Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’esistenzialismo sartriano, le avanguardie che dialogano con l’industria culturale, l’applicazione nella prassi artistica delle suggestioni fenomenologiche, il nouveau roman e le frontiere aperte da una concezione moderna della poesia (da Francis Ponge al lettrismo), producono in ambito cinematografico alcuni cambiamenti sostanziali di prospettiva, destinati a deflagrare in una rivoluzione quando si intersecano con l’evoluzione tecnologica e con un ripensamento geniale delle linee-guida delle politiche culturali. È il tempo della nouvelle vague e dell’affrancamento dal cinema dei padri.
Nel 1948, il critico e cineasta Alexandre Astruc pubblica sulla rivista "L’Ecran Français" un saggio intitolato Naissance d’une nouvelle avant-garde, la caméra-stylo, destinato a porre le fondamenta teoriche di un discorso che si svilupperà prevalentemente sulle pagine di un’altra rivista ormai celeberrima, i "Cahiers du Cinéma", fondata nel 1951. L’avanguardia che ha in mente Astruc non ha nulla a che vedere con i movimenti deliberatamente antagonisti e marginali che si fanno interpreti di una precisa e settoriale concezione dell’arte (sul modello delle avanguardie storiche). Il festival del cinema maledetto di Biarriz viene definito da un critico dei "Cahiers" come Jacques Rivette, fuori moda, e per oltre un decennio l’underground è volutamente bandito dagli orizzonti critici della rivista.
L’avanguardia cinematografica che si comincia a elaborare è sostanzialmente di natura popolare, prevede cioè un dialogo costante con un pubblico di riferimento, per quanto da costruire. Ciò che rifiuta è di piegarsi passivamente alle imposizioni del mercato e dell’industria, tanto più pressanti in un ambito artistico come quello cinematografico, dove la creatività del regista deve fare i conti con gli altissimi costi della materia prima (la pellicola) e dell’apparato (dalle attrezzature di ripresa alla distribuzione).
Ciò che Astruc invoca, in un orizzonte avanguardistico, è un nuovo tipo di cineasta che possa finalmente esprimersi con la libertà e la disinvoltura dello scrittore. Un artista che possa sentirsi e manifestarsi pienamente come tale. Dunque, da un lato, uno dei presupposti della futura nouvelle vague francese sarà proprio l’organizzazione di tali teorie in una coerente politica degli autori, basata sul principio del "primato della messa in scena". Come si chiarirà già in un articolo di François Truffaut del 1954, intitolato Une certain tendence du cinéma français, il nemico è una concezione standardizzata del fare cinema, perfettamente incarnata dal cosiddetto "cinema di papà", dove gli uomini si mettono al servizio di procedure consolidate, come ingranaggi di una macchina più grande di loro. Sceneggiatori come Jean Aurenche e Pierre Bost, registi come Henri-Georges Clouzot, Claude Autant-Lara, René Clement e tanti altri, sarebbero ormai solo capaci di applicare dei moduli, uniformando materiali diversi in un unico stile, sempre uguale. A essi vengono contrapposti veri autori come Robert Bresson o Jacques Tati, i quali sono in grado di proporre uno stile personale e originale che li rappresenta. Ma, a dimostrazione che si tratta di approccio mentale e non di situazioni contingenti, Truffaut e i suoi colleghi, Eric Rohmer, Claude Chabrol, Jacques Doniol-Valcroze, Jean-Luc Godard sono pronti a concedere la patente autoriale anche a registi hollywoodiani come Alfred Hitchcock o Howard Hawks. Questi ultimi, infatti, tradizionalmente relegati nel novero degli abili artigiani, ancorché costretti a muoversi entro i margini ristretti di libertà concessi loro da un apparato industriale rigidissimo come quello americano, sarebbero capaci di esprimere una loro precisa e riconoscibile visione del mondo e della vita attraverso ciò che gli compete, le scelte di messa in scena, la regia.
Questo approccio comporta un approccio radicalmente nuovo al fenomeno cinematografico, che si fonde con le riflessioni di natura filosofica ed etica di André Bazin, a lungo padre spirituale dei "Cahiers". Bazin, infatti, era stato il teorico del realismo ontologico del cinema (in quanto sistema di riproduzione fotografica della realtà). Non è un caso che Truffaut, nel saggio citato, premetta che l’obiettivo della sua invettiva, nell’insieme, è un’estetica denominata nel complesso realismo psicologico. Nella prospettiva di Bazin, alla cui memoria Truffaut dedicherà il suo primo lungometraggio, quella del "realismo psicologico" è sostanzialmente una definizione ossimorica che cela una pratica immorale del cinema, ovvero un uso del mezzo che ne perverte la natura profonda. I cineasti della futura nouvelle vague, durante gli anni della loro formazione, intraprendono anche un viaggio a ritroso, alla riscoperta di coloro che avevano saputo comprendere e valorizzare il cinema per ciò che è, da Eric von Stroheim a Charlie Chaplin, da Jean Vigo a Jean Renoir, da Orson Welles a Roberto Rossellini; e questo li porterà a essere, con rivendicato orgoglio, la prima generazione di registi che conosce la storia del cinema.
Questa conoscenza storica, istituzionalizzata nei termini del realismo ontologico e della politica degli autori, è tuttavia anche il prodotto di una cinefilia accanita, incoraggiata e strutturata grazie soprattutto al lavoro di Henry Langlois. Direttore della Cinémathèque Française nel suo periodo di massima fortuna, Langlois sceglie di programmare le sue sale con una proiezione di film a ciclo continuo e senza troppe distinzioni cronologiche, di genere o di valore, quasi che il cinema fosse costituito da un unico grande flusso di immagini, diverse fra loro nella forma, ma omogenee nella sostanza. Il risultato di un tale approccio sarà quello di stimolare congiuntamente il desiderio di una conoscenza storica approfondita e un amore viscerale nei confronti delle immagini in movimento.
Al festival di Cannes del 1959 viene premiato un film di un regista appartenente alla generazione formatasi negli anni Trenta, Orfeo negro di Marcel Camus, film che cerca di aprirsi alle suggestioni del documentarismo etnografico alla Jean Rouch, ma i vincitori morali del festival sono certamente le opere prime di due giovanissimi cineasti, peraltro diversissimi tra loro. Si tratta di Hiroshima mon amour di Alain Resnais, già affermato documentarista che realizza il suo primo lungometraggio di finzione a partire da un lungo monologo interiore scritto da Marguerite Duras, e di I quattrocento colpi (1959), racconto autobiografico di un’infanzia difficile, realizzato dal giovane François Truffaut, già autore di alcuni piccoli e deliziosi cortometraggi.
Sono film particolarissimi, innovativi sul piano dello stile, anticonformisti assai più che avanguardistici, profondamente personali e al contempo assolutamente fruibili da parte del cosiddetto comune spettatore (più Truffaut che Resnais, a dire il vero, ma certo nessuno dei due cerca lo scontro o la provocazione nei confronti delle comuni modalità di fruizione). Più originale ancora sono i presupposti stilistici del film che pochi mesi dopo costituirà il caso cinematografico dell’anno, destinato a scuotere dalle fondamenta il mercato e la produzione francese per gli anni a venire. Si tratta di Fino all’ultimo respiro (A bout de souffle, 1959), diretto da un altro critico dei "Cahiers", Jean-Luc Godard, ma scritto e prodotto assieme a François Truffaut. Il successo straordinario (anche in termini economici) di un film costato pochi soldi, che riprende modelli del noir americano e riesce contemporaneamente a omaggiarli – la pellicola è dedicata alla piccola casa di produzione statunitense Monogram Pictures – e a destrutturarli, il suo entrare e uscire con agilità dalle convenzioni del linguaggio cinematografico, la sua capacità di essere allo stesso tempo un gioco fra amici e un manifesto programmatico per un cinema finalmente moderno, aprono la strada a una generale ondata di rinnovamento.
Il ministro Malraux istituisce un apposito fondo per il finanziamento pubblico delle opere meritevoli di giovani registi, e questo consente la nascita di piccole case di produzione come quelle che fanno capo a singoli registi (Les Film du Carrosse di Truffaut, Anouchka Films di Godard) o a produttori innovativi come Pierre Braunberger (1905-1990) o Georges de Beauregard (1920-1984). Questo rende possibile un aumento esponenziale degli esordi (24 nel 1960, 43 nel 1961), favoriti anche dal fatto che i costi della tecnologia – complice l’affermazione della televisione – sono abbattuti per i due terzi dalle pellicole ultrasentisibili della Kodak, dalle lampade ultraleggere, dalle macchine di ripresa maneggevoli. Viene ripresa l’espressione coniata dalla redattrice de "L’Express" per una celebre inchiesta sociologica sul finire del 1957. La nouvelle vague – il traumatico movimento di rinnovamento che porta i figli a sostituire i padri – viene associata all’irrompere sulla scena francese di un grandissimo numero di autori, spesso diversissimi fra loro, ma destinati a segnare i decenni successivi della storia del cinema mondiale: Claude Chabrol, Pierre Kast, Jacques Rivette, Eric Rohmer, Louis Malle, Jacques Demy, Georges Franju, Jacques Rozier, Roger Vadim, Chris Marker, Agnès Varda sono solo alcuni dei nomi che in quegli anni riescono a entrare stabilmente nel panorama cinematografico sotto la spinta comune della nuova ondata, sebbene – come avranno a dire in molti – non ci siano dei presupposti stilistici o ideologici davvero comuni.
Fra gli autori citati ve ne sono alcuni che propongono un cinema militante, di forte impegno politico, altri che prediligono un versante sperimentale, altri ancora che inclinano verso un minimalismo radicale. Qualcuno, invece, è destinato alle più alte vette della fama, del successo e della grande produzione, ma quasi tutti avranno un percorso articolato che li porterà a frequentare tipi di cinema assai diversi. Esemplare, in questo senso, è la carriera di Jean-Luc Godard, il quale, dopo il successo degli esordi, inizialmente pare interessato soprattutto a esplorare le potenzialità del cosiddetto "metacinema", proponendo opere di straordinaria eleganza e ricche di particolari illuminazioni che si collocano però in un orizzonte autoriflessivo, prediligendo il citazionismo e gli infiniti rimandi intertestuali. Opere come Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962), Il disprezzo (1963) o Il bandito delle 11 (1965) nascono proprio da un amore sconfinato per il cinema e la sua capacità di costituire un universo immaginario autosufficiente, ma vanno già ampiamente nella direzione di un’analisi sociologica dei rapporti umani e sociali nella Francia contemporanea. Verso la fine degli anni Sessanta, tuttavia, Godard ha una specie di conversione che lo porta ad aderire alle istanze ideologiche della sinistra extraparlamentare, attraverso l’iscrizione al Gruppo Dziga Vertov e film militanti che vanno da La cinese (1967) a One plus one fino a Crepa padrone, tutto va bene (Tout va bien, 1972). Le due dimensioni tendono a fondersi e sovrapporsi nei film dei decenni successivi, dove l’espressione personale e l’indagine sui cambiamenti strutturali in atto consentono di dar vita a opere di altissima intensità estetica e morale, da Si salvi chi può (la vita) (1980) a Passion (1982), fino alle più recenti Histoire(s) du cinéma in cui il regista si interroga sul destino dell’arte cui ha dedicato la sua vita, cercando di recuperare una relazione diretta con l’immaginario selvaggio del cinema teorizzato da Langlois e, al contempo, ponendosi come istituzione cristallizzata, quasi a indurre il superamento di sé da parte delle giovani generazioni.
Godard, del resto, è fin dal principio uno degli ambasciatori della nouvelle vague in giro per il mondo. La spinta di rinnovamento, infatti, acquista quasi subito una portata planetaria, andando a ribaltare dalle fondamenta cinematografie nazionali distanti e diverse fra di loro, con effetti analoghi ma presupposti formali molto diversi. Dal free cinema inglese alla nova vlnà cecoslovacca, dal New American Cinema Group al cinema nôvo brasiliano si assiste alla nascita e all’affermazione di nuovi personaggi e nuove concezioni – moderne soprattutto nel senso colloquiale della novità – del cinema e dell’audiovisivo in genere, fra spinte autoriali, documentarismo, politicizzazione, voglia di successo individuale.
Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, per esempio, una delle proposte più radicali e suggestive arriva dalla Germania, dove, a partire dal manifesto firmato da moltissimi artisti a Oberhausen nel 1962, entrano in scena registi come Wim Wenders, Werner Herzog o Rainer Werner Fassbinder, capace di realizzare in soli 15 anni ben 39 lungometraggi, fra cui capolavori assoluti quali Effi Briest (1974) o Querelle de Brest (1982), come un magnifico e violento affresco critico sulla crisi complessiva, culturale e psicologica in cui versa la società capitalistica e industriale dell’Occidente.
Più complicate le cose per quanto riguarda il panorama italiano, dove si avverte ancora molto forte l’ipoteca estetica del Neorealismo, dove le strutture politiche e produttive faticano ad adeguarsi ma dove, soprattutto, una generazione di grandi autori – da Antonioni a Fellini – aveva già anticipato molti dei presupposti della nouvelle vague. Questo non toglie che la prima parte degli anni Sessanta sia, anche per questo paese, il periodo propizio agli esordi di una generazione di giovani autori di grande personalità, da Pier Paolo Pasolini a Marco Ferreri, dai fratelli Paolo (1931-) e Vittorio Taviani a Liliana Cavani, da Marco Bellocchio a Bernardo Bertolucci. Quest’ultimo appare il più lucido e fedele interprete dello spirito della nuova ondata. Già a partire dal secondo lungometraggio, Prima della rivoluzione (1964), si dimostra capace di coniugare la riflessione metacinematografica e cinefila con un discorso autobiografico personalissimo che implica, tuttavia, una riflessione ideologicamente orientata sulla società italiana e i suoi cambiamenti. Così nelle opere successive sarà in grado di sviluppare riflessioni acutissime sulle basi psicosociali dell’identità nazionale ( La strategia del ragno, 1970), poemi lirici sulla crisi del soggetto contemporaneo (Ultimo tango a Parigi, 1972), affreschi epici di portata epocale (Novecento, 1976) e persino kolossal hollywoodiani che – omaggiando il maestro Sergio Leone – celebrano l’avvento di un nuovo modernismo (L’ultimo imperatore, 1987; Piccolo Buddha, 1993).