notai e lingua
I notai rivestono un ruolo centrale nelle fasi iniziali della storia linguistica dell’italiano. Alla loro penna si devono infatti molti dei primi documenti in volgare, a partire dal Placito capuano del 960, verbale notarile di natura processuale in latino, come di consueto all’epoca, ma con una formula testimoniale che costituisce la più antica attestazione di volgare italiano (prescindendo dall’Indovinello veronese e dall’iscrizione della catacomba di Commodilla, che non sono di origine notarile; ➔ origini, lingua delle).
La formula testimoniale, fissata dal giudice Arechisi, ripetuta dai testimoni, fu messa per iscritto dal notaio Adenolfo. Formule volgari assai simili si riscontrano in altre tre carte notarili provenienti anch’esse dalla Campania, note, insieme al placito di Capua, come Placiti campani (si veda l’edizione e il commento linguistico di Castellani 19762: 59-76). Sono tra i più antichi documenti per i quali è certa la datazione, e ben netta risulta l’intenzionalità dello scrivente nell’uso del volgare, con forte contrasto tra la lingua delle formule testimoniali e il latino del resto dell’atto.
I notai erano la categoria sociale che aveva più frequentemente occasione di usare la scrittura, e la lingua della scrittura, nella cultura giuridica e nell’amministrazione della giustizia, era ovviamente il latino. Tale latino, però, come in generale quello di tutti i testi di età medievale, era ricco di volgarismi e di infrazioni alla norma grammaticale (➔ latino e italiano).
Il notaio era abituato alla mediazione linguistica, cioè al passaggio frequente tra due codici diversi, quello formale latino, introdotto negli atti, e quello parlato, che udiva e usava egli stesso nella seduta di giudizio. Tale funzione mediatrice, alla quale professionalmente era obbligato, rese il notaio protagonista, in diversi casi, dell’introduzione nella scrittura di elementi propri del volgare, talora in forma di volgarismi latinizzati e dunque adattati, talora in forma più diretta. Il notaio non va tuttavia scambiato per un fedele stenografo: fin dai Placiti campani, le formule non rispecchiano il parlato del tempo, ma contengono «segnali forti […] d’un modo d’esprimersi che è tutto giuridico» (Fiorelli 1994: 554) e tracce di un «filtraggio attraverso le abitudini grafiche del latino» (Marazzini 20023: 183; si veda anche Casapullo 1999: 41-42). La scelta del volgare in questi documenti si spiega (verosimilmente) con l’intento di pubblica attestazione e divulgazione, forse per evitare nuove contestazioni giuridiche analoghe a quelle risolte nella sentenza.
Il volgare che affiora nel corpo del documento notarile latino compare come formula testimoniale, come avviene, oltre che nei Placiti campani, nelle Testimonianze di Travale (Toscana, XII sec.), oppure si rende comodo o necessario per l’elencazione di oggetti quotidiani (così nella Dichiarazione di Paxia, Liguria, XII sec.), o ancora si deve «alla pressione di ‘scritte’ preparatorie in volgare subita da notai di scarsa capacità professionale» (Formentin 2008: 22, con riferimento alle «tre “Carte” marchigiane del XII secolo [l’osimana, la fabrianese e la picena]»).
Fuori dal testo vero e proprio del documento notarile ufficiale, il volgare può comparire in forma di postilla o di commento. È questo il caso della Postilla amiatina (XI sec.): il notaio, estensore dell’atto con cui due coniugi donavano i loro beni a un’abbazia, aggiunse un breve quanto enigmatico commento all’atto stesso, in lingua volgare con andamento ritmico (cfr. Castellani 19762: 103-109).
I notai mostrarono un interesse precoce per la più antica letteratura in volgare. Alcuni di loro, nel XIII secolo, furono autori di poesia in volgare: molti dei principali poeti della ➔ Scuola poetica siciliana erano alla corte di Federico II prima di tutto in qualità di alti funzionari, e i ruoli principali a corte erano coperti da intellettuali formatisi nella professione notarile, attraverso cui si arrivava a essere giudice e cancelliere. Il titolo di notaio, tra i poeti siciliani, spetta, per es., a Giacomo da Lentini, Stefano Protonotaro, Guido delle Colonne e Pier della Vigna. In altra area, il notaio fiorentino Bono Giamboni, attivo nella seconda metà del Duecento, si cimentò in volgarizzamenti (➔ volgarizzamenti, lingua dei) dal latino e nella trattatistica didattica. In età comunale, i notai lasciarono il segno della loro presenza nei più vari generi letterari, dalle cronache, ai poemi, alle enciclopedie (cfr. Fiorelli 2008: 317).
Il rapporto tra i notai e la letteratura in volgare del XIII e XIV secolo è testimoniato in maniera particolarmente significativa nei Memoriali bolognesi. A Bologna, a partire dal 1265, furono istituiti pubblici registri per la conservazione di tutti i contratti privati, e proprio questi registri, nati per tutt’altro scopo, dimostrano come i notai fossero tra i primi cultori della poesia in volgare, non solo nel locale emiliano-romagnolo, ma anche in siciliano e toscano. In questi registri, per evitare manomissioni e aggiunte indebite, gli spazi bianchi venivano biffati, proprio come accade oggi negli atti notarili. La biffatura consisteva in un semplice tratto di penna, ma talvolta fu realizzata in forma diversa, con l’inserzione tra gli atti di testi in volgare: componimenti poetici, preghiere e proverbi. L’ipotesi che suppone la destinazione pratica di questi inserti letterari, per impedire aggiunte abusive negli spazi vuoti, venne avanzata a inizio Novecento da Pio Rajna e poi fu accolta da tutti gli studiosi. ➔ Giosuè Carducci, invece, primo scopritore e editore delle poesie contenute nei Memoriali, interpretava quei versi come un modo dei notai per «ingannare la noia» (cfr. Orlando 1981: VII n. 5, IX-X). Le poesie conservate nei Memoriali bolognesi sono rigorosamente anonime, anche se tra le tante si riconoscono quelle pervenute per altra fonte e di cui dunque già si conosce il nome degli autori, tra cui ➔ Dante, Cino da Pistoia, Cavalcanti, Guinizzelli. La mancanza dell’indicazione degli autori nei versi dei Memoriali è stata spiegata in maniera convincente col rischio di confusione che avrebbe potuto creare l’inserimento di nomi di persona in un documento di natura giuridica (Orlando 1981: XIV; Orlando 2005).
Il fascino dei Memoriali è enorme, prima di tutto perché da essi emerge un repertorio di testi volgari che dimostra quali fossero le frequentazioni preferite dei notai. L’interesse è poi anche di natura filologica. I primi studiosi dei Memoriali erano convinti che i notai avessero riportato i versi a memoria; oggi, sulla base delle osservazioni di Santorre Debenedetti, sembra certo che i testi poetici fossero trascritti da manoscritti che i notai avevano a portata di mano (cfr. Orlando 1981: XII-XIII). Poiché quei codici non sono pervenuti, si può supporre che le trascrizioni dei notai siano l’unica traccia rimasta di alcune lezioni molto antiche, talora contemporanee agli autori medesimi: nei Memoriali e nei registri della Curia del Podestà dell’Archivio di Stato di Bologna, si leggono, per es., i più antichi frammenti che attestano la divulgazione della Commedia dantesca in ambiente notarile, quando lo stesso Dante era ancora in vita, dal 1317 in poi (cfr. Alighieri, La Commedia secondo l’autrice vulgata, Firenze 1994, vol. 1°, pp. 60-61).
I notai bolognesi del XIII e XIV secolo hanno dunque tramandato una serie di testi poetici dei quali non si sarebbe avuta altrimenti notizia, e hanno indirettamente fornito informazioni sulla fruizione del repertorio, che risulta ovviamente adattato linguisticamente per la sovrapposizione di una patina settentrionale, frutto della loro naturale competenza linguistica. Questo procedimento, analogo alla toscanizzazione della poesia siciliana, è stato tuttavia messo in dubbio in certi casi: per es., la versione vistosamente bolognese del sonetto di Dante No me poriano zamay far emenda (il sonetto detto della Garisenda), tramandata dal notaio Enrichetto de Querciis nel 1287, tradizionalmente giudicata, per la sua patina linguistica, come frutto di una vistosa settentrionalizzazione, è stata riproposta come scrittura autenticamente bolognese da addebitarsi a un Dante in vena di esperimenti linguistici con il dialetto locale (cfr. Alighieri, Rime, Firenze 2002, p. 331).
Nel Quattrocento, negli uffici amministrativi delle corti italiane aumentarono le manifestazioni scritte del volgare, per diverse situazioni d’uso, in genere a opera di notai, su ordine dei loro signori (➔ cancellerie, lingua delle). I documenti volgari nelle cancellerie di Milano, Mantova, Ferrara e Venezia cominciano nella prima metà del XV secolo, e ancor prima a Urbino. La lingua di questi documenti volgari è classificabile come ➔ koinè, perché mostra la tendenza all’eliminazione dei tratti più vistosamente locali per raggiungere un livello di lingua sovraregionale, accogliendo molti latinismi e appoggiandosi per quanto possibile al toscano (cfr. Marazzini 20023: 249-251; sulle abitudini grafiche dei notai pugliesi nella seconda metà del XV secolo cfr. Coluccia 1990).
Nel Piemonte sabaudo di metà Cinquecento, il duca Emanuele Filiberto impose l’uso del volgare nei tribunali e negli atti notarili. Il suo intento era di impedire che si approfittasse dell’ignoranza dei sudditi, verbalizzando le deposizioni in latino al di fuori di ogni possibile controllo da parte dei diretti interessati. Notai e avvocati, in questo caso, non furono tra i promotori del volgare, come era accaduto nel medioevo, ma anzi reagirono negativamente, aggrappati all’abitudine del latino tradizionale, e sentendosi inoltre poco atti a maneggiare il toscano. Tuttavia dovettero adattarsi, seppure in tempi diversi e con una certa lentezza. Per aiutare notai e scrivani nel loro nuovo compito furono persino allestiti strumenti nuovi: nel 1580 fu pubblicata, per es., la traduzione italiana della Summa rolandina, l’antico manuale del notaio, ancora in uso nel Cinquecento, che offriva istruzioni per stilare qualunque tipo di atto e formulari già pronti, applicabili a tutti i casi con poche modifiche (cfr. Marazzini 1984: 72-79).
Nella società moderna, una volta adottato sistematicamente l’italiano, il notaio è diventato utente e produttore di lingua amministrativo-burocratica (➔ burocratese), alla quale si deve attenere per ragioni professionali, ovviamente senza la funzione trainante e propulsiva che all’origine della storia dell’italiano fu propria di questa categoria professionale.
Alighieri, Dante, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, rist. riveduta, Firenze, Le Lettere, 1994, 4 voll. (1a ed. Milano, Mondadori, 1966-1967).
Alighieri, Dante, Rime, ed. critica a cura di D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, 2002, 3 voll., vol. 3º.
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Coluccia, Rosario (1990), Notai pugliesi, grafie e storia linguistica, «Studi linguistici italiani» 16, pp. 80-96.
Fiorelli, Piero (1994), La lingua del diritto e dell’amministrazione, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 2º (Scritto e parlato), pp. 553-597.
Fiorelli, Piero (2008), Intorno alle parole del diritto, Milano, Giuffrè.
Formentin, Vittorio (2008), Frustoli di romanesco antico in lodi arbitrali dei secoli XIV e XV, «Lingua e stile» 43, pp. 21-99.
Marazzini, Claudio (1984), Piemonte e Italia. Storia di un confronto linguistico, Torino, Centro Studi Piemontesi.
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Orlando, Sandro (a cura di) (2005), Rime due e trecentesche tratte dall’Archivio di Stato di Bologna, consulenza archivistica di G. Marcon, Bologna, Commissione per i testi di lingua.