Novità giurisprudenziali sull’art. 18 st. lav.
Le sentenze di maggiore interesse che sono recentemente intervenute in tema di definizione del perimetro applicativo dell’apparato rimediale delineato nei co. 4 e 5 dell’art. 18 st. lav. sembrano convergere, seppure attraverso percorsi argomentativi ed approdi applicativi diversi, verso il principio che la tutela reale costituisca ormai, nell’impianto del novellato testo normativo, un’ipotesi relativamente eccezionale, concedibile solo in presenza di violazioni particolarmente gravi, dovendosi altrimenti applicare, nella generalità dei casi, quella meramente obbligatoria, nella sua declinazione della cd. tutela indennitaria forte.
Il testo dell’art. 18 st. lav., come novellato dalla l. 28.6.2012, n. 92 (cd. riforma Fornero), da più di un lustro sta fornendo agli interpreti inesauribili argomenti di confronto e spunti di riflessione. Il dibattito sulle numerose questioni esegetiche poste dal nuovo testo normativo è stato via via arricchito da numerosi interventi giurisprudenziali, dapprima dei giudici di merito e poi anche della Corte di cassazione, che si sono dovuti cimentare, in particolare, con le complesse problematiche relative alla definizione del composito sistema sanzionatorio delineato dal legislatore del 2012. Quest’ultimo, come è noto, ha sostituito il preesistente apparato rimediale – che al licenziamento illegittimo, qualunque ne fosse la causa, faceva seguire un’unica forma di tutela, costituita dalla reintegra nel posto di lavoro, accompagnata dall’integrale risarcimento del danno subito per la perdita delle retribuzioni fino alla ricostituzione del rapporto – con un sistema molto più variegato, articolato sulla scomposizione del sistema rimediale in ben quattro diverse tipologie di tutela. Nell’attuale sistema normativo, infatti, la tutela reintegratoria cd. piena (quella, cioè, che era prevista dal “vecchio” art. 18) risulta limitata ad ipotesi tendenzialmente residuali e più gravi di nullità del licenziamento (primi nuovi tre commi), mentre per le altre ipotesi di illegittimità il legislatore della riforma ha previsto – in via gradata, a seconda della gravità del vizio – tutele decrescenti, che vanno da quella reintegratoria “attenuata”, perché limitata nell’indennità risarcitoria ad un massimo di 12 mensilità (quarto comma), a quella indennitaria “forte” da 12 a 24 mensilità (quinto comma), per finire a quella indennitaria “limitata” da 6 a 12 mensilità (sesto comma). Il problema principale che si pone nell’esegesi della disposizione è quello di definire esattamente le ipotesi (cioè le tipologie di vizi dai quali l’atto di recesso può essere affetto) alle quali possa essere ricollegata l’una o l’altra forma di tutela ivi delineata, soprattutto con riferimento alle due fattispecie intermedie previste dai co. 4 e 5, nella cui linea di confine sta evidentemente il passaggio più delicato e rilevante, dalla tutela reale a quella meramente obbligatoria. Problema aggravato dalla circostanza che il legislatore ha utilizzato concetti (soprattutto quelli della «insussistenza del fatto contestato» e della «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo») di difficile interpretazione e non del tutto omogenei con altre espressioni utilizzate nel medesimo testo normativo.
Non potendosi affrontare in maniera approfondita l’ampio dibattito che si è acceso sui temi testé accennati, nella breve rassegna che segue si cercherà quantomeno di dare conto degli orientamenti giurisprudenziali maggiormente rilevanti che si sono profilati negli ultimi mesi sul sistema delle tutele contenuto nel testo novellato dell’art. 18 st. lav1.
Per quanto attiene al licenziamento disciplinare, una recentissima sentenza della Corte di cassazione2 ha preso posizione sulla vexata quaestio relativa all’interpretazione della locuzione «insussistenza del fatto contestato», contenuta nell’art. 18, co. 5, aderendo alla tesi meno restrittiva secondo la quale il fatto va inteso in senso giuridico, e non meramente materiale, comprendendosi così l’ipotesi del fatto sussistente, ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ultimo caso si applica la tutela reintegratoria attenuata di cui al quarto comma. La Corte nomofilattica ha osservato, in particolare, che: a) il mero fatto non ha mai un proprio autonomo rilievo nel mondo giuridico al di fuori della qualificazione che, in maniera espressa od implicita, ne fornisca una data norma; b) la giusta causa o il giustificato motivo di licenziamento sono fatti impeditivi o estintivi del diritto del dipendente di proseguire nel rapporto di lavoro, vale a dire eccezioni, e tutte le eccezioni, proprio perché tali, sono composte da un fatto (inteso in senso storico-fenomenico) e dalla sua significatività giuridica; c) ove per insussistenza del fatto contestato si intendesse quella meramente materiale si otterrebbe l’illogico effetto di riconoscere maggior tutela (quella reintegratoria) a chi abbia comunque commesso un illecito disciplinare (seppur suscettibile di mera sanzione conservativa alla stregua dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili) rispetto a chi, invece, non ne abbia commesso alcuno, avendo tenuto una condotta lecita, con conseguente irragionevole disparità di trattamento3. È interessante notare come la Suprema Corte, nel formulare il principio di diritto al quale la Corte territoriale avrebbe dovuto attenersi in sede di rinvio, abbia precisato incidentalmente, in continuità con un orientamento che si va sempre più consolidando4, che rispetto alla possibilità di applicare la tutela reintegratoria all’ipotesi di fatto sussistente, ma privo del carattere di illiceità, resti però estranea la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità. Per quanto attiene a quest’ultimo profilo, la Corte è ulteriormente intervenuta5 per chiarire come il vizio di difetto di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientri nel quarto comma dell’art. 18 solo quando questa risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili che stabiliscano per esso una sanzione conservativa, diversamente verificandosi una delle «altre ipotesi» di non ricorrenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali l’art. 18, co. 5, prevede la tutela indennitaria forte6. Sempre in tema di proporzionalità, si segnala un’altra pronuncia recente della Suprema Corte7, che ha ribadito il principio in forza del quale – nel verificare l’esistenza di una giusta causa di licenziamento – l’attività sussuntiva e valutativa del giudice non è vincolata dalle previsioni contenute nel codice disciplinare del contratto collettivo, poiché, anche quando la condotta sia astrattamente corrispondente alla fattispecie ivi tipizzata, egli deve effettuare un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo. La Corte precisa, tuttavia, che la scala valoriale recepita dal codice disciplinare deve comunque costituire uno dei parametri cui il giudice di merito deve fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. e che il risultato di tale valutazione può essere sottoposto all’esame di legittimità sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale. In un’altra ordinanza, quasi coeva alla precedente8, la Corte ha ribadito che la giusta causa di licenziamento è nozione legale e che l’elencazione delle giuste cause di recesso contenuta nel CCNL di categoria ha carattere meramente esemplificativo, sicché il giudice non ne è vincolato, potendo sempre effettuare il vaglio di compatibilità con l’inderogabile principio di proporzionalità sancito dall’art. 2106 c.c. e con il modello legale di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di cui all’art. 2119 c.c. e agli artt. 1 e 3 della l. 15.7.1966, n. 604. Più in particolare, secondo la Corte, il giudice può – a seconda dei casi – estendere il catalogo contrattuale delle cause giustificatrici oltre i meri esempi del CCNL (se si tratti di condotte comunque costituenti un grave inadempimento o una grave violazione della comune etica o del comune vivere civile che abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore) ovvero ridurlo (se, tra le esemplificazioni contrattuali, ve ne siano talune non rispondenti a tale modello legale in considerazione delle circostanze concrete che hanno caratterizzato la condotta illecita). Al contrario, condotte pur astrattamente suscettibili di integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo ai sensi di legge non possono rientrare nel relativo novero ove l’autonomia collettiva le abbia espressamente escluse, prevedendo per esse sanzioni meramente conservative, atteso che le norme sul concetto di giusta causa o giustificato motivo soggettivo e sulla proporzionalità della sanzione sono pur sempre derogabili in melius. Al riguardo ricordiamo che il novellato co. 4 dell’art. 18 st. lav. ha posto un rilevante limite all’attività ermeneutica del giudice, prevedendo l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata nel caso in cui accerti che il fatto, pur sussistente, rientri tra le condotte che i codici disciplinari puniscono con la sola sanzione conservativa. Nel recente panorama giurisprudenziale relativo al licenziamento per giusta causa la fattispecie più rilevante (e commentata) che è stata scrutinata è quella relativa alle conseguenze derivanti dall’illegittimità del licenziamento disciplinare per l’ingiustificato ritardo nella contestazione dell’addebito. Sul punto, come è noto, si erano venuti nel tempo a delineare due contrapposti orientamenti interpretativi: uno che negava il carattere sostanziale del vizio derivante dalla ingiustificata intempestività della contestazione, con conseguente applicazione della mera tutela indennitaria, ed un altro secondo il quale il rispetto del principio di immediatezza della contestazione costituisce un elemento costitutivo del potere di recesso datoriale, evidenziando peraltro che anche sul piano testuale la nozione di fatto contestato (la cui insussistenza comporta la reintegra) non può che riferirsi al fatto contestato regolarmente ai sensi dell’art. 7, st. lav., di talché la violazione di quel principio consente l’applicazione della tutela reale9. Il contrasto interpretativo ad aprile 2017 è stato sottoposto al giudizio delle Sezioni Unite10, le quali, proprio negli ultimi giorni di quell’anno, hanno preso posizione nel senso che la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare per tardività della contestazione comporta l’applicazione della tutela indennitaria forte prevista dal novellato art. 18, co. 5, st. lav.11. La Corte nomofilattica esclude innanzitutto la possibilità di applicare alla fattispecie la tutela reale piena prevista dai primi tre commi dell’art. 18, sia perché l’ipotesi in esame non è contemplata tra le possibili cause di nullità o inefficacia espressamente previste dal primo comma, sia perché si è in presenza di un vizio che si concretizza in una forma di inadempimento della parte datoriale ai generali doveri di correttezza e buona fede nei rapporti obbligatori che attiene propriamente alla fase successiva ed attuativa della comunicazione del provvedimento espulsivo, costituendo quindi un vizio funzionale e non genetico della fattispecie sanzionatoria. Le Sezioni Unite escludono, poi, che si possa applicare la tutela reale attenuata prevista dal quarto comma dell’art. 18, trattandosi, nella specie, di una ipotesi in cui il fatto posto a base dell’addebito era stato accertato prima che lo stesso venisse contestato (seppur con notevole ritardo), non ricorrendo, pertanto, gli estremi della mancanza di giusta causa per insussistenza del fatto contestato. Di contro, i giudici di legittimità escludono anche che il mancato rispetto del principio di immediatezza della contestazione si risolva in un mero vizio di natura procedimentale (come tale sanzionabile con la tutela indennitaria limitata prevista dal sesto comma dell’art. 18), a meno che il termine della contestazione disciplinare non sia previsto dal CCNL o dalla stessa legge. Osserva, infatti, la Suprema Corte che il principio di immediatezza garantisce il ben più rilevante diritto del lavoratore a svolgere una difesa effettiva, sottraendolo al rischio di un arbitrario differimento dell’inizio del procedimento disciplinare, soddisfacendo l’esigenza di impedire che l’indugio del datore possa avere effetti intimidatori e tutelando al contempo l’affidamento che il dipendente deve poter fare sulla rinuncia dello stesso datore di lavoro a sanzionare una mancanza disciplinare allorquando questi manifesti, attraverso la propria inerzia protratta nel tempo, un comportamento in tal senso concludente. Quindi, l’eccessiva ed ingiustificata tardività della contestazione è sanzionabile con la tutela indennitaria forte prevista dal quinto comma dell’art. 18 in quanto l’inadempimento posto a base del licenziamento sussiste, e dunque giustificherebbe in astratto il licenziamento, ma il datore di lavoro viola i canoni di correttezza e buona fede che devono comunque presiedere alla esecuzione del rapporto di lavoro, non facendo precedere il provvedimento da una tempestiva contestazione disciplinare del fatto addebitato.
È interessante sottolineare, inoltre, come le Sezioni Unite abbiano affermato il principio più generale, secondo il quale la tutela indennitaria forte ha, per volere del legislatore, una valenza di carattere generale e quindi – par di capire – debba essere applicata in ogni ipotesi di mancanza di giustificato motivo o giusta causa che non sia riconducibile ad uno degli altri tre regimi sanzionatori previsti dall’art. 18.
Per quanto riguarda il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la Corte di cassazione ha avuto modo, innanzitutto, di dare continuità, con plurimi interventi12, al più recente, ed ampiamente commentato, orientamento interpretativo che individua la ragione economica giustificatrice del recesso datoriale ex art. 3, l. n. 604/1966 nell’effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa, a prescindere dalla ricorrenza di situazioni economiche sfavorevoli o di crisi aziendali13. È stato altresì precisato che la modifica della struttura organizzativa che legittima l’irrogazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo può essere colta sia nella esternalizzazione a terzi dell’attività a cui è addetto il lavoratore licenziato, sia nella soppressione della funzione cui il lavoratore è adibito, sia nella ripartizione delle mansioni di questi tra più dipendenti già in forza, sia nella innovazione tecnologica che rende superfluo l’apporto del lavoratore, sia, ancora, nel perseguimento della migliore efficienza gestionale o produttiva o dell’incremento della redditività. Restano fermi, da una parte, la non sindacabilità dei profili di congruità ed opportunità delle scelte datoriali, ma, dall’altra, il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall’imprenditore a giustificazione del recesso, nonché sul nesso causale tra l’accertata ragione e l’intimato licenziamento. Un significativo arresto della Corte di cassazione si è registrato di recente per quanto attiene alle conseguenze della illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo viziato della violazione dell’obbligo di repêchage. Il problema si pone perché, come ben noto, a seguito della riforma Fornero sono stati introdotti due regimi di tutela applicabili al licenziamento privo di giustificato motivo oggettivo: quella reintegratoria attenuata, limitata ai casi di «manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento»; e quella indennitaria forte, per le altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo. Onde subito dopo la riformulazione del testo normativo si è posta la delicata questione se il mancato adempimento dell’obbligo di repêchage determini, oppure no, un’ipotesi di «manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento», che appunto giustifichi la tutela reintegratoria. Dopo un’iniziale apertura, la giurisprudenza di merito si è in espressa prevalentemente in senso negativo14, ritenendo che l’obbligo di ricollocazione del lavoratore costituisca un elemento esterno al fatto la cui manifesta insussistenza comporta la tutela reintegratoria, sicché quest’ultima dovrebbe essere ricollegata alla sola ipotesi di inesistenza dei motivi economici invocati in sede di licenziamento, mentre ogni valutazione relativa al rispetto del repêchage e dei criteri di scelta rientrerebbe nelle altre ipotesi di licenziamento privo di giustificato motivo oggettivo sanzionabili con la sola tutela obbligatoria. Sul tema è però intervenuta una recente pronuncia della Corte di cassazione15, per affermare che, al contrario, anche in questo caso il giudice di merito può optare per la tutela reale. La Corte di legittimità ha infatti affermato che il riferimento legislativo alla «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» (che va ricondotto ad una evidente e, sul piano probatorio, facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso) deve essere inteso con riferimento ad entrambi i presupposti di legittimità della fattispecie, e dunque anche a quello della impossibilità di repêchage; sicché, ove il giudice ritenga evidente la carenza di uno degli elementi costitutivi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, può ordinare sia la reintegrazione nel posto di lavoro che il risarcimento del danno.
Ad avviso della Corte, infatti, egli deve scegliere il regime sanzionatorio più adeguato al caso di specie sulla base del criterio di ragionevolezza desumibile dai principi generali dell’ordinamento in materia di risarcimento del danno; sicché dovrà optare – nonostante l’accertata manifesta insussistenza di uno dei due requisiti costitutivi del licenziamento – per la tutela indennitaria, ove accerti che il ripristino del rapporto di lavoro risulti, rispetto alla struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa, eccessivamente oneroso. È interessante notare che nel caso esaminato dalla sentenza in commento la Corte distrettuale aveva riscontrato l’inadempimento datoriale all’obbligo di repêchage a causa di una insufficienza probatoria in ordine alla insussistenza di posti ove potesse essere utilmente collocato il lavoratore ed aveva poi optato per il regime indennitario, non ritenendo compreso nel «fatto posto a base del licenziamento» il requisito dell’impossibilità di repêchage. La Suprema Corte, pur ritenendo giustificata l’opzione a favore del regime indennitario in considerazione della accertata insufficienza probatoria concernente l’adempimento dell’obbligo di repêchage, ha modificato la motivazione della sentenza impugnata, precisando che il riferimento normativo al fatto deve intendersi rivolto alla nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo, così come elaborata dalla giurisprudenza, che incorpora anche il requisito dell’impossibilità di ricollocazione del lavoratore. Dopo la sentenza della Corte di cassazione, anche la giurisprudenza di merito sembra essersi allineata all’opzione esegetica secondo la quale l’impossibilità di ricollocazione del lavoratore costituisca un elemento del fatto la cui manifesta insussistenza può dare luogo alla tutela reale16. E va al riguardo segnalato un altro recente arresto della Suprema Corte17, nel quale i giudici di legittimità hanno ribadito che, a mente del co. 7 dell’art. 18 st. lav., il giudice, tra tutte le «ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi» del giustificato motivo oggettivo, può attribuire la tutela reintegratoria attenuata esclusivamente nel caso in cui il «fatto posto a base del licenziamento» non solo non sussista, ma anche a condizione che detta insussistenza sia manifesta; onde non pare dubitabile che l’intenzione del legislatore sia quella di riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da eccezione alla regola della tutela indennitaria in materia di licenziamento individuale per motivi economici18. Sebbene costituisca propriamente una fattispecie autonoma di licenziamento, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo, il recesso per superamento del periodo di comporto (cioè per il protrarsi di assenze per malattia oltre un determinato limite stabilito dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità) viene tradizionalmente assimilato dalla giurisprudenza a quello per giustificato motivo oggettivo. Se ne sono da poco occupate le Sezioni Unite19, per affermare che il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, co. 2, c.c. e non (come aveva invece affermato la Corte distrettuale) semplicemente inefficace fino a quando tale periodo non si consumi. La Corte ha osservato che ammettere come valido (sebbene momentaneamente inefficace) il licenziamento intimato ancor prima che le assenze del lavoratore abbiano esaurito il periodo massimo di comporto significherebbe consentire un licenziamento che, all’atto della sua intimazione, è ancora sprovvisto di giusta causa o giustificato motivo, finendo per aggirare la ratio del secondo comma dell’art. 2110, che è quella di garantire al lavoratore un ragionevole arco temporale di assenza per malattia od infortunio senza per ciò solo perdere l’occupazione. Né rileva che il superamento del periodo di comporto si potrebbe realizzare successivamente, atteso che i requisiti di validità del negozio vanno valutati al momento in cui viene posto in essere e non già in quello della produzione degli effetti20.
La Corte costituzionale21 si è da poco occupata della natura giuridica dell’indennità risarcitoria sostitutiva che, a mente del quarto comma dell’art. 18 st. lav., il datore di lavoro deve corrispondere in caso di inottemperanza all’ordine di reintegra del lavoratore ingiustamente licenziato. La questione, come vedremo tra poco, risulta rilevante soprattutto nell’ipotesi in cui la sentenza dichiarativa della inefficacia o invalidità del licenziamento venga successivamente riformata. Il Tribunale di Trento, che aveva sollevato la questione di legittimità, assumeva che, per effetto dell’accertamento dell’illegittimità del licenziamento e della conseguente condanna del datore di lavoro alla riassunzione del lavoratore, vi sarebbe un ripristino del rapporto lavorativo con il correlato diritto del lavoratore a percepire il trattamento retributivo spettante, e ciò anche quando il datore di lavoro non adempia all’obbligo di riammissione in servizio, realizzando così una situazione di mora accipiendi. Per il rimettente, infatti, alla effettiva utilizzazione delle energie lavorative del dipendente andrebbe equiparata la mera utilizzabilità di esse conseguente alla disponibilità del lavoratore a riprendere servizio. Quindi, secondo il giudice a quo, la qualificazione legislativa delle somme in questione in termini risarcitori contrasterebbe con l’art. 3, co. 1, Cost., poiché determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra il datore di lavoro che ottemperi all’ordine di reintegra e quello viceversa inadempiente rispetto a tale ordine che si limiti a versare l’indennità sostitutiva. Infatti, mentre la qualifica dell’indennità in termini risarcitori ne determinerebbe la ripetibilità in caso di successiva riforma della sentenza dichiarativa della inefficacia o invalidità del licenziamento, al contrario la sua qualificazione in termini retributivi ne determinerebbe l’irripetibilità ai sensi dell’art. 2126 c.c. La Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione, partendo dal presupposto che, se è pur vero che l’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato ripristina, sul piano giuridico, la lex contractus, ciò non è vero anche sul piano fattuale, poiché la concreta attuazione di quell’ordine non può prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro, avendo ad oggetto un facere infungibile. Ove il datore di lavoro non ottemperi all’ordine di reintegrazione, tale suo comportamento perpetua le conseguenze dannose del licenziamento illegittimo, da cui propriamente deriva un’obbligazione risarcitoria del danno stesso nei confronti del dipendente non reintegrato. Quindi, ad avviso della Corte, l’indennità prevista dalla disposizione censurata risulta coerentemente connessa ad una condotta contra ius del datore di lavoro, e non ad una prestazione di attività lavorativa effettivamente resa dal dipendente. Osserva ulteriormente la Corte che la diversità di trattamento esistente, in punto di ripetibilità delle somme corrisposte, tra il datore di lavoro che medio tempore adempia all’ordine di reintegrazione del dipendente e quello che – «scommettendo» sulla riforma della sentenza di annullamento del licenziamento – viceversa non vi ottemperi, limitandosi a corrispondere al lavoratore l’indennità risarcitoria, non risulta affatto irragionevole, trattandosi di situazioni non omogenee: il datore di lavoro ottemperante all’ordine del giudice ottiene, infatti, quale corrispettivo dell’esborso retributivo, una controprestazione lavorativa, che manca invece al datore di lavoro inadempiente22. A proposito della riforma in appello della sentenza che abbia dichiarato l’illegittimità del licenziamento, ordinando la reintegra nel posto di lavoro, si segnalano due interessanti pronunce di legittimità risalenti ai primi mesi del 2017. Nella prima23, la Suprema Corte ha dato continuità all’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’ordine di reintegra del giudice funge da veicolo per la riaffermazione (provvisoria) del vincolo ex contractu,e non per la instaurazione di un nuovo vincolo ex sententia. Quindi, l’obbligazione di reintegrare il lavoratore trova il suo fondamento nella giuridica continuità del rapporto sostanziale, non interrotto dal licenziamento illegittimo. Coerentemente, secondo la Corte, la declaratoria in appello della legittimità del licenziamento originario comporta la riacquistata idoneità del licenziamento dichiarato illegittimo a produrre il proprio effetto, consistente nella definitiva cessazione del rapporto di lavoro, sicché la successiva estromissione del lavoratore dall’azienda non richiede un nuovo ed autonomo atto di recesso, ma deriva semplicemente dal legittimo rifiuto del datore di continuare ad adempiere all’obbligo di reintegra derivante dal comando giudiziale i cui effetti sono ormai caducati. Con la seconda sentenza24, la Cassazione si è occupata di un caso piuttosto particolare: un lavoratore, che era stato (provvisoriamente) riammesso in servizio a seguito di declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli, in pendenza di quel processo era stato nuovamente licenziato per autonome ragioni disciplinari ed aveva impugnato anche questo secondo atto di recesso; nelle more del secondo procedimento, il primo licenziamento era stato però ritenuto legittimo in sede di impugnazione. La Corte ha confermato il principio di diritto secondo il quale la riforma della sentenza di primo grado che aveva ordinato la reintegrazione del lavoratore restituisce a quel primo licenziamento la sua piena efficacia estintiva del rapporto, rendendo non più necessaria una decisione sul secondo licenziamento, con la conseguenza che il processo a quest’ultimo relativo deve essere definito con sentenza di cessazione della materia del contendere. Una segnalazione merita un arresto della Cassazione (già più sopra citato in tema di rapporto tra valutazione della proporzionalità della sanzione espulsiva e previsioni della contrattazione collettiva)25, secondo il quale, qualora il lavoratore contesti la giusta causa del provvedimento espulsivo, il giudice deve procedere anche d’ufficio all’accertamento della fattispecie anche sotto il profilo della proporzionalità della sanzione, tenendo presente che l’allegazione di circostanze atte a dimostrare la carenza del potere disciplinare costituisce una mera argomentazione difensiva che non configura una diversa causa petendi, potendo essere sviluppata per la prima volta anche in sede di gravame. Va infine dato conto che le Sezioni Unite26 hanno recentemente preso posizione sul contrasto giurisprudenziale formatosi, in tema di licenziamento del socio lavoratore di cooperativa, tra l’indirizzo secondo il quale il socio deve opporsi alla delibera di esclusione per contestare la legittimità del licenziamento, essendo in mancanza l’azione inammissibile per difetto d’interesse, e la diversa posizione che riconosce, pur a fronte dell’omessa impugnazione della delibera di esclusione, la tutela contro il licenziamento. La Corte ha anzitutto osservato che, nella specie, pur essendosi in presenza della combinazione dei due rapporti, uno di tipo associativo ed uno di tipo lavorativo, il cui collegamento necessario determina la funzione del lavoro cooperativo, nella fase estintiva tali rapporti possono essere nondimeno scissi, e mentre il socio, ancorché licenziato, può comunque partecipare alla vita e alle scelte dell’impresa, qualora cessi il rapporto associativo egli non può più prestare la propria attività lavorativa.
Su tale base, ha quindi affermato il principio di diritto in forza del quale, in caso d’impugnazione da parte del socio del solo atto di recesso, la tutela risarcitoria non è inibita dall’omessa impugnazione della contestuale delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni afferenti al rapporto di lavoro, mentre resta esclusa la tutela restitutoria.
Come si può rilevare dal rapido excursus sin qui svolto, la giurisprudenza più significativa intervenuta nell’ultimo anno ha prevalentemente ricostruito le relazioni tra la tutela reintegratoria attenuata e la tutela indennitaria forte (rispettivamente previste dal quarto e quinto comma dell’art. 18 st. lav.) in termini di rapporto regola/eccezione, conformemente alle finalità di politica del diritto che hanno animato il legislatore del 2012, che erano quelle di limitare la tutela reale alle sole ipotesi nelle quali il vizio dell’atto di recesso datoriale risulti di particolare gravità27. Le sentenze in questione, tuttavia, appaiono ben lontane dal delineare un quadro sistematico compiuto e persuasivo, e non porranno certamente fine alla discussione sul perimetro applicativo dei diversi regimi sanzionatori previsti dal riformato testo dell’art. 18. Per quanto attiene più specificamente alla questione relativa alla illegittimità del licenziamento disciplinare per violazione del principio di tempestività della contestazione, è sicuramente condivisibile l’affermazione delle Sezioni Unite del dicembre 2017 sulla natura sostanziale, e non meramente procedimentale, del vizio, tenuto conto che il detto principio è posto a presidio non tanto dell’interesse al corretto svolgimento del procedimento disciplinare, quanto di un interesse, appunto, sostanziale del lavoratore, qual è quello alla tutela del diritto di difesa e dell’affidamento ingenerato dall’inerzia del datore. Meno convincente è che la Corte non abbia portato alle coerenti conseguenze questo ragionamento, accogliendo la tesi più radicale secondo la quale il fatto non contestato regolarmente ai sensi dell’art. 7 st. lav. è un fatto insussistente ai fini dell’applicazione della tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, co. 4. La Corte ha invece optato per una soluzione intermedia, che valorizza la presunta natura funzionale, e non genetica, del vizio, che quindi non escluderebbe la sussistenza del fatto (seppure tardivamente) contestato. Ma la soluzione non persuade del tutto, perché configura un licenziamento che sarebbe astrattamente sorretto da una giusta causa (sussistendo la fondatezza dell’addebito), ma che verrebbe ad essere dichiarato illegittimo a causa della successiva violazione da parte del datore ai principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto; laddove, a ben vedere, la contestazione tardiva potrebbe addirittura precludere al lavoratore la possibilità di dimostrare (e, conseguentemente, al giudice di valutare) l’effettiva commissione – e dunque la sussistenza – del fatto contestato. Ancor meno convincente appare poi l’affermazione (per la verità espressa soltanto in via incidentale) secondo la quale, qualora siano le norme del contratto collettivo o della stessa legge a prevedere dei termini per la contestazione dell’addebito disciplinare, la relativa violazione subirebbe, per così dire, una sorta di mutazione genetica, per essere “attratta” nel novero delle violazioni meramente procedimentali, con conseguente applicazione della mera tutela indennitaria prevista dal sesto comma dell’art. 18. La questione, peraltro, si collega all’ulteriore affermazione delle Sezioni Unite secondo la quale l’applicabilità della tutela indennitaria forte deriva dalla circostanza che il ritardo della contestazione sia, oltre che ingiustificato, anche notevole, il che pone il problema (oltre che di stabilire quando un ritardo possa ritenersi tale) di determinare cosa accada se vi sia un ritardo apprezzabile, ma non notevole: se cioè, in questa ipotesi, non sia configurabile alcun difetto di tempestività, oppure debba applicarsi almeno la tutela indennitaria debole prevista dal sesto comma. In quest’ultimo caso si verrebbe a creare, però, un regime sanzionatorio assai sfrangiato e farraginoso: tutela reintegratoria attenuata per il caso di totale assenza della contestazione28; tutela indennitaria forte per il caso di contestazione effettuata con ritardo notevole; tutela indennitaria debole per il caso di ritardo significativo, ma non notevole, nonché per il caso di violazione del termine di contestazione stabilito dal contratto collettivo o dalla legge; nessuna tutela per il ritardo non apprezzabile o comunque giustificato dalle circostanze. Un sistema complicato e di assai difficile applicazione, che potrebbe facilmente entrare in tensione con i principi costituzionali per l’irragionevole disparità di trattamento tra situazioni analoghe che ne potrebbe derivare (basti pensare che anche in caso di violazione del termine stabilito dal contratto collettivo o dalla legge l’intempestività può essere notevole, non comprendendosi, dunque, per quale motivo essa dovrebbe essere colpita con la sola sanzione indennitaria più blanda). Per quanto attiene alla violazione dell’obbligo di repêchage, la sentenza del maggio 2018 fa un significativo passo in avanti, ammettendo la possibilità per il giudice di applicare la tutela reintegratoria attenuata. La conclusione, se non altro, appare coerente con la tradizionale ricostruzione dogmatica dell’obbligo di ricollocamento del lavoratore quale elemento essenziale e costitutivo del potere di recesso, e non come semplice onere o elemento esterno ad esso. In altre parole, anche alla luce del principio che il licenziamento economico debba costituire una extrema ratio, le esigenze produttive ed organizzative poste dal datore di lavoro alla base di esso, da valutare secondo il principio di buona fede contrattuale e nel concreto contesto del rapporto di lavoro, sussistono solo se non vi sia la possibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni, sicché l’impossibilità di ricollocamento finisce per essere un elemento coessenziale della nozione stessa di giustificato motivo oggettivo. Ciò comporta l’ulteriore conseguenza che l’inadempimento dell’obbligo di repêchage – lungi dal rappresentare la mera violazione di un limite esterno all’esercizio del potere di recesso, non incidente sulla idoneità di quest’ultimo a far cessare il rapporto di lavoro – comporta, al contrario, l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento: insussistenza che, se manifesta, ben può essere sanzionata con la tutela reintegratoria attenuata di cui al quarto comma dell’art. 18. La pronuncia in commento appare, peraltro, assai meno convincente nella parte in cui – valorizzando l’inciso contenuto nell’art. 18, co. 7 (secondo il quale il giudice «può applicare» la disciplina di cui al quarto comma anche nelle ipotesi di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo») – prende inaspettatamente posizione a favore del carattere meramente facoltativo di tale applicazione, affermando che la tutela reale possa comunque essere esclusa qualora il giudice ritenga che essa, in base ad una valutazione delle circostanze del caso concreto, risulti eccessivamente onerosa per il datore (parametro di valutazione generale che verrebbe ad essere ricavato dagli artt. 1384 e 2058 c.c.). In realtà, il ricorso al criterio dell’eccessiva onerosità appare, oltre che distonico rispetto al carattere tendenzialmente tassativo delle ipotesi di reintegra, oltremodo elastico e discrezionale, ed altresì suscettivo di determinare irragionevoli disparità di trattamento tra situazioni analoghe, anche perché la sua applicazione dipende dalla valutazione di circostanze di fatto esistenti non al momento del licenziamento ma in quello della pronuncia giudiziale. Al contrario, un’interpretazione costituzionalmente orientata che valorizzi tanto la certezza dei rapporti giuridici quanto l’effettività della tutela del diritto al lavoro consiglia di ritenere che, a fronte della manifesta insussistenza del fatto giuridico posto a base del licenziamento, il giudice sia tenuto ad applicare sempre la reintegra, non potendo la scelta della tutela essere rimessa alla sua discrezionalità29.
1 Per una più diffusa ricostruzione del dibattito dottrinale e giurisprudenziale sull’art. 18 st. lav. v. il commento che ne propone Amoriello, L., in De Luca Tamajo, R.Mazzotta, O., a cura di, Commentario breve alle leggi sul lavoro, già diretto da M. Grandi e G. Pera, Padova, 2018 (sesta ed.), 876 ss.
2 Cass., 10.5.2018, n. 11322.
3 Notiamo per incidens come questa ineccepibile ricostruzione non possa non influire – orientandola in senso costituzionalmente coerente – sulla interpretazione del disposto di cui all’art. 3, co. 2, del d.lgs. n. 23/2015, in tema di contratto di lavoro a tutele c.d. crescenti, ancorché, in questo caso, la pessima formulazione della previsione normativa possa frapporre ostacoli ad una interpretatio secundum constitutionem.
4 Cfr. Cass., 13.10.2015, n. 20540; Cass., 20.9.2016, n. 18418, e le più recenti Cass., 26.5.2017, n. 13383 e Cass., 31.5.2017, n. 13799.
5 Cass., 25.5.2017, n. 13178.
6 Per una più ampia discussione di tale profilo rinviamo a Giubboni, S.Colavita, A., La valutazione della proporzionalità nei licenziamenti disciplinari: una rassegna ragionata della giurisprudenza, tra legge Fornero e Jobs Act, in Le Corti Umbre, 2017, 1, 40 ss.
7 Cass., ord., 16.4.2018, n. 9396; conforme, da ultimo, Cass., 23.9.2016, n. 18715.
8 Cass., ord., 16.3.2018, n. 6606.
9 In tal senso, da ultimo, la sent. 31.1.2017, n. 2513, aveva affermato che un fatto non tempestivamente contestato dal datore di lavoro non può che esser considerato insussistente ai fini della tutela reintegratoria prevista dal novellato art. 18, trattandosi di violazione radicale che impedisce al giudice di valutare la commissione effettiva dello stesso anche ai fini della scelta tra i vari regimi sanzionatori.
10 Cfr. ordinanza interlocutoria del 21.4.2017, n. 10159.
11 Cass., S.U., 27.12.2017, n. 30985.
12 Cfr. Cass., 3.5.2017, n. 10699; Cass., 20.10.2017, n. 24882; Cass., 2.5.2018, n. 10435.
13 Cfr. Cass., 7.12.2016, n. 25201 (su cui sia consentito il rinvio alle osservazioni critiche svolte in Giubboni, S., Licenziare per aumentare i profitti, in Menabò di Etica ed Economia del 13.3.2017).
14 Tra le tante, Trib. Roma, 26.5.2017, in www.ilgiuslavorista.it; Trib. Torino, 5.4.2016, in Argomenti dir. lav., 2016, 887, con nt. di Gaudio, G.; Trib. Genova, 14.12.2013, ivi, 2014, 798, con nt. di Biagiotti, A.; Trib. Milano, 20.11.2012, ivi, 2013, 147, con nt. di Brun, S. Contra, già prima dell’intervento della Cassazione, Trib. Trento, 18.12.2017, in www.wikilabour.it, e Trib. Reggio Calabria, 3.6.2013, in www.ilgiuslavorista.it.
15 Cass. n. 10435/2018.
16 App. Roma, 1.2.2018, in www.ilgiuslavorista.it; Trib. Bologna, 16.5.2018, inedita a quanto consta.
17 Cass., 19.1.2018, n. 1373.
18 Sulla natura residuale della tutela reintegratoria, che funge da eccezione alla regola della tutela indennitaria in materia di licenziamento individuale per motivi economici, cfr. Cass., 10.1.2018, n. 331 e Cass., 8.7.2016, n. 14021.
19 Cass., S.U., 22.5.2018, n. 12568.
20 Sebbene nella specie la Suprema Corte non si sia espressa circa il regime sanzionatorio applicabile, avendo all’uopo fatto rinvio alla Corte territoriale, non sembra dubbio che alla accertata nullità del licenziamento debba conseguire l’applicazione della tutela reale piena prevista dai primi tre commi dell’art. 18 st. lav.
21 C. cost., 23.4.2018, n. 86.
22 Il ragionamento pare ineccepibile, ma va per così dire integrato con l’osservazione che la sanzione dei comportamenti opportunistici del datore di lavoro andrebbe trovata – come nella generalità dei casi di inattuazione degli obblighi di fare infungibili – nella estensione anche ai rapporti di lavoro subordinato della previsione di cui all’art. 614-bis c.p.c., da cui tali rapporti sono stati a nostro avviso esclusi in contrasto con l’art. 3 (iuncto 24) Cost.
23 Cass., 23.1.2017, n. 1702.
24 Cass., 10.3.2017, n. 6308.
25 Cass., ord. n. 6606/2018 (supra nt. 8).
26 Cass., S.U., 20.11.2017, n. 27436.
27 V. solo Del Punta, R., La riforma italiana: i problemi del nuovo art. 18, in Pedrazzoli, M., a cura di, Le discipline dei licenziamenti in Europa, Milano, 2014, 13 ss.
28 Questo caso, non considerato dalle Sezioni Unite del 2017, è stato però previsto da Cass. n. 25745/2016.
29 In questo senso, cfr. Cass., 14.7.2017, n. 17528.