Notabili e potere locale
La parola notabile deriva dagli effetti della rivoluzione francese, e designa l’élite, non più contraddistinta solo dal nome, ma anche, particolarmente, dal censo, che costituì uno dei risultati più notevoli («notabili», appunto), oltre che durevoli, di quel vasto processo storico. L’evidente centralità del gruppo notabilare nella vita pubblica italiana – almeno nei primi decenni postunitari e, con alcuni aggiustamenti, fino al definitivo esaurirsi del sistema fondato sulla selezione del corpo elettorale in base alla sua capacità economica (1912-13, ma tuttavia restava, e sarebbe durata a lungo, la selezione per sesso) – non deve identificarsi con un vero e proprio passaggio di testimone tra aristocrazia e borghesia come vorrebbe un antico luogo comune, ma fu soprattutto il prodotto di un radicale riassestamento di valori iniziato vari decenni prima dell’unificazione, nel quale l’accento della rilevanza sociale passava, in un percorso non lineare né privo di ostacoli, ma assodato, dall’essere (nobili) all’avere (possidenti). Il nuovo Regno costituitosi nel 1861 fu a lungo, plausibilmente nei suoi primi quaranta o cinquanta anni di vita, l’Italia – meglio ancora sarebbe dire al plurale, le Italie – dei notabili. Constatarlo, dando al medesimo tempo ampia visibilità alla natura composita delle élites unitarie, significa non tanto risolvere, quanto collocare in una diversa prospettiva l’annoso interrogativo sulla prevalenza della continuità o del mutamento nel processo di unificazione italiana, e dunque sulla sua intrinseca qualità di compromesso: se tale era, certo si manifestava in un contesto di tanto profondo cambiamento che gli attori, pur rimanendo lungamente gli stessi, ne venivano potentemente trasformati. Risoltasi la partita unitaria, l’attitudine a mantenere la propria centralità sociale fu elaborata dai notabili, pur con le loro diverse sensibilità territoriali, nella forma del diritto/dovere di servire il nuovo Stato, o – e questa è certamente questione non trascurabile, ma probabilmente connaturata alla borghesia liberale ottocentesca – di servirsi di esso.
La varietà delle élites italiane fu innanzitutto basata territorialmente, e poi socialmente. Non è un caso che le prime aggregazioni politiche chiamate alla guida dell’Italia unita durante i governi della Destra si definissero – e siano tuttora definite – regionalmente (moderati piemontesi, lombardi, toscani e così via), a propria volta alludendo alle altre provenienze, percepite come concorrenti, in termini di «consorteria». La sensibilità per le diverse realtà locali animò fortemente la vita politica postunitaria, producendo non solo il perdurare delle differenze, divenuto col tempo una caratteristica nazionale, ma anche, sul piano del concreto agire politico, una serie di autorevoli istanze e proposte decentralistiche che sfumano – se non altro nel comune sentire dei notabili e delle loro rappresentanze parlamentari – la visione di un’Italia quasi necessariamente votata all’accentramento dalle modalità del processo di unificazione. Molto più articolati di quanto non dettasse la stretta organizzazione amministrativa, i rapporti tra centro e periferia furono a lungo determinati dalla qualità delle relazioni personali e dagli scambi che queste tendevano a produrre.
La periodizzazione proposta può certamente essere discussa, ed è probabilmente troppo avanzata. Non solo, infatti, alla fine del XIX secolo gli elettori per censo, da assoluta maggioranza che erano stati dopo l’Unità, sarebbero divenuti una minoranza degli aventi diritto al voto; ma già con la riforma elettorale degli anni Ottanta dell’Ottocento si erano avviati due processi: la professionalizzazione della politica e una articolazione della rappresentanza più mobile e mossa rispetto a quella emersa dopo l’unificazione, determinata da nuove appartenenze e animata da nuovi soggetti. Anche nel mondo dei notabili, si era venuto formando un ceto politico e parlamentare, posto, tra l’altro, nella necessità di confrontarsi con le nuove forme di organizzazione emergenti, cui l’élite liberale italiana non sapeva, e a lungo non seppe rispondere, formandone una propria. All’inizio del XX secolo, apparivano evidenti l’esistenza e la vitalità di un personale politico di estrazione piccolo-borghese, legato al mondo dei piccoli produttori urbani, agli impieghi e alla burocrazia statale, che si propose nella struttura della rappresentanza liberale pur non provenendo dal mondo della tradizionale possidenza; tuttavia, la fortuna e la durata di questi soggetti ormai legati alla politica come mestiere continuarono a dipendere piuttosto strettamente dalle reti di relazione costruite e dirette dalle élites tradizionali. Infine, mano a mano che la vita politica si complicava, il discorso pubblico cominciò ad essere attraversato da miti e discorsi estranei alla natura della relazione tra i notabili e la classica base del loro consenso. La nazionalizzazione del discorso proprietario come proposta di rigenerazione nazionale e di composizione sociale a partire dai patriarcali valori della terra fu abbozzata già negli anni Ottanta dell’Ottocento sotto la duplice spinta della crisi agraria e dell’allargamento del suffragio, proprio mentre i lavori dell’Inchiesta Jacini venivano confermando l’esistenza di diverse Italie agricole. Per il periodo successivo alla Grande guerra, gli effetti del suffragio universale maschile, della politica di massa e di tutto ciò che l’ulteriore grande trasformazione novecentesca poté significare per la storia italiana, rendono impossibile introdurre la categoria di notabile entro un contesto di ruoli e funzioni autentici e di effettiva rilevanza sociale; il nome rimane, tutt’al più, come suggestione lessicale. Una nota e discussa opzione storiografica colloca nella prima guerra mondiale «la fine dell’ancien régime», ma il notabilato italiano fu piuttosto il protagonista di una progressiva emancipazione dall’antico regime inteso come sistema di ranghi preordinati, in un contesto di relativa fluidità sociale, nel quale l’Ottocento appare una lunga transizione verso la contemporaneità.
Nella storia del paese, come del resto nella maggior parte dell’Europa caratterizzata dall’evolversi dello Stato liberale e dei suoi istituti, le stesse famiglie, i medesimi gruppi dirigenti, addirittura le stesse persone, potevano mutar forma se esaminati da punti di vista diversi e collocati all’interno di differenti sistemi di riferimento politici e istituzionali; e altrettanto mutano, ponendosi nell’ottica dei diversi compiti comunitari venuti a sostituire la dimensione dell’otium o dell’associazionismo erudito che avevano ampiamente caratterizzato le élites preunitarie, tramutandosi in costante impegno pubblico a base locale. Si pensi, a titolo di esempio, alle varie forme di aggregazione del consenso popolare basate sul patronato notabilare e organizzate per adempiere al gravoso e innovativo compito di «nazionalizzare le masse», come le Società operaie di mutuo soccorso, o a iniziative di associazionismo padronale come i Comizi agrari. Ma l’impegno pubblico determinante fu, naturalmente, quello costituito dalla partecipazione dei notabili alla vita politica in forme quasi sempre protagonistiche. L’onere della rappresentanza venne assunto ovunque in continuità con una presenza significativa e rilevante sul territorio, e modulato a seconda delle personali predilezioni e delle singole capacità, ma mai eluso. Contava, in questa sorta di assunzione di responsabilità, la diffusa esistenza di reti di relazione precedenti legate a forme di rapporto paternalistico, nelle quali si era espresso un dominio consistente e durevole pur nel mutare dei regimi. Ed era la città, grande o piccola che fosse, più che la campagna (il possesso terriero, o la coltivazione della terra su larga scala per conto d’altri) ad alimentare e sostanziare la vocazione politica dei notabili; o almeno, in gran parte d’Italia, era quella stretta interdipendenza tra città e campagna che strutturava l’organizzazione del potere cittadino attraverso la proprietà della terra («la campagna organizza la città», Lanaro 1989). Nel suo saggio La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, del 1858, Carlo Cattaneo aveva scritto: «l’adesione del contado alla città, ove dimorano i più autorevoli, i più opulenti, i più industri, costituisce una persona politica, uno stato naturale, permanente e indissolubile» (Cattaneo 1972, p. 82).
Era tramite la posizione cittadina consentita dal patrimonio terriero – attraverso passaggi più o meno complessi e diluiti nel tempo – che la gran parte dei ceti dirigenti preunitari aveva conquistato la possibilità di accedere alle varie forme di gestione della cosa pubblica consentite dagli antichi Stati. I possidenti potevano non essere oziosi, anzi sempre meno lo furono dopo l’unificazione, prendendo la strada degli impieghi pubblici o delle professioni cosiddette liberali, legate principalmente al diritto e alla medicina, che per alcuni patriziati o nobiltà civiche locali (la toscana, l’umbro-marchigiana) costituivano già una tradizione: il che spiega perché, nelle stime derivanti dalle rilevazioni statistiche postunitarie, la classe dirigente del centro Italia conti il più alto numero di professionisti. Ma il patrimonio fondiario fu determinante a caratterizzare il ceto dei notabili, anche dal punto di vista del prestigio sociale che vi era connesso: tra le élites urbane la proprietà terriera risultò dominante almeno fino alla fine del secolo, quando si mostrarono evidenti gli effetti della crisi agraria. La composizione dei patrimoni in alcune città tra 1862 e 1882 sottolinea la centralità della terra, con punte di oltre il 60% a Piacenza, e fra il 50 e il 60% a Torino, Lucca, Catanzaro, e dunque in tutto il territorio italiano. Al dato non sempre corrispondeva un radicamento antico, e le proprietà del notabile italiano, anche quello caratterizzato dal più esclusivo rapporto con la terra, potevano essere di acquisizione relativamente recente: le vicende di inizio Ottocento, infatti, mobilizzando terre in precedenza vincolate dalla manomorta ecclesiastica o dai diritti feudali, avevano trasformato la struttura della proprietà fondiaria, consentendone una notevole redistribuzione in tutta Italia. Se la prima fase del rapporto terra/notabili aveva avuto per teatro l’inizio del XIX secolo, tra l’unificazione e gli anni Ottanta del secolo conobbe un ulteriore ampliamento: a Piacenza, per esempio, negli anni Sessanta dell’Ottocento i grandi patrimoni erano composti di proprietà terriere per oltre il 40%, ma nella decade successiva la percentuale aumentò di ben venti punti. Anche a Napoli, nel primo ventennio postunitario, i grandi e grandissimi patrimoni – non i medio-piccoli – furono caratterizzati per oltre il 30% da una possidenza fondiaria situata nelle province, riconducibile a un ceto notabilare formatosi a inizio secolo e definibile come borghese, anche se talvolta dotato di titoli di nobiltà minore.
Tramite un meccanismo che era, a un tempo, continuazione delle relazioni passate e ingresso in un sistema di rapporti sensibilmente nuovo, il proprietario terriero e in genere il possidente, sopra, o in alternativa alla veste del rentier che più gli era propria, si trovò ad indossarne diverse altre: quella del sindaco del comune capoluogo, o di quello in cui avesse il maggior radicamento fondiario; del deputato o del senatore al centro di una vasta rete di relazioni, per leggere la quale risultano sempre più importanti i carteggi, le corrispondenze epistolari insieme pubbliche e private delle quali l’Ottocento è straordinariamente ricco; del presidente di varie associazioni a base locale o nazionale, talvolta del protoimprenditore o dello studioso. L’antico legame locale si articolava così nelle molteplici situazioni create dalla struttura complessa dello Stato liberale e dalle crescenti opportunità offerte in ogni campo, da quello economico-imprenditoriale a quello culturale, passando per l’importantissimo snodo delle professioni liberali, in una società nella quale l’istruzione e il sapere sempre più apparivano strategici per realizzare il progetto di unificare l’Italia. Le diverse incarnazioni della versatile natura del notabile sono alla base di una quantità di vicende personali, delineando, pur nelle singole diversità di esperienza, quasi un modello.
Diverse vocazioni convissero, ad esempio, significativamente esprimendosi già in fase preunitaria in una giovanile esperienza di amministratore comunale sotto il governo austriaco, nella personalità del veneto Fedele Lampertico, importante uomo politico moderato, senatore del Regno dal 1873, possidente e imprenditore, ma anche studioso delle nuove discipline statistiche ed economiche tanto da poter essere associato ai coevi «socialisti della cattedra», lui cattolico e personalmente non impegnato nella vera e propria competizione elettorale. Ad essa non mancò, peraltro, di partecipare nel ruolo di «grande elettore» proprio del rango senatoriale, condizionando con la sua influenza la scelta del personale politico elettivo; in Senato, lasciò traccia prevalentemente come relatore della legge elettorale del 1882, che interpretava come punto di partenza di un’alleanza fra ceti agricoli (grandi possidenti e piccoli proprietari contadini ammessi al voto), uniti nella difesa della proprietà. Ispiratore di vari personaggi nei romanzi politici di Antonio Fogazzaro (che gli era nipote), della sua Vicenza divenuta italiana il senatore Lampertico sarebbe stato amministratore ininterrottamente per quarant’anni, fino alla morte avvenuta nel 1906.
Analoga sequenza di variegati attributi notabilari, anche se meno brillante dal punto di vista della proiezione nazionale, illustra la figura del marchese Matteo Ricci, appartenente a una delle famiglie maceratesi più in vista e più esposte nella moderata, ma costante opposizione al potere pontificio a partire dalla Restaurazione. Stimato intellettuale e cultore di storia locale, egli fu deputato e poi senatore del Regno dal 1890, oltre che direttore della biblioteca comunale e rettore dell’università di Macerata, superstite, dopo l’unificazione, della costellazione di minuscoli atenei che aveva caratterizzato la regione. La dimensione nazionale della carriera del marchese Ricci non è ravvisabile nella dignità senatoriale – che come di consueto veniva a sanzionare, e anche abbastanza in ritardo, la posizione eminente nella città di origine – ma è singolarmente rappresentata dalla sua collocazione matrimoniale, dato che egli aveva sposato giovanissimo, nel 1852, la figlia del noto uomo politico piemontese Massimo d’Azeglio, per più versi legato da rapporti personali e da interessi politici ai territori dello Stato pontificio. Il matrimonio nasceva dall’amicizia tra d’Azeglio e il padre di Matteo, Domenico: una relazione sostanziata dalla comune passione politica, che fu una delle componenti più significative dell’amalgama notabilare, cementando amicizie virili non di rado capaci di superare barriere localistiche e di ceto. Va detto che, come si vedrà meglio più avanti, il carattere tendenzialmente progressivo di quelle amicizie non trovava adeguata rispondenza nell’alleanza tra i sessi realizzata col matrimonio, ancora classicamente basato, nel caso Ricci-d’Azeglio come in innumerevoli altri, sulla compatibilità di nomi e di fortune più che sull’attrazione reciproca delle persone.
Anche la vicenda di Lampertico, del resto, è resa ancor più esemplare dalle circostanze della sua nascita: egli era figlio di un commerciante e una nobile, una unione tipica delle molteplici strategie di fusione tra le due componenti della aggregazione notabilare – all’apparenza, naturalmente fusionista, ma spesso, invece, assai condizionata dall’esigenza di conservare le differenze nell’ambito cruciale delle relazioni familiari – che Lampertico avrebbe ripetuto nella sua stessa esperienza matrimoniale, mostrando dal vivo quell’aspirazione ad armonizzare nome e denaro che costituisce uno dei più intensi laboratori sociali del XIX secolo, e quasi una ragion d’essere, al di là del concreto successo delle aspirazioni e degli sforzi compiuti, del notabilato stesso. La romana Anna de Cadilhac, nobile di nascita, nelle sue memorie recentemente scoperte e pubblicate si vantò ad esempio di aver realizzato, lei sola, «l’anello di congiunzione tra la nobiltà e la borghesia» (De Simone, Monsagrati 2007, p. 76) nella fase finale (il «tramonto», come si usa definirla) dello Stato pontificio, alludendo al forse unico merito, quello appunto di avere unito i due ceti, che poteva essere attribuito al suo infelice matrimonio con il commerciante Bartolomeo Galletti, uno dei più attivi sostenitori della Repubblica romana del 1849. Il loro figlio Arturo Galletti de Cadilhac (che aveva assunto il predicato nobiliare della madre), dopo un’esperienza di giovanile impegno democratico come ufficiale garibaldino, avrebbe poi egregiamente rivestito il ruolo del notabile, essendo sindaco del piccolo comune marchigiano in cui si era stabilito con la moglie inglese e deputato di Montegiorgio per cinque legislature, dal 1892 al 1909.
Se ci spostiamo all’estremo Sud della penisola, in Sicilia, nella Catania che aveva conosciuto uno degli sviluppi demografici più spettacolari nel Mezzogiorno della prima metà del XIX secolo, troveremo un esempio ancor più significativo – e forse in parte esorbitante dai limiti dello stretto nesso tra notabilato e potere locale – della molteplicità di funzioni concorrente nella ridefinizione postunitaria del notabile, quale veniva via via precisandosi nello scorrere dei decenni, offrendo ai più ambiziosi esponenti delle varie élites italiane un cursus honorum in grado di proiettare ai più alti livelli della scena politica il prestigio proveniente dalla posizione locale. Il marchese di San Giuliano (Antonino Paternò Castello), figlio del patriota liberale Bartolomeo Orazio che era stato nominato senatore già nel 1861 sia per meriti politici che per la posizione eminente da tempo assunta dalla sua famiglia nella società cittadina, divenne infatti consigliere comunale e poi sindaco di Catania a soli ventisei anni. A poco più di trenta, nel 1882, fu eletto deputato e in seguito, nel 1905, sarebbe entrato in Senato. Ma il marchese di San Giuliano ricoprì nel corso della sua carriera anche prestigiosi incarichi ministeriali sotto i governi Pelloux (ministro delle Poste) e poi Giolitti (ministro degli Esteri), e fu ambasciatore italiano in Francia e in Gran Bretagna. La sua brillante carriera mostra come i tempi, oltre alla sua particolare posizione di membro dell’alta aristocrazia, alla sua intraprendenza e probabilmente alle sue capacità, avessero ormai delineato una duplice potenzialità insita nella posizione notabilare. L’una era quella che si arrestava classicamente al dominio della scena locale, talvolta, almeno nelle prime tornate postunitarie, rafforzato dall’elezione a deputato, più spesso sanzionato dalla nomina in Senato: è dato a un tempo scontato e significativo che la maggior parte delle nomine senatoriali rientrassero, nelle prime decadi dell’Italia unita, all’interno della categoria ventunesima, basata sull’eminenza nel territorio per patrimonio (nell’epoca della Destra storica la percentuale dei senatori nobili fu peraltro vicina al 50%). L’altra era quella in grado di proseguire il comunque indispensabile cursus locale cimentandosi sia nelle cariche elettive nazionali, sia, soprattutto, nella conquista di posizioni governative. Tra l’altro, l’exploit del marchese di San Giuliano era in controtendenza non solo rispetto alla decrescente presenza di nobili nominati in Senato (ridottisi quasi della metà, per l’Italia insulare, nel passaggio tra Destra e Sinistra compresa l’età giolittiana; tuttavia la percentuale era superiore a quella nazionale), ma anche relativamente alla loro collocazione ministeriale, che li vide passare dal 43% del 1861-76 al 16% tra la caduta della Destra e la prima decade del XX secolo: un processo di relativa decadenza, particolarmente vistoso nel Meridione. Si tratta tuttavia di dati che valgono per la loro suggestiva evidenza, ma che non possono interamente interagire con una singola carriera di notevolissima espansione, propria di un uomo politico tra i più influenti del suo tempo: là dove appare evidente, ad esempio che il seggio senatoriale arrivava più per sottolineare una sequenza di successi che per concludere un cursus; e che l’appartenenza all’alta aristocrazia isolana poteva avere avuto un effetto nella nomina ad ambasciatore, ma non ne aveva in misura determinante nella più variabile (e meno notabilare) geometria dell’area governativa di epoca giolittiana, nella quale, tra l’altro, il marchese di San Giuliano aveva sempre rappresentato le posizioni politiche della Destra. Eppure, si può utilmente contrapporre la sua carriera a quella di un collega ben più vicino di lui all’area politica dominante, e cioè il giolittiano Tancredi Galimberti, consigliere comunale e provinciale di Cuneo nei primi anni Ottanta dell’Ottocento, deputato dal 1887, sottosegretario alla Pubblica istruzione nel 1901 e ministro delle Poste dal 1902 al 1903. Considerato per un certo periodo il «delfino» di Giolitti, Galimberti avrebbe visto, invece, rapidamente oscurata la sua stella a causa di contrasti con l’uomo politico piemontese, tanto gravi che non ebbe più incarichi di governo e nel 1913 perse anche il seggio parlamentare: la vicenda si può leggere in modo originale nella ricca produzione autobiografica ed epistolare della moglie Alice Schanzer, che tra l’altro pone spesso in malinconico contrasto il declino di Tancredi con l’ascesa brillante e duratura del suo proprio fratello Carlo Schanzer, più volte ministro, deputato e infine senatore, la cui militanza nel gruppo giolittiano insieme a Galimberti non era certo stata estranea all’unione tra il quarantaseienne ministro delle Poste e la giovane donna, di più riconoscibile e solida radice borghese. Avvocato, giornalista e proveniente da una famiglia della piccola borghesia la cui ascesa nella vita cittadina era stata determinata dal successo nell’arte tipografica e nell’editoria locale, Galimberti rappresentava il primo caso di acculturazione e di ingresso nella vita pubblica del suo gruppo familiare, e l’assenza di un più solido retroterra – benché agisse sul territorio con relazioni e clientele di tipo notabilare – ebbe probabilmente il suo effetto sulla labilità delle fortune ministeriali.
Tornando al marchese di San Giuliano, va sottolineato come egli avesse curato la propria istruzione e formazione in modo particolare, laureandosi in giurisprudenza a poco più di venti anni, intraprendendo viaggi di studio in vari paesi europei, e creandosi, nel tempo, anche una certa fama di saggista: a dimostrazione di come la cultura avesse ormai un proprio ruolo non solo nella formazione del notabile aspirante a una carriera politica che comportava competizione a dimensione nazionale, ma anche nella ridefinizione di un modello nobiliare, quello meridionale e segnatamente siciliano, tradizionalmente tra i meno sensibili a quest’ambito di problemi. L’intreccio tra sicurezza notabilare, ambizione personale e cura per la propria formazione tratteggia anche il carattere di uno dei personaggi principali di un grande romanzo italiano tardo-ottocentesco, I Viceré di Federico De Roberto: quello del principe Consalvo Uzeda di Francalanza, sindaco, deputato, ministro, oltre che studioso di scienza e di economia politica, che molti ritengono tagliato proprio sulla figura del marchese di San Giuliano.
Definita preliminarmente la struttura interna del gruppo, la sua consistenza numerica è senza dubbio difficile da valutare, come lo è sempre la quantificazione delle classi sociali: e si ricordi che il notabilato non fu propriamente una classe, quanto il prodotto di una fusione di ceti per così dire in progress. In anni relativamente recenti – i Settanta del secolo scorso – e fiduciosi nelle virtù della statistica così come lo era stato, anche in Italia, l’Ottocento, sono state elaborate prudenti stime ricavate dai periodici censimenti della popolazione che lo Stato italiano intraprese subito dopo la sua costituzione. Secondo questi calcoli, l’aggregazione elitaria che rappresenta ciò che abbiamo definito notabilato, composta di proprietari, imprenditori e professionisti, annoverava nel 1901 circa 310.000 persone, ed era aumentata dal 1881 di sole 10.000 unità, di fronte a una popolazione del Regno passata dai 28,5 milioni di abitanti del 1881 ai 32,5 del 1901. La fascia più alta della società italiana si era dunque leggermente ristretta, passando dall’1,9 all’1,7% della popolazione: si noterà come si tratti più o meno della stessa, esigua percentuale di ammessi al voto nel periodo della più stretta applicazione del sistema elettorale censitario.
Il potere nelle amministrazioni locali dei notabili intesi come proprietari terrieri fu particolarmente evidente alla fine del XIX secolo specie nei comuni medio-piccoli dotati di marcata identità civica, quali si trovavano, ad esempio, in gran parte delle località della ex provincia pontificia: nel consiglio comunale di Narni, in Umbria, che contava poco più di 11.000 abitanti, i possidenti costituivano nel 1874 l’84% del consiglio comunale, e fino al 1893 la proporzione sarebbe rimasta sostanzialmente invariata. Diverso e più articolato panorama presentavano i comuni più grandi, dove il dato più rilevante era l’emergere delle professioni all’interno del notabilato. Secondo i calcoli citati in precedenza, i professionisti sarebbero aumentati, in venti anni (1881-1901), di appena lo 0,1%, passando dallo 0,6 allo 0,7% della popolazione: sussiste tuttavia la difficoltà a distinguerli rigorosamente dai proprietari, di estrazione sia nobile che borghese, quali molto spesso erano gli avvocati e gli altri esercenti le professioni liberali cui il dato si riferisce. È noto che, tra i professionisti, specialmente gli avvocati, la cui rete di relazioni professionali poteva essere tanto estesa e penetrante da rivaleggiare con i network clientelari dei possidenti (o sovrapporvisi), dominarono i ranghi della rappresentanza sia nazionale che locale – e, progressivamente, anche l’area governativa – per tutto il periodo considerato, così che può essersi generato un effetto di sopravvalutazione rispetto al loro effettivo numero. Se infatti nel 1861 i giuristi (avvocati e notai) erano quasi il 33% dei parlamentari, nel 1882 erano saliti al 40%. La qualificata presenza dei professionisti entro il quadro dei notabili postunitari è lo specchio di quella che essi avevano avuto, in quanto manifestazione del «ceto coltivato», all’interno del moto per l’indipendenza nazionale, che, secondo Maria Malatesta (Malatesta 2008, p. 67), si palesa anche per questa via come movimento prevalentemente intellettuale. Quando la professione è segnalata nelle rilevazioni al posto della generica qualifica di possidente, il numero dei professionisti appare in crescita anche nelle amministrazioni locali. Il dato è significativo persino nell’amministrazione comunale di Roma durante il decennio precedente il 1870, dove le riforme amministrative introdotte proprio alla vigilia del crollo avevano previsto una metà del consiglio formata da esponenti laici del ceto medio: la maggioranza dei seggi disponibili era andata ai possidenti (proprietari terrieri e «mercanti di campagna»), ma i professionisti li seguivano a brevissima distanza (rispettivamente 23 e 18 seggi).
Nel primo consiglio comunale italiano di Cremona, fra 30 consiglieri ben 15 erano professionisti: medici, avvocati, ingegneri. Ad essi si aggiungevano quattro nobili; i restanti erano possidenti. A Bologna, la prima amministrazione italiana contava, su un totale di 60 seggi, 32 possidenti, di cui molti erano anche professionisti. In seguito, questi aumentarono giungendo a costituire, nel 1891, il 70% dell’intera assemblea cittadina. Negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento, gli avvocati formavano la metà dell’intera rappresentanza dei professionisti (vale a dire il 35% dei consiglieri), con incarichi di particolare prestigio nella giunta; ma va anche sottolineato, in relazione alla stagione di trasformazioni urbane che Bologna, come le altre città italiane, conobbe alla fine del secolo, il numero crescente di ingegneri e architetti nel consiglio comunale, cui corrispondeva la crescita di prestigio nazionale che le professioni legate all’edilizia stavano conquistando, e da tempo (da quando la professione era stata modellata sullo stampo dell’ingénieur des ponts et chaussées francese), a partire dalle zone storicamente più avanzate del paese: da un 3% iniziale, ingegneri e architetti passarono infatti a circa il 30 nel 1891, mantenendo nell’assise bolognese una presenza del 15-20% almeno fino alla prima guerra mondiale.
Conoscere la composizione di un importante consiglio comunale ha aiutato a valutare l’ascesa delle professioni nella struttura del potere locale. Se dall’assetto della rappresentanza si passa a quello dell’elettorato amministrativo in un’altra grande città del Nord, Piacenza nel 1874 – la cui classe dirigente, come si è già avuto modo di osservare, era caratterizzata dalla proprietà fondiaria in modo preponderante – le conclusioni che se ne possono trarre non sono dissimili, e tuttavia sollecitano ulteriori riflessioni. Sebbene il censo richiesto per votare fosse sensibilmente più basso che per le politiche (circa la metà) – tanto è vero che risultavano elettori un buon numero di artigiani, lavoratori manuali e negozianti – l’elettorato per il comune era comunque per circa un terzo costituito da possidenti (20,2% del totale) e professionisti (13,8%). Nel caso in oggetto, tuttavia, il declino della diretta rappresentanza dei notabili nei luoghi del potere locale sarebbe stato piuttosto precoce, poiché dall’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento si fecero strada nella città maggioranze legate a diverse e più moderne appartenenze politiche, vale a dire il raggruppamento progressista o le liste cattoliche autorizzate dal vescovo. Ciò non deve indurre a pensare che i notabili si fossero ritirati dalla gestione del potere locale, quanto, piuttosto, che la tutela dei loro interessi si fosse organizzata attraverso forme di associazionismo proprietario più direttamente legate all’area della produzione e della conduzione dei patrimoni, all’organizzazione del risparmio, o alla beneficenza, oltre che nella cura della propria rete di relazioni clientelari, tramite le quali non era certo difficile imporre o avvicinare l’uno o l’altro amministratore locale, proseguendo una pratica di controllo del territorio che era più antica dell’unificazione, e che a questa adeguò il proprio stile. Il caso piacentino avvalora l’ipotesi che il vero luogo di resistenza del potere locale dei notabili non sia stata l’amministrazione cittadina, ma l’organizzazione della rappresentanza politica. È quando questo obbiettivo comincia a sfuggire che inizia l’effettivo declino. La pratica dell’amministrazione comunale poteva essere – e spesso era – la tappa (iniziale o finale) di un cursus honorum per i singoli soggetti, ma il luogo dell’affermazione risiedeva, oltre che nella pratica capillare della società locale spesso ricordata, nel controllo dell’area politica nazionale, cui ci si dedicò o personalmente, o attraverso la costruzione di reti di appoggio ai candidati sfocianti in veri e propri comitati elettorali. È in questo ambito, che individua un percorso dal locale al nazionale sempre facendo perno su un sistema di relazioni locale, che va intesa la dedizione alla rappresentanza del proprio territorio che forma uno dei caratteri distintivi del ceto dei notabili, e che, oltre a profili di evidente interesse materiale, ebbe anche connotati culturali e ideali.
Naturalmente, ebbe anche le sgradevoli sembianze del clientelismo, che storicamente si annida, in modo più o meno elegante, in ogni sistema della rappresentanza fondato sulla relazione tra censo e autorevolezza, sebbene non esaurisca di certo il complesso rapporto tra notabili e territorio. Innumerevoli fonti, tra cui il racconto che, con venature autocritiche, Francesco De Sanctis volle fare della sua campagna elettorale del 1875 – e che è divenuto un piccolo classico della letteratura italiana – narrano episodi di favoreggiamento (dal trasporto degli elettori al seggio fino alla falsificazione delle schede), di pressione o vera e propria compravendita di voti in tutto il territorio nazionale. La percentuale degli elettori, sempre di molto più elevata nel Mezzogiorno che nel resto del paese nonostante un minor numero di aventi diritto, ha attirato l’attenzione sulla volontà manipolatoria dei notabili meridionali e dei galantuomini al loro servizio, specie dopo l’andata al governo della Sinistra e la riforma del 1882. Ma la lettura del passaggio di consegne tra i due schieramenti parlamentari non si presta a schematismi: se, infatti, l’accesso al voto, anche amministrativo, che la legge subordinava al possesso di una sia pur rudimentale base di istruzione, mostrava l’ormai conclamato divario tra Italie diverse, l’intromissione notabilare nelle nuove modalità non fu certamente pratica solamente meridionale, ma anzi palesò tracce di illegalità un po’ in tutta Italia, e specialmente nei contesti a forte vocazione rurale. Si verificarono abusi da parte dei proprietari terrieri e del clero, specie nella manipolazione della prova di alfabetismo necessaria all’iscrizione nelle liste elettorali, tanto che il governo invitò i comuni a una maggiore vigilanza e, dopo alcuni anni, riformò la legge. Espediente assai diffuso – se ne ha traccia, ad esempio, in un rapporto del prefetto di Cremona al ministero dell’Interno del settembre 1882, dove questi mostrava il timore che i «nuovi elettori» potessero diventare «ciechi istromenti del volere altrui» (Signori 2005, p. 71), ma l’argomento era ricorrente in ogni luogo, dal dibattito parlamentare alle più minute denunce di una fiorente stampa locale – era stato quello di «promuovere» i contadini a elettori tramite la prova di alfabetismo accertata da notai di fiducia dei notabili, direttamente inviati sul territorio.
Alcune élites territoriali si presentarono all’Italia unita più amalgamate di altre, mentre in altri contesti, ad esempio in Piemonte, l’allontanamento dell’aristocrazia dal centro della sfera sociale si manifestava – forse anche per mancanza di effettivo ricambio – con estrema lentezza, in un processo di prolungato tramonto che è stato efficacemente definito un «lungo addio» (Cardoza 1999, pp. 47-83). La persistenza non tanto del potere dell’aristocrazia, quanto del sistema di valori e di comportamenti che ad essa facevano riferimento, e soprattutto della sua natura onorifica, si manifestò a lungo. Nelle sue specificità locali, era costante quella che Leone Carpi descrisse come «influenza sulle altre classi […] che danno il censo e l’abitudine ad essere giudicata da esse superiore» (Carpi 1878, pp. 146-147). Il costume nobiliare – comprese alcune pratiche anacronistiche ma fortemente simboliche come il duello – manteneva il suo fascino, forse per essere l’unico dotato di tratti e regole riconoscibili all’interno dell’élite, dove, complessivamente, la tipologia più unificante era forse rappresentata dal buon padre di famiglia del codice napoleonico, ora rafforzato nelle sue prerogative dal codice civile italiano: una figura riconoscibile come borghese, ma ampiamente rappresentativa. Le nobiltà italiane, cui in ogni caso la dinastia regnante dopo l’unificazione non avrebbe concesso alcun privilegio giuridicamente rilevante, erano molto diverse per ricchezza, cultura e status, così come per storia e autoconsapevolezza. L’alta aristocrazia romana, ad esempio, molto difficilmente avrebbe considerato suoi pari i membri della piccola nobiltà provinciale, a meno che non contribuissero a risanare situazioni difficili con più che robusti innesti patrimoniali tramite matrimonio: si noterà come in questo caso, che fu molto comune nella dinamica infracetuale italiana, la nobiltà di più modesta origine potesse fungere da elemento borghese – la fonte del suo onore derivava, infatti, proprio dall’esercizio delle cariche cittadine – in quella dialettica tra nome e denaro che fu cruciale nelle strategie familiari e patrimoniali in tutta Europa. Ma nemmeno nella Lombardia così innovativa sul piano della modernizzazione delle classi dirigenti l’aristocrazia di antico lignaggio operò un’apertura matrimoniale verso il ceto imprenditoriale, se ancora nella prima decade del XX secolo praticava un’endogamia piuttosto esclusiva anche dal punto di vista territoriale. In Sicilia, come si legge nei Ricordi d’infanzia di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, una piccola nobiltà di provincia manteneva rapporti di deferenza nei confronti dell’alta aristocrazia, dalla cui investitura erano derivati i suoi privilegi nobiliari: nel caso particolare, Tomasi ricorda come la nonna materna ricevesse amici di casa che erano però anche suoi «vassalli», stante il privilegio anticamente goduto dalla sua famiglia di investire della baronia due persone per ogni generazione (Tomasi di Lampedusa 1995, p. 388). Anche in questo caso, la piccola nobiltà sembra impersonare l’elemento borghese, non tanto progressivo, quanto dipendente dell’aristocrazia, pur se l’antica inferiorità era sfumata nella cordiale bonomia dei rapporti e poteva essere superata sia da alleanze matrimoniali che da consorterie politiche: in queste, anzi, l’elemento trainante del processo unitario fu spesso proprio il nobile di minor prestigio.
Egualmente diverse tra loro erano le borghesie italiane, di alterna e spesso difficile riconoscibilità come ceto distinto: se notabili per ricchezza e per cultura, quasi ovunque rincorrevano gli stili di vita e le stesse prerogative nobiliari; se di censo più modesto, rimanevano satelliti dell’universo aristocratico. Solo in alcune realtà metropolitane tanto rilevanti quanto circoscritte, la nomina del primo sindaco dopo l’unificazione evitò di ripercorrere una sorta di passaggio rituale che ne prevedeva la scelta all’interno della più eminente nobiltà locale, purché il prescelto avesse ben meritato nella causa italiana: ma questo merito assai spesso venne confuso con il servizio comunque reso alla città, anche prima dell’indipendenza nazionale. Ad Ancona, centro minore ma interessante per le attività economiche segnate da una significativa diversificazione rispetto alla centralità della terra, primo sindaco italiano fu il conte Michele Fazioli, già guardia nobile del papa e gonfaloniere pontificio: l’esempio è notevole anche per sottolineare la capacità di trasformazione del notabile, alimentata dalla ininterrotta dedizione alla rappresentanza del territorio. A Cremona, che fin dalla prima amministrazione italiana aveva espresso in consiglio comunale una maggioranza di possidenti non titolati, fu scelto come primo sindaco il marchese Pietro Araldi Erizzo (poi senatore), mentre i suoi successori sarebbero stati avvocati di estrazione borghese, ma di antica e solida famiglia possidente. Tra le grandi città, in sostanza, solo i primi sindaci di Milano italiana, oltrepassando un andamento che voleva nella base fondiaria il più autorevole requisito per rappresentare i territori, furono espressi dalle forze nuove della finanza dell’industria. Basti qui citare due nomi, che, con brevi interruzioni, coprono i primi ventiquattro anni di vita unitaria: quelli dei banchieri Antonio Beretta, nobilitato tuttavia nel 1862, e Giulio Belinzaghi, la cui lunga sindacatura durò complessivamente diciannove anni, e che all’interno di questa, nel 1872, fu nominato senatore.
Il tentativo di definire un modello nobiliare nazionale non era facile, e se ne percepisce il senso comune in quanto, nel 1870, il conte romano Saverio Malatesta scriveva in una lettera privata: «E non è uno dei più belli attributi della condizione nobile, ed agiata, il soccorrere la miseria, e ricevere da questa la benedizione in vita, ed il pianto nella Tomba?» (Magnarelli 1997, p. 44); e infatti le nobilitazioni postunitarie, specie quelle riguardanti banchieri, finanzieri e industriali (alcuni anche ebrei), furono spesso motivate dalle ingenti somme spese in beneficenza. Ma la «fame» di titoli, e la relativamente ampia messe di concessioni che vi fecero fronte, sembrano indicare non tanto una doverosa ratifica dell’eminenza territoriale da parte dei sovrani – quale, invece, fu alla base delle nomine senatoriali – quanto una forte pressione operata dai singoli soggetti e da membri influenti della loro rete locale (esempio classico, i prefetti), allo scopo di certificare il rango notabilare. Stefano Jacini, cospicuo possidente e notabile lombardo ispiratore della grande Inchiesta agricola che da lui ha tratto il nome, senatore dal 1870, ebbe il titolo di conte nel 1880. Il calcolo delle nuove nobilitazioni è stato effettuato sulla base di intervalli temporali troppo ampi per i limiti di questo lavoro: è comunque significativo che esse siano state 278 fra tra 1861 e 1922, e ben 286 per i successivi ventiquattro anni. Si trattò di un andamento che premiava tra i quattro e i cinque soggetti l’anno (in maggioranza settentrionali, innanzitutto piemontesi), e dunque non straordinario, tanto è vero che molti aspiranti si rivolgevano al più praticabile mercato della Repubblica di San Marino, e che fu vissuto da parte dell’opinione pubblica come futile spreco. Per la sua rarità e quasi unicità – nemmeno il grande imprenditore palermitano Ignazio Florio junior volle essere nominato principe delle Egadi, ma non è dato sapere il numero di quanti non ricevettero il titolo semplicemente perché non l’avevano chiesto – è rimasto nelle cronache il rifiuto opposto nel 1887 da Giuseppe Verdi al ministro dell’Istruzione Ferdinando Martini, che del colloquio con il grande musicista ha lasciato un resoconto nel suo Confessioni e ricordi, e secondo il quale l’offerta sarebbe stata una pura invenzione giornalistica cui Verdi aveva dato credito. Se nel rifiuto verdiano si può cogliere, in prima istanza, l’autonomia dell’artista di fronte a un titolo che nulla avrebbe aggiunto alla sua grandezza, va anche detto che il maestro era ormai, a quasi trent’anni dall’unificazione, un cospicuo e oculato possidente, un vero e proprio notabile assai insoddisfatto dell’attenzione quasi esclusivamente fiscale riservata ai proprietari da quell’Italia che egli aveva contribuito a fondare; tanto è vero che, a parte il marchesato di Busseto, si era sentito a disagio sia nel ruolo di deputato del collegio che in quello di senatore, non rifiutato ma completamente disertato.
Quanto alla progressiva importanza della formazione culturale nella costituzione del notabilato italiano pre e postunitario, va detto che essa non si manifestò come elemento necessario e sufficiente in ogni caso, anche se l’aspirazione a rappresentare un esempio di élite colta, o almeno istruita, fu sempre più evidente: la componente borghese trovava uno dei suoi (non molti) tratti distintivi proprio nell’essere un «ceto coltivato»; ma anche l’aristocrazia tendeva sempre più a connotarsi in questo senso, in alcuni casi, anzi, rivendicando a sé un primato che poi il ceto medio aveva sviluppato nella sfera dell’utile. Una cultura regolare e formalizzata in titolo di studio apparve senza dubbio strumento di emancipazione utile a legittimare situazioni sotto vari aspetti nuove. È quanto può indurci a pensare la condizione del notabilato italiano di religione ebraica. Al momento dell’Unità, gli ebrei rappresentavano poco più dell’1‰ della popolazione italiana: meno di 40.000 persone. Per quanto riguarda la proprietà fondiaria e immobiliare, la presenza ebraica si venne, più che ampliando, propriamente costruendo in Italia negli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo grazie al grande processo di eversione dell’asse ecclesiastico con cui lo Stato, partendo dall’intento di «fare cassa», avviava comunque il primo, e forse, in prospettiva, più significativo trasferimento di proprietà nella storia italiana, là dove i frutti della disomogenea e non consolidata redistribuzione avvenuta con la vendita dei beni nazionali durante i regimi filofrancesi erano stati particolarmente amari per gli ebrei, costretti quasi ovunque a svendere, se non addirittura a restituire, i beni precedentemente acquistati. Nello smantellamento postunitario dell’asse ecclesiastico, gli ebrei furono presenti come intermediari e prestanome – la Chiesa scomunicava gli acquirenti cristiani dei suoi antichi patrimoni – fruendo di una rete di rapporti di affari e di amicizie con la borghesia cristiana, palesatasi con evidenza a partire dal 1848-49. Ma gli ebrei furono anche diretti compratori, ponendo in atto il caratteristico processo di legittimazione urbana attraverso il patrimonio terriero che si è avuto più volte occasione di illustrare. In loro si è creduto di rilevare un atteggiamento più duttile e moderno nei confronti del possesso terriero, vissuto più come bene di investimento e di scambio che come simbolo di un antico retaggio, quale esso era comunemente sentito dal resto del notabilato italiano a prescindere dalla reale antichità dei titoli di proprietà. Ma va tenuto in conto un ulteriore e forse più sostanziale scostamento dal modello del notabilato tradizionale, poiché la presenza ebraica al suo interno si originava, in genere, dalla diffusa e fortunata pratica delle professioni e di alcuni settori privilegiati dell’impiego pubblico, come l’insegnamento universitario. È a partire dal successo ottenuto in queste attività che, dopo l’unificazione, fu realizzato l’accesso alla proprietà fondiaria, secondo un procedimento inverso rispetto a quello più comunemente osservato: in questo caso, era la città a organizzare la campagna, e non viceversa. I successi professionali all’origine della possidenza avevano trovato un punto di partenza nella forte diffusione dell’istruzione tra gli ebrei italiani, tanto che Arnaldo Momigliano ha individuato proprio nelle carriere dello Stato che richiedevano adeguata preparazione culturale, e non nelle attività economiche, il luogo di passaggio «dal ghetto alla classe superiore» (Momigliano 1987, p. 138).
L’ingresso a pieno titolo dei notabili ebrei nelle élites italiane sarebbe stato relativamente agevole, pochi anni dopo, per l’accesso alla rappresentanza e agli impieghi di prestigio (compreso l’esercito); ma non fu difficile nemmeno varcare la soglia dei luoghi della socialità notabilare costituiti per rappresentare interessi o per organizzare lo svago: due dimensioni relazionali ampiamente contigue. Persino nella vita familiare e privata, che come vedremo fu sempre, per le élites italiane, più tradizionalista di quella pubblica, vi fu qualche apertura nelle unioni matrimoniali, specie tra gli intellettuali e i professionisti, né mancò l’interesse per la politica come proiezione pubblica della posizione eminente sul territorio. E se nell’Italia liberale alcuni ebrei percorsero il cursus honorum politico fino ai più alti ranghi del governo nazionale, in un iter semplificato dalla presidenza del Consiglio dei ministri assunta da Luigi Luzzatti nel 1910-11, va qui particolarmente ricordata la persona di Ernesto Nathan, ebreo e massone, sindaco di Roma dal 1907 al 1913. Se è vero che Roma era (ed è) città pochissimo collegabile a entrambi i concetti che formano la materia di queste pagine – il notabilato e il potere locale – in quanto simbolo sia di smisurate e incomparabili distinzioni sociali che di vocazioni universalistiche laiche oltre che religiose, il nome di Nathan spicca dopo una serie di membri della nobiltà romana avvicendatisi al governo della città a partire dal 1870, tanto che Alberto Caracciolo ravvisa in lui il simbolo di un’avvenuta trasformazione di Roma in capitale di tono europeo, intellettuale e borghese, e il garante di una (almeno temporaneamente) raggiunta nazionalizzazione e normalizzazione della città (Caracciolo 1993, pp. 23-27).
Due sono le caratteristiche fondamentali della classe dirigente italiana dopo l’Unità: le notevoli differenze (di censo, di provenienza, di formazione) esistenti al suo interno, e la grande similitudine costituita dalla disponibilità a rappresentare il territorio di origine. Questa duplice natura, che nelle pagine precedenti è stata messa (nei limiti del possibile) alla prova dei fatti, riconduce ancora una volta alla varietà dei processi che si conclusero nell’unificazione, dando luogo a un compromesso tra la novità del nuovo Regno e la tradizione non omogenea del rapporto tra gli Stati preunitari e le loro élites. Se, infatti, in alcuni casi l’onere della rappresentanza costituiva un elemento distintivo del modello nobiliare corrente, e si presentò dunque come l’amplificazione di un comportamento usato, in altri costituì la realizzazione di un’aspirazione lungamente frustrata. Già prima dell’unificazione la pratica della sfera pubblica – periferica o centrale – ovvero la relazione con lo Stato, poteva essere una necessità subíta, un’opportunità, o semplicemente un tratto identitario. È in questo ambito di attenzione alle diversità locali, e dunque alla variabilità delle motivazioni che spinsero le élites all’impegno, che va compreso il senso di un dibattito storiografico recentemente apertosi sui comportamenti del patriziato toscano nella fase immediatamente preunitaria, ove il liberalismo nobiliare è stato interpretato come «rivolta» difensiva del ceto signorile nei confronti delle aperture del Granducato a una nuova borghesia amministrativa, peraltro – si è osservato – più immaginata che reale. Se si incrocia la diffidenza verso la «terza forza» borghese – che fu, tuttavia, più culturale che politica – con il carattere localistico delle nobiltà italiane, si comprende come nella tutela, che fu anche ridefinizione, delle proprie prerogative, esse tendessero ad anteporre la difesa delle autonomie locali, retaggio e patrimonio di ceto, alla rivendicazione delle libertà individuali tipicamente borghesi.
Quando si pensa alla relativa facilità con la quale la gran parte dei ceti dirigenti preunitari mantenne la propria posizione all’interno della nuova compagine statuale, è necessario aver presenti due circostanze: da un lato, per i maggiorenti locali fu gradita occasione, in genere, poter spendere su un territorio più vasto, e almeno tendenzialmente più solido e soddisfacente, il credito acquistato localmente; d’altro canto, non è sicuro che le vecchie classi dirigenti – ora divenute nuove, o, per meglio dire, largamente confermate in diverso contesto – fossero state in grado di elaborare una compiuta prospettiva culturale, prima ancora che politica, di tipo nazionale. Come i recenti e rinnovati studi sul Risorgimento hanno confermato, il discorso nazionale fu probabilmente recepito in modo più ampio di quanto fino a tempi recenti non si pensasse – la discussione, a volte accesa, sulle dimensioni del consenso attivo nei grandi tornanti della storia nazionale fa parte integrante di quel discorso – ma la militanza restò appannaggio di una minoranza, certo assai influente sull’opinione pubblica che si veniva formando. Se va alquanto sfumato il vecchio cliché trasformistico che voleva i notabili italiani raggrupparsi intorno al carro (al trono) del vincitore, va anche compresa la natura diffusamente moderata e continuista della loro adesione. Si trattò comunque di un’adesione consapevole, che aveva richiesto impegno personale, oltre che ridefinizione dei modelli di vita cui fino ad allora si era fatto riferimento: si tratta di una precisazione essenziale in riferimento a un gruppo come quello dei notabili italiani ottocenteschi, nel quale la percezione organicista della realtà e della propria collocazione sociale fu generalmente prevalente su quella strettamente individualista. La presa d’atto di questa complessità di atteggiamenti, non completamente riducibile a unicità, è essenziale per interpretare correttamente il tornante unitario. Più che un calcolo sgradevolmente opportunistico, insomma, erano stati «gli eventi» stessi a «adunare» i notabili, secondo la formulazione di Raffaele Romanelli citata nel titolo di questo paragrafo (Romanelli 1979, p. 20): e alla realtà degli eventi essi dovettero reagire con varia capacità di adattamento.
Oltre e al di là dell’eventuale opportunismo e del peso della storia, era stato anche l’effetto di un impulso del tutto moderno, la passione politica, ad agire sulle scelte dei notabili. Simon Schama ha scritto di «quell’ossimoro sociale che era la borghesia romantica» (Schama 1997, p. 569): nel corso del XIX secolo, si realizzò infatti una sintesi tra utilitarismo borghese (area degli interessi) e inclinazione ai sentimenti (area delle passioni), nella quale può essere fatta rientrare la partecipazione politica. Michelangelo Caetani, dopo il 1848-49 romano, l’aveva definita in una lettera «l’ottavo peccato capitale» (o «mortale») (Bartoccini 1974, p. 31; Magnarelli 2008). L’interesse storico di quel peccato sta nel fatto che fu commesso, a partire dal XIX secolo, sempre più in forma collettiva, connotando gruppi oltre che singole persone. L’accesso alla politica moderna – un insieme di pratiche indissolubilmente legato all’ascesa della borghesia – non operò, in Italia, un consistente ricambio delle classi dirigenti: confermando un andamento più volte illustrato da vari punti di vista, la politica ottocentesca, quella dell’avvio alla cittadinanza attraverso il voto e l’esercizio della rappresentanza, fu peccato borghese per definizione, e tuttavia certo non commesso solo da borghesi. Nella stretta area della borghesia italiana, anzi, uno snodo cruciale come quello del 1848 è stato valutato in termini di «occasione politica, non [di] congiuntura sociale» (Malatesta 2008, p. 73); in realtà, se l’élite italiana, pure attraversata da persistenti venature di distinzione, si presentava all’unificazione in forma sufficientemente fusa, uno dei fattori di amalgama era stato, fin dall’inizio del XIX secolo, la pratica della politica.
Nella fase immediatamente preunitaria, ciò che era parso prioritario a molti era la costruzione di un orizzonte pubblico comune: operazione che, pur incontrando non poche difficoltà, al momento dell’unificazione poteva dirsi bene avviata. Nel ceto politico moderato in formazione è stata notata una buona presenza di secondogeniti di famiglie aristocratiche – lo stesso Cavour lo era – indotti dalla loro condizione sacrificata e subalterna a pensare più modernamente, e a progettare una nuova classe dirigente nella quale le varie élites locali potessero collaborare senza ricorrere ad antiquate distinzioni. Tutta la prima parte della corrispondenza di Massimo d’Azeglio col fratello Roberto, uomo pio, intelligente e moderatamente progressista, è percorsa dalla puntigliosa richiesta del primogenito a che Massimo non abusi del titolo di marchese, che spettava solo a lui. E Massimo, come molti decenni prima Vittorio Alfieri, aveva dovuto allontanarsi da casa per liberarsi dal peso dell’appartenenza nobiliare, recandosi a Roma ove prima di abbracciare la carriera politica condusse la vita del bohémien – tuttavia, dipingendo e scrivendo si guadagnava la vita a prescindere dalla rendita che gli derivava dall’appannaggio di figlio di famiglia nobile – a stretto contatto con ambienti artistici che provenivano dalla piccola borghesia dei commerci, e con i quali mantenne sempre un’amichevole familiarità cementata dalla comune passione politica. Questo percorso personale lo rese sensibile all’impaccio costituito dalla smania delle distinzioni in una costituenda élite nazionale che avrebbe dovuto lavorare unita nella prospettiva di un’Italia nuova; così, durante il giro del 1847 nell’Italia centrale al fine di animare e indirizzare l’opinione pubblica italiana, deprecò nelle sue lettere il manifestarsi una certa faziosità nobiliare, cui non sempre il risentimento borghese corrispondeva adeguatamente, nell’organizzazione delle occasioni di socialità che avrebbero dovuto aprirsi all’interlocuzione politica. I banchetti nelle città che percorreva si svolgevano infatti generalmente distinti per ceto: «Anche qui c’è discordia pel pranzo di ieri; pettegolezzi d’inviti, di classe, di blasone. […] farò la predica della concordia», scriveva (d’Azeglio 1987-2010, 3° vol., p. 440).
Ancora nel 1878, la ricognizione che fece il sociologo Leone Carpi – se così, ante litteram, può essere definito l’autore, che tra l’altro era stato uno dei primi ebrei a sedere nel Parlamento italiano, eletto dalla città di Ferrara – di quella che egli stesso definiva l’«Italia vivente», cercando di percorrerne la struttura sociale regione per regione, registrava un singolare miscuglio di delusioni e di stereotipi: la nobiltà, sulla quale Carpi manifestava un’opinione pregiudizialmente negativa, raffigurandola ignorante, arrogante e spregiudicata, gli sembrava comunque aver sempre la meglio su una borghesia potenzialmente «nerbo della nazione», generalmente solerte e virtuosa, ma poco consapevole dei suoi doveri pubblici (Carpi 1878, pp. 503-504). Il punto debole delle argomentazioni di Carpi stava, probabilmente, nel tentativo di fornire un giudizio complessivo su una realtà nazionale che egli si era proposto di analizzare luogo per luogo. Il vero ostacolo era costituito dall’aspirazione a formalizzare gli snodi di una dinamica cetuale per sua stessa natura complessa e non facilmente leggibile tramite definizioni predeterminate: più che adoperarsi a scindere le componenti di un’élite ormai nazionale, si sarebbe forse dovuta porre attenzione a quanto si fosse fatta strada una cultura borghese, visibile nei comportamenti sia pubblici sia privati, che aveva trasformato l’agire ma anche la percezione di sé delle sue varie componenti, conservando peculiarità che ne segnalavano il radicamento locale.
Per sostanziare ulteriormente il ruolo che la politica ebbe nella formazione dei notabili, occorre però spostare lo sguardo dall’ambito strettamente pubblico a quello della vita privata, secondo un procedimento non certo estraneo alla loro indole, abituata a varcare continuamente confini: composizione della famiglia, conservazione e incremento del patrimonio, salvaguardia della posizione sociale, e, infine, scelta politica furono strategie naturalmente interconnesse, all’interno di un comune progetto di affermazione che ebbe radici locali, ma orizzonti progressivamente nazionali. È dunque all’ambito delle loro reti relazionali che si dovrà porre attenzione, osservando l’innervarsi di rapporti che sempre più rivelarono prospettive diverse da quelle legate strettamente al privato. Se si considera il potere dei notabili anche come l’effetto di una scelta politica, va detto che l’attitudine alla fusione tra avere ed essere era nata all’indietro nel tempo, e cioè durante la fase giacobino-napoleonica di inizio Ottocento, quando alle élites italiane erano state date altre due opportunità, oltre a quella di incrementare il proprio patrimonio: mettersi alla prova come ceto amministrativo e di governo, e, in questo ambito, sperimentare relazioni tra gruppi di persone diverse, ma animate da interessi convergenti. Il notabilato nasce anche come frutto di rapporti fra persone. I luoghi di incontro e di relazione furono molti, a partire dalle articolazioni amministrative che gli Stati filonapoleonici avevano creato, e nelle quali uomini di provenienza sociale (e territoriale) diversa si incontravano animati da un comune progetto, ma anche, semplicemente, mobilitati da un servizio. Si era trattato di un laboratorio di impegno e di fusione delle élites, e anche – se è consentito usare questo termine – di avvio ad una loro «professionalizzazione» amministrativa, oltre che di un assaggio di partecipazione politica, in un contesto nel quale ai prefetti, ad esempio, veniva richiesta la medesima combinazione tra capacità professionale e immedesimazione nelle temporanee declinazioni del potere governativo che sarebbe stata essenziale anche nella selezione del personale amministrativo periferico postunitario. Già al termine della breve esperienza napoleonica, tuttavia, l’originaria esigenza di un certo tasso di giacobinismo – vale a dire di adesione militante alle ragioni ideali dei nuovi governanti – nella valutazione delle persone da impiegare sul territorio si era venuta stemperando nella realizzazione di un ceto amministrativo professionalizzato, in cui la provenienza dalla condizione possidente o addirittura aristocratica poteva rappresentare una garanzia di stabilità. Dopo l’unificazione, diversi figli di famiglie notabili, specie se il patrimonio non era sufficiente ad avviarli tutti a una professione, sarebbero entrati nella carriera delle prefetture – ganglio vitale del nuovo Stato, tanto più che ai prefetti fu inizialmente attribuita la presidenza delle deputazioni provinciali – così come era avvenuto cinquant’anni prima a personaggi che potevano essere loro diretti ascendenti, ma che, in ogni caso, ne anticipavano la fisionomia: buona e riconosciuta collocazione sociale nel territorio di origine; accertata preparazione professionale; fedeltà allo Stato.
Nello scorrere del secolo, luoghi di aggregazione furono senza dubbio le associazioni settarie e la massoneria, creando o rafforzando legami a un tempo politici e umani, sotto specie di amicizia tra uomini non più necessariamente nati uguali. Questa si sostanziava, nei comportamenti assunti alla luce del sole, in comunanza d’interessi privati, condivisione di progetti para o prepolitici come l’organizzazione del risparmio, l’istruzione popolare, la progettazione di spazi pubblici, l’associazionismo culturale: tra quegli uomini si veniva affermando la convinzione che, ormai, non si potesse più fare cultura senza politica. Quelle attività poi confluirono, in epoca liberale, in veri e propri network politico-elettorali, associazioni di interessi, luoghi di riposo e svago come i circoli o i club: in questi ultimi però, anche nella Milano borghese di inizio Novecento, continuava a manifestarsi una volontà di distinzione che manteneva difficilmente valicabile il confine dell’esclusività aristocratica.
Va sottolineato il ruolo importante che, prima ancora dell’ingresso nella vita adulta, ebbe l’educazione. Il percorso formativo creava luoghi di aggregazione, in primo luogo costruendo reti utili a indirizzare la scelta del collegio e a sostituire i genitori nella sorveglianza dei giovani lontani da casa. Inoltre, collegi più o meno prestigiosi (fra i primi, il Tolomei di Siena), scuole rinomate come quella napoletana di Basilio Puoti, e successivamente all’Unità i licei classici, raccoglievano aristocratici e borghesi, che in molti casi dall’apprendimento erano passati al dialogo intellettuale e all’amicizia per la vita, spesso sfociata in comune impegno politico. Non sempre, tuttavia, il risultato di queste amicizie «di formazione» (Maldini Chiarito 2010, p. 23) fu armonico. Il mantovano Attilio Magri, figlio e nipote di affittuari e intendenti dei conti Arrivabene e autore di una memoria autobiografica tuttora inedita nella sua interezza, era stato compagno di collegio e fraterno amico dello scrittore Ippolito Nievo, per parte sua nato in una famiglia di piccola nobiltà veneta dedita agli impieghi statali. L’educazione ricevuta e il patrimonio (poi dilapidato) indussero Magri a impostare uno stile di vita more nobilium che finì per procurargli più di una critica all’interno del mondo signorile, compresi i patroni della sua famiglia con alcuni dei quali, pure, egli aveva sviluppato una frequentazione paritaria anche in ragione del comune orientamento liberale: la contrastata amicizia con gli Arrivabene, che dopo l’unificazione era sfociata anche nella coabitazione con uno di loro, era infatti iniziata tra il fuoco e le fiamme, non solo metaforiche, del Quarantotto. Ciò che vale la pena di sottolineare nella sua vicenda, terminata tragicamente nel 1898 con un suicidio, è la commistione tra la difficoltà che il mondo dei notabili frappose alla sua piena inclusione e il piano di incerto equilibrio stabilito dallo sviluppo di un comune discorso politico, che costituiva uno degli effetti assimilativi della cultura acquisita a scuola, a fianco di compagni aristocratici e di più antica e solida tradizione possidente.
Campo esemplare di incontro fra gruppi e persone fu la famiglia. Si sostiene in genere che, nella vita privata, i notabili italiani siano stati meno intraprendenti e aperti all’innovazione che in quella pubblica. Si tratta di un’opinione comprensibile, se si pensa a quanta prudenza le élites italiane abbiano adoperato nel cruciale terreno della formazione e composizione delle famiglie: ciò che era, del resto, previsto e rafforzato dalle norme del nuovo codice civile, che sanzionavano senza possibilità di deroga i diritti della discendenza legittima, la patrilinearità, la subordinazione delle donne. Anche, e soprattutto in presenza di quelle unioni tra nome e denaro così significative dell’amalgama notabilare, ciò che Paolo Macry ha definito «la forza del cognome» paterno (Macry 1988, p. 35) finì per resistere alle (potenzialmente) concorrenti dinamiche di fusione cetuale e di primato dell’affettività: matrimoni stipulati al di fuori della compatibilità di gruppo scivolavano con facilità nella mésalliance, e anche nel caso di unioni gradite ai parenti l’appartenenza a una famiglia più prestigiosa di quella del marito costituì una delle pochissime occasioni di superiorità legittimata delle donne nel contesto sociale. L’impressione è quella di una generale tendenza all’unione tra pari, non solo per quanto riguarda i nobili e i possidenti, ma anche per gruppi considerati aperti al nuovo come i professionisti, là dove, ad esempio, è stata ravvisata una forte propensione all’endogamia tra le famiglie degli avvocati napoletani di prestigio. Il nobile di origine modenese Federico Carandini fu espulso dall’esercito sabaudo, nelle cui file aveva partecipato alla prima guerra d’indipendenza meritando una medaglia, e diseredato dalla famiglia, per aver sposato Elisa Realis, non nobile, anche se i Realis erano possidenti ab antiquo nel Canavese e suo fratello Savino era ingegnere, scienziato e futuro sindaco di Ivrea italiana. L’esercito l’avrebbe riaccolto, la famiglia no.
Colpisce il persistere di tratti di mentalità tradizionale pure in contesti di forte innovazione politica. Quando il nobile umbro Vincenzo Pianciani, proprietario terriero e fortunato imprenditore, discute epistolarmente col figlio Luigi – che si trovava in esilio per la sua partecipazione alla Repubblica romana del 1849 – del matrimonio del loro parente Paolo di Campello con la figlia del principe di Canino (Luciano Bonaparte), magnificamente dotata e cugina del presidente, futuro imperatore dei francesi Napoleone III, il suo commento è: «io sempre opino che Paolino avrebbe fatto miglior partito sposando una Signora di Provincia con 8.000 o 10.000 scudi, che fosse stata contenta di starsene a Spoleto» (Mazzonis 1997, p. 92). Il padre di Paolo, Pompeo di Campello, anch’egli in esilio per esser stato ministro delle Armi in quella Repubblica, dovrà attendere l’unificazione non solo per tornare a casa, ma anche perché la famiglia riconosca almeno l’esistenza della sua umile e fedele convivente, ora divenuta moglie.
D’altro canto, nonostante la prudenza endogamica ravvisabile nell’esempio citato, occorre notare che un certo scambio tra nome e denaro – là dove, come si è avuto modo di osservare, spesso la piccola nobiltà faceva in Italia le veci della borghesia – era all’origine della fortuna stessa dei Pianciani. Luigi, la cui ampia base fondiaria era tutta in Umbria (la città di riferimento era Spoleto), nonostante i meriti politici acquisiti nel processo unitario forse non sarebbe diventato sindaco di Roma negli anni Settanta se non fosse stato figlio di una principessa Ruspoli, e dunque se già suo padre non avesse operato una deroga rispetto a quell’attitudine prudente. Deroga che, all’inizio del secolo, era stata del resto abbastanza diffusa, e ascrivibile, oltre che al crollo delle doti e all’incertezza delle rendite che rendevano possibili unioni tra dispari, anche a quel piano di comune discorso che aveva coinvolto varie componenti del notabilato italiano e che, in nome del progetto liberale, era stato in grado di abbinare i Bonaparte con la piccola nobiltà locale: non solo nel caso che ci è capitato di citare, ma in numerosi altri. Se dopo l’unificazione il cosiddetto mercato matrimoniale stentò a nazionalizzarsi, mantenendo a lungo il bacino di selezione in una dimensione locale, tuttavia se ne abbozzarono i tratti a partire da percorsi centro-periferia già sperimentati, come quello da e per Roma; e se l’opinione individuale delle persone – soprattutto delle donne – continuò ad essere subordinata agli interessi del gruppo, nuove dinamiche si stavano comunque affermando. Esse sono efficacemente riassunte dal ruolo che la politica ebbe nella stipulazione delle alleanze familiari. Per esemplificare ulteriormente il nesso è sufficiente restare in Umbria, dove Perugia rappresentò per tutto l’Ottocento, e in modo accelerato dopo l’Unità, una specie di laboratorio di relazioni politiche e familiari. Nuclei borghesi di antica possidenza, come i Guardabassi o gli Antonelli, e di recente nobilitazione come i baroni Danzetta, dominarono la scena della rappresentanza locale e nazionale emarginando la più antica aristocrazia, e alleandosi tra loro ripetutamente tramite matrimonio: perno di questa alleanza erano la comune, trascorsa militanza nella causa politica nazionale e la disponibilità piena a rappresentare il territorio nel nuovo Stato, significativamente mediate – in questo, come in molti altri casi – da ruoli importanti nella massoneria.
Alla vecchia aristocrazia perugina – ma il discorso potrebbe naturalmente essere esteso a gran parte d’Italia – era restato il culto delle memorie avite e familiari. E tuttavia questa constatazione non chiude il discorso, poiché il moto centrifugo che, attraverso snodi locali diversi anche se convergenti, portava al centro gli eletti alla rappresentanza dei territori modificando e mescolando le élites, aveva una sua onda di ritorno. Questa si manifestò largamente in un rinnovato interesse del notabilato per la dignità della patria di origine, volta al decoro della sua immagine e all’esaltazione delle glorie locali. Se le antiche famiglie riordinavano archivi e collezioni, anche le comunità lo fecero, e secondo le regole scientifiche delle nuove discipline: archivistica, filologia, storia dell’arte, i cui specialisti assai spesso provenivano dalle file del notabilato colto e intellettuale. Le antiche accademie si trasformarono in comunità di studio legalmente costituite e chiamate Deputazioni di storia patria, il cui fine era, appunto, lo studio della storia locale.
In questo circuito, ma per il momento solo in questo, e nonostante la sorda lotta in atto sull’avocazione allo Stato di ingenti patrimoni culturali, veniva recuperata localmente alla causa nazionale anche la grande tradizione di erudizione ecclesiastica cui si dovevano i primi studi sull’origine e la storia delle comunità locali. Grandi sforzi vennero concentrati nell’abbellimento delle città, quei palcoscenici monumentali ed animati sui quali le collettività avrebbero dovuto leggere la propria storia. Già durante la Restaurazione la perdita di prestigio e di giurisdizione delle più o meno piccole patrie – e, perciò, potenzialmente, di rango dei loro maggiorenti – aveva adunato i notabili, e in modo particolare quelli dell’Italia centro-settentrionale, intorno a significative trasformazioni dello spazio urbano. La committenza privata aveva cambiato stile, dando luogo a una stagione di edilizia pubblica che coinvolgeva, in una sorta di circolo virtuoso, élites e popolo minuto alla ricerca di occasioni di lavoro: non si costruivano più solo palazzi e chiese, ma teatri, municipi, torri civiche, mattatoi, porte e fontane, vale a dire luoghi in cui l’intera comunità poteva rappresentarsi. Il teatro era la testimonianza più significativa dello scambio avvenuto tra una dimensione strettamente cetuale entro la quale si era fino ad allora manifestato il potere dei notabili – tanto che la prevalente struttura «all’italiana» ne rimarcava le gerarchie interne, dai vari ordini di palchi alla platea – e spazio comunitario: un’inchiesta ministeriale di poco successiva all’Unità segnalava l’esistenza di oltre 900 teatri nel Regno, la maggior parte al Centro-Nord, con punte di particolare densità nelle regioni dell’Italia centrale. Velari e decorazioni interne raffiguravano ovunque le «patrie glorie», ovvero gli eroi di una più o meno inventata tradizione locale. Era iniziato qualcosa che si potrebbe definire un «recupero di civicità» che avrebbe trovato pieno sviluppo dopo l’unificazione, ma che aveva preso avvio ancor prima che la caduta dei vecchi Stati evidenziasse nel potere municipale il bastione identitario dei notabili. Il processo di identificazione con la più o meno piccola patria di origine proseguì in modo significativo, favorendo e promuovendo le professioni legate all’edilizia, ma accendendo anche vivaci dibattiti nazionali sullo spazio che i bilanci comunali riservavano alle spese tecnicamente classificabili come «facoltative», quali erano quelle legate all’arredo urbano. Nello sforzo di rimarcare distinzioni, vi fu chi sostenne che l’attenzione all’abbellimento e all’ampliamento dello spazio pubblico contrapponeva il dinamismo borghese all’immobilismo nobiliare, preoccupato dal prelievo fiscale; altri ritenevano che la sostanza della rendita ponesse a buon diritto limiti all’esibizionismo borghese, non sufficientemente sostenuto dal punto di vista patrimoniale e poco attento ai valori della tradizione. Ma la realtà del processo era duplice, come la radice del notabilato italiano, che ribadiva il legame col territorio sia modernizzandolo che valorizzandone la storia.
Così facendo, i notabili avviarono un altro procedimento, alla lunga rivelatosi infido e premonitore del pur lento affievolimento del loro potere. Cercarono, infatti, di riaffermarlo non solo attraverso l’abbellimento e la monumentalizzazione delle città, ma anche mettendo in atto tentativi di localizzare il genio: celebrando la figura più ragguardevole espressa dal territorio (il genius loci), la si offriva all’Italia, ribadendone al tempo stesso la radice locale. Significative, in tal senso, le celebrazioni che Parma dedicò a Correggio nel 1872; ma anche il monumento verbale che Giosue Carducci eresse nel 1884 a Virgilio con il «discorso di Pietole» – una piccola località presso Mantova in cui si era voluto identificare Andes – dove cultura classica e ruralità intesa come radice della nazione trovarono interessante composizione in una proposta politica che collegava terra, pace sociale e destino imperialistico dell’Italia. Ricco di significati fu infine il tentativo di solennizzare nella piccola Recanati il primo centenario della nascita di Giacomo Leopardi. Animato dal notabilato locale – di cui facevano parte i Leopardi – e dal sindaco Giulio Antici, che nella lontana giovinezza aveva partecipato alle cinque giornate di Milano e del poeta era consanguineo, oltre che dal sostegno popolare, il primo centenario finì per risolversi in un evento paesano, senza risonanza nazionale, forse anche per il momento in cui si celebrava: l’estate del 1898, una delle fasi più critiche della storia italiana postunitaria. Nelle difficoltà che il «borgo selvaggio» incontrò volendo proporsi come punto di riferimento assoluto del culto leopardiano, si legge chiaramente il conflitto tra due idee di Italia. C’era quella che rimaneva ancorata alle realtà locali, sia pure ripensate in una sorta di sussidiarietà nazionale; e quella che già da tempo proponeva punti di riferimento non più vincolati alla stretta competenza territoriale, ma eretti a simboli di italianità: si pensi alla sistemazione della chiesa di Santa Croce a Firenze, dove nel 1871 erano state solennemente traslate le spoglie di Ugo Foscolo, o alle feste dantesche organizzate sempre a Firenze nel 1865. Alla fine dell’Ottocento, non c’erano ancora elementi di grave preoccupazione per il potere dei notabili; ma si poteva già osservare come il palcoscenico nazionale ambisse ad essere più grande, in qualche misura meno concretamente localizzabile, di quello rappresentato dalle piazze delle città ove quel potere si era formato e consolidato. E c’era qualcosa in più: la constatazione della natura plurale della nazione si stava trasformando in consapevolezza che al suo interno era in atto una competizione, e che nella ricca e variegata offerta delle Italie alcune di esse stavano irrimediabilmente assumendo il connotato di provincia. Si trattava di un ulteriore piano di riflessione, che suscitò, al momento, minore attenzione di quella riservata al drammatico squilibrio evidenziato dalla questione meridionale, o all’approfondirsi del solco tra «paese legale» e «paese reale», secondo una fortunata espressione della retorica antiparlamentare che va da Stefano Jacini a Pasquale Turiello e Gaetano Mosca; ma il ridefinito rapporto tra centro e periferia, e, in esso, i dislivelli ormai evidenti tra le stesse periferie, era tema destinato ad affermarsi nella successiva storia d’Italia e delle sue classi dirigenti.
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