Novellieri del Cinquecento
Occorre riconoscere, preliminarmente, che la narrativa del Cinquecento, e in particolare la novellistica, rimane tutt'oggi res nullius. o, se si vuole, no man's land. I primi studiosi, che hanno tentato di denominare e occupare questa zona vuota, a disposizione di qualsiasi avventura del leggere, si sono impadroniti a fine Ottocento del materiale ivi rinvenuto al patto di spogliarlo subito dei caratteri distintivi della creazione artistica: autonomia di contenuti, cioè, e dignità espressiva. Così è stato loro facile schedarlo in vasti repertori di motivi di narrazione rintracciati fin nel Medioevo e più su ancora, dall'India alla Francia, col risultato di avere solo e sempre dinanzi a sé delle variazioni condotte su trame preesistenti, talora neanche fissabili nella scrittura, ma affidate alla tradizione orale (monumento di questo metodo d'indagine deve considerarsi in Italia la Novellistica del Di Francia). Ma anche quando questo indirizzo critico, genericamente positivistico, venne abbandonato per influsso dell'estetica crociana, la narrativa rinascimentale, emersa dalle acque in cui si era fatta scorrere fino allora, si rivelò essere un'isola abbastanza arida e brulla, le cui poche piante avrebbero largamente fruttificato altrove: fuori di metafora, parve quasi elusa ogni possibilità di procedere a letture del tipo di quella di «poesia-non poesia» per testi giudicati francamente minori, schiacciati da un lato dal confronto con Boccaccio, Sacchetti, Masuccio e d'altro lato offuscati dalla ritrascrizione dei migliori fra di essi (poniamo la novella di Giulietta e Romeo nelle versioni del Da Porto e del Bandello) ad opera di Shakespeare e altri drammaturghi europei. Nasce certamente da questa delusione l'operazione tentata parallelamente, ma al di fuori della stretta ortodossia crociana, di privilegiare non solo un testo, ma qualcuno fra gli autori in esame, sia per una segreta e suggestiva consonanza di pratica letteraria (basti citare l'incontro affettuoso e spontaneo fra Agnolo Firenzuola e Antonio Baldini), sia per un gusto più scaltrito nel cogliere aspetti ormai estranei alla civiltà rinascimentale (si pensi allo Straparola letto dal Macchia con l'occhio a Perrault, o al Bandello scoperto dal Getto nell'atmosfera huizinghiana dell' «autunno del Rinascimento»). Contributi come questi ultimi, ovviamente, sono ancora auspicabili, perché taluno dei nostri narratori riprenda corpo e voce, e fors'anche le vesti dell'attualità (il Giraldi Cinzio attende tuttora il lancio propagandistico che si merita presso i nuovi lettori di Lewis e della Radcliffe); ma più urgente pare un'inchiesta sulla narrativa cinquecentesca in quanto area unitaria d'espressione, che non si sottrae alla vicenda degli altri generi del tempo, tutti egualmente combattuti fra autorità e libertà, fra tradizione e invenzione, e che, nel contempo, registra il trapasso da un'estate piena ad un autunno prolungato (per restare al suggerimento del Getto), da un tempo di fede nella vita e nell'uomo ad uno opposto di scacco. Ad assicurare la necessaria omogeneità e continuità in questa disamina, sarà bene avvertire subito che non ci sta, perché non ci può stare, alcuna preclusione etico-civile (del tipo di quella che ha ispirato a De Sanctis la riduzione della narrativa cinquecentesca ad un prodotto rivolto a «stimolare la curiosità del pubblico [leggi la «borghesia spensierata e oziosa»] e le sue tendenze licenziose e volgari»); né ci può stare alcun aggiornamento di quella ormai lontana preclusione, come accadrebbe se si tentasse d'instaurare sempre e comunque un discorso di tipo sociologico sul rapporto che intercorse fra questa produzione e il suo pubblico. Sappiamo difatti, per dirla molto alla buona, che fra l'autore e la realtà s'interponeva ancora nel Rinascimento uno schermo filtrante assai consistente, per ora detto assai genericamente la letteratura, e che, soltanto sollevandolo e individuandolo, ci si rende veramente conto di quale realtà il pubblico allora si pasceva (sempre che un pubblico ci fosse veramente, poiché non pochi dei nostri scrittori non conobbero successo apprezzabile e altri, fra cui alcuni dei maggiori, vennero stampati e divulgati solo alcuni secoli dopo).
Esemplari di questa percezione non immediata del reale sono le Novellae latine di Girolamo Morlini, ritenuto per convenzione il primo dei narratori cinquecenteschi (il suo volume esce nel 1520), ma nello stesso tempo l'ultimo a condividere posizioni ufficiali della cultura umanistica, dal ripudio del volgare alla fiducia che i volumina dei letterati, se sono, come il suo, «vera spirantiaque hominum simulacra», allora «nulla vi convelluntur, nullo senio obliterantur, fiuntque vetustate ipsa sanctiora durabilioraque»; del resto lo schermo, che il Morlini volutamente interpone fra la sua scrittura e le cose, è costituito dalle Metamorfosi di Apuleio, un testo assai caro all'Umanesimo adulto. A questo romanzo egli non guarda tanto come al deposito famoso di motivi novellistici suscettibili di ulteriori elaborazioni (sulle orme del Boccaccio e della novella decameroniana di Peronella e del doglio), bensì, come parzialmente mostra in questa sede il commento del Cecchin, lo considera in prevalenza alla stregua di un vocabolario, donde è possibile ricavare un lessico vario e icastico, se non addirittura interi sintagmi, da disporsi in trame di racconto non identiche nell'insieme, ma affini nei particolari e nelle movenze. Si aggiunga, poi, che alla mediazione di Apuleio si unisce nelle Novellae quella sporadica di Virgilio, di Orazio, di Ovidio, ecc.; e si avrà netta l'impressione che il tessuto di esse equivalga ad una sorta di mosaico lessicale, in cui l'impegno inventivo dell'artefice si consuma nell'accostare tessere di provenienza tanto discorde. Ma è impressione da cancellare, per non cadere in uno dei trabocchetti pseudo-estetici della critica precedente; tanto più che il Morlini, a complicare ulteriormente il suo discorso, fa intervenire modi e costruzioni del natio volgare. Per avere la tempra dello sperimentatore di nuove mescolanze linguistiche, manca alla scrittura ad intarsio del Morlini la dovuta rotondità e pastosità, sì che, come capita sovente ai confezionatori non esperti di postiches del genere, essa si sostiene tutta per virtù e pregnanza di lessico, ma trascura ogni effetto complessivo, a partire dall'articolazione sintattica. Di conseguenza, poiché siffatta scrittura non è portata né a scandire, né a pausare, la progressione del racconto (anche le dimensioni spaziali e temporali tendono a svanirvi), risolve le sue interne tensioni, quasi le scarica, nella conclusione della vicenda narrata, là dove una sortita esemplare ed edificante è pur sempre realizzabile, secondo la più prestigiosa consuetudine favolistica (ognuna delle Novellae si conclude con l'ammonizione di stampo esopico: «novella indicat. ..»). Ma è soluzione sovente posticcia, poiché la materia del racconto non si adatta spontaneamente in uno schema di giudizio che aveva conosciuto ormai innumeri trascrizioni e aggiornamenti (si pensi, per rimanere alla Napoli del Quattrocento, alla Vita di Esopo di Francesco del Tuppo). Anche a prescindere dalle novellae propriamente dette, le stesse fabulae del Morlini, nella misura in cui rimettono in discussione la fiducia nella sociabilità dell'uomo (si veda la ripresa da Fedro di quella celeberrima del lupo e dell'agnello, dove l'inserzione fra i due contendenti di un arbitro, nelle vesti del leone, dimostra essere l'esercizio della giustizia un fatto puramente formale, che tollera l'aprirsi d'insanabili fratture fra diritto ed equità), terminano piuttosto con la constatazione biblica della malignità del mondo. Quanto alle novelle vere e proprie, esse accentuano la mancanza di fiducia nell'uomo singolo, rappresentato capace di commettere tutte le azioni, anche le più turpi, pur di non venire meno all'imperativo che sembra davvero celarsi dietro le più sfrenate avventure del pensiero rinascimentale: l'imperativo dell'«omnia experiri», formulato nella sconvolgente novella De filio qui matrem offetavit. Né conta molto che i protagonisti di questa insana libido siano personaggi già spinti dalla novellistica precedente a varcare più di una volta le soglie dell'intentato e del proibito, specialmente se religiosi, secondo l'ancor fresco ed efficace insegnamento del Novellino di Masuccio Salernitano. Rispetto anche a questo indiscusso maestro, per di più suo conterraneo, il Morlini non rinuncia a sviluppare il racconto seguendo la dinamica che è sua: è la conclusione di esso, perciò, ad attirarlo, dove e quando, prima ancora di trarre la lezione esopica, egli già punisce nell'esito della vicenda gli eversori del costume morale e sessuale. Ed è volontà dura e fredda, come appare fin dalla prima novella, la quale espone particolarmente lo strazio inferto ad un chierico depravato da un assalto di falconi, ma che si rivela in forma ancora più drammatica nelle novelle XVIII e lxxv, fino quasi ad apparirvi come manifestazione di sadismo represso, cioè di un sadismo mascherato dall'applicazione della legge del taglione. Ma se questo, in definitiva, è il solo intervento moralistico di cui il Morlini possa ritenersi depositario e responsabile, si spiega perché mai l'ammonizione finale risulti in questi casi appiccicata, ed estranea al gravitare dell'azione verso un risultato il quale, come si è detto, è governato dalle norme di un diritto che non vive più nelle menti e nei cuori degli uomini, ma deve essere inciso con violenza nelle loro carni. Talora, è vero, la fantasia del Morlini si allontana da questa tematica cupa ed esasperata, sia per riposarsi in situazioni comiche già sfruttate dai novellatori del Tre e del Quattrocento (ci riferiamo alle novelle l e lxix di questa antologia), sia per accogliere sì temi orrorosi, ma nel contempo capaci di suscitare un pathos fruttuoso, quale ad esempio provoca l'incontro fortuito col diabolico di cui alla novella xxv. Ma si tratta appunto di vacanze della fantasia, imposte dalla memoria letteraria (la cinquantesima è ancora una buffoneria del sacchettiano Gonnella!), e non rivissute alla luce di quel giudizio rozzamente legalitario sulle storture della società contemporanea che trapela dalle novelle impostate sulla libido dell' «omnia experiri». Né questo giudizio, occorre dirlo, è formulato sull'esclusiva osservazione dei costumi erotici: come attesta la novella xii, e qualche altra ancora non riportata, la degenerazione dell'umanità appare al Morlini nell'atto di riversarsi dal mondo del sesso nella stessa vita civile, sino al punto che il contadino della suddetta novella deve trasformarsi in animale per avere udienza dal potente. Si delinea così, nell'opera del Morlini, una rassegna abbastanza esauriente della perversione dei suoi tempi, rassegna che, se non è mimetica della realtà in senso naturalistico, diventa spia d'un disagio autentico nei riguardi della situazione storica attuale. C'è, insomma, nel Morlini, al di là dell'atto iniziale di totale dedizione alla letteratura e alla sua lingua per eccellenza (il latino), la scoperta che la letteratura stessa può e sa denunciare quanto l'ingiustizia sociale e l'ipocrisia morale obbliga ad esprimere per via di novelle e di favole (di qui la profonda suggestione che dovette esercitare su di lui il linguaggio parabolico di Gesù, in quanto linguaggio per i duri di cuore). Ecco perché in luogo della dedica il Morlini definisce la sua opera nei termini, quasi autobiografici, di un «novitium animi sui simulacrum» e prega i lettori di difenderla contro gli «invidos calumniatores atque malivolos criminatores»: non si tratta solo di una petitio consueta nella letteratura umanistica, ma quasi di una profetica riserva nei confronti di chi, nei secoli a venire, avrebbe travisato il significato del suo impegno di scrittore, riducendolo alla misura mortificante dello zelo del pornografo.
Immediatamente, però, la vera difesa delle Novellae avrebbe dovuto essere contro chi si apprestava ad impadronirsene come se fosse un testo estraneo alla circolazione letteraria e bisognoso, per entrarvi, di un acconcio volgarizzamento: contro lo Straparola, insomma, che nella seconda serie delle Piacevoli notti inserì più di una traduzione di racconti del Morlini, senza accusarne la provenienza. Ma sarebbe stato inutile, forse, gridare già da allora al furto, come tanti secoli dopo ha fatto il Di Francia con foga e animosità, trattandosi veramente di opera nata ai margini dei grandi centri della novellistica rinascimentale (Firenze, Siena, Venezia, Roma) e non registrata sulla nuova problematica del genere. La struttura delle singole novellae, difatti, appena appena emergente dall'exemplum medievale e dalla fabula esopica, ma soprattutto estranea al più ampio racconto della cornice di memoria boccacciana, sembrava perpetuare, e non già superare, quella crisi della formula decameroniana che risaliva al Trecentonovelle del Sacchetti, ma che però aveva toccato il culmine nel primo Quattrocento, col Sermini (il quale si era proposto di raccogliere le sue novelle come se si trattasse di «un paneretto d'insalata») e più tardi con Masuccio, preoccupato esclusivamente di tramandare delle novelle che fossero «per autentiche storie approbate». Si era andato perdendo, in questo passaggio, quel rapporto di progetto e di rappresentazione del mondo che il Boccaccio aveva voluto mantenere al Decameron. segnandovi ben netta la distinzione fra cornice e novelle, e quindi fra narratori e narrato, fra teoresi e azione. Perdita assai grave, dunque, quella consumata nei novellieri del XV secolo rispetto al Decameron. a sanare la quale non valse certo il tentativo compiuto in extremis dall'Arienti d'irrobustire storicamente la cornice delle sue Porretane; ché anzi furono proprio gli ultimi decenni del secolo quindicesimo e i primi del successivo a segnare il punto più basso raggiunto dalla dispersione del materiale novellistico, ormai diventato patrimonio degli autori di poemi cavallereschi: dal Boiardo dell’Orlando innamorato al Cieco da Ferrara del Mambriano, fino all'Ariosto dell' Orlando furioso (e qui si trovano certo i più bei racconti del secolo, quelli di Iocondo e di Adonio, per non dire poi dei notevoli excursus narrativi che riservano le vicende private di Ginevra e Gabrina). Si aggiunga poi, a completare il panorama tanto negativo della novella in questo momento di transizione fra Umanesimo e Rinascimento, che il Castiglione, in un passo del secondo libro del Cortegiano, non escludeva neppure che l'arte del raccontare si dovesse ridurre, socialmente parlando, a fornire facezie e burle, sì da «discretamente indurre» quanti fanno vita di corte «a festa e riso»: riduzione non ipotetica, si badi bene, poiché fin dai tempi di Poggio Bracciolini correvano raccolte di simili componimenti, e altre ancora ne scrissero lungo tutto il Cinquecento non solo mestieranti della penna, come Ludovico Domenichi, ma anche osservatori acuti del mondo, quale fu Ludovico Guicciardini (di entrambi, però, non si sono dati esempi in questa raccolta per la loro estraneità al progredire del discorso narrativo, nei termini che ci si riserva di dimostrare).1 Non sembra avventata, perciò, la congettura che la novellistica agli inizi del secolo XVI fosse dominata da una certa confusione di proposte e da una grave incertezza di risultati, minacciata seriamente, inoltre, dal rischio di un'imminente sottrazione del materiale conservato per più secoli e attribuito ora ad altri moduli di racconto più impegnati in un rapporto sociale diretto, più disponibili soprattutto a correre il rischio di venire subito apprezzati, per quel tanto di divertente che sanno subito comunicare al lettore. Non c'è da meravigliarsi, allora, che persino un romanzetto di quelli che avrebbero fatto la gioia di Clive Staples Lewis (l'autore dell'Allegoria d'amore), e cioè l'Istoria di Phileto veronese del rimatore bembesco Lodovico Corfino, di poco posteriore alle Novellae del Morlini, una volta che abbia superato l'ostacolo iniziale di presentare, come d'obbligo dal Roman de la rose in poi, l'innamoramento del protagonista nei termini di un'allegoria mondana a chiave, finisca poi per procedere servendosi largamente di materiali novellistici, tanto nel descrivere la seduzione dell'amata, quanto nel preordinare l'allontanamento del suo partner. Evidentemente si trattava di materiali a disposizione di chiunque narrasse, anche se avesse scelto una struttura ben più sotterranea della novella, quale il romanzo allegorico, destinato per tutto il Cinquecento a vegetare sottobosco, in una zona di cui conosciamo bene soltanto i limiti estremi, dal Peregrino del Caviceo e dall'Hypnerotomachia Poliphili del Colonna sino all'Astrée dell' Urfé (ed ecco allora il motivo di un'altra assenza di genere in questo volume, quella appunto dei romanzieri, più largamente presenti invece nel tomo successivo, con Cristoforo Armeno, il Franco e il Pasqualigo).
Ma non c'è da meravigliarsi, specialmente, se in tanta confusione e incertezza, lungi dal coltivarsi un hortus conclusus quale quello apuleiano del Morlini, che era pure un modo di negare fiducia alle possibilità di svilupparsi della prosa volgare dopo la parentesi umanistica, ci sia stato chi abbia deciso di risalire direttamente al Boccaccio e al Decameron. in fondo, erano pur sempre l'autore e il testo che tuttora stavano ad indicare una direzione di lavoro andata poi smarrita nel suo insieme, ovverossia frantumata e spezzettata in elementi di linguaggio e di trama raramente, per non dire quasi mai, rifusi come nell'originale. Responsabile di questa ripresa integrale della lezione boccacciana è Agnolo Firenzuola, un giovane letterato toscano che esordisce coi Ragionamenti. opera composta entro i primi mesi del 1525 e di conseguenza non facilmente ascrivibile tra quelle suggestionate o addirittura suggerite dalle Prose della volgar lingua del Bembo. A dire il vero, una serie di argomentazioni inoppugnabili parrebbero dover condurre a stabilire uno stretto rapporto di dipendenza del Firenzuola nei riguardi del Bembo. Ad esempio, nel 1524 era uscito un opuscolo del Firenzuola contro le riforme ortografiche proposte dal Trissino che piacque al Bembo e che singolarmente concordava con l'anti-trissinismo delle Prose suddette; inoltre: anche i Ragionamenti nacquero come i primi libri delle Prose in Roma, cioè in un ambiente ancora umanistico e favorevole al latino, tutt'al più aperto agli influssi della teoria linguistica cortigiana; e infine: se il Firenzuola non aveva letto le Prose, sicuramente doveva conoscere gli Asolani, nei quali, come ha scritto autorevolmente il Dionisotti, il Bembo aveva chiesto al Boccaccio «una lezione di lingua, piuttosto che, o prima che, di stile». Comunque siano andati i rapporti fra i due scrittori, tuttavia, anche se si riuscisse a dimostrare non fondata in alcun modo l'originalità del Firenzuola nel riproporre integralmente lo schema del Decameron. rimarrebbe pur sempre sua l'intenzione di richiamare a vita il testo del Boccaccio nella sede espressiva che di diritto era del Decameron: nella novella appunto. Poiché, se già negli Asolani (scrive sempre il Dionisotti) «legandosi al Boccaccio per la lingua, il Bembo non aveva potuto, in opera così diversa, fermarsi al Decameron», ma «aveva dovuto risalire al Filocolo, alla narrazione dell'Ameto, soprattutto alla Fiammetta», nelle Prose, poi, le novelle «popolari» del Decameron erano accuratamente isolate e ricondotte all'ideale stilistico teorizzato nel libro, per esplicita volontà del Bembo stesso, il quale scrive: «come che egli [il Boccaccio] alcuna volta, massimamente nelle novelle, secondo le proposte materie, persone di volgo a ragionare traponendo, s'ingegnasse di farle parlare con le voci con le quali il volgo parlava, nondimeno egli si vede che in tutto 'l corpo delle composizioni sue esso è ... di belle figure, di vaghi modi e dal popolo non usati ripieno» (I, XVIII); per non dire, poi, della riserva formulata più avanti dal Bembo (II, XIX) sulla mancanza di «giudicio» che il Boccaccio dimostrerebbe non solo nelle opere minori, ma anche in alcune «parti» del Decameron. «una riserva», spiega il Dionisotti, «che non toccando la lingua e lo stile, deve riferirsi alla materia dell'opera, a quel che di trecentescamente e toscanamente libero offendeva l'aristocratico decoro della società del Cinquecento (non, o non soltanto una riserva morale, ma di galateo e di classe sociale)». In altri termini: dalle Prose usciva soltanto l'indicazione di Boccaccio quale maestro di prosa, ma non di prosa narrativa, di prosa retorica piuttosto, atta al dialogo, al trattato, all'orazione, non potendo certo additarsi al narratore come doverosi da perseguire gli effetti compositivi segnalati dal Bembo nella prosa del Decameron come sommamente commendevoli: le maniere della «giacitura» delle sillabe, ad esempio, e poi la «gravità» che ciascuna di esse può recare, la «variazione» delle voci (II, XV, XVI, XVI,XVIII), e così via.
Questo Boccaccio, di conseguenza, non poteva esaurire l'interesse del Firenzuola dei Ragionamenti per il Decameron. nella misura in cui la ricerca da parte del Bembo di un modello linguistico, degno di emulare quello umanistico di Cicerone, finiva per ritagliare nel testo boccacciano una sezione di prosa poetica, quasi tutta addensata nei proemi, nella cornice e nelle conclusioni delle singole novelle, con una sola puntata (se non andiamo errati) nel territorio narrativo vero e proprio: e vedi caso, per sottolineare la stretta parentela che, retoricamente e stilisticamente, corre fra l'esordio del Proemio del Decameron e l'orazione di Ghismonda sul cuore di Guiscardo (II, XV). D'altro canto non si vuole sostenere, per converso, che il Boccaccio imitato dal Firenzuola, non coincidendo fedelmente con quello del Bembo, sia il Boccaccio autentico, velato o manomesso lungo il secolo precedente e ora finalmente ritornato con pienezza e autorità nel circolo letterario, per virtù di una magica operazione di disincanto e di risveglio. Indubbiamente l'avvio dei Ragionamenti. dall'introduzione di mesta e accorata autobiografia amorosa alla presentazione dei protagonisti della cornice (un gruppo di giovani d'ambo i sessi, i quali si allontanano dalla città alla volta di una campagna prossima a Firenze e trascorrono le loro giornate fra diporti, recite di versi e racconti), ha l'aria di un rituale propiziatorio nei confronti di un nume che si spera torni ad ispirare l'autore, dopo avere a suo tempo presieduto all'origine del Decameron. parrebbe, anzi, che il Firenzuola sia soprattutto preoccupato di rispettare la maniera del Boccaccio nel disporre le novelle negli spazi costruttivi e costrittivi della cornice.
Ma è impressione destinata a vanificarsi presto, qualora soltanto si pensi alla mancanza nei Ragionamenti di un evento dell'importanza della peste: evento il quale non solo giustifica e impone l'evasione dal mondo dei novellatori del Decameron. ma pure ne condiziona la parola e il gesto, perché, come ha dimostrato il Bàrberi Squarotti, fa sì che la lieta comitiva e i suoi piacevoli trattenimenti diventino il modello possibile di una ricostruzione del mondo, dal caos verso l'armonia, dall'anarchia verso l'ordine, dall'individualità istintiva verso la collaborazione sociale. Di una simile forza di progettazione non si caricano affatto i protagonisti e le situazioni della cornice dei Ragionamenti. Domina in essa una copiosa e sovrabbondante volontà di esporre sotto forma di dialogo quei temi che la trattatistica del pieno Cinquecento avrebbe largamente ripreso e diffuso, sotto la guida potente e sicura del Bembo degli Asolani e delle Prose: dibattiti d'amore, soprattutto, tanto profano quanto platonico, e poi discussioni sulla lingua letteraria da adottare, non senza però scorse più rapide su argomenti di minore attualità quali la simbolicità dei numeri o le virtù del basilico, argomenti che ci riportano ben più indietro nel tempo, ad un paragrafo della Vita Nuova come alla rubrica di un erbario. Che poi dietro tanta verbosità (e ciò vale a scusarci di non avere antologizzato alcun passo di siffatte diatribe), si nasconda la volontà di celebrare la sapienza e il gusto della «reina» chiamata a presiedere questo rituale, apparentemente boccacciano, e che dietro alla «reina» si celi, a sua volta, l'anima di una donna assai cara all'uomo Firenzuola, è rilevazione di certa critica erudita che poco incide, alla fin dei conti, sulla natura esclusivamente verbale della cornice dei Ragionamenti: soprattutto non può contribuire a sollevare il mondo della cornice fino al livello necessario per offrire un progetto autre di trasformazione della società. Dietro e prima delle novelle dei Ragionamenti, non c'è un vuoto sociale da colmare, insomma, ma piuttosto una formula d'intrattenimento culturale che urge e trabocca dalla cornice sino al punto di sfigurare la stessa narrativa, la quale invece da questa formula dovrebbe trarre non solo ordine e respiro, ma anche motivo di esistere e giustificazione. Anche le due novelle qui riportate, che sono tra le più vivaci dei Ragionamenti e nello stesso tempo le più lontane dal gusto e dalla cultura operanti nella cornice, vengono al termine fortemente ridimensionate dall'intervento o della «reina» o degli altri personaggi della cornice stessa.
Nell'una il Firenzuola riprende il vecchio motivo dell'apparente cambiamento di sesso di un bel giovane, e nell'altra rifà in qualche modo la celebre novella boccacciana del prete da Varlungo e di monna Belcolore, allontanandosene solo nella conclusione, la quale ricorda piuttosto le severe punizioni inflitte dal Morlini agli ecclesiastici che hanno provato un'insana libido experiendi. In entrambi i casi, però, viene quasi a crearsi una dissonanza di forma e di contenuto fra le novelle e la cornice intera, la quale non contempla l'irruzione così vistosa dell'assurdo e del crudele; tant'è vero che i commenti moralizzanti dei narratori riescono quanto mai esorcizzanti della materia narrata, e non entrano affatto nel merito dei problemi morali che essa pure potrebbe sollevare. Ci si potrebbe obiettare che quelli prescelti sono casi-limite nei Ragionamenti e che altre novelle si adeguano molto più agevolmente ai suggerimenti decorosi e nobilitanti delle discussioni che occupano la cornice; ma è proprio qui, nella capacità di affrontare una tematica non meno letteraria, ma più inquieta e turbata di quella prevista nelle conversazioni fra i narratori, che alla fine si misura la capacità di durata dell'esperimento boccacciano del Firenzuola. Non per nulla al di là della prima giornata egli non si sentì di andare, e preferì interrompere all'inizio della successiva i Ragionamenti. a testimonianza di uno sforzo costruttivo che non poteva non ricadere su di sé, quando fosse mantenuto nei termini superficiali di cui si è detto discorrendo dell'architettura dell'opera. La dissonanza tra cornice e novella, venuta alla luce così bruscamente, poteva essere risolta con un'operazione assai facile, eliminando il più scomodo e ingombrante dei due termini del rapporto, la cornice cioè; e fu questa la decisione che il Firenzuola più o meno consapevolmente prese qualche anno dopo, stendendo due novelle distinte: l'una «accaduta nuovamente e raccolta secondo la vulgata fama», l'altra «sopra un caso accaduto in Prato». Esse debbono considerarsi fra gli esempi più liberi e felici del nostro genere, neppure tanto per la loro relativa autonomia dalla tradizione boccacciana, bensì per la straordinaria e quasi sorprendente capacità di giocare il racconto non sullo svolgimento più o meno inatteso della trama, con le sue mutazioni e i suoi imprevisti, come accadeva ancora nei Ragionamenti. ma su un progetto di azione esclusivamente affidato alla parola, o meglio al discorso vario e molteplice che all'azione si sostituisce e ne sgretola la fittizia oggettività, dimostrando, in cambio, l'assoluta relatività del fare. Che poi queste novelle, dette anche del periodo pratese, si presentino di primo acchito come nate e sviluppate in un ambiente contadino, sì da parere addirittura emerse da una koinè dialettale e da una couche popolare, è solo il frutto di un'illusione ottica di ascendenza ottocentesca. La sostanziosa corposità del loro lessico, alla pari dell'evidenza quasi icastica delle battute del dialogo, non mira alla pittura di una zona sociale poco frequentata in età bembiana, se non appunto sotto la specie del comico, ma collabora potentemente a risolvere le res nei verba, col risultato di sgravare l'azione d'ogni responsabilità architettonica all'interno della narrazione e di ridurla a semplice pretesto fattuale di commenti e opinioni di differente intonazione, ma comunque sempre soverchianti l'accaduto (di qui la suprema ironia realistica contenuta nei titoli: «novella accaduta nuovamente», «novella sopra un caso accaduto in Prato»).
Ma la misura più completa di questa sovversione del modulo boccacciano di racconto, nel senso della paralisi delle possibilità mimetiche del reale concesse all'azione narrata, è offerta dalla parziale e libera rielaborazione che nei medesimi anni, verso il 1540, il Firenzuola condusse di una traduzione spagnola del celebre Panciatantra, col titolo di La prima veste dei discorsi degli animali. In precedenza, all'epoca dei Ragionamenti. egli aveva già tentato di affidare alle Metamorfosi, o Asino d'oro, di Apuleio il compito (sia detto con scandalo di molti) di esonerarlo dalla ricerca di trame e di contenuti; ma la traduzione del testo, già usufruito alla stregua di un lessico dal Morlini, non dovette soddisfarlo del tutto, se la lasciò imperfetta, lacunosa (la rimpolpò il Domenichi, attingendo alla precedente versione del Boiardo) e mancante, per di più, della conclusione religiosa e misteriosofìca dell'originale. In effetti un rigurgito di autobiografismo tormentava ancora in quegli anni il Firenzuola e lo spingeva, forse per amorosa suggestione della ispiratrice dei Ragionamenti. a lasciare intendere con travestimenti e ammiccamenti d'ogni genere che la storia apuleiana di Lucio in parte è anche la sua autobiografia, di Agnolo cioè, con una distorsione del mero valore narrativo dell'amo d'oro non priva di conseguenze stilistiche e strutturali; tant'è vero che le sezioni migliori della traduzione sono quelle che comprendono le digressioni novellistiche dell'originale, e in particolare la celebre e stupenda favola di Amore e Psiche. Minori complicazioni interiori il Firenzuola dovette superare nell'impossessarsi del Panciatantra; anche perché, passando attraverso rielaborazioni latine e spagnole, il maggior testo della novellistica indiana arrivava nelle sue mani in una duplice condizione favorevole: era ormai privo di connotazioni linguistiche prepotenti (si pensi, al contrario, alla pastosa raffinatezza del linguaggio di Apuleio), ma tuttora era il depositario di un'inconfondibile impostazione del rapporto strutturale fra cornice e novelle, impostazione che evita la dissonanza registrata nei Ragionamenti fra conversazione e racconto, parola e azione. Esternamente il Panciatantra presenta una serie di «facete novellette» che un filosofo racconta ad un re, prendendo spunto da questa richiesta: «quale esempio si potesse raccontar per l'ammonizion di duo carissimi amici, tra' quali volendosi intramettere un terzo di cattivo animo, per seminare tanto scandolo che ne nascesse avidità della rovina l'un dell'altro, gli amici se ne potesser guardare» (citiamo già dalla traduzione). Strutturalmente una tale impostazione non comporta però che le favole o gli apologhi si giustappongano l'uno all'altro, perché gli stessi protagonisti della favola narrata dal filosofo al re, quella del leone, del bue e del montone, sostengono con altre favole i loro punti di vista. Non solo, ma i protagonisti di questi racconti, legati al primo in secondo grado di dipendenza, possono usufruire del medesimo privilegio concesso ai loro espositori; sì che si genera, in luogo di una serie, una catena narrativa interrotta solo per ragioni di opportunità e di chiarezza, ma teoricamente inestinguibile e autogenerantesi all'infinito (e che sia questo il motivo del fascino esercitato dal Panciatantra sul Firenzuola, lo si ricava anche dalla constatazione che fin dall'inizio egli si diverte a far scaturire altri racconti dalla combinazione che presiede alla genesi del testo, a testimoniare la sua convinta adesione di scrittore alle leggi di un giuoco che si fa continuamente). La metafora migliore per disegnare in immagine l'edificio della Prima veste potrebbe essere, perciò, quella della cosiddetta scatola cinese, o anche quella della bambola russa, oggetti di legno che contengono nel loro interno altri oggetti simili, solo di formato più ridotto, e questi a loro volta altri ancora, in un processo di riduzione delle dimensioni che il Firenzuola, per uscire dalla metafora e ritornare all'oggetto-testo, non rispetta con altrettanta geometrica precisione: forse perché soddisfatto che già così la nascita di ogni suo racconto non abbia bisogno di alcun supporto della realtà o della storia, come pure che la morte di esso non sopporti codicilli moralistici, essendo cagionata dal sorgere immediato di un altro racconto. C'è ancora la cornice, se proprio si vuole, nel Panciatantra, e il prodotto narrativo non pare affidato al giudizio del lettore nella maniera un po' spiccia delle novelle del periodo pratese; ma la cornice, a ben vedere, né inquadra, né valuta il racconto, secondo il modulo dei Ragionamenti. bensì vi si scioglie, essendo ogni racconto contemporaneamente cornice di un altro (è la sua potenziale virtù ad essere tale che interessa, è chiaro). Una simile fruibilità della struttura-racconto non ha nulla di ambiguo, poiché, come si è visto, si tratta di un gioco aperto e dispiegato, con norme facili e dichiarate: certamente, però, determina la totale paralisi dell'azione, nella misura in cui, in luogo di procedere e di esaurirsi, ogni vicenda si arresta (può arrestarsi meglio) tutte le volte in cui dovrebbe scattare in avanti verso l'azione, per illustrare con un altro racconto gli effetti e le conseguenze pratiche dell'azione evitata (i passaggi di racconto in racconto sono indicati da giunture verbali del tipo di queste: «egli non m'intervenisse come...», «ho paura che egli non v'intervenga come...»,«e però ti è intervenuto quello…», ecc.). Facilitano, naturalmente, il processo di trasformazione integrale dell'azione nella parola la materia e i protagonisti di questi Discorsi (e si noti, per inciso, l'insistenza del Firenzuola su titoli che esaltano l'assolutezza del dire, a scapito della stessa facoltà di narrare). La materia, infatti, è quella sapienziale solita, che invita l'uomo a preferire la virtù al vizio, la lealtà al tradimento, l'amicizia all'invidia, e via discorrendo, con in più una coloritura tutta cinquecentesca di censura del mondo della corte e delle sue pratiche d'ipocrisia; i personaggi, poi, sono consueti nella favolistica orientale e occidentale, animali cioè che simboleggiano vizi e virtù degli uomini, sempre comunque nell'alone moralistico prima tracciato. Materia congelata in esortazioni e sentenze, dunque, e personaggi già predeterminati a farsi portavoce, con parole e con gesti, di questa stessa materia: e quindi non scatto verso l'ignoto, non tensione verso lo sperimentabile, non colloquio col reale nel contenuto della Prima veste, proprio come la struttura dell'opera vuole e impone. Perché, a rischio di paradosso, bisogna convenire che la dissoluzione del rapporto cornice-racconto rimane il pregio caratteristico della Prima veste: quello che nella storia della novella post-boccacciana conferisce al Firenzuola il ruolo assai importante di avere liquidato una formula e un'idea di racconto ritenute indiscutibili e di avere, di conseguenza, condotto la novella ad un punto zero della scrittura, per sollevarsi dal quale sarebbe occorsa (come capiterà in età barocca) un'impostazione completamente diversa del problema da quella finora imposta dall'esemplare boccacciano. Sì che, in definitiva, se già il Boccaccio del Bembo si era rivelato non usufruibile in sede narrativa, il Boccaccio del Firenzuola dei Ragionamenti si scopriva dopo la Prima veste essere soltanto fonte di pericolosi equivoci, e di conseguenza risultare non meno improponibile dell'altro per i novellisti.
Gli anni, che intercorrono fra le due maggiori opere del Firenzuola (all'incirca dal 1525 al 1540), conobbero pure altri minori e meno impegnati tentativi di rilanciare il modello boccacciano. Anzi, poiché le opere del Firenzuola non vennero alla luce delle stampe che nel 1548 (postume quindi), non è erroneo parlare di quattro o cinque lustri come dello spazio impiegato per offrire del Decameron una riedizione aggiornata, anche parziale. Quale ruolo abbia giocato il Bembo nel favorire questi tentativi, talora rimasti allo stato di progetto e mai andati oltre quello di abbozzo, è difficile stabilire concretamente, se non altro per la riserva di fondo già formulata sulla sua lettura del Decameron in chiave narrativa. Per lo meno in area veneta, tuttavia, rapporti ben definiti legano il Bembo a Luigi Da Porto, l'autore della celebre novella di Giulietta e Romeo, e anche di un canzoniere che si adegua abbastanza spontaneamente al petrarchismo bandito nelle Prose della volgar lingua; né diversa, in fondo, sebbene i rapporti col Bembo furono molto più formali, è la parabola di Giovanni Brevio, di cui parimenti possediamo dei versi orientati verso il petrarchismo, ma soprattutto delle prose varie, fra cui più delle sei novelle interessa maggiormente una sorta di paginone di cronaca nera, che ha il titolo un po' stornante di De la miseria umana. Ma per tornare al Da Porto, non sono soltanto occasioni biografiche, od esercizi lirici, a far pensare alla sua iscrizione di diritto nei ruoli del bembismo imperante: intanto perché il Bembo stesso approvò (per lettera) la prima stesura della novella, e poi perché la novella medesima è preceduta da una sorta d'introduzione autobiografica che risulta tematicamente abbastanza ligia alle abitudini mondane e galanti del petrarchismo. Eppure troppo forte è la fiducia nella storia da parte del Da Porto (non si dimentichi che egli è autore di lettere assai belle sulla guerra della Lega di Cambrai, cui partecipò di persona), perché egli rinunci ad offrire con la sua novella un esempio altissimo, ma ormai improponibile, di vita dei sentimenti. La vicenda di Giulietta e di Romeo, difatti, è raccontata da lui con il senso ben vivo che essa appartiene integralmente al Medioevo fazioso e partigiano, quando la probità del sentimento d'amore era salvaguardata dal sacrificio dei suoi partners, a differenza, per riprendere parole della perorazione conclusiva, di quanto accade ai «miseri... amanti di questa età»: né col «fedel servire», né con la «morte» essi riescono più ad intrattenere un rapporto altrettanto sincero e saldo. Quanto di estraneo alla dottrina amorosa del Bembo, che è tutta di contemplazione e di trasfigurazione, ci sia in questa denuncia polemica del contegno degli amanti d'oggidì, è rivelato in maniera eloquente dal fatto che la perorazione manca per intero nella seconda stampa, curata probabilmente dal Bembo stesso. Gli è che un simile gesto di risentimento nei confronti della realtà presente è tipico piuttosto della fantasia ariostesca (la stessa figura del Da Porto pare un'ultima incarnazione degli ideali del mondo della cavalleria), laddove non ha quasi cittadinanza nel mondo del Boccaccio: non ce l'ha, in specie, nella novella di Tancredi e Ghismonda, implicitamente additata dal Bembo delle Prose come esemplare di stile narrativo. Nella fitta sequenza di avvenimenti, che varia di continuo la compagine della novella del Da Porto, non c'è davvero spazio per alcuna orazione alla maniera di Ghismonda, ma solo per rapide e ostinate professioni di fede, quasi dei madrigali prosaicizzati, in un amore fin dall'inizio ombreggiato da presagi di morte (lo si avverte, in particolare, nella stupenda scena in cui, complice un castissimo notturno lunare, i due amanti petrarcheggiando scoprono la leopardiana vicinanza che intercorre appunto fra Amore e Morte).
A constatazioni analoghe, ma sul piano della collocazione storica e non certo dei valori, si arriva leggendo la citata produzione del Brevio, più consistente di quella del Da Porto e con qualche ambizione in più di essere ricordata nella novellistica contemporanea. Effettivamente il Brevio dimostra una certa lucidità nel dipanare intrecci complicati e difficili, di quelli che nel Decameron.solevano risolversi nell'elogio dell'intelligenza dell'eroe, per soggetto ch'egli fosse alla tensione istintiva dell'eros. Tuttavia, come dimostra la novella riportata del doppio incesto, anch'egli non sfugge all'interesse del Morlini e del Firenzuola per l'abnorme e il mostruoso, in contrasto con la sua tendenza a semplificare e quasi ischeletrire le trame. Quando, poi, la stessa cronaca sembra offrirgli in abbondanza materiale truculento, come quello di una serie di carneficine tra consanguinei, non basta, per esorcizzarlo, che egli etichetti i documenti così raccolti col titolo di un trattato ascetico medievale (De la misera umana), né che li faccia precedere da un'introduzione di tipo esistenziale scovata nella Storia naturale di Plinio (introduzione presentata come propria, naturalmente: e non solo per abitudine cinquecentesca all’imitatio, ma perché il Brevio rischiava davvero il plagio, come rivelò clamorosamente riducendo alla sua maniera scarna e spolpata la novella di Belfagor arcidiavolo del Machiavelli). La sanguinosa cronichetta della «miseria umana», in altri termini, conferma la morbosa curiosità del novellatore per l'assurdo e l'irrazionale della vita quotidiana; sì che, sebbene al solito la sintassi del racconto rimanga nuda e magra (l'abuso della paratassi mortifica davvero lo spessore dei contenuti), il Brevio grazie ad essa andrà annoverato tra i fautori più o meno consapevoli della novella manieristica, o controriformistica che dir si voglia. Ecco perché non lo si può certo annoverare fra quanti tentarono l'aggiornamento rinascimentale del Decameron.
Su questa linea vanno piuttosto collocati altri novellatori contemporanei, di respiro altrettanto corto di quello del Da Porto e del Brevio e non meno di loro preoccupati di trovare qualche fondamento di veridicità e di realtà al narrato. Alludiamo in particolare a Marco Cademosto e a Francesco Maria Molza, entrambi settentrionali, ma operosi nella Roma di Leone X e di Clemente VII: quindi, almeno in potenza, raggiungibili pure dall'Aretino e dal Berni, e tuttavia, contro le aspettative, forse persino più filo-bembeschi del Da Porto e del Brevio (poetarono anche in maniera non disdicevole ai suggerimenti delle Prose della volgar lingua, e con singolare eleganza il Molza). Il Cademosto, che dei due è senz'altro il meno noto, al termine della sua piccola silloge di novelle (appena sei in tutto), mentre lamenta il danno infertogli dal sacco di Roma (gliene sarebbero state sottratte ben ventisette in quel luttuoso frangente), aggiunge, a parziale compenso, che le rimanenti «sono accascate verissime», quasi che pensi di potere risarcire la perdita del suo decameroncino con la veridicità dei frammenti rimastine, a rigore tutti riscontrabili nella cronaca quotidiana. La dichiarazione compare nel 1544, un anno prima della stampa del volumetto del Brevio, e per di più presso l'identico editore, che è per entrambi il celebre Antonio Biado Asolano. Ma partire di qui, per giungere a credere ad una possibile influenza del Cademosto sui risultati di narrativa cronachistica del Brevio, sarebbe abbastanza azzardato. Il Cademosto è scrittore troppo rozzo e improvvisato, perché possa avere esercitato un diretto ascendente sulla composizione della Miseria umana; quanto alla sua preoccupazione di essere trovato sempre veritiero, la si spiega tenendo conto che è una giustificazione comune a scrittori della sua taglia, in realtà assai poco sensibili a questioni di originalità. Difatti il Di Francia ha potuto elencare con implacabile rigore i suoi vistosi prestiti dal fondo del patrimonio tradizionale della novella: con la doverosa eccezione, a nostro parere, di quella del prete «barro», la quale opportunamente reca un preambolo a sé, ove l'autore ribadisce lo scrupolo di farsi portavoce di situazioni in apparenza inventate, o addirittura favolose, laddove invece coinvolgerebbero fatti realmente successi, e inoltre confortati dalla testimonianza di «parte del popolo» di Roma. Ne risulta, così, una narrazione pittoresca e vivace, che, pur nei soliti limiti del Cademosto (grave, soprattutto, la mancata padronanza della sintassi ipotattica, che egli si sforza di mantenere in piedi ad ogni costo), riesce a delineare un minore ambiente di malavita (altro che la Napoli di Andreuccio!), popolato di piccoli truffatori e di modesti parvenus, ai margini davvero della storia ufficiale; ma si tratta di un'eccezione, appunto, perché l'altro racconto scelto conferma la stanchezza di un'ispirazione narrativa che non riesce concretamente a porsi il problema della sua autonomia e della sua necessità.
Problema, per altro, a cui non dà nemmeno impostazione uno scrittore tanto più colto e applaudito del Cademosto quale fu il Molza, attorno alla cui attività di novellatore si determinò una vera e propria atmosfera di attesa della risurrezione del Decameron in veste rinascimentale (il Di Francia ricorda che fu salutato subito «nuovo Boccac[c]io volgare» e che si credette fermamente, dopo la morte, avere egli edito un «decameroneum librum, vulgo Centum novellas»). Sono testimonianze, queste riportate in parentesi, del Casio e del Gaurico, ma altre se ne potrebbero ricavare, non discordi e più autorevoli, presso il Giovio e il Doni; sì che, alla fine dei conti, se pur l'aspettativa andò delusa (del Molza rimangono cinque novelle, più l'inizio di una sesta, meno persino del Brevio e del Cademosto), essa sottintende comunque la medesima direzione di lavoro che abbiamo visto per un certo momento imboccata con non minore risolutezza, ma con maggiore costanza dal Firenzuola dei Ragionamenti. E che il Molza avesse sufficienti doti mimetiche per rifare la maniera del Boccaccio, è dimostrato con felicità dalla novella di Teodorica fiamminga, per la maniera assai garbata con cui è condotto tutto il progresso della vicenda: maniera che trova la metafora appropriata nella descrizione del moto alterno della marea di cui approfittano realisticamente i protagonisti, nella misura in cui essa offre veramente l'immagine dell'articolazione del racconto per masse contrapposte di personaggi, quale il Boccaccio amava perseguire specialmente nelle novelle impostate «a triangolo» (la definizione è di Montale per le situazioni tipiche della settima giornata del Decameron. situazioni che il Molza certamente conosce, se la sua novella si conclude proprio col «vituperio» del marito sperimentato da due eroine della medesima giornata, Ghita e Sismonda). Ma poiché, come si suol dire, una rondine non fa primavera, né gli altri racconti sono di questa levatura, tanto vale rassegnarsi e non discorrere per il Molza di un Boccaccio redivivo, se pure in formato ridotto, ma piuttosto di un abile e destro rifacitore della maniera altrui. Solo così, inoltre, si può accettare senza troppo scandalo, come egualmente sua, la novella della figliola del re di Bertagna, che il Croce, contento delle altre quattro, non volle riconoscergli per motivi di linguaggio e di stile. In mancanza di prove filologicamente inoppugnabili, non è da escludere a priori che questa novella sia del Molza: anzi, può esserlo proprio in quanto non è farina del suo sacco, ma ritrascrive, con le opportune amplificazioni oratorie (e quella sulla non coazione della legge per i potenti è davvero efficace), una materia che in età umanistica Bartolomeo Fazio aveva già raccontato come se fosse storia vera, niente di meno che l'antefatto della guerra dei Cento Anni tra Francesi e Inglesi. Quanto poi questa novella porti acqua al nostro mulino, riconfermando ancora una volta la tendenza della minore narrativa del primo Cinquecento ad appoggiarsi alla storia, intesa nella sua accezione più vasta (dalla cronaca contemporanea alle cronache antiche si potrebbe dire), non è neanche il caso di sottolineare. Piuttosto vale la pena di osservare come la compresenza di due filoni d'ispirazione così diversa nell'ambito della stessa personalità, l'uno che discende dal Decameron e l'altro dalla leggenda storica, se pure si risolve all'insegna dell'eclettismo mimetico (non diversamente, del resto, il Molza poeta scrive le ottave ovi- diane del poemetto La Ninfa Tiberina e le terzine di alcuni capitoli berneschi), per converso, in quanto è indice di una dissociazione oggettiva, sta a dimostrare il rigore e la coerenza con cui il Firenzuola ha scartato entrambe queste ipotesi di rinnovamento narrativo: il Firenzuola della Prima veste, s'intende, che ha operato in modo da riportare il racconto in una zona neutra di sperimentazione, fuori della cornice ma non senza di essa, fuori della storia ma non in concorrenza con essa.
Si ritorna così, necessariamente, al 1548, l'anno della stampa postuma delle prose del Firenzuola, ma nello stesso tempo l'anno in cui tutti, o quasi tutti, i narratori, che hanno approfittato del ventennio appena delineato di confusione e d'incertezza, sono ormai scomparsi. Nella situazione-zero, in cui la Prima veste ha condotto l'arte del racconto, il Da Porto, il Brevio, il Cademosto, il Molza, hanno ormai l'aria di sopravvissuti; per di più testimoniano d'un mondo letterario, politico e spirituale sul punto di andare irrimediabilmente in crisi, dietro l'urgere di una vicenda storica che col Concilio di Trento e il trionfo ormai certo delle armi di Carlo V sta sovvertendo l'assetto sociale e culturale della loro Italia, l'Italia di Ariosto e di Machiavelli. Di questo mutato panorama politico e religioso non è affatto specchio limpido e terso la narrativa degli autori nati ormai nei primi decenni del secolo, pur non mancando di ascoltarsi in essa qualche eco sofferta degli avvenimenti che avevano accompagnato la trasformazione delle condizioni generali del nostro paese. Ma poiché ci fu pure il corrispettivo letterario di questo mutamento, la narrativa non potè non risentirne e non collaborare alla fondazione del nuovo gusto, dal momento in cui alcuni rappresentanti della nuova temperie culturale decisero di servirsi della novella come di un genere elegantemente didascalico e moralizzatore: il che, sembra inutile dirlo, era davvero insospettato agli autori della generazione del Firenzuola. Il luogo migliore, per osservare modi e termini di questo impegnativo e non univoco rilancio della novella, è certamente Venezia, in quanto i narratori che vi sono attivi subito dopo il 1548, e non oltre il 1552, ebbero il coraggio di dare alle stampe una serie quasi simultanea di opere che segnano, nell'insieme, la fine del tentativo di riscrivere il Decameron.in edizione aggiornata: vogliamo riferirci, nell'ordine, ai Diporti di Girolamo Parabosco (1550), alle Piacevoli notti di Giovan Francesco Straparola (1550-1553), ai Vari componimenti di Ortensio Landò (1552) e alle Dodici giornate di Silvan Cattaneo (1553). A dire il vero, l'ultimo di questi e il meno noto, il Cattaneo, non riuscì a vedere stampato il suo volume in quella Venezia che ai suoi occhi appariva «non solamente teatro della bella Italia, ma piazza e albergo di tutto l'universo, e dove gl'ingegni, i giudizi e l'eloquenza sono nel maggior colmo che per addietro giammai fossero»; ma si trattò, forse, degli effetti di un'improvvisa defezione del suo mecenate, che nulla toglie alla persuasione dell'autore di avere compiuto opera degna, come le altre citate, dell'eccezionale fervore della cultura veneziana in questo periodo. E poiché abbiamo cominciato col Cattaneo, quello che colpisce in lui è lo sforzo di uscire fuori dall'aurea prigione del Decameron. di cui teoricamente considera tuttora praticabile solo la zona occupata dalla decima giornata e dalle sue vicende di liberalità e di magnificenza; nella prassi, poi, questa considerazione è ancora più restrittiva del previsto, perché comporta l'ampliarsi a dismisura dello spazio riservato alla cornice, nella misura in cui non è tanto in gioco la ricerca di speciali contenuti narrativi, bensì l'affermazione di valori morali (liberalità e magnificenza appunto) che meglio si esprimono in una descrizione di vita sociale d'élite. Più che una serie di novelle, difatti, le Dodici giornate, come il Cattaneo precisa meglio nel proemio, vogliono essere soprattutto il resoconto di una vacanza lungo le rive del Garda: vacanza che ha per protagonisti un conte di qualche rinomanza e un gruppo d'universitari padovani, temporaneamente allontanatisi dai loro studi e disposti, oltreché a visitare i luoghi della contrada più ragguardevoli per bellezze naturali, ad intavolare di giorno in giorno «onesti e onorati ragionamenti», «non intricando, né confondendo il ragionare l'uno all'altro, ma da discretissimi e saggi filosofi li termini della onestà non trapassando, né anco parole in disonor altrui... velenosamente dicendo, ma gentilmente e con modestia, istorie, favole, burle, novelle e altri, a nostri pari convenevoli, giuochi e piacevoli passatempi raccontando». Non inganni l'apparente dilatazione delle possibilità narrative che c'è in queste parole: da un lato, difatti, essa comporta sì il ricupero di una tradizione orale e sociale del racconto, ma nei suoi aspetti più consunti (l'unica favola dell'intero volume deriva integralmente da Gellio); d'altro lato subordina ogni modulo di racconto al tema dei «ragionamenti» tenuti dai personaggi della cornice, di cui il racconto costituisce un intervallo o un esempio. Ma dal momento che, a loro volta, i «ragionamenti» costituiscono la manifestazione orale delle qualità etiche e sociali dei personaggi assunti nella cornice, ecco che il Cattaneo può dirsi l'autore di un rigoroso tentativo di smontare dall'interno il congegno del Decameron. attribuendo ad una delle sue componenti una funzione prevaricatrice nei confronti dell'altra. E inoltre: poiché la cornice, cosi potenziata, è capace e forse necessita di contatti più aggressivi con le cose di quelli ivi previsti dal Boccaccio (per cui, dicevamo, la cornice era il progetto di fondazione della nuova realtà), il Cattaneo non ha imbarazzo alcuno nel fornire ad essa uno sfondo paesistico assai dettagliato topograficamente, nell'inserirvi persone non fittizie e nell'ambientarvi delle discussioni che la trattatistica del secolo aveva reso familiari (basti pensare a quella riportata sul comportamento delle donne nei conviti, che pare nascere in margine ad alcuni degli imperativi rivolti alla «donna di palazzo» dal Castiglione nel terzo libro del Cortegiano, ai capitoli V-VI). In circostanze siffatte riesce persino difficile isolare e distinguere la cornice nelle Dodici giornate, se non a patto di lasciarsi confondere dalle apparenze e scambiare certi passatempi dei protagonisti, quale ad esempio la recita di versi da loro composti, come indicativi di un boccaccismo perenne, mentre siamo di fronte ai frantumi di un edificio ormai distrutto e ai residui d'un rituale dissacrato, per l'irruzione massiccia di problemi quotidiani e contingenti d'una regione e d'una classe sociale ben delimitate nello spazio e nel tempo. Nemmeno stupisce, allora, che l'edizione postuma dell'opera apparisse due secoli dopo sotto forma di Baedeker, col titolo di Salò e sua riviera: conseguenza di un abbaglio del curatore, ovviamente, ma non del tutto immotivato, se il medesimo Cattaneo, nella dedicatoria dell'opera, non si peritava persino di affermare che aveva voluto mandare al suo patrono «il lago con tutte le sue più famose e lodate contrade, e insieme anco li ragionamenti avuti... in questi felicissimi luoghi» (il corsivo è nostro). Ragionevole è pure, in questo tributo reso ai tempi, che il Cattaneo, come si è già intravisto dalla dichiarazione sui limiti di decenza dei «ragionamenti» tenuti nelle Dodici giornate, ostenti forti preoccupazioni moralistiche, che sono pienamente conformi ai nuovi tempi: mai egli si lascia sorprendere mentre sostiene comportamenti che suonino ad approvazione delle virtù boccacciane più fortunate nella narrativa fra Quattro e Cinquecento, le virtù boccaccesche insomma, se ci si consente il gioco di parole. Si direbbe anzi, volendo tralasciare un esplicito cenno elogiativo ai protagonisti della decima giornata del Decameron (cenno provocatorio per la generazione precedente di novellatori, i quali avevano idoleggiato Andreuccio da Perugia e il prete da Varlungo), che il contegno dei partecipanti alle Dodici giornate non dal Boccaccio sia stato indicato, ma dal Petrarca, per una sorta di confusione sulle possibilità narrative ed edificanti della vita di messer Francesco da imputarsi in prima istanza ai suoi interpreti cinquecenteschi. E se la nostra impressione fosse ritenuta erronea, bisognerebbe almeno spiegarsi perché mai, allora, il Cattaneo introduca persino la figura del sacerdote (cavallerescamente, un «romito») a tutelare nella sesta giornata una castigatezza di argomenti e di comportamenti visibile fin dal linguaggio stesso del suo libro: linguaggio soppesato e tornito, cioè, fors'anche alla maniera reperita dal Bembo in luoghi privilegiati del Decameron. ma di certo col risultato di misconoscere dell'originale la sapiente mescidanza di stili e di tonalità, dal comico al tragico, dal popolare al sublime. Quanto alla sintassi, quella delle Dodici giornate predilige ampie costruzioni ipotattiche e non disdegna iperbati assai sostenuti, come si addice ad un'opera che ha perso respiro narrativo e che si è fatta trattato di costume, lungo un asse di scivolamento delle forme letterarie che qualcuno potrebbe già ritenere manieristico.
Né, questa del Cattaneo, deve essere archiviata come l'esperienza di un letterato di rango minore, vissuto ai confini dello stato e della cultura di Venezia, non entrato nella circolazione libraria dei suoi tempi e ricuperato agli studi solo da pochi anni, grazie alla diligenza del Caccia (se n'era scordato anche il Di Francia). Intanto il conte che governa la brigata delle Dodici giornate, Fortunato Martinengo, non è un personaggio del tutto sconosciuto alle cronache letterarie veneziane di questo periodo, se non altro perché risulta iscritto all'accademia padovana degli Infiammati; ed è questa una notizia abbastanza importante, perché ci offre un piccolo spiraglio su una produzione narrativa che non può essere considerata astrattamente, riflettendo essa qualcosa dell'indirizzo assunto dalla letteratura fra il 1540 e il 1550. Il più autorevole membro degli Infiammati, com'è risaputo, era lo Speroni, di cui qui basterà rammentare i dialoghi Delle lingue e Della rettorica, in quanto entrambi seriamente impegnati ad indicare per «questa nuova bestia di prosa volgare» le modalità per divenire «numerosa», sì da gareggiare agevolmente con quella latina. Né vale obiettare che il modello proposto dallo Speroni per tale operazione è ancora il Boccaccio del Decameron, in quanto così vasta è l'antologia delle novelle da lui suggerite come esemplari e imitabili (da quella di Cimone a quella di frate Cipolla), da non poter essere più ritenuta sulla linea delle esplicite indicazioni del Bembo a favore del proemio e della novella di Ghismonda. Un Boccaccio assai largo e generoso, dunque, quello segnalato agli scrittori volgari dallo Speroni, con un'autorità che gli proveniva in primo luogo dalla sua personalità di critico e scrittore di avanguardia (nel 1542, anno della stampa dei dialoghi citati e di altri, egli compose la celeberrima Canace), e anche, come si è detto, dall'essere esponente d'un'accademia che poteva vantare fra i suoi aderenti l'Alamanni, l'Aretino, il Ruzzante, il Piccolomini e, fra i gentiluomini, oltre al citato Martinengo, un personaggio dell'importanza di Daniel Barbaro. Alcuni di costoro, vedi caso, si ritrovano fra gli «infiniti, rari, belli e pellegrini ingegni» che nel 1544 il Betussi annoverava in un inserto del famoso dialogo d'amore II Raverta, a riprova di una convinzione diffusa tra i letterati del momento (e in parte accolta dal Cattaneo): essere, cioè, Venezia la sola città dove si può vivere dignitosamente e scrivere liberamente; e poiché il Betussi all'Aretino, allo Speroni e al Barbaro aggiunge (ma non solo) Fortunio Spira, Federico Badoaro e Domenico Veniero, i quali (ci si perdoni la digressione, non viziosa) sono tutti chiamati, con altri ancora, a comporre il circolo dei partecipanti alla cornice dei Diporti di Girolamo Parabosco, viene da sospettare che questo giovane narratore (aveva poco più di venticinque anni), veneziano di adozione, intendesse con la scelta di nomi siffatti indicare subito in quale direzione culturale voleva operare e sotto quale patronato. Le numerose ristampe che i Diporti ebbero solo nel Cinquecento testimoniano della validità della scelta del Parabosco, anche se l'ambizione di accogliere ogni schema narrativo boccacciano, secondo il suggerimento implicito dello Speroni, riduca poi la sua opera ad una delle più povere di discorso narrativo autonomo.
Da parte sua il Parabosco, probabilmente, voleva, alla pari del Cattaneo, svuotare il racconto nella cornice. Ma poiché non ebbe il coraggio di alterare formalmente il rapporto istituito dal Boccaccio fra cornice e racconto, sortì soltanto l'esito di congelare il racconto stesso, negandogli per istinto consistenza narrativa, ma nel contempo lasciandolo sopravvivere, degradato a pretesto di discorso riflessivo, tra accademico e moralistico. Le novelle dei Diporti, infatti, vengono dapprima costruite in funzione dei «dubbi» da sciogliere (in genere sul comportamento amoroso dei loro protagonisti) da parte degli autorevoli membri della cornice; nella seconda giornata, poi, la narrazione di novelle vere e proprie viene spezzata abbastanza bruscamente, e in sua vece si ha l'esposizione di una serie di «questioni» d'amore che rivelano nel Parabosco buona conoscenza della trattatistica alla Raverta; nella terza giornata, infine, il procedimento antinarrativo è completato: vi si legge solo più una novella, perché il campo della scrittura è invaso da motti, madrigali e lodi delle donne più illustri di Venezia, un materiale, cioè, che si potrebbe pensare scovato ora nel Cortegiano del Castiglione, ora nei Ritratti del Trissino, se dietro non ci fosse una discreta pratica (praticaccia, anzi) dei soggetti un tempo più cari al pubblico cortigiano e adesso spacciati a quello borghese. Spuntano, così, dietro i tratti sempre più sfocati del prestigioso autore del Cento novelle i lineamenti molto differenti che sono dello stesso quale responsabile del Filocolo, della Fiammetta e del Laberinto d'amore: di testi minori, senza dubbio, ma che non per nulla ora godono di buona fortuna presso editori e lettori, proponendo strutture pseudo-narrative (le questioni d'amore derivate dal Filocolo, ad esempio) la cui validità romanzesca e trattatistica ad un tempo era già stata felicemente saggiata. Quanto, però, questa materia sia incapace di risorgere a nuova vita senza mutare i suoi connotati, è mostrato dal luogo dei Diporti sui motti, dove la ricerca dell'«ambiguo» e dell'«ascoso», pur non allontanandosi troppo da consigli ormai scontati del Castiglione, fa appello confusamente a «maniere» di discorso imminenti nel gusto cinquecentesco, ma di sicuro non contemplate nel programma di restaurazione boccacciana firmato dal Bembo: si prepara l'avvento del concetto e dell'arguzia, insomma, attraverso l'impiego sempre più rigoroso della metafora, dell'analogia, del gioco di parole, del bisticcio etimologico, ecc. Ed era, questa, la miglior forma di collaborazione che il Parabosco potesse prestare agli Infiammati, se vale l'ipotesi del Toffanin che mediante il Tomitano, fedele discepolo dello Speroni, essi contribuirono non poco alla fondazione della nuova poetica barocca. Del resto, quando volle altrimenti evadere dal racconto, per scrivere una novella quale la IX qui riportata, autentico canovaccio di commedia, il Parabosco rivelò ad usura che tanto valeva per lui abbandonare del tutto i Diporti e passare alla stesura di testi teatrali; come per l'appunto fece, e non senza fortuna.
Le Dodici giornate del Cattaneo e i Diporti del Parabosco dimostrano che mantenere in piedi il traliccio decameroniano, dopo l'esperimento della Prima veste del Firenzuola, significa praticamente mortificare il racconto a tutto favore della cornice; e che, d'altro lato, la cornice, introiettando materiali dai trattati e dai dialoghi contemporanei di varia umanità, perde definitivamente ogni movenza narrativa, per farsi, in proprio, trattato e dialogo. La conferma di questo rischio viene addirittura per opposizione: un dialogo come quello poco sopra ricordato del Betussi, pur ragionando «di Amore e degli effetti suoi», alleggerisce più di una volta la tensione del ragionamento e della dissertazione con il riferire qualche novella, quasi a confermare, come già lasciava capire il Castiglione, l'assoluta mobilità del racconto di tipo boccacciano, la sua non appartenenza specifica ad un genere autonomo, la sua proclamata e avvenuta inserzione in una prosa di maggior impegno stilistico e culturale. E poiché a monte del processo di dissoluzione del genere-novella continua a permanere l'equivoco di non rinnegare del tutto l'insegnamento del Boccaccio, ma di aggiornarlo e ridimensionarlo per l'ennesima volta (meglio, si direbbe, per l'occasione di purgarlo), viene da pensare che, soltanto dichiarandosi esplicitamente contrari al Boccaccio, si possa riprendere fiato narrativo e fiducia nella mimesi letteraria dell'azione. Lo fa pensare, anche criticamente, l'opera di Ortensio Landò, approdato pure lui a Venezia dal Settentrione, ma dopo una peregrinazione «in partibus infidelium» che recenti ed importanti studi del Fay e del Grendler hanno scoperto ricca di avventure culturali non propriamente consigliate in questi anni d'incipiente controriformismo. Ebbene, ancora prima di fissarsi a Venezia, nel 1543, egli aveva sostenuto in uno dei suoi Paradossi (un testo tipico del suo amore per l'eresia intellettuale) «che l'opere del Boccaccio non sieno degne d'esser lette, ispezialmente le Dieci giornate»; e aveva aggiunto una motivazione di ordine stilistico che giustamente pensava dovesse suscitare «grave tumulto» e «gran furore» presso gli Infiammati, in quanto risulta cosi formulata: «apertamente si vede non esser altro [nel Boccaccio] che una certa naturale abondanza di parole, mal però tessute, l'una con l'altra avilupate, intricate, con le construzioni alle volte sì prolisse che, se non si ha più che buona lena, convienci due o tre fiate riposare, pria che finita sia la clausula, la quale termina sempre nel verbo secondo la figura latina: cosa molto disdicevole a chi vuol bene e toscanamente scrivere»; e ancora: «sono le sue narrazioni senza arte oratoria disposte, piene de vocaboli insoliti e senza giudizio alcuno, il qual poco giudizio fa similmente testimonio ch'egli, ciò che scrisse, tutto scrivesse a caso, né da se stesso sapesse distinguere quanto l'un libro dell'altro fusse migliore». Non tanto le opere latine del Boccaccio, già disapprovate dallo Speroni, ma persino le volgari cadevano, così, sotto la sferza di una penna che si dice per cautela paradossale, ma che in realtà cerca di concludere con molto buon senso la parabola di distacco, da tempo iniziata dai narratori rinascimentali, dal modello per eccellenza del loro genere. Ecco perché alle riserve di stile il Landò aggiunge, con una coerenza nemmeno intravista dal Cattaneo, soltanto sensibile ad argomenti di pruderie, le riserve morali: a sua detta il Decameron è un libro che tuttora insegnerebbe praticamente i mezzi per ottenere fini disonesti, se persino la vicenda di Ghismonda, cara al Bembo, oltre a contravvenire al precetto paolino sui doveri della vedovanza, riuscirebbe alla fine consigliera di vizio (infatti «col soffione ch'ella poi dette a Guiscardo insegnò bel modo di porger segretamente lettere a' suoi amanti, il che fu a Bologna, non è forsi un anno, da una gentil madonna appreso e leggiadramente usato»). Si direbbe che simili riserve contraddicano col ritratto biografico dell'autore, sospetto d'eresia, non potendosi nemmeno attribuirle ad un suo machiavellico disegno di mascheramento, col farsi parziale precursore dell'incombente Index librorum prohibitorum. Ma a parte il fatto che negli Antiparadossi il Landò capovolgerà completamente quanto ha appena sostenuto, è molto probabile che le tesi antiboccacciane dei Paradossi costituiscano, ad una certa distanza di anni, una mossa preliminare, per assicurarsi quella libertà d'ispirazione di cui finora mai nessuno si è valso con tanta spregiudicatezza, eccezion fatta, s'intende, per il Firenzuola. È solo una coincidenza cronologica, allora, che proprio nel 1548, anno della stampa postuma e della divulgazione delle Prose del Firenzuola, il Landò dia alla luce i Sermoni funebri… nella morte de diversi animali, di un'opera cioè che rivela un eguale trasferimento della fantasia verso il mondo della favola e dell'apologo? Probabilmente sì, anche perché i Sermoni, come denuncia il titolo, hanno struttura fortemente oratoria e perché, se polemici sono, lo sono soprattutto nei confronti del petrarchismo lirico, e non già nei riguardi della narrativa boccacciana. Nondimeno, stando anche solo al passo riprodotto, nei Sermoni si trova incapsulata una materia pronta a farsi raccontare senza bisogno di essere profilata dai lineamenti di una cornice, contenendo già in sé azione e lezione, racconto e moralità. Così pochi anni dopo, raccogliendo in una silloge di Vari componimenti quanto di raccontabile aveva a disposizione (e non vi mancano, concessione inattesa al minore gusto boccacciano dei lettori contemporanei, anche le questioni e i dubbi d'amore alla maniera del Parabosco), il Landò dà facilmente vita autonoma ai segmenti narrativi dei Sermoni; e aggiunge, di rincalzo, altre novelle, di più robusto impianto, e favole di autentica ispirazione, sebbene ancora poste formalmente sotto la tutela di Esopo. L'impressione è quella di un cauto accostamento a moduli della narrativa didattica e popolare, dagli esempi medievali di vizi puniti (si veda la novella della matrigna beffata e castigata dal figliastro, o quella dell'astrologo superato dall'asino) ai vari rimaneggiamenti e adattamenti degli Esopi volgari, seguendo le fila di un'operazione culturale, che quanto più si allontana dal Decameron. tanto più pare avvicinarsi al pulpito del predicatore e al banco del cantastorie: traiettoria, per altro, che non esaurisce l'attività del Landò, il quale ambisce pure, specialmente nelle favole, ad offrire dei campioni svariati, ma sostanzialmente omogenei, di comportamenti non «sciocchi», bensì prudenti e razionali, quali si addicono a chi, come lui, non sa rinunciare a discorrere velatamente di moralità e di religione, e non sa accontentarsi, vivendo in Venezia, di quel puro piacere di narrare che aveva affascinato il Firenzuola nel suo rifugio di Prato (in questo senso persino la bellissima sequenza di amore e di morte della novella di Piero e Gioliva è sottoposta alla lezione del titolo-argomento, che non svolge qui la solita funzione di sintesi degli avvenimenti: «nella seguente novella espressamente si vede l'amore esser cosa veramente tragica»). Animali e oggetti, perciò, molto spesso costituiscono per il Landò metafore, o anche maschere, di un dibattito ideologico che rimane tenacemente attaccato agli uomini, ai loro problemi, alle loro inquietudini.
Un atteggiamento simile, se non sfiora i «discorsi degli animali» del Firenzuola, non è nemmeno condiviso, però, da Giovan Francesco Straparola, le cui Piacevoli notti aboliscono addirittura il termine di novella per sostituirvi quello di «favola». L'operazione, a dire il vero, non è poi così rigorosa come parrebbe dall'intestazione di ogni racconto, poiché a partire dal secondo libro (che va dalla notte sesta alla decimaterza) sono propriamente novelle quelle che narra lo Straparola, o che narrano per conto di lui il Boccaccio del lontano Decameron e il Morlini delle recenti Novellae. Naturalmente questa ripresa gli è stata imputata dal Di Francia, con un'acrimonia tanto astorica quanto acritica, poiché la personalità stessa dello scrittore, sebbene sia approssimativamente tracciabile, rende ragione di simili sbandamenti. Anch'egli è veneziano di adozione e lombardo di origine, come il Cattaneo, il Parabosco e il Landò; ma a differenza di questi, più o meno legati agli Infiammati e, comunque, esponenti di una fase assai matura del bembismo veneto, lo Straparola doveva farsi perdonare un peccato di gioventù abbastanza grave: l'avere pubblicato più di quarant'anni prima delle Piacevoli notti (nel 1508 per la precisione) un canzoniere pre-bembesco, ovvero di un petrarchismo cortigiano assai male digerito. Di qui il bisogno probabile di rifarsi una verginità e di cancellare l'inopportuno pedaggio versato ad una moda superata e surclassata proprio in Venezia, mostrandosi non insensibile alla lezione del Bembo e dello Speroni. Ecco allora spiegato, innanzitutto, il lungo silenzio dello Straparola, poi il passaggio di genere letterario (dalla lirica alla novella) e infine il ricupero di più di un modulo boccacciano nell'ambito delle Piacevoli notti: subito, la dedica del volume alle donne; poi, l'imitazione di alcune novelle (quella celeberrima di ser Ciappelletto, tanto per dire); sovente, l'appropriazione di frasi e di passi interi del Decameron. del Filocolo, del Corbaccio; e alla fine, supremo atto di omaggio, l'adozione della cornice come struttura portante dei racconti; e perché sia ben chiaro che si tratta complessivamente di un atto d'ammenda, non mancano di comparire, fra i personaggi della cornice, il Bembo stesso e un suo fedele discepolo, Bernardo Cappello. Tanto dispiegamento di mezzi linguistici e costruttivi lascia il sospetto che la conversione dello Straparola al boccaccismo cinquecentesco sia più ostentata che sentita; certo è una conversione che non impedisce allo Straparola tanto di riprendere idiotismi veneti quanto d'inserire nella notte quinta due novelle interamente redatte in dialetto pavano e bergamasco, non troppo distanti da quel teatro dialettale del Ruzzante che lo Speroni aveva approvato. E in effetti è, questa dell'attenzione al dialetto, spia di libertà espressiva, la medesima che l'autore rivendica con ben maggiore sottigliezza e impegno persino là dove il suo boccaccismo ci è sembrato più vistoso e compromettente: nella cornice, intendiamo dire, impostata da lui con una tale monotonia da irrigidire i personaggi, il paesaggio e il rituale mondano di memoria decameroniana in formule di assoluta neutralità espressiva, appena appena fatte sussultare dalla consuetudine di appiccicare ad ogni favola un enigma, non di rado osceno, ma non estraneo, come tipo d'intrattenimento intellettuale, alla società ideale descritta nel Cortegiano (lo praticarono anche il Bembo, il Doni e il Parabosco, non nei Diporti però). Conquistato in modo così poco impegnativo il margine sufficiente di rispetto della norma letteraria in auge (osserva il Bàrberi Squarotti che la cornice è «quasi il biglietto necessario» pagato dallo Straparola per «inserirsi entro il genere della novella»), le favole delle Piacevoli notti possono correre più sicuramente il rischio di attingere alla riserva di motivi della fiaba, riserva battuta finora solo ad uso di un pubblico popolare, come nel tardo Quattrocento testimonia autorevolmente l'Arienti delle Porretane, accomunando all'insegna del negativo «li lettori del fabuloso Esopo» e il «vulgo ignorante» che ama le «fabule» cavalleresche, e come ribadiranno con sfumature diverse in pieno Cinquecento Andrea Calmo e Girolamo Bargagli. Purtroppo (e lo si è già lasciato intendere) la ripresa di una tradizione orale e scritta così ricca e, in fin dei conti, rivoluzionaria, quale era allora quella della fiaba, non contraddistingue interamente le Piacevoli notti: il timore di potere essere tacciato di avere «da questo e quello ladronescamente rubbate» le favole del primo libro della sua raccolta indusse lo Straparola, quando stampò il secondo, a rubare piuttosto nel repertorio boccacciano, terreno solito di caccia dei suoi predecessori e riconosciuto, ormai, res nullius. Ma anche le favole di questo secondo libro, a ben vedere, se pure di materia non fiabesca, non rinunciano talora a conservare quel tanto d'ingenuo e di onesto che, indubbiamente, Straparola aveva assorbito dal mondo della fiaba e che non depositerà più. Basti pensare al racconto del tentato assassinio da parte di alcuni villani del futuro duca di Milano (IX, 3) e alla parte decisiva che vi assume, nello svelare il sanguinario proposito, «una fanciulla di anni circa cinque», ritratta con mirabile compostezza espressiva: «La fanciulla, che era amorevole, s'accostò al signore: e facevagli feste e carezze assai; ed egli all'incontro la basciava e lusingava». Ma si leggano anche le due favole, quarta e quinta, della notte decima: entrambe, sebbene paiano quasi contraddirsi (nell'una, a rovescio della scandalosa glorificazione boccacciana di ser Ciappelletto, si celebra la dannazione di un Mazzarò della Lombardia cinquecentesca, nell'altra lo sviscerato amor paterno di un Conte del Sagrato della medesima zona), si risolvono nondimeno nella franca e piena accettazione della possibilità di risarcire in extremis, per via di castigo o di conversione, le violazioni della giustizia fatte patire in terra ai poveri. Ovviamente questi sono esempi limite, scaturiti con ogni probabilità da una memoria autobiografica esulcerata (la Lombardia degli anni tempestosi successi alla caduta di Ludovico il Moro è la terra della giovinezza di Straparola). E tuttavia anche quando il secondo libro delle Piacevoli notti accoglie, per rimanere alla nostra antologia, le solite novelle sui vizi dei frati e dei sacerdoti, ne offre sovente variazioni efficaci e audaci, come dimostra in vii, 2 la struggente ritrascrizione in ambiente marinaio di due celebri storie d'amore, rimescolate e combinate : quella ovidiana di Ero e Leandro e quella boccacciana di Lisabetta da Messina. Ecco perché non è il caso d'insistere oltre un certo limite nel ricondurre la materia del secondo libro delle Piacevoli notti a quella quasi integralmente fiabesca del primo.
Ad insegnarcelo è proprio una fiaba del secondo (VIII, 4), la quale dev'essere scivolata dal primo per un puro accidente: la fiaba di Dionigi, l'apprenti sorcier che finisce per superare e sconfiggere chi nella negromanzia gli è stato maestro suo malgrado, il sarto Lattanzio. Una serie ininterrotta di metamorfosi mirabolanti in animali e in oggetti, per opera dei due protagonisti, garantisce lo sviluppo del racconto, con una ricerca del gratuito e dell'assurdo non dettata da barocca volontà di meraviglia, ma piuttosto dal calcolo intellettuale (rinascimentale?) delle possibilità che l'uomo ha per sfuggire la sorte avversa. Il premio della vittoria, in questo combattimento, comporta, com'è d'uso nelle fiabe, la mano di una bella principessa e si risolve, quindi, nell'innalzamento del grado sociale di Dionigi. Ebbene, impalcatura non diversa sostiene l'edificio narrativo di più di una delle favole della prima serie, e di talune d'analogo contenuto slittate nella seconda: fra le scelte, comunque, quelle di Pietro pazzo, di Livoretto, di Fortunio, di Guerrino, di Cesarino, di Costantino e, per passare alle eroine femminili, di Costanza e di Adamantina. Tutti i protagonisti di queste fiabe, però, non possedendo alcuna arte pari alla negromanzia, sono sulle prime abbandonati all'iniziativa malvagia dei loro persecutori (parenti, per lo più) e solo col tempo, grazie alla collaborazione di animali dotati essi di poteri magici e sensibili (i famosi aiutanti magici individuati da Propp nella Morfologia della fiaba), riescono a sottrarsi ai loro nemici, superare le terribili prove imposte loro e sposarsi alla maniera di Dionigi. Come Dionigi, inoltre, questi protagonisti delle innumeri (ma sostanzialmente ripetute) avventure del possibile sono di umile estrazione sociale; sì che la dinamica della loro vita potrebbe risolversi in quella dell'ascesa di classe. Ma, in realtà, anche le due fiabe più scoperte in questa direzione e certo tra le più belle delle Piacevoli notti, quella di Pietro pazzo (III, I) e di Adamantina (v, 2), della classe di origine dei protagonisti si valgono soprattutto per delineare con acerba delicatezza ambienti umili e domestici che raramente avevano varcato le soglie feudali o mercantili della narrativa italiana (quale poeta dell'infanzia è mai lo Straparola, in una letteratura che non conoscerà se non orfani e fanciullini!); e se mai le avevano varcate, come nel caso macroscopico di un Gentile Sermini, era solo per prestarsi al riso, se non al dileggio. Del resto, ci sono pure le fiabe di Doralice, di Biancabella e di Chiaretta a dimostrare come, anche in ambiente aristocratico, lo Straparola riesca a dimostrare quello che gli interessa, le avventure del possibile insomma; senonché, mancando nelle prime due la promozione sociale (la terza porta nel suo corpo il congegno di quelle precedenti), il meccanismo narrativo si riduce al resoconto della persecuzione patita dall'eroina, di solito per opera di un genitore naturale o acquistato, col risultato di trasformarla ben presto in una ennesima incarnazione della Griselda petrarchesca (vero prototipo della «mulier patiens» dei secoli a venire, assai più della Griselda boccacciana), se non di qualcuna delle sante celebrate in non poche sacre rappresentazioni, come già si è detto per la novella del Molza sulla figlia del re di Bertagna. In definitiva, perciò, ad evitare distorsioni sociologiche, tanto vale accettare l'insegnameno della fiaba del Re Porco, una delle più note dello Straparola, e a buon diritto: ivi gli elementi narrativi, che siamo venuti scomponendo, ricompaiono tutti sintetizzati in modo tale da rendere impossibile un discorso complessivo sulla società e sulle sue classi, poiché da bimbo si comporta anche un «porcelletto», da signore le figlie d'una povera diavola, e via di questo passo, con l'eccezione prevista di colei cui spetta l'innalzamento sociale. In questo rifiuto d'una presa di posizione ideologica e di un impegno politico (gli aggettivi sono recenti, ma la qualità che si pretenderebbe no) sta forse la ragione della natura autenticamente fiabesca dell'ispirazione dello Straparola, il quale non condivide la scorciatoia esopiana praticata dal Landò, perché non intende ridurre tosto e subito la presenza animale a metafora di quella umana. Il senso delle straordinarie possibilità del reale, che anima il discorso più originale di questo scrittore (dimenticavamo: anche nella prima serie ci sono novelle incapaci di questa avvincente tensione narrativa, come testimoniano i pur garbati esempi che hanno quali protagonisti pre' Scarpacifico e Travaglino), non mira neppure ad una lezione moralistica di effetto immediato e sperimentale; e non già per mancanza della necessaria tavola di valori, ma perché, se c'è un valore nel mondo delle Piacevoli notti, esso consiste nella non prevaricazione dell'esistenza in nome di qualsivoglia credo o dottrina. Come appare dalla stupenda fiaba dell'uomo che va in cerca della morte e trova in suo luogo la vita, «la qual gli fa vedere la paura e provare la morte», l'avventura del possibile non è affatto una quéte cavalleresca, anche quando si muove tra gli estremi confini della vita e della morte: quel che conta è sempre il fatto di preservare contro la morte l'esistere, e perciò la fiducia nella vita e l'amore di essa sono beni irrenunciabili per l'uomo. Ma non è questa una lezione che giustifica la ritrascrizione fiabesca della realtà? E in altri termini: non è solo nella finzione letteraria della fiaba che il gratuito e l'assurdo, impliciti in una simile persuasione, si possono esprimere senza il rischio di una verifica che ne mortificherebbe l'origine interiore e la necessità intellettuale? Tanto più, aggiunge il Bàrberi Squarotti, che la compagine linguistica delle Piacevoli notti, e particolarmente la sintassi (di solito paratattica, e comunque con motivato rifiuto di consequenzialità logiche e causali), collabora in misura non indifferente a mantenere questa finzione nei termini asettici e vetrosi che le sono propri, in quanto pura giustapposizione di eventi, senza altra concatenazione al di fuori di quella che germina dal prestigioso cappello del possibile. Ed ecco, allora, che ritorniamo per altra via al punto di partenza del nostro discorso, il quale contro De Sanctis potrebbe intitolarsi davvero:«della necessità della letteratura nella novellistica del Cinquecento». Ma letteratura, sia ben chiaro, non è forma: al minimo, è forma interiore.
Fuori di Venezia, nella Firenze di Cosimo de' Medici, tra Varchi e Celimi, è operoso in questi stessi anni Antonfrancesco Grazzini, noto come il Lasca. Il nom de plume gli deriva dall'appartenenza all'accademia degli Umidi, e sotto il segno di un'altra e ben più celebre accademia, quella della Crusca alla cui fondazione il Grazzini collaborò, è stata collocata dal Russo la sua attività di novellatore: sì che, se valesse questo segno, sarebbe possibile leggere le sue novelle alla stregua di un vocabolario del fiorentino allora parlato, ad inaugurazione di un'abitudine espressiva che avrà sempre larga fortuna in Toscana, da Buonarroti il giovane a Fucini, per non dire dei lontani precorrimenti di Lorenzo il Magnifico e dei poeti rusticali vissuti fra Quattro e Cinquecento. Le cose però non stanno affatto in questi termini, poiché la strada della Crusca fu appena imboccata dal Grazzini e per di più solo negli ultimi anni della sua vita, ad esperienza letteraria ormai conclusa. Già le sue rime burlesche, etichettate fra quelle di marca bernesca, ma non insensibili alla lezione più antica del Burchiello, rivelano che in lui certa oltranza lessicale mira soprattutto a distruggere ogni linguaggio che offra un'informazione selezionata e parziale del reale, soprattutto che non tenga conto dell'assurdità e della mostruosità delle cose: a distruggere, se si vuole, il linguaggio petrarchesco, così come era stato proposto dal Bembo. Un'operazione simile non è altrettanto ravvisabile nelle Cene, l'incompiuta raccolta di novelle del Grazzini, se non altro perché l'autorità del Boccaccio, «anzi di san Giovanni Boccadoro», era sempre stata assai meno contestata in Toscana di quella del Petrarca. Tuttavia, malgrado la dichiarazione, che si legge ad apertura del volume, di ossequio per il maestro indiscusso del «novellare», si assiste immediatamente allo sforzo di modificarne la lezione: alle novelle «belle», «gioconde» e «sentenziose» del Decameron il Grazzini afferma di volere sostituire, in un organismo narrativo simile, argomenti cari a «persone ingegnose, soffistiche, astratte e capricciose». E una dichiarazione di gusto, la sua, che potrebbe già definirsi manieristica (alla «maniera» dello stile vi si accompagna, persino, la supposizione della «mania» nel contegno dei narratori, e quindi dei protagonisti dei loro racconti) e che coinvolge, innanzitutto, la cornice, ricevuta dal Boccaccio quale delimitazione insostituibile di spazio narrativo, ma ora declassata dalla sua condizione originaria di progetto del mondo a «situazione normale, consueta, quasi borghese» (l'osservazione è del Bàrberi Squarotti, il quale aggiunge a conferma l'elenco dei particolari che intervengono nell'invenzione della cornice delle Cene: «la pioggia, la neve, l'inverno, un pomeriggio di festa, trascorso fra canti e musiche e letture, e appena mosso e reso più vivace da una battaglia a palle di neve»). Non meno sintomatico della rielaborazione manieristica della formula del Decameron è il proposito, espresso nella Introduzzione al novellare, di ordinare le novelle delle Cene secondo la quantità: prima le piccole, poi le mezzane e infine le grandi; quasi che la misura, e soltanto la misura, fosse il segno di distinzione nel Decameron da un motto della prima giornata alla storia romanzesca di Griselda nella decima. Non stupisce, perciò, che la ripresa più o meno scoperta di trame boccacciane si risolva, quasi sempre, in un marcato distacco dall'originale, in una forzatura di motivi ed esiti inizialmente decameroniani, ma poi, ben presto, stravolti o capovolti. Lo si avverte e constata nelle novelle dove è derisa e gabbata la superstizione religiosa (I, I0 e II, 3), per le insolite dimensioni che vi assume la sciocchezza di chi è afflitto da questa autentica distorsione mentale. Ma ci sono esempi ancora più calzanti, entrambi reperibili nella Seconda Cena, dove balza subito agli occhi che la maschera comica di Ferondo (Decameron, III, 8) è quella stessa calzata da Falananna, mentre i mascheroni tragici di Tancredi, Ghismonda e Guiscardo (Decameron, iv, I) ricoprono di nuovo Currado, Tiberia e Sergio. Ebbene, il contegno e le vicende, cui queste reincarnazioni danno sostanza, risultano estranee sia al senso comico che a quello tragico del Boccaccio, per diventare indicativi di un accanimento inventivo contro la figura e la dignità dell'uomo che, a seconda dei due generi letterari, sfiora il grottesco e raggiunge il macabro, mète ignote nella ricerca letteraria del Decameron. Il rischio dell'assurdità, in tali condizioni di tensione narrativa, non solo è contenuto, ma previsto addirittura come formula di scioglimento: la novella di Falananna si conclude difatti con l'immagine del fuoco che riesce a scorrere sulle acque, quella di Currado con la visione di due corpi mutilati che ancora si fanno i gesti dell'amore, in una contaminazione di elementi opposti (fuoco e acqua, morte e amore) che è sintomo certo di gusto manieristico.
Nel campo narrativo delle Cene si liberano, dunque, energie deformanti, se non proprio distruttive, la cui mira è la ricerca continua e insistita del trauma intellettuale, più che del prodigioso o dell'orroroso. Di conseguenza, dire che queste energie tendano al sadico, o comunque alla crudeltà, è constatazione ovvia da un lato, inutile dall'altro, se non si tiene conto che rappresentata non è dal Grazzini un'improponibile psicologia del perverso, ma piuttosto volutamente esplorato il limite realistico dell'invenzione narrativa. Confermano questa ipotesi un gruppo di novelle d'argomento dissimile, ma affini nel perseguire l'intento additato: le une descrivono gli oltraggiosi e aspri castighi riservati a pedagoghi e preti innamorati (I, 2; II, 7 e 8), le altre raccontano di terribili paure provate dai vivi dinanzi a morti, veri o fittizi (I, 7 e 9). Chi ha pratica di novelle sa che non sono argomenti ignoti alla tradizione precedente e può, persino, additare delle variazioni dei medesimi temi in questo volume (per la I, 9, ad esempio, gli è sufficiente cercare nell'antologia del Morlini e del Landò). Comunque, la reazione che vuole suscitare il Grazzini e che lo distingue dai suoi concorrenti non è mai, per tornare alla nostra proposta, quella moralistica annotata dal Manzoni dopo la lettura d'una delle novelle sul castigo inferto ad un pedagogo (I, 2): non è «birboneria», la sua, insomma, e perciò non è nemmeno quel sadismo, più o meno inconsapevole, che un lettore dell'Ottocento nascondeva ed esorcizzava sotto epiteti del genere, laddove oggi, al contrario, si tende a denunciarlo con compiacenza di esperti. Proprio il rapporto con il repertorio tradizionale di questi temi dimostra esservi un'oltranza inventiva in queste novelle, specialmente nella settima della Seconda Cena, che dà ragione tanto della brutalità dei singoli momenti delle loro vicende, quanto, e soprattutto, del fatto che la misura di questa brutalità non pare mai colma, ma rimanda sempre a qualcosa di più brutale ancora, si che il tessuto narrativo s'infittisce ulteriormente, per giustapposizione quasi meccanica di particolari, se non addirittura di episodi, destinati sempre di più a traumatizzare intellettualmente (e non moralmente) il lettore. Un identico processo governa pure le novelle di beffa delle Cene, le più note della raccolta, le quali hanno per protagonista un terzetto di burloni (lo Scheggia, il Monaco e il Pilucca) facilmente riconducibile a quello boccacciano di Maso del Saggio, Bruno e Buffalmacco, tanto più che il teatro d'azione è sempre Firenze (I, 3 ; II, 4 e 6). Eppure il fatto che il gabbato non sia più un Calandrino (l'ha osservato di recente il Bruni), ma dei cittadini, che appartengono piuttosto alla serie sociale di quanti avevano fatto le spese nelle quattrocentesche novelle anonime del Bianco Alfani e del Grasso Legnaiuolo, avrebbe dovuto rendere più cauti nell'accostamento. Al Grazzini, diversamente dal Boccaccio, interessa allestire in queste circostanze delle macchine di eventi assai più complesse di quelle del Boccaccio; e queste macchine, non tanto esaltano l'intelligenza di chi le ha escogitate, né mortificano la dabbenaggine di chi ne è stato vittima, ma assorbono in loro stesse il significato della narrazione, simbolo o cifra che dir si voglia dell'assurdità degli eventi, della continua offesa che il reale (o meglio le concatenazioni di esso) porta all'intelligenza. Non sempre, tuttavia, dalle tre beffe emerge così chiara l'intenzione dell'autore. Nel resoconto della beffa a Geri Chiaramontesi (I, 3), ad esempio, poiché lo svolgimento dei fatti è già progettato in un piano ben dettagliato dei tre burloni, l'azione non si solleva mai dal livello di esecutrice della parola, senza quell'intromissione dell'imprevisto e dello «choccante» che è fondamentale nell'universo sconvolto delle Cene (per l'opposto, per quanto vorremmo insomma, si veda il racconto di una burla analoga nel Cortegiano, II, 88). Ma nella beffa al berrettaio Gian Simone la novità della costruzione narrativa risiede proprio nei termini illustrati, anche se, dopo la scena assai felice dell'evocazione del mago, potrebbe parere prosaica quella successiva della finta citazione presso il tribunale ecclesiastico, voluta però dall'autore per controbilanciare il sospetto, che la prima poteva avere dato, di abbandono dell'invenzione ad una forma di finzione troppo sbrigliata. Occorre, insomma, mantenere i contatti con la realtà, per quanto si debba denunciarne la fondamentale assurdità. Di questa verità, di questo impegno che il Grazzini prende con se stesso e coi suoi lettori, sono pure garanti due novelle abbastanza simili nell'intreccio, sebbene di esito opposto: quelle di Fazio e di Gabriello (I, 5 e II, I), due personaggi di umile nascita e condizione che, per un caso fortuito (la morte non provocata di un ricco), riescono ad impadronirsi, senza colpo ferire, delle ricchezze di costui. Fazio è meno accorto, però, e dopo aver mutato condizione, muta anche donna, sì che la moglie lo denuncia ed egli perde la vita; in seguito, pentita del suo gesto, uccide se stessa e i suoi figliuoli, esempio di un «furore tragico» che nel preambolo della novella è sottolineato come eccezionale, perché esploso non in un «superbo palagio e sotto un dorato tetto», ma in un'«umile e bassa casa». È una constatazione che arieggia la conclusione apposta da Dioneo alla novella di Griselda e che non può violare, perciò, la distinzione boccacciana di livelli sociali e stilistici: in altri termini, non comporta la scoperta del tragico quotidiano, ma piuttosto propone la più facile (e manieristicamente ortodossa) sublimazione aristocratica del borghese. Più vicina alla nostra tesi è perciò la novella di Gabriello. Essa non rinnega certo il soccorso della letteratura (muove dal tema comico e teatrale dei «simillimi», e lo sviluppa con la bravura che è propria del teatrante: del resto il Grazzini, come è noto, ha composto più d'una commedia), ma si rivela nella costruzione narrativa capace di momenti di pausa e di stasi davvero inconsueti nelle macchine burlesche delle Cene, momenti di singolare presa sul reale. Non per nulla due lettori di palato fine, quali il Croce e l'Alberti, si sono soffermati con compiacimento sulla scena dell'annegamento di Lazzero (il sosia ricco di Gabriello), dove, effettivamente, la scrittura abituale delle Cene quasi si smemora di se stessa, del suo procedere icastico e a blocchi compatti, e si fa pigra e maliosa, quale si addice ad un luogo che è di sospensione non solo descrittiva, ma esistenziale. È questione di un attimo, d'accordo, ma c'è la rivelazione di un modo di raccontare che fuoriesce dalla novella post-boccacciana e postula strutture nuove: quelle più larghe e riposate del capitolo d'un romanzo, ad esempio.
In questa direzione l'intento programmatico del Grazzini di accrescere di Cena in Cena le dimensioni delle sue novelle comincia a svelarsi per qualcosa di più serio di quanto ci si poteva aspettare. Poco importa, al riguardo, che l'ultima delle Cene, la terza cioè, progettata tutta di novelle «grandi», sia rimasta incompiuta: si può ben dire che il Grazzini cadde sulla sua orma, perché le due novelle, che riuscì a scrivere delle dieci previste, non solo sono tra le sue cose migliori, ma la seconda (decima nella serie della giornata) è forse il più bel racconto del nostro volume. Entrambe hanno come tema quello caro al Grazzini della persuasione, per forza di astuzia e di espedienti, dell'inesistenza dell'accaduto; ma, a differenza delle novelle analoghe delle altre Cene, qui si tratta di mostrare a due personaggi che non sono affatto della stoffa di Falananna, e neppure dei turlupinati dallo Scheggia, dal Pilucca e dal Monaco, che certa sezione della loro vita, da loro vissuta e patita con particolare intensità, non può essere riverificata come reale. Nella prima, la quale ha per protagonista un vecchio libidinoso, Bartolommeo degli Avveduti, occorre un lungo antefatto, prima che egli e una sua replica minore (Marco Cimurri) vengano coinvolti in un processo di spogliazione di quanto hanno fatto e visto ad opera delle loro rispettive consorti; inoltre, nel caso di Marco, l'espediente, adottato dalla moglie per convincere il marito, ricalca abbastanza da vicino un motivo non ignoto alla tradizione (si veda, in questa sede, la novella di Teodorica fiamminga del Molza). Tuttavia, quando finalmente il filo del racconto ritorna nelle mani di Bartolommeo ed egli, per virtù di una pozione, si ritrova nelle stesse condizioni in cui era partito di casa, prima di avviarsi ad un'avventura d'amore pericolosa, ma eccitante (nel corso di essa si verificano pause stupende del tipo di queste colte qua e là senza ordine : «si levò e andossene a la finestra che erano quasi ventun'ora ... ; ed ella al solito se gli mostrava per limbicco, accennandoli e ridendoli spesso»; oppure: «Ma levatosi già la luna e battendo all'incontro in una faccia di muro bianchissima, riverberando per la finestruola, entrava lì dentro un certo chiarore bigiccio…»), il Grazzini sa dipanarlo con una levità ed eleganza davvero superbe. Così Bartolommeo è condotto ad una forma di pazzia «agevole e sollazzevole», che significa, in ultimo, fuga dal mondo cattivo. Non è conclusione da novella di beffa, in altri termini, ma quasi di romanzo alla Don Chisciotte («si parva licet...»):«fuor del mangiare e del bere, altro non faceva mai che ridere, rispondendo sempre al contrario di ogni cosa; e della moglie aveva così fatta paura, che a un volger d'occhi e a una parola sola tremar tutto lo faceva dal capo ai piedi, e sarebbe, per modo di parlare, ricoverato, non che altro, in un guscio di noce». Nell'altra novella pervenutaci della Terza Cena il filo del racconto è meno condizionato dalla suggestione di modelli precedenti (la novella di Bartolommeo dev'essere delle prime del Grazzini), perché a reggerlo tutto e sbrogliarlo sagacemente è un personaggio storicamente d'eccezione, Lorenzo il Magnifico. Tutto è possibile, perciò, e realizzabile alla sua volontà: è possibile che un medico illustre, maestro Manente, sia scomparso e creduto morto senza riconoscimenti ufficiali; che il cadavere di un altro sia scambiato per il suo; che egli, nel frattempo, si adatti a scomparire dal mondo e a vivere in una sorta di segregazione ridicola e beffarda; che dei frati si facciano partecipi di questa mascherata; che lo scomparso, al ritorno dopo non molto tempo nella sua città (Firenze ovviamente), venga più facilmente scambiato per un indemoniato che per se stesso; che accetti, infine, come giusta la sentenza del suo signore, il quale gli restituisce le sostanze e la moglie, nel frattempo risposatasi e messa incinta dal nuovo marito. I rischi del credibile sono, dunque, continuamente sfiorati; ma, a meno che la novella debba leggersi in chiave copertamente autobiografica (ed è ipotesi assai tenue: si confronti comunque la nota 5 a p. 895), la concatenazione degli avvenimenti contrari è subita dalla vittima con tale rassegnazione prima e moderazione dopo, da rendere perfettamente normale (non eccezionale né nel senso del tragico, né nel senso del comico, cioè) l'intera macchinazione. Inutile, forse, aggiungere che tale risultato è raggiunto soprattutto per levità ed eleganza di scrittura, davvero rare; ma, a conferma, ci piace riportare questo passo, che descrive come maestro Manente si fosse adattato alla segregazione dal mondo nell'eremo di Camaldoli, sino al punto di ricompensare le poche attenzioni dei frati che lo tenevano sequestrato: «Laonde il medico scorgeva quello che egli mangiava e ciò che egli faceva, tanto che, per rimeritare in parte coloro che gli facevano quel comodo, ancorché non sapesse chi egli si fossero, cantava sovente certe canzonette, che gli era solito cantare a desco molle in compagnia de' suoi beoni, e diceva qualche volta improvviso... E così in questa guisa s'andava trattenendo il meglio che egli poteva, quasi affatto perduta la speranza di aver mai più a rivedere il sole». Insomma, se nelle macchine di eventi di altre novelle delle Cene qualcuno può avere avuto l'impressione di un eccesso di materiale, non rielaborato organicamente (per quella di Falananna il Salinari ha parlato addirittura della sopravvivenza di tre azioni distinte), qui c'è una tale scorrevolezza di eventi e fluidità d'incastri, grazie all'onnipresenza quasi magica di Lorenzo il Magnifico, che le giunture non scricchiolano mai, pur restando ben visibili, così come il Decameron aveva insegnato stilisticamente e ideologicamente: grazie agli stacchi, cioè, segnati dalle congiunzioni temporali e grazie alle dichiarazioni esplicite sull'intervento improvviso della Fortuna. Con le Cene si va verso il romanzo, dicevamo forse grossamente; di sicuro, però, si va verso una modificazione della struttura del racconto, che non conveniva troppo con il processo di conservazione e di riforma di esso avviato contemporaneamente in Venezia. E di questa estraneità del Grazzini rispetto all'indirizzo più costante della novella dei suoi tempi c'è persino una riprova commerciale: le Cene, infatti, non solo non ebbero il successo, poniamo, dei Diporti, ma non furono nemmeno stampate subito. Apparvero postume due secoli dopo, quasi fossero il frutto fuori stagione di un giardino ancora di là da venire; il giardino del Don Chisciotte, ma anche del romanzo picaresco, del Candide, del Tom Jones, per dirla alla rinfusa e senza pretesa alcuna di confronti. Da allora in poi, invece, le Cene hanno conosciuto, in risarcimento del lungo oblio, una fortuna di edizioni che solo il libro del Bandello ha eguagliato.
Per il momento, del resto, in zona toscana era difficile trovare lo scrittore capace di soluzioni narrative più estreme (globalmente parlando, e non settorialmente) di quelle divulgate con la stampa postuma delle Prose del Firenzuola; e forse il Grazzini, che questa stampa ben conosceva, se al termine della seconda Cena riscrisse la novella firenzuoliana del matrimonio simulato (la prima del periodo pratese), dovette convincersi dell'inutilità di concludere un libro come il suo: libro con risultati particolari di eccezione, ma ancora impigliato in un organismo narrativo che la Prima veste aveva sciolto, annullandone i due termini fondamentali e costitutivi (cornice e racconto) l'uno nell'altro. Al Firenzuola, invece, se pure in maniera indiretta, non dovrebbe attribuirsi la mancata stampa d'un'altra opera della novellistica toscana di questo periodo: le Giornate e le Notti... delle novelle de' novizi di Pietro Fortini. L'autore, un gentiluomo senese attivo negli anni cinquanta, è da porsi quasi ai margini della storia che veniamo tracciando, per una esuberanza di contenuti narrativi che rischia di ricondurlo d'un secolo indietro, fra il conterraneo Sermini e il meridionale Masuccio. Salvando la cronologia, lo Scrivano, sulla scorta di una esatta individuazione della «particolare fortuna senese» dell'Aretino (basti citare il Piccolomini), ha proposto di agganciare il Fortini al celebre autore dei Ragionamenti (ora Sei giornate) per certa «tesa e costante esaltazione della natura, della ragione naturale e in ultima analisi degli istinti». Ma è indicazione troppo generica, perché prescinde intanto dalla volontà del Fortini, il quale annovera fra i suoi predecessori diretti Boccaccio, Masuccio, Arienti (non dichiarata, ma palese è la sua simpatia per l'Ariosto delle novelle); inoltre non tiene alcun conto, l'indicazione dello Scrivano, dell'impossibilità dello scrittore di staccarsi dal modulo decameroniano per aderire alla proposta dell'Aretino di trasferire la novella nel dialogo, riducendola ad esemplificazione di una pittura sociale e morale fortemente impegnata. Anche dalle Novelle de' novizi, insomma, non ci si può attendere che la consueta capacità di variare la lezione del Boccaccio. Come risulta dalla dedica al lettore, il Fortini mirava a venire incontro ai «poveri gioveni baccelloni», che «si vorrebbeno spesse volte trovare a veglie e amorosi ragionamenti, e di poi quando vi si truovano, toccandoli cosi a cerchio dire, come si costuma a le veglie, qualche novella o cosa che in tal luogo si conviene, pagano poi li circustanti o di calcagna o di non sapere, rimanendo ivi come statue o 'magini pieni di vergognia, mostrando parimente lo ingegno e la sufficenza loro». Un proposito quasi didascalico, dunque, il suo, in luogo di quello consolatorio autorizzato dal Proemio del Decameron. e con un mutamento di uditorio, da femminile a maschile, che invano la successiva dichiarazione cerca di minimizzare (scrive il Fortini che le donne, dopo avere finto di scartare il suo libro per ragioni morali, «secretamente ricogliendolo, in camera sole, con gran cordoglio, lo verranno tutto leggendolo»). In effetti le Novelle de' novizi formano nell'insieme una sorta di manuale ad uso di compagnie di giovani che vogliano divertirsi col soccorso della letteratura, offrendo loro soprattutto racconti e commedie che sovente contengono suggerimenti dettagliati per praticacare l'amore, ma poi anche conversari mondani di sottile eleganza, ingegnosi giochi di società, descrizioni di lussuosi banchetti e di ambientazioni naturali e domestiche di alto prestigio. Nelle Giornate tale intento non altera troppo vistosamente il rapporto fra la cornice e le novelle a vantaggio della prima, ma nelle Notti restringe davvero di molto lo spazio riservato al racconto; di qui il rilievo inconsueto che assume nelle Notti la cornice, la quale, sebbene sia declassata alle funzioni del galateo di una brigata che parla col Petrarca sulla bocca e pensa col Boccaccio nella mente, riacquista tuttavia, unico esempio nel Cinquecento, il privilegio decameroniano di offrire un progetto, se non di società, almeno di vita sociale.
Gli è che a monte delle Novelle de' novizi vi è un avvenimento storico, la dissoluzione dello stato senese culminata nella guerra contro Spagnoli e Fiorentini del 1552-1555, certamente incapace di provocare quello scatto di fiducia in un nuovo ordine delle cose testimoniato dal Boccaccio dopo la peste del 1348, ma in grado tuttavia di rendere consapevole il Fortini della necessità di evadere dalle peggiori conseguenze di questa dissoluzione: la violenza bellica, l'occupazione degli stranieri, il sovvertimento delle classi. E che questo sia il trauma, cui gli esponenti della cornice devono ovviare con la pratica dimostrazione della possibilità di creare quasi ex nihilo una vita di eleganza e di piacere, è scoperto dal permanere nelle novelle stesse di più di un'eco della situazione della Siena contemporanea, a partire dagli avvenimenti legati al pontificato di Clemente VII in poi. Frequentemente il Fortini inizia a narrare con precisi riferimenti storici alla sua città e alla sua contrada: e non perché voglia così garantire il margine di credibilità della sua parola, o perché desideri di trarre insegnamento dall'accaduto (erano motivazioni, queste, valide piuttosto per un Molza o per un Da Porto), quanto perché intende sollevare ben presto il lettore dalla disgrazia del reale alla gioia della finzione, sì da goderla con maggiore intensità. Si coglie assai bene questo movimento di riscatto nel racconto della beffa di una prostituta senese a due soldati (uno spagnolo, l'altro napoletano), dipinti veramente con tutto l'odio che può destare l'invasore (del gusto esclusivo della parodia dei loro linguaggi, quale stava informando negl'Ingannati o nell'Amor costante del Piccolomini la rappresentazione comica dello «spagnolo», c'è ben poco nella novella del Fortini). Ma altrettanto visibile è la redenzione della storia nella novella XXXVII, sempre delle Giornate, dove uno stupro di guerra si trasforma quasi subito in un grassoccio e inverosimile episodio di lussuria muliebre, i cui effetti permangono anche nella conclusione della vicenda, sebbene vi si affaccino alla ribalta i contadini vittime della guerra stessa. E per passare alle Notti, basterà leggervi la novella XVII: qui il tema abbastanza logoro del marito iracondo e crudele, beffato dalla moglie, è accolto perché dovrebbe far dimenticare la situazione di arbitrio e di paura in cui vivono i protagonisti e gli abitanti di una piccola contea del territorio senese, per opera d'un signorotto sanguinario. Al racconto perciò, e al racconto assolutamente rispettoso della tradizione letteraria, è affidata la fuga dai tempi che lo scrittore avverte di dover promuovere: come nella storia presente non c'è più scappatoia o salvezza, così nella pura e semplice cronaca dei fatti non ci sarebbe pace o consolazione. Conferma efficace e avvincente di questa tesi è il capolavoro del Fortini, la novella del pittore Pachiarotto, dove egli rifiuta prestigio conoscitivo e suggestione narrativa alla cronaca. Infatti, la fallita congiura democratica dei Bardotti, accaduta ai tempi del governo in Siena del duca d'Amalfi, è ridimensionata con tale accanimento di classe (il Fortini ridicolizza i tentativi rivoluzionari dei plebei così come un secolo prima il Sermini aveva fatto con quelli sospettati nei villani), che la portata storica dell'evento, il quale vedeva per la prima volta accomunati popolani e intellettuali contro nobili e borghesi, è sminuita al livello della rappresentazione comica del terrore provato dal Pachiarotto di essere preso e giustiziato come partecipe della congiura. Tema, questo del terrore, di lunga e saggiata vitalità (dal Sacchetti a Masuccio, dal Morlini al Grazzini), ma qui impiegato senza nessuna fenomenologia realistica, a dimostrare la prevaricazione della letteratura sulla storia e sulla vita, e in questo caso (assai raro nella novellistica rinascimentale) sulla politica, come aspetto della vita e della storia.
C'è solo più da chiedersi, allora, se anche il sesso, la cui vasta fenomenologia valse al Fortini molta fama presso i lettori delle bibliotechine galanti dei secoli scorsi, non soggiaccia alla medesima redenzione letteraria patita dalla storia nelle Novelle de' novizi. Stando alla novella vii delle Giornate, una sorta di lubrica pastorelleria, si direbbe di sì, tanto evidente è il godimento intellettuale del Fortini di riversare in un'atmosfera d'antico idillio bucolico le velleità d'un moderno voyeur. Ma la novella a questa precedente, se pure riprende l'argomento tradizionale del maestro che insegna allo scolaro, renitente, ad amare e poi si accorge, al termine delle sue lezioni, che questi si è innamorato di sua moglie, dimostra un autentico interesse del Fortini per il problema del formarsi della passione amorosa, senza che alcun presupposto libidinoso vi sia dato per scontato, in quanto attende di verificarsi durante il racconto: in particolare, la lenta maturazione del sentimento erotico e poi la sua scoperta rivelano nello scrittore vivo interesse per l'arricchimento psicologico dei suoi personaggi, se pure la loro costruzione in progress sia governata da un'elementare legge di contrapposizione fra sicurezza e delusione, fra giovinezza e vecchiezza. Anche quando il processo di manifestazione e trionfo dell'eros è fortemente accorciato, come capita nella novella delle Notti intitolata El nuovo messia, il Fortini dota l'impianto del racconto d'un motivo di contrapposizione, ma meno frequente, perché i due amanti sono l'uno cattolico e l'altra ebrea; ed è dotazione così suggestiva che la sezione migliore della novella è costituita proprio dalla pittura dell'ambiente ebreo, tuttora in attesa del Messia, e che, naturalmente, si presta alla medesima deformazione sofferta dalla congrega dei Bardotti. Così impegno ideologico, sempre orientato in senso conservatore, e rappresentazione erotica possono accordarsi nelle Novelle de' novizi, in un equilibrio non troppo distante da quello che vi regola i rapporti e gli scambi fra la letteratura e la vita.
1 Giova a questo punto segnalare che nel li tomo gli autori antologizzati sono i seguenti: Matteo Bandello, Giovan Battista Giraldi (Cinzio), Giovanni Forteguerri, Cristoforo Armeno, Niccolò Franco, Alvise Pasqualigo, Sebastiano Erizzo, Niccolò Granucci, Girolamo e Scipione Bargagli, Lorenzo Selva, Ascanio de' Mori, Tommaso Costo e Celio Malespini.