra la definizione della fonte contrattuale come fissata dall’art. 53 cit. con l’espressione «comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» (senza riferimento alla rappresentatività territoriale). In essa si dispone una tassazione agevolata del reddito dei lavoratori dipendenti, nonché uno sgravio di contributi, da applicare a voci correlate, anche qui, ad incrementi di produttività od altri fattori espressivi di crescita produttiva e di competitività aziendale. Detta norma attribuisce ora questa idoneità a conseguire i benefici in questione anche ai contratti aziendali sottoscritti in conformità all’accordo interconfederale del 28.6. 201134. L’ impianto di questa normativa risalente non consente di affermare che essa valga a modificare la nozione di retribuzione imponibile, posto che essa si concreta nella enucleazione in sede negoziale collettiva di quelle voci che rispondano agli obiettivi indicati, per sottoporle ad un regime impositivo quantitativamente diverso ed agevolato. Ciò tanto più in ragione del conclamato carattere di transitorietà delle norme che in questa materia si susseguono e vengono così sistematicamente riproposte, finendo per appannare l’attitudine dell’intervento nella prospettiva di sviluppo. Quasi come se mancasse il coraggio o la convinzione dell’effetto incentivante, tendendo a prevalere la preoccupazione della dilatazione dell’impegno finanziario dello Stato. Anche per l’attuazione dell’agevolazione, limitata al 2012, si prevede l’emanazione di successive disposizioni amministrative, che non solo potrebbero diversificarsi rispetto a quelle operanti in precedenza, ma risultano anche condizionate nel quantum, se non anche nell’an, dalla disponibilità/reperimento delle risorse finanziarie da dedicare. Pur con la consapevolezza di correre il rischio di essere disatteso e confidando sul valore dell’esperienza, è ragionevole ritenere che possa essere ripercorsa la strada seguita finora, fra l’altro ancora operante per l’anno 201135.
3.8 Riflessioni finali
Più che una conclusione, si pongono delle riflessioni finali e degli interrogativi. Al momento della chiusura di questo contributo (la cui redazione è stata tormentata dal susseguirsi delle manovre legislative), è dato leggere (notizia ANSA del 23.9.2011) che il Ministro del lavoro invita le parti sociali a raggiungere un avviso comune, indicando come temi suscettibili di ulteriore transizione «l’età delle donne, il contributivo, l’aspettativa di vita e le pensioni di anzianità». Altre ipotesi concitatamente si susseguono. Non si può entrare qui nel dibattito in ordine alla utilità politica ed economica di ulteriori riforme, né sul ruolo che in questa prospettiva le istituzioni e le parti sociali possono svolgere e dunque sul modo in cui le stesse si potrebbero fra loro rapportare, per conseguire una auspicabile convergenza sulle scelte da adottare, in aggiunta a quelle già realizzate. Si possono perciò svolgere solo alcune riflessioni finali su di un piano tecnico, giuridico e parzialmente economico, che valgono come sintesi delle scelte effettuate, ma potrebbero accendere i riflettori su una nuova manovra, ancorché non immediata. Assumendo, dunque, la necessità di una manovra ter, come si intuisce dalla proposta del Ministro del lavoro, la domanda preliminare è se sia ragionevole attingere ancora, ed in che misura, dal sistema pensionistico. Sotto questo profilo emergono le perplessità di una manovra perequativa che, seppure in via transitoria, si è già articolata su di una rilevante differenziazione – in ragione della natura del reddito – creata dalla combinazione dei co. 1 e 2 dell’art. 2 l. n. 148/2011 che, al di là della già significativa diversità di aliquote (3, 5, 10 %), passa da 90.000 a 150.000 euro (per le pensioni) a 300.000 euro (per il reddito complessivo), con l’ulteriore eventualità che in capo allo stesso soggetto, se redditiere ed anche pensionato, il possibile superamento delle indicate soglie rischia di determinare una successione di aliquote differenziate. Semmai, potrebbe mettersi a punto un intervento che penalizzi, congelandole per un congruo periodo di tempo, quelle prestazioni liquidate in passato, che si siano caratterizzate per l’assenza di un corretto equilibrio del rapporto contributi/prestazioni, baby pensioni, o altre ipotesi di forte squilibrio. L’appello alla elaborazione di un avviso comune delle parti sociali non deve far pensare che la materia previdenziale pensionistica sia in qualche modo nella disponibilità delle parti sociali, così come invece accade per le forme di previdenza complementare. Vuoi che la riforma sia frutto dell’emergenza, vuoi che si tratti di una riforma di sistema, l’intervento del legislatore – quand’anche realizzato con il pieno assenso delle parti sociali – deve, al di là di ogni preconcetto, trovare in se stesso fondamento e limiti. Prioritaria è l’attenzione al tema della1 categoria concettuale del «diritto quesito», che con autorevolezza un opinion leader quale Maurizio Ferrera (Corriere della sera, 12.9.2011) invita ad adeguatamente ridimensionare. Al riguardo, non va dimenticato che proprio la l. n. 421/1992, nel fissare i criteri per l’esercizio della prima delega di riforma riduttiva delle prestazioni pensionistiche, introdusse espressamente il riferimento ai «diritti quesiti», identificandoli attraverso il parametro dell’anzianità di iscrizione da almeno 15 anni, replicato nella riforma di cui alla l. n. 335/1995 attraverso il riferimento ai 18 anni. È pur vero che non mancano i tentativi di orientare – ma, per ora, liberamente – verso il metodo contributivo. Si pensi all’opzione consentita alle donne dall’art. 1, co. 9, l. n. 243/2004 di anticipato accesso al pensionamento di anzianità dietro accettazione del calcolo con il metodo contributivo. La complessità della situazione finanziaria del Paese potrebbe fondare un ritocco nella accezione di diritto quesito, estendendo il sistema di calcolo cd. misto anche ai lavoratori che furono del tutto esenti dalle riforme del 1992-1995. Sulla base della stessa considerazione di sussistenza di crisi, il trattamento pensionistico di anzianità – non riconducibile al novero degli eventi costituzionalmente protetti – è suscettibile di ulteriore processo di asciugamento, ma non di soppressione integrale ed immediata: si potrebbe disporre con contenuta gradualità l’accesso alla prestazione di anzianità modificando del tutto il sistema di calcolo. Gli interventi di sistema sulle donne sono stati realizzati. Il livellamento dell’età pensionabile è oramai disposto in termini generali, semmai potendosene ulteriormente accelerare la realizzazione nell’ambito del lavoro privato (come è accaduto per l’area del lavoro pubblico, ma sotto schiaffo della Corte di giustizia). Il trattamento di reversibilità – formalmente bilaterale, ma statisticamente di prevalente interesse per la popolazione femminile – è stato già da tempo seriamente contenuto con il divieto parziale di cumulo con altri redditi dall’art. 1, co. 41, l. n. 335/1995 e francamente immaginare altre riduzioni significa porsi contro i valori costituzionali compresi nella combinazione fra sufficienza della retribuzione (art. 36, co. 1, Cost.) e adeguatezza delle prestazioni (art. 38, co. 2, Cost.). Nessuno spazio, dunque, per ulteriori interventi di sistema sull’età pensionabile delle donne, mentre la pirandelliana vicenda del matrimonio anagraficamente squilibrato (supra § 3.3) conosce ora una regolazione che sfrutta tutti i margini consentiti dalle indicazioni consolidate della Corte costituzionale ed altre penalizzazioni potrebbero far traboccare il vaso. Sul tema dell’aspettativa di vita poco vi è da aggiungere a quanto già prospettato (supra, § 3.2). Spazio per ulteriori interventi del legislatore, in termini di accorciamento degli intervalli per applicare i nuovi coefficienti, potrebbero esserci, ma (a parte la contraddittorietà con i proclami di stabilizzazione resi nel 2010) non si deve trascurare la circostanza che l’elevazione dell’età pensionabile frena l’avvicendamento nel mondo del lavoro, sfavorendo i giovani.
* Legge 12.11.2011, n. 183. Novità in tema di trattamenti pensionistici.
All’atto della conclusione del saggio dedicato alla manovra estiva, erano già annunciate ulteriori innovazioni legislative, e nelle conclusioni dello stesso saggio si formulavano delle ipotesi circa la presumibile direzione delle stesse. Fidando sul testo diffuso sul sito del Senato, si tratta, in estrema sintesi: nell’art. 5 si fissa una tappa intermedia nella lievitazione dell’età pensionabile nel raggiungimento del 67° anno di età, tenuto conto della decorrenza del trattamento stesso e degli incrementi legati all’andamento della speranza matematica. Si tratta di un obiettivo che con forte probabilità era già conseguibile con gli incrementi derivanti dalla variazione della speranza matematica. La nuova norma garantisce il conseguimento del risultato.
1 Per la Corte, «stretto collegamento si può ritenere sussista se il legame genetico, strutturale e funzionale con le leggi di bilancio sia tale che le norme sostanziali collegate incidano direttamente sul quadro delle coerenze macroeconomiche e siano essenziali per realizzare l’indispensabile equilibrio finanziario. Si tratta di leggi che non si limitano a porre discipline ordinamentali prive di diretti effetti finanziari ma che, incidendo in modo rilevante nell’ambito di operatività delle leggi di bilancio, non sono suscettibili di valutazioni frazionate ed avulse dal quadro delle compatibilità generali, quali inevitabilmente risulterebbero da una determinazione referendaria che si esprime su di un solo elemento del quadro complessivo ».
2 Il titolo del capo III della legge n. 111, Contenimento e razionalizzazione delle spese in materia di impiego pubblico, sanità, assistenza, previdenza, organizzazione scolastica, concorso degli enti territoriali alla stabilizzazione finanziaria, registra una parziale, ma significativa, assonanza con il titolo della l. n. 421/1992, che così recita: Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale.
3 Proprio i meccanismi di finanziamento, nella fondamentale distinzione fra regimi a ripartizione e regimi a capitalizzazione, hanno costituito il presupposto più o meno esplicito per accomunare nel destino di contenimento le forme, quand’anche integrative, a prestazione definita insieme con quelle del sistema di base: come appresso evidenziato quanto al contenimento della perequazione (art. 18, co. 5), si rileva che il meccanismo di identificazione dei trattamenti da comprimere è quello dell’art. 34, co. 3, l. n. 448/1998, comune alle forme pensionistiche di base ed a quelle private a prestazione definita.
4 Fin dalla sentenza n. 1/1966 la Corte qualifica l’art. 81, co. 4, come il faro che «tiene di vista l’insieme della vita finanziaria dello Stato».
5 È questa la linea di politica giudiziaria che la Corte costituzionale si impone, per così dire, all’esito del Seminario dell’8-9.11.1991, sul tema Le sentenze della Corte costituzionale e l’art. 81 ultimo comma della Costituzione, Milano, 1993. Emblematica applicazione del criterio, nel campo dei diritti sociali, è la sentenza n. 61/1999, che fissa i termini del dibattito sulla totalizzazione dei regimi previdenziali. Ma in questa stessa direzione vanno le decisioni in tema di contributo sul contributo contribuzione, dalla previdenza complementare a quella di base. Per ottenere questo risultato la Corte (sent. n. 421/1995) si è autorimessa la questione di costituzionalità dell’art. 9 bis del d.l. 29.3.1991, n. 103, aggiunto dalla l. conv. 1.6.1991, n. 166.
6 Il dibattito sulla utilità della introduzione del principio del pareggio di bilancio come «equilibrio delle entrate e delle spese» è acceso. Senza poter qui approfondire la questione, si deve attirare comunque l’attenzione sulla portata della formula proposta nel progetto di riforma dell’art. 81 Cost. che consente «di ricorrere all’indebitamento, se non nelle fasi avverse del ciclo economico nei limiti degli effetti da esso determinati, o per uno stato di necessità che non può essere sostenuto con le ordinarie decisioni di bilancio», tenendo conto, per un verso che solo per lo stato di necessità, e non anche per le fasi avverse del ciclo economico, si richiede la dichiarazione di ciascuna Camera con voto espresso a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, e per altro verso che non si identifica un procedimento celere per l’attivazione di un controllo di costituzionalità (sul punto, da ultimo, Pace, Il pareggio di bilancio nella Costituzione, in «la Repubblica» del 20.9.2011.
7 La storia del sistema pensionistico per i pubblici e per i privati è disseminata da veri e propri regali. Emblematici nell’area dell’impiego pubblico, il babypensionamento, e nell’area dei regimi speciali, la tecnica iniziale di calcolo della pensione nel fondo volo (l. 13.7.1965, n. 859), correlata alla ultima retribuzione, pur lecitamente conseguita ma in contratti anomali, oramai superati: entrambi soppressi, essi hanno lungamente operato ed i loro perduranti effetti hanno sfiancato il sistema.
8 I riferimenti al d.l. n. 98/2011 ed alla l. n. 111/2011 sono effettuati in via breve mediante richiamo esclusivamente del numero dell’articolo come risultato modificato dopo la legge di conversione, e direttamente al numero del comma, se interno all’art. 18; le ulteriori modificazioni apportate con il d.l. n. 138/2011 e con la l. n. 148/2011 verranno puntualmente indicate, così come gli altri testi normativi.
9 Merita di essere segnalato che la Corte costituzionale ha contestato entrambe le scelte in materia, nel presupposto «della discrezionalità di cui gode il legislatore nella conformazione dell’obbligazione contributiva ». Così C. cost., n. 48/2010, e, prima, C. cost., n. 47/2008.
10 Cfr. Atto Senato n. 2814, XVI legislatura, dossier, nota di lettura del servizio bilancio per la documentazione degli effetti finanziari dei testi legislativi, e la verifica della quantificazione degli oneri di entrata e di spesa, che fa costante riferimento alla relazione tecnica.
11 Esso ha costituito, nonostante la evidente incertezza della questione, la base di una – a mio avviso, fin dall’inizio – infondata pretesa dell’INPS, distorsiva del regolamento di cui al d. interm. n. 281/1996, con conseguente diffusa attività di accertamento prodromico di azioni giudiziarie. Una sorta di pentimento dell’INPS è nella circolare n. 99/2011.
12 Molto più elementare era la corrispondente disposizione del decreto, che indicava i due scaglioni di tre volte il minimo e cinque volte il minimo, con abbattimento parziale rispettivamente del 55% e del 100%.
13 Oggetto del giudizio di costituzionalità era il blocco totale della perequazione a carico dei trattamenti pensionistici superiori a otto volte il trattamento minimo, art. 1, co. 19, l. n. 247/2007; ulteriore precedente era stato quello del blocco della perequazione 1998 per i trattamenti pensionistici superiori a cinque volte il minimo, art. 59, co. 13, l. n. 449/1997.
14 La formula «concordati in sede europea » è presente solo nel d.l. n. 138/2011, a testimoniare forse il tentativo di scaricare la responsabilità politica della scelta successiva.
15 Salvo l’effetto ulteriore di cui alla l. n. 148/2011, di per sé già l’accelerazione impressa dal d.l. n. 138/2011 determinava (secondo la relazione tecnico-finanziaria, una riduzione della spesa, ovviamente, solo dal 2017, con una implementazione via via crescente, da 112 milioni di euro per il 2017 a 125 per il 2021, cui, sempre per questo anno, si aggiungono i 145 milioni previsti come effetto dell’art. 18 l. n. 111/2011.
16 La questione era sorta con riferimento a vicenda maturata in regime di art. 11 l. n. 604/1966, in relazione alle norme sul diritto a pensione prima dell’entrata in vigore della richiamata l. n. 903/1977.
17 Ed infatti la sentenza dichiara assorbito il profilo concernente l’art. 38 Cost., confermandosi come norma di riferimento immutata quella dell’art. 9 R.d. 636/1939, in termini di differenziata età pensionabile fra uomo e donna.
18 Art. 7 dir. CEE n. 7/79: «La presente direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione: a) la fissazione del limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia o di fine lavoro e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni ». Salvi taluni temperamenti già moderatamente realizzati, in termini di confronto con finalità emulative della evoluzione normativa in materia, per effetto della introduzione del metodo aperto di coordinamento.
19 Questo è il contenuto del considerando: «Sebbene il concetto di retribuzione ai sensi dell’articolo 141 del trattato non includa le prestazioni sociali, è stato ormai chiarito che i regimi pensionistici dei dipendenti pubblici rientrano nel campo d’applicazione del principio della parità retributiva se le relative prestazioni sono versate al beneficiario a motivo del suo rapporto di lavoro con il datore di lavoro pubblico, e ciò anche nell’ipotesi in cui il regime in questione faccia parte di un regime legale generale. Secondo le sentenze della Corte di giustizia nelle cause C-7/93 (2) e C-351/00 (3) questa condizione è soddisfatta se il regime pensionistico interessa una categoria particolare di lavoratori e se le prestazioni sono direttamente collegate al periodo di servizio e calcolate con riferimento all’ultimo stipendio del dipendente pubblico. Per chiarezza, è dunque opportuno adottare una specifica disposizione in tal senso».
20 In Riv. it. sicur. soc., 2009, 1, commenti e rassegne di Sandulli, Piccone, Ciocca, Corti, Pammolli- Salerno, Grandi-Barbera.
21 Art. 12, co. 12 sexies, l. n. 122/2010, che così dispone: «All’articolo 22-ter del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, sono apportate le seguenti modifiche: a) il comma 1 è sostituito dal seguente: ‘1. In attuazione della sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 13 novembre 2008 nella causa C-46/07, all’articolo 2, co. 21, della legge 8 agosto 1995, n. 335, sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: A decorrere dal 1o gennaio 2010, per le predette lavoratrici il requisito anagrafico di sessanta anni di cui al primo periodo del presente comma e il requisito anagrafico di sessanta anni di cui all’articolo 1, co. 6, lettera b), della legge 23 agosto 2004, n. 243, e successive modificazioni, sono incrementati di un anno. Tali requisiti anagrafici sono ulteriormente incrementati di quattro anni dal 1° gennaio 2012 ai fini del raggiungimento dell’età di sessantacinque anni’».
22 Valuta un contenimento della spesa – tenuto conto dell’effetto differenziale con quanto già scontato ex art. 12, co. da 12 bis a 12 quater, d.l. n. 78/2010 – che va da 38 milioni (2014) a 775 (2021); ma soprattutto conta qui rilevare che, fermi i parametri legali in atto, al 2050 si realizzerebbe un adeguamento cumulato di circa 3 anni e 9 mesi, da aggiungere ai vari limiti di età operanti nel regime generale e nei regimi speciali, data la portata generale del meccanismo nei confronti di tutti indistintamente i regimi pensionistici (art. 12, co. 12 quater, d.l. n. 78/2010).
23 Il co. 4 si correla, appunto per anticiparne gli effetti, all’art. 12, co. da 12 bis fino a 12 quater, d.l. n. 78/2010, l. conv. 122/2010; che a loro volta si correlano all’art. 22 ter d.l. n. 78/2009, l. conv. 3.8.2009, n. 102.
24 Nella relazione tecnica si avverte la consapevolezza di questo rischio, paventandosi il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 110/1999, per immediatamente richiamare l’attenzione sulla diversa costruzione normativa della fattispecie.
25 Dalla relazione tecnica si ricava che la norma è destinata a produrre risparmi per 11 milioni di euro (9 al netto degli effetti fiscali) per il 2012, 34 (27 al netto) nel 2013, 57 (45 al netto) per il 2014.
26 Opportunamente ricordati da Vallebona, Matrimoni dubbi e pensione di reversibilità: la tecnica antifraudolenta a difesa dello stato sociale, in Mass. giur. lav., 2011, 650.
27 C. cost. 20.3.1986, n. 72 (di rigetto): «che il legislatore, nel dettare i vari e diversi criteri limitativi per la riversibilità della pensione del dipendente che ha contratto matrimonio dopo la cessazione dal servizio, non abbia accolto, nella disciplina della previdenza sociale, quello della differenza di età tra i coniugi non superiore a venticinque anni, non implica, per ciò soltanto, che tale indubbiamente più favorevole normativa possa riferirsi anche alla differente disciplina attinente al pubblico impiego», nel presupposto della non comparabilità globale dei due diversi regimi pensionistici.
28 C. cost., 31.5.1988, n. 587 (Fondo per il personale del lotto); C. cost., 14.3.1990, n. 123, (art. 81, co. 3, d.P.R. 29.12.1973, n. 1092: trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato, che escludeva l’attribuzione del trattamento di reversibilità «alla vedova del pensionato che ha contratto matrimonio dopo la cessazione dal servizio e dopo il compimento del sessantacinquesimo anno di età» a meno che il matrimonio non fosse durato almeno due anni; C. cost., 2.5.1991, n. 189, (regime generale AGO-IVS: (l. n. 153/1969, art. 24, laddove si disponeva la non attribuibilità della pensione di reversibilità al coniuge del pensionato che avesse contratto matrimonio in età superiore a 72 anni, quando il matrimonio fosse durato meno di due anni); C. cost., 2.4.1999, n. 110 (art. 21, co. 1, n. 2, l. 29.10.1971, n. 889, per gli addetti ai pubblici servizi di trasporto, pure gestita dall’INPS), si noti che in questo giudizio la difesa dell’INPS, ormai rassegnata, si limitava ad osservare che la sollevata questione trovava un precedente del tutto analogo nella citata sentenza n. 189/1991 e si rimetteva, pertanto, alla decisione della Corte (è evidente che l’INPS, pur in presenza di norme fotocopia già abrogate, non si sentiva autorizzata ad una disapplicazione amministrativa delle stesse); da ultimo, C. cost., 28.12.2001, n. 447, con riferimento all’art. 21, co. 3, l. 23.11.1971, n. 1100, istitutiva dell’Ente di previdenza ed assistenza a favore dei consulenti del lavoro. In ognuna delle sentenze indicate, è presente il riferimento all’esigenza che «nella sfera personale di chi siasi risolto a contrarre il matrimonio non possa, e non debba di conseguenza, sfavorevolmente incidere alcunché che vi sia assolutamente estraneo, al di fuori cioè di quelle sole regole, anche limitative, proprie dell’istituto. Infatti, il relativo vincolo, cui tra l’altro si riconnettono valori costituzionalmente protetti, è e deve rimanere frutto di una libera scelta autoresponsabile, attenendo ai diritti intrinseci ed essenziali della persona umana e alle sue fondamentali istanze. In conclusione, esso si sottrae a ogni forma di condizionamento indiretto ancorché eventualmente imposto, in origine, dall’ordinamento ».
29 È abbastanza evidente la ridondanza della norma, laddove la durata del decennio in combinazione con il riferimento alla minore età di per sé copre ampiamente la situazione di figlio/a studente e quella stessa di inabile.
30 Per una ampia e puntuale descrizione delle vicende sviluppatesi fino alla l. n. 244/2007, vedi Carbone, La razionalizzazione degli enti previdenziali, in Lavoro, competitività, welfare, a cura di Cinelli-Ferraro, Torino, 2008, 671 ss., nonché Gambacciani, La riorganizzazione e razionalizzane degli enti previdenziali pubblici, La nuova disciplina del Welfare, a cura di Persiani-Proia, Padova, 2008, 21, entrambi in Commentario alle legge 24 dicembre 2007, n. 247.
31 Art. 1, co. 32 e 33, l. 24.12.1993, n. 537, dalla cui delega è scaturito l’INPDAP (d.lgs n. 479/1994) frutto della concentrazione ed incorporazione delle casse ed enti di previdenza operanti per i dipendenti pubblici, oltre che il processo di privatizzazione degli enti per le categorie libero professionali (vedi infra 3.6).
32 Speculare a questa vicenda è l’alternante esclusione e reinclusione degli enti di previdenza privati dal novero dei destinatari delle norme sulla gara europea (art. 32, co. 12, d.l. n. 98/2011).
33 Questo vantaggio potrebbe essere seriamente ridimensionato se dovesse scattare il meccanismo di cui all’art. 40, co. 1 ter e all. C d.l. n. 98/2011.
34 Questo riferimento costituisce l’innovazione, che va opportunamente correlata con l’art. 8 d.l. n. 138/2011, come convertito, per consentire agli accordi precedenti detta data di produrre retroattivamente – a certe condizioni – gli effetti incentivanti, non più solo sul piano della detassazione e della decontribuzione, ma anche sul piano della derogabilità delle norme statali di diritto del lavoro, a prescindere dalla possibilità di una diversa graduazione nella tenuta delle norme stesse. Dal che, significativamente, il richiamo, ambiguamente rassicurante, al rispetto delle norme costituzionali, europee ed internazionali (cfr. art. 8, co. 2 bis); ed anzi, la tecnica di espressa inclusione di materie da aggiungere al coacervo della derogabilità, induce a ritenere la diffusa negoziabilità degli istituti centrali (se non di tutti) del diritto del lavoro, ciò ricavandosi per tabulas, grazie alla conclamata esclusione, sotto forma di eccezione, del licenziamento discriminatorio e del licenziamento per causa di matrimonio. Sulla portata ideologicamente qualificata di questa discussa disposizione, non ci deve qui soffermare, ma è fuori discussione l’ampliamento del disegno di modificazione del sistema delle fonti regolatrici del diritto del lavoro, se specialmente si compara questo effetto con quello della detassazione e della decontribuzione di cui al testo, che è pur sempre limitata e fortemente condizionata, in ragione della natura pubblica della obbligazione tributaria e di quella contributiva.
35 La ristretta dimensione di questo contributo impedisce un approfondimento ulteriore della questione; per esso si rinvia a Sandulli, Retribuzione imponibile fiscale e previdenziale, in Trattato di diritto del lavoro, Padova, 2011, Carinci-Persiani (a cura di), Padova, 2011, IV, Contratto di lavoro e organizzazione..