Nostra Signora dei Turchi
(Italia 1968, colore, 124m); regia: Carmelo Bene; produzione: Giorgio Patara, Carmelo Bene; sceneggiatura: Carmelo Bene, dal suo omonimo romanzo; fotografia: Mario Masini; montaggio: Maurizio Contini.
Il Palazzo Moresco, voce over di Carmelo Bene che annuncia un'autobiografia, musica di Musorgskij. Le immagini si deformano e si intersecano con quelle della Cattedrale di Otranto, nella cappella-ossario dove sono conservate le ossa di duecentosessanta martiri. Come loro, il protagonista avrà ancora il teschio coperto di carne tanti secoli dopo la morte? E gli occhi? Oggetti senza senso ma non insignificanti, gesti di un "(sono) io" che è difficile decifrare. Un doppio, più doppi, un gangster. Compare il primo personaggio femminile, la serva-bambina. Voli impossibili da un balcone che si affaccia sul mare: cadute, letteralmente. Brindisi al proprio riflesso distorto. Vocazione al martirio e primi amori, inginocchiati. Ancora voce over, implicitamente ironica: l'invasione di Otranto da parte dei tur(isti)chi. Colori in libertà, una lettera al Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Gli oggetti sono ostacoli. Presto apparirà Santa Margherita e Arnoldo Foà recita García Lorca. Giunge la Santa che seduce il protagonista, lui resiste, poi cede, lei adesso fuma e legge la rivista "Annabella". Lui si agita nel vuoto, ferito e bendato, mima gli oggetti, li interpreta e vi si trasforma. Piazza di Santa Cesarea Terme: interni ed esterni tendono a confondersi. L'idiozia inizia a manifestarsi, si chiudono i cassetti e si inchiodano le finestre e le porte. Una serva, un editore preoccupato di utili e perdite, ancora le ferite (del protagonista come della pellicola) e un funerale, quello della Madonna. Quindi il morto è lui, finalmente guarito. Altri doppi, due frati, una gita in barca con la Santa. Adesso il protagonista è un cavaliere in armatura, la serva e la Santa si scambiano impressioni, quest'ultima sta perdendo l'amore e si cristallizza, mentre il protagonista ‒ afasico ‒ si addormenta o muore. Il cinema si allontana.
È il 1968. Carmelo Bene ha già conosciuto il cinema grazie al cortometraggio Hermitage, più che altro un esperimento di regia, un modo per capire come funziona la macchina da presa e il proprio corpo di fronte a essa. Una casa di produzione vicina all'ambiente underground, guidata da Giorgio Patara, approva un progetto che prevede la realizzazione di tre cortometraggi. Bene ne gira uno soltanto, lo splendido Barocco leccese, e quindi sceglie di utilizzare il budget restante per il primo dei cinque lungometraggi che, tra il 1968 e il 1973, definiscono la circoscritta fase cinematografica del suo articolato percorso artistico.
Lo spunto è ovviamente quello del romanzo Nostra Signora dei Turchi, pubblicato per i tipi di Sugar nel 1966. Il romanzo è una sorta di parodia del flusso di coscienza che tanto ha influenzato la letteratura novecentesca ed è dedicato al 'padre', nell'accezione più ampia del termine. Le tracce letterarie sono evidenti, e del resto parte del film è ambientata proprio nella casa di famiglia a Santa Cesarea Terme, in Puglia. Ma altri testi si intersecano con quello principale (e con la sua variante teatrale, già messa in scena nello stesso 1966), dal precedente Hermitage al particolarissimo romanzo Credito italiano V.E.R.D.I.; più in generale è difficile separare come corpi distinti le singole manifestazioni di un autore che fa di se stesso il solo e sostanziale filo conduttore di un corpus estremamente eterogeneo. Carmelo Bene lascia dunque liberi sé stesso e i suoi attori di abbandonarsi all'improvvisazione di un film senza vera e propria sceneggiatura. I nuclei tematici e narrativi sono però chiarissimi: i paradossi della voce di un io privo di identità; la disperata ricerca della stupidità e il tragico riconoscimento dell'impossibilità di "essere finalmente il più cretino", ovvero il più puro, o almeno il più sensato (l'orrore per la cultura, per il buon senso dell'intelligenza autoproclamatasi tale). Spiccare il volo, allora, comporta inevitabilmente una caduta, e vale la pena tentare, anche solo per il gusto ‒ per nulla perverso ‒ di cadere. Anche perché non è da disprezzare la vocazione al martirio, tanto più glorioso quanto più gratuito, come quello degli ottocento abitanti di Otranto che nel 1480 rifiutarono di convertirsi di fronte agli invasori turchi. Tra voglia di santità e di dissacrazione (Santa Margherita legge "Annabella", e fuma), trionfano l'amore per il cinema e per la musica, il discorso sul cinema e la sua parodia. Nostra Signora dei Turchi è anche un metafilm, ricchissimo di citazioni e di discorsi critici (ogni opera di Bene è anche teoria sul mezzo, teatro, letteratura, cinema): su Godard o Ejzenštejn, sull'impersonalità della voce over, sul montaggio e sul corpo cinematografico che il montaggio fa a pezzi per poi ricostruirlo alla meglio, sulla fotogenia degli uomini e degli oggetti, sul piacere del colore e sulla materialità della pellicola (la sua consistenza), sulla sincronia e il suo contrario, sulla simultaneità sinestetica contro il dominio della successione (magari ordinata), e si potrebbe continuare a lungo. Più che altro, però, Nostra Signora dei Turchi è un film tirannico, che priva lo spettatore di ogni sua certezza per metterlo di fronte a qualcosa di completamente nuovo, costringendolo a confrontarsi con la libertà dello sguardo, del racconto e del senso (o del non-senso).
Carmelo Bene, insomma, realizza un film ironico e serissimo allo stesso tempo, straziante nel suo racconto della solitudine dell'artista che non può più contare su un io plausibile, comico nel modo in cui rivela la nevrosi del cinema istituzionale e delle sue ridicole convenzioni, con la furia iconoclasta di un Jerry Lewis. Il modello è chiamato in causa da Gilles Deleuze come da Adriano Aprà, il quale giustamente aggiunge che si tratta del primo vero tentativo strutturato di un'avanguardia italiana capace di rivaleggiare con i corrispettivi americani e che, soprattutto, per quanto racconti di frustrazione e di morte, "il film continua a pulsare impresso nella memoria come un oggetto vivo: è un godimento". Nostra Signora dei Turchi vinse il Premio speciale della giuria alla Mostra del Cinema di Venezia del 1968 e il primo premio al Festival di Hyères dello stesso anno.
Interpreti e personaggi: Carmelo Bene (protagonista senza nome), Lydia Mancinelli (Santa Margherita), Ornella Ferrari (serva-bambina), Anita Masini (Madonna/moglie), Salvatore Siniscalchi (editore), Vincenzo Musso.
C. Bene, Nostra Signora dei Turchi, Milano 1966, poi in Opere, Milano 1995.
J. Narboni, Carmelo Bene: 'Nostra Signora dei Turchi', in "Cahiers du cinéma", n. 206, novembre 1968.
S. Arecco, Nostra Signora dei Turchi, in "Filmcritica", n. 196-197, marzo-aprile 1969.
E. Ungari, I nudi e i morti, in "Cinema & Film", n. 9, estate 1969.
"Cineforum" n. 104, giugno 1971, in partic. G. Raboni, Il bersaglio interno, M. Abati, Nostra Signora dei Turchi.
M. Grande, Materia e linguaggio, in "Bianco e nero", n. 11-12, novembre-dicembre 1973.
G. Deleuze, L'Image-temps, Paris 1985 (trad. it. Milano 1989).
A. Aprà, Carmelo Bene oltre lo schermo, in Per Carmelo Bene, Milano 1995.
C.G. Saba, Carmelo Bene, Milano 1999.