Novità giurisprudenziali in tema di prove
Continua incessante la giurisprudenza garantista della Corte europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Sulla scia di un filone giurisprudenziale ormai consolidato, la Corte europea ha riconosciuto la violazione dell’art. 6, co. 1 e 3, lett. d), CEDU, essendosi la condanna del ricorrente basata principalmente sulle dichiarazioni predibattimentali rese da un teste mai comparso in dibattimento, senza che le autorità si fossero attivate per assicurarne la presenza in udienza. I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che al ricorrente sia mancata un’occasione adeguata e sufficiente per controinterrogare il testimone, né che siano state adottate contromisure idonee a bilanciare il pregiudizio al diritto di difesa del ricorrente1.
Al contrario, la Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza del ricorso, in rapporto all’art. 6, co.1 e 3, lett. d), CEDU, con particolare riferimento all’esercizio del diritto alla prova, in relazione ad un caso riguardante la lamentata non assunzione di testimonianze a discarico non determinanti ai fini della decisione, in virtù della mancata comparizione dei soggetti citati per rendere la propria deposizione, gi« in precedenza sentiti nel corso delle indagini preliminari2.
Il diritto al contraddittorio nella formazione della prova è oggetto pure della pronuncia con cui la Corte europea ha accertato la violazione dell’art. 6, co. 1 e 3, lett. d), CEDU, per avere le autorità azerbaigiane proceduto alla perquisizione del giardino del ricorrente, in assenza dello stesso e del suo difensore; senza peraltro mai dare alla difesa un’occasione per visionare le videoriprese delle operazioni. Sotto un diverso aspetto, la Corte ha ravvisato pure la violazione dello stesso art. 6, poiché la condanna del ricorrente si è basata in modo decisivo sulle dichiarazioni predibattimentali rese da un teste sottrattosi all’escussione dibattimentale sulla scorta di pretese gravi condizioni di salute, non documentate né verificate dai giudici nazionali3.
Ancora per quanto riguarda l’art. 6, co. 1 e 3, lett. d), CEDU, è innovativa la pronuncia con cui la Corte europea afferma che l’assenza ingiustificata del testimone d’accusa viola di per sé il diritto al confronto dell’accusato, risultando irrilevante che le dichiarazioni dei testimoni assenti, seppur aventi un peso considerevole, non abbiano costituito la prova unica o determinante su cui si basò la condanna: considerato che come regola generale i testimoni devono deporre in dibattimento, l’autorità giudiziaria ha il dovere di compiere ogni ragionevole sforzo per assicurare la loro presenza, potendosi procedere alla lettura delle dichiarazioni del testimone assente solo qualora ricorrano valide ragioni. Nel caso di specie accadde invece che, disposto il rinvio a giudizio per i reati di sequestro e sfruttamento della prostituzione, il dibattimento venne rinviato molte volte per permettere la comparizione dei testimoni di accusa; tuttavia, le autorità riuscirono a garantire la presenza dibattimentale soltanto di alcuni di essi. Il processo si concluse con la condanna del ricorrente, basata anche sulle dichiarazioni predibattimentali rese dai testimoni non comparsi in udienza. Il ricorrente ha dedotto che il proprio procedimento non sarebbe stato “equo , non avendo potuto esaminare tutti i testimoni a carico e, a tal riguardo, la Corte europea rammenta che, prima ancora di valutare il peso decisivo o determinante delle dichiarazioni rese da un testimone assente, occorre verificare l’esistenza di valide ragioni che giustifichino la sua assenza, dovendosi ritenere violata l’equità processuale laddove risulti immotivata la mancata comparizione del testimone. Più precisamente, le autorità devono porre in essere tutte le misure ragionevolmente esigibili per garantire la presenza dibattimentale del testimone. Nel caso in esame, poiché tale diligenza da parte delle autorità è mancata, la Corte di Strasburgo ha ritenuto violato l’art. 6, co.1 e 3, lett. d), CEDU, risultando irrilevante che le dichiarazioni dei testimoni assenti, seppur aventi un peso considerevole, non abbiano costituito la prova unica o determinante su cui si è basata la condanna4.
Al contrario la Corte europea ha escluso la violazione dell’art. 6, co. 1 e 3, lett. d), CEDU, nonostante l’impiego, nel primo procedimento, di dichiarazioni rilasciate in fase di indagini da un testimone deceduto prima del dibattimento e, nel secondo giudizio, di dichiarazioni rese dalla vittima, troppo spaventata per testimoniare in aula, ritenendo che le autorità avevano adeguatamente controbilanciato il pregiudizio del diritto di difesa dei ricorrenti. Anzitutto le dichiarazioni rese dal teste del primo giudizio erano corroborate dalle dichiarazioni rese dagli stessi imputati e da prove scientifiche; in secondo luogo, la difesa aveva potuto introdurre tutti gli argomenti a proprio favore e, infine, la giuria era stata avvisata della particolare attenzione da riservare alla valutazione delle dichiarazioni rese dal teste deceduto. Quanto al secondo giudizio, lo stato di timore del teste è stato debitamente valutato e le autorità hanno cercato in ogni modo di assicurarne la presenza in udienza, ed anche in questo caso le dichiarazioni rese dal testimone erano corroborate da altre prove. Pertanto, le cautele apprestate dalle autorità inglesi sono state ritenute tali da escludere la violazione dell’art. 6, co. 1 e 3, lett. d), CEDU5.
Con riguardo al diritto di difesa, la Corte europea ha riconosciuto la violazione dell’art. 6, co. 3, lett. c) e d), CEDU, per essere stato il ricorrente condannato sulla base di una fase istruttoria condotta da un giudice diverso da quello che ha pronunciato la sentenza. L’istruzione, infatti, era stata condotta dalla Corte di cassazione, competente per materia in virtù dello status di parlamentare del ricorrente. Una volta conclusosi il mandato parlamentare, gli atti del procedimento furono trasmessi al tribunale ordinario di primo grado, il quale emise la sentenza, senza procedere a una rinnovazione istruttoria, nonostante le plurime richieste del ricorrente. Lo stesso vizio ha afflitto pure la sentenza d’appello, basatasi del pari sulle prove raccolte dal primo giudice6.
I giudici di Strasburgo, invece, hanno escluso la violazione dell’art. 6, co. 1 e 3, lett. c), CEDU, poiché sebbene l’accesso dei ricorrenti all’assistenza di un difensore fosse stato posticipato, il ritardo risultò conforme alla legislazione inglese anti terrorismo. I primi tre ricorrenti, infatti, erano accusati di far parte del gruppo terroristico responsabile degli attentati di Londra del luglio 2005 e la polizia si è trovata ad agire in costanza di una minaccia particolarmente grave e imminente per la sicurezza pubblica. Quanto al quarto ricorrente, inizialmente sentito come testimone, una volta avuto accesso all’assistenza del difensore scelse di non ritrattare le sue precedenti dichiarazioni. La Corte ha ritenuto che anche in sede dibattimentale le autorità bilanciarono adeguatamente il pregiudizio difensivo perché il giudice valutò attentamente l’ammissibilità delle dichiarazioni rese dai ricorrenti senza l’assistenza del difensore e comunque informò debitamente la giuria. Ai fini della decisione, poi, le dichiarazioni furono corroborate da altre prove7.
Interessante anche la pronuncia sul caso del ricorrente, interrogato dalla polizia come testimone, che confessò l’omicidio della moglie, confessione reiterata in successivi interrogatori, anche in presenza del proprio difensore di fiducia. Ma nell’interrogatorio successivo alla nomina di un nuovo difensore, il ricorrente ritrattò la confessione, dichiarando che era stata estorta con i maltrattamenti subiti da parte della polizia; e, in effetti, una perizia medica confermò la presenza di ferite e segni sul corpo del ricorrente. Tuttavia il processo si concluse con la condanna del ricorrente. La Corte europea ha accertato la violazione dell’art. 3 CEDU, sia per i maltrattamenti subiti dal ricorrente (tali da configurare atti di tortura) sia per l’assenza di un’indagine effettiva (non avendo le autorità competenti compiuto tutti gli sforzi ragionevoli per stabilire l’origine di tali maltrattamenti), ma anche dell’art. 6, co. 1, CEDU per l’impiego probatorio delle dichiarazioni confessorie ottenute tramite tortura, a prescindere dal loro peso ai fini della condanna8.
La Corte europea per la prima volta è stata chiamata a valutare se, e in quali termini, il giornalista che si avvalga di telecamere nascoste nell’ambito di un reportage volto a fornire informazioni su un tema di interesse pubblico goda delle garanzie discendenti dall’art. 10 CEDU. Nel caso di specie, i giudici europei hanno ritenuto prevalente il diritto di libertà d’espressione dei giornalisti sul diritto al rispetto della vita privata della persona filmata, con conseguente violazione dell’art. 10 CEDU in relazione alle condanne penali inflitte ai ricorrenti9.
La Grande Camera della C. giust., con sentenza 8.4.2014, interpellata in via pregiudiziale, ex art. 267 TFUE, dall’Alta Corte irlandese e dalla Corte costituzionale austriaca, ha dichiarato invalida la direttiva 2006/24/CE sulla conservazione dei dati, in rapporto agli artt. 7 (rispetto della vita privata e della vita familiare), 8 (protezione dei dati di carattere personale) e 52 (in particolare, il principio di proporzionalità) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
La Corte ha affermato che la direttiva 2006/24/CE comporta un’ingerenza di vasta portata e di particolare gravità nei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale, non limitata allo stretto necessario. La Grande Camera ritiene che il legislatore dell’Unione, con l’adozione della direttiva sulla conservazione dei dati, abbia ecceduto i limiti imposti dal rispetto del principio di proporzionalità. A tale riguardo, la Corte osserva che, in considerazione, da un lato, dell’importante ruolo svolto dalla protezione dei dati personali nei confronti del diritto fondamentale al rispetto della vita privata e, dall’altro, della portata e della gravità dell’ingerenza in tale diritto che la direttiva comporta, il potere discrezionale del legislatore dell’Unione risulta ridotto e che occorre quindi procedere a un controllo rigoroso. Anche se la conservazione dei dati imposta dalla direttiva può essere considerata idonea a raggiungere l’obiettivo perseguito dalla medesima, l’ingerenza vasta e particolarmente grave di tale direttiva nei diritti fondamentali in parola non è sufficientemente regolamentata in modo da essere effettivamente limitata allo stretto necessario. In primo luogo, infatti, la direttiva trova applicazione generalizzata all’insieme degli individui, dei mezzi di comunicazione elettronica e dei dati relativi al traffico, senza che venga operata alcuna differenziazione, limitazione o eccezione in ragione dell’obiettivo della lotta contro i reati gravi. In secondo luogo, la direttiva non prevede alcun criterio oggettivo che consenta di garantire che le autorità nazionali competenti abbiano accesso ai dati e possano utilizzarli solamente per prevenire, accertare e perseguire penalmente reati che possano essere considerati, tenuto conto della portata e della gravita dell’ingerenza nei diritti fondamentali summenzionati, sufficientemente gravi da giustificare una simile ingerenza. Al contrario, la direttiva si limita a fare generico rinvio ai reati gravi definiti da ciascuno Stato membro nella propria legislazione nazionale. Inoltre, la direttiva non stabilisce i presupposti materiali e procedurali che consentono alle autorità nazionali competenti di avere accesso ai dati e di farne successivo uso. L’accesso ai dati, in particolare, non è subordinato al previo controllo di un giudice o di un ente amministrativo indipendente. In terzo luogo, quanto alla durata della conservazione dei dati, la direttiva impone che essa non sia inferiore a sei mesi, senza operare distinzioni tra le categorie di dati a seconda delle persone interessate o dell’eventuale utilità dei dati rispetto all’obiettivo perseguito. Inoltre, tale durata è compresa tra un minimo di sei ed un massimo di ventiquattro mesi, senza che la direttiva precisi i criteri oggettivi in base ai quali la durata della conservazione deve essere determinata, in modo da garantire la sua limitazione allo stretto necessario. La Corte constata peraltro che la direttiva non prevede garanzie sufficienti ad assicurare una protezione efficace dei dati contro i rischi di abusi e contro qualsiasi accesso e utilizzo illeciti dei dati. Essa rileva, tra l’altro, che la direttiva autorizza i fornitori di servizi a tenere conto di considerazioni economiche in sede di determinazione del livello di sicurezza da applicare (in particolare per quanto riguarda i costi di attuazione delle misure di sicurezza) e non garantisce la distruzione irreversibile dei dati al termine della loro durata di conservazione. La Corte censura, infine, il fatto che la direttiva non impone che i dati siano conservati sul territorio dell’Unione. La direttiva non garantisce, quindi, il pieno controllo da parte di un’autorità indipendente del rispetto delle esigenze di protezione e di sicurezza, com’è invece espressamente richiesto dalla Carta. orbene, un controllo siffatto, compiuto sulla base del diritto dell’Unione, costituisce un elemento essenziale del rispetto della protezione delle persone con riferimento al trattamento dei dati personali10. va detto che tale sentenza non è immediatamente operante nell’ordinamento interno, giacché le sentenze della Corte di giustizia UE incidono soltanto sugli atti dell’Unione, a norma dell’art. 267 TFUE. Tuttavia essa rappresenta un autorevole invito al legislatore europeo ad indicare, tra le “garanzie minime , la necessità di prevedere categorie di reati e un previo controllo effettuato da un giudice. Poiché la legge italiana (art. 132 d.lgs. 30.6.2003 n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali (cd. “codice della privacy”) non indica alcuna garanzia, tale assenza giustifica un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE per accertare se la normativa interna è conforme al diritto dell’Unione, oppure una questione di legittimità costituzionale, anche se nel momento in cui i tabulati furono acquisiti, secondo la legge interna in vigore, l’acquisizione era apparentemente legittima. Ma è giurisprudenza pacifica che il principio tempus regit actum deve essere riferito al momento della decisione e non a quello dell’acquisizione11, per cui l’utilizzabilità o inutilizzabilità della prova si valuta al momento della decisione, e non in riferimento a quello dell’acquisizione.
Importante la pronuncia con cui le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato il principio per cui la nullità conseguente al mancato avvertimento al conducente di un veicolo, da sottoporre all’esame alcoolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, in violazione dell’art. 114 disp. att. c.p.p., può essere tempestivamente dedotta, a norma del combinato disposto degli artt. 180 e 182, co. 2, secondo periodo, c.p.p., fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado12.
Le Sezioni Unite hanno affermato un altro rilevante principio, secondo cui in sede di esame dibattimentale ai sensi dell’art. 210, co. 6, c.p.p., di imputato di reato connesso ex art. 12, co. 1, lett. c), c.p.p., o collegato ex art. 371, co. 2, lett. b), c.p.p., l’avvertimento di cui all’art. 64, co. 3, lett. c), deve essere dato non solo se il soggetto non ha reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato (come testualmente prevede il sesto comma dell’art. 210), ma anche se egli abbia gi« deposto erga alios senza aver ricevuto tale avvertimento, precisando che dal mancato avvertimento consegue l’inutilizzabilità della deposizione testimoniale13.
Fondamentale, in tema di intercettazioni di comunicazioni o conversazioni, è la pronuncia delle Sezioni Unite che, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, ha affermato che la conversazione o comunicazione intercettata costituisce corpo del reato unitamente al supporto che la contiene, in quanto tale utilizzabile nel processo penale, solo allorché essa stessa integri ed esaurisca la condotta criminosa. I contenuti non comunicativi di intercettazioni legittimamente autorizzate sono utilizzabili quale mezzo di prova atipico ex art. 189 c.p.p., non trovando applicazione in tal caso la disciplina in materia di intercettazioni di cui agli artt. 266 ss. c.p.p. (in applicazione di tale principio, la Corte, relativamente ad intercettazioni legittimamente autorizzate ed eseguite all’interno di un’autovettura di servizio dei Carabinieri, ha ritenuto utilizzabile, nell’ambito di altro procedimento, la registrazione del rumore del motore fuori giri, sullo sfondo dei dialoghi captati, ritenuti, invece, inutilizzabili, per il divieto di cui all’art. 270, co. 1, c.p.p.)14.
Le Sezioni Unite hanno affermato anche il principio per il quale al fine di disporre il sequestro conservativo, è necessario e sufficiente che vi sia il fondato motivo di ritenere che manchino le garanzie del credito; vale a dire che il patrimonio del debitore sia attualmente insufficiente per l’adempimento delle obbligazioni di cui all’art. 316, commi 1 e 2, c.p.p.15.
Infine, le Sezioni Unite, pur ammettendo la possibilità di sequestrare siti web, hanno negato l’ammissibilità del sequestro preventivo quando si tratti di una testata giornalistica on line, sempreché si tratti di una pubblicazione obiettivamente assimilabile alla stampa. Secondo il principio enunciato dalle Sezioni Unite, ove ricorrano i presupposti del fumus commissi delicti e del periculum in mora, è ammissibile, nel rispetto del principio di proporzionalità, il sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. di un sito web o di una singola pagina telematica, anche imponendo al fornitore dei relativi servizi di attivarsi per rendere inaccessibile il sito o la specifica risorsa telematica incriminata. Tuttavia, concentrando l’analisi sulle testate giornalistiche che operino anche (o solo) sul web, la Corte ha identificato la protezione di matrice costituzionale tipica della stampa, osservando, in primo luogo, che la testata giornalistica telematica, in quanto assimilabile funzionalmente a quella tradizionale, rientra nel concetto ampio di “stampa e soggiace alla normativa, di rango costituzionale e di livello ordinario, che disciplina l’attività d’informazione professionale diretta al pubblico. Ciò detto, ne consegue che il giornale on line, al pari di quello cartaceo, non può essere oggetto di sequestro preventivo, eccettuati i casi tassativamente previsti dalla legge, tra i quali non è compreso il reato di diffamazione a mezzo stampa.16
In materia di acquisizione della posta elettronica (cd. email), sono significative di un orientamento giurisprudenziale diffuso alcune pronunce delle sezioni semplici della Corte Suprema di cassazione.
Premesso che, in base ai principi generali, il sequestro della mail avviene non in tempo reale rispetto all’invio e ricezione della comunicazione, ma successivamente ed è un atto a sorpresa ma palese e garantito, quando, invece, la captazione avviene contemporaneamente alla trasmissione del messaggio deve operare la disciplina delle intercettazioni. Pertanto, deve provvedersi al sequestro solo in relazione alla corrispondenza telematica che sia stata immessa nei sistemi di comunicazione e sia custodita presso il fornitore di servizi, definito service provider, mentre l’art. 266 bis c.p.p. trova applicazione laddove si intenda captare il flusso delle comunicazioni telematiche in partenza o in arrivo su un certo account.
Un primo problema riguarda la qualificazione giuridica delle operazioni di estrazione di copia dei dati informatici dall’elaboratore in sequestro e l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità afferma che l’acquisizione dei dati digitali, quindi anche della posta elettronica, mediante l’estrazione di copia dei file dall’elaboratore elettronico deve essere ricondotta nell’ambito delle ordinarie attività investigative svolte dalla polizia giudiziaria, quali rilievi, accertamenti urgenti, perquisizioni, ispezioni e sequestri. In effetti, la Corte di cassazione esclude che l’attività di estrazione di un file costituisca atto irripetibile, dato che non comporta alcuna attività di carattere valutativo su base tecnico-scientifica, né determina alcuna alterazione dello stato delle cose, tale da recare un pregiudizio alla genuinità del contributo conoscitivo in prospettiva dibattimentale ed essendo assicurata, in ogni caso, la riconducibilità di informazioni identiche a quelle contenute nell’originale. Si afferma, infatti, che l’estrazione dei dati archiviati in un computer non d« luogo ad accertamento tecnico irripetibile, trattandosi di operazione meramente meccanica, riproducibile per un numero indefinito di volte, come si desume, del resto, dalla disciplina introdotta dalla l. 18.3.2008, n. 4817.
Altro filone giurisprudenziale significativo, in materia di sequestro di mail, ha rilevato che l’art. 254, co. 1, c.p.p., facoltizza l’autorità giudiziaria a procedere presso chi fornisce servizi postali, telegrafici, telematici o di telecomunicazioni al sequestro degli oggetti di corrispondenza inoltrati per via telematica, quando vi sia il fondato timore di ritenere che essi siano stati spediti dall’imputato o siano a lui diretti o che, comunque, abbiano una relazione con il reato. Al pari di quanto accade con la corrispondenza tradizionale, inoltre, quando al sequestro procede un ufficiale di polizia giudiziaria, questi deve consegnare all’autorità giudiziaria la digital evidence senza aprirla o alterarla ovvero senza prenderne altrimenti conoscenza. Il successivo art. 254 bis c.p.p. (aggiunto dall’art. 8, co. 5, l. n. 48/2008) precisa inoltre che l’autorità giudiziaria, quando dispone il sequestro dei dati informatici detenuti dai fornitori di servizi informatici, telematici o di telecomunicazioni, può stabilire per esigenze legate alla regolare fornitura dei servizi medesimi, che la loro acquisizione avvenga mediante copia di essi su adeguato supporto, con una procedura che assicuri la conformità dei dati acquisiti a quelli originali e la loro immodificabilità. In questo caso è, comunque, ordinato al fornitore dei servizi di conservare e proteggere adeguatamente i dati originali. La disciplina ècompletata dall’artt. 353, co. 3, c.p.p., dedicato all’acquisizione della corrispondenza tradizionale (così come modificato dall’interpolazione dell’art. 9, co. 2, lett. a), l. n. 48/2008), che stabilisce che in attesa del provvedimento di sequestro del pubblico ministero, gli ufficiali di polizia giudiziaria ordinano a chi è preposto al servizio postale, telegrafico, telematico o di telecomunicazione di sospendere l’inoltro degli oggetti di corrispondenza in forma elettronica, ad esempio un plico contenente un floppy disk, o inviati per via telematica. In quest’ultimo caso nonostante la velocità di trasmissione dei dati all’interno della rete Internet la polizia giudiziaria èautorizzata a effettuare un fermo posta delle e-mail, per cui siano registrate necessità di acquisizioni. Al quesito se l’estrazione di copia del dato informatico comporti una perdurante perdita di un diritto sul personal computer oggetto delle operazioni di estrazione dei file, la Corte di cassazione risponde che, a norma dell’art. 258 c.p.p., la restituzione degli atti originali, cartacei o digitali, previa estrazione di copie, comporti il venir meno del sequestro solo laddove permanga una perdita valutabile per il titolare del bene originale. Perdita che deve essere considerata sul piano di un diritto sostanziale e non deve invece essere considerata quanto al semplice interesse a che la data cosa non faccia parte del materiale probatorio18.
Passando a diverso tema, deve registrarsi come pronuncia eccentrica ed assolutamente improponibile, perché irrispettosa delle finalità tipiche del mezzo di ricerca della prova, oltre che del diritto di proprietà, quella che ammette che il sequestro probatorio possa avere, invece che una finalità di acquisizione del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, anche uno scopo meramente esplorativo. La Corte, infatti, esordisce ritenendo che abbia carattere prevalentemente retorico la distinzione tra finalità esplorativa e di acquisizione , precisando che l’ablazione a fini di prova di cose pertinenti al reato può avvenire sulla base di risultanze investigative la cui consistenza muta a seconda dello stato, embrionale o avanzato, delle indagini preliminari, con la conseguenza che, nel primo caso, il sequestro probatorio può essere disposto anche solo per effettuare approfondimenti istruttori, che trovano in quella sufficiente perimetrazione (cioè l’imputazione ancorché provvisoria) la fonte dei limiti di legittimità dell’azione cautelare reale19.
Merita invece plauso, in quanto rispettosa della libertà di stampa, la sentenza che, con riferimento ad atti di perquisizione e sequestro di computer in uso ad un giornalista, ritiene violato il principio di proporzionalità ed adeguatezza, applicabile anche ai vincoli reali, nel caso di sequestro indiscriminato di un sistema informatico a fini probatori che conduca, senza che ve ne sia specifica ragione, all’apprensione dell’intero contenuto delle informazioni20.
Inserita in un filone giurisprudenziale che si sta consolidando, ma in aperta violazione di legge, è la pronuncia secondo cui la registrazione di conversazioni effettuata da un privato su impulso della polizia giudiziaria (ed anche, eventualmente, mediante apparati di captazione messigli a disposizione dalla stessa polizia giudiziaria) non costituisce una forma di documentazione dei contenuti del dialogo, ma una vera e propria attività investigativa che comprime il diritto alla segretezza con finalità di accertamento processuale. L’indicata limitazione del diritto alla segretezza delle comunicazioni e la richiamata finalità investigativa delle registrazioni impongono l’intervento di un provvedimento dell’autorità giudiziaria; tuttavia, essendo state effettuate col pieno consenso di uno dei partecipi alla conversazione, implicano un minor grado di intrusione nella sfera privata rispetto alla intercettazione ovvero alla captazione dei colloqui che intercorrono tra persone inconsapevoli, con la conseguenza che è sufficiente un livello di garanzia minore che può essere assicurato da un decreto del pubblico ministero reso in forma scritta, con conseguente ostensione e fruibilità processuale della motivazione. Pertanto sono ritenuti inutilizzabili i contenuti probatori delle registrazioni effettuate dall’offeso su sollecitazione della polizia giudiziaria, sulla base della sola autorizzazione orale del pubblico ministero21. Si tratta di inammissibile affermazione, anzitutto, perché creativa di una norma giuridica, per giunta in violazione del valore costituzionale della segretezza delle comunicazioni dell’ignaro interlocutore intercettato, il cui diritto alla segretezza è pari a quello dell’interlocutore consenziente. Ed infatti in altre pronunce si afferma che, nell’ipotesi in cui si proceda ad intercettazione di conversazioni tra presenti ad opera della polizia giudiziaria è sempre necessaria l’autorizzazione del giudice anche se uno degli interlocutori ne è consapevole, in quanto la sua rinuncia alla riservatezza non rende lecita l’intercettazione ad opera di un terzo che è rimasto estraneo al colloquio22.
Dopo l’importante pronuncia della Corte costituzionale 10.10.2008, n. 336, che dichiarò l’incostituzionalità dell’art. 268, co. 4, c.p.p., nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni delle conversazioni o comunicazioni intercettate e utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate, la Corte di cassazione, con un orientamento ormai consolidato ma riduttivo della portata della pronuncia della Consulta, afferma che è vero che la richiesta del difensore di ottenere le registrazioni delle intercettazioni determina l’obbligo per il p.m. di provvedere in tempo utile a consentire l’esercizio del diritto di difesa nel procedimento incidentale de liberate; ma aggiunge che, al fine di porre il p.m. in grado di adempiere a tale obbligo, è altrettanto necessario che la richiesta del difensore venga tempestivamente proposta rispetto alle cadenze temporali indicate dalle norme processuali23.
1 C. eur. dir. uomo, 4.12.2014, Valeryevich Kazakov c. Russia.
2 C. eur. dir. uomo, 13.1. 2015, Dumitrescu c. Romania.
3 C. eur. dir. uomo, 18.12. 2014, Efendyev c. Azerbaijan.
4 C. eur. dir. uomo, 10.2. 2015, Colac c. Romania.
5 C. eur. dir. uomo, 16.12. 2014, Horncastle e altri c. Regno Unito.
6 C. eur. dir. uomo, 2.12. 2014, Cutean c. Romania.
7 C. eur. dir. uomo, 16.12. 2014, Ibrahim e altri c. Regno Unito.
8 C. eur. dir. uomo, 19.2. 2015, Zhyzitskyy c. Ucraina.
9 C. eur. dir. uomo, 10.2.2015, Haldimann e altri c. Svizzera.
10 C. giust., Grande Camera, 8.4.2014, C-293/12 e C594/12, Digital Rights Ireland Ltd c. Minister for Communications, Marine and Natural Resources e altri e Kärntner Landesregierung.
11 Cass., S.U., 25.2.1998, n. 4265, Gerina; Cass., S.U.13.7.1998, n. 10086, Citaristi; Cass., S.U. 9.2.2004, n. 5052, Zalagaitis.
12 Cass., S.U., 29.1. 2015, n. 5396, PG in proc. Bianchi.
13 Cass., S.U., 26.3. 2015, n.33583, Lo Presti.
14 Cass., S.U., 26.6.2014, n.32697, Floris.
15 Cass., S.U., 25.9.2014, n. 51660, Zambito.
16 Cass., S.U., 29.1.2015, n. 31022, Fazzo.
17 Cass. pen., sez. II, 1.7.2015, n. 29061, PC in proc. Artegiani.
18 Cass. pen., sez. vI, 24.2. 2015, n. 24617, Rizzo.
19 Cass.pen., sez. vI, 22.1.2015, n. 3187, Boselli.
20 Cass. pen. n. 24617/2015.
21 Cass. pen., sez. II, 20.3.2015, n. 19158, Pitzulu.
22 Cass. pen., sez. vI, 25.9.2014, n. 39771, Ferraioli.
23 Cass. pen., sez. Iv, 28.5.2015, n. 24866, Palma.