Novità in materia di confisca
Nel corso del 2014, l’istituto della confisca è stato al centro dell’attenzione, sia da parte della giurisprudenza, come dimostrano le numerose pronunce delle Sezioni Unite e della Corte europea dei diritti dell’uomo su questo argomento, sia da parte del legislatore dell’Unione europea, che ha approvato la direttiva 2014/42/UE in tema di congelamento e confisca dei beni. Nel presente contributo si analizzano le principali novità che hanno interessato l’istituto, mettendo in evidenza come esse ripropongano il problema dell’individuazione delle garanzie e dei principi fondamentali che presiedono l’applicazione di tale misura.
Da qualche anno a questa parte, si va affermando con sempre maggiore convinzione l’idea che la confisca, cioè l’espropriazione coattiva da parte dello Stato di beni a vario titolo riconducibili ad attività illecite, svolga un ruolo centrale nei moderni sistemi penali, tanto da apparire uno strumento di politica criminale talvolta ancor più efficace della tradizionale sanzione penale (sia pecuniaria, che detentiva).
Sulla base di questo assunto, il legislatore ha introdotto, accanto all’ipotesi di confisca prevista dall’art. 240 c.p. come misura di sicurezza, numerose altre ipotesi “speciali” che hanno profondamente mutato la fisionomia e le funzioni originarie dell’istituto.
Basti pensare alle diverse ipotesi di confisca obbligatoria e per equivalente oggi previste nel codice penale e nella legislazione complementare, oppure alla confisca cd. allargata o a quella di prevenzione.
Si tratta di strumenti finalizzati a contrastare tipologie delittuose tra loro anche molto diverse: non solo quelle tipicamente ancorate alla produzione di profitti illeciti (criminalità organizzata, criminalità economica e d’impresa), ma anche tipologie delittuose poste a presidio di beni giuridici, per lo più di recente emersione, considerati meritevoli di una tutela particolare (circolazione stradale, edilizia, ambiente).
Varie le questioni esaminate nell’anno in corso dalla giurisprudenza, nazionale e internazionale, a proposito delle sempre numerose ipotesi di confisca presenti nel nostro ordinamento. Questo contributo è dedicato alle più significative tra tali questioni, nonché alla recentissima direttiva 2014/42/UE che detta norme minime in materia di confisca dei beni destinate ad essere trasposte nell’intero spazio giuridico europeo.
Una prima questione la cui problematicità è compiutamente emersa alla fine del 2013, in conseguenza di un’importante sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, concerne la possibilità di applicare la confisca urbanistica in assenza di una sentenza di condanna, e in particolare mediante una sentenza dichiarativa della prescrizione del reato. Altre due questioni sono state invece risolte nel 2014 dalle Sezioni Unite, in tema rispettivamente di applicazione della confisca per equivalente del profitto di reati tributari commessi a vantaggio di una persona giuridica e di irrilevanza dei proventi di evasione fiscale ai fini della giustificazione della legittima provenienza del bene in materia di confisca di prevenzione.
Di una terza questione decisa recentemente dalla Sezioni Unite, relativa alla possibilità di applicazione retroattiva della confisca di prevenzione, non potremo invece dar conto, stante il mancato deposito della motivazione della sentenza alla data in cui il presente contributo è stato licenziato.
Infine, come anticipato, sarà qui brevemente esaminata la menzionata direttiva 2014/42/UE in materia di congelamento e confisca dei beni nell’Unione Europea.
2.1 La confisca in assenza di condanna
La prima questione sulla quale si è sviluppato un serrato dibattito che ha visto interloquire autorità giudiziarie nazionali ed europee riguarda l’ammissibilità della confisca in assenza di condanna1. Nello specifico, la questione si è posta in relazione alla cd. confisca urbanistica di cui all’art. 44, co. 2, d.P.R. 6.6.2001, n. 328 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia), che deve essere disposta dal giudice penale con la «sentenza
definitiva … che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva» e che ha come oggetto i terreni abusivamente lottizzati e le opere abusivamente costruite.
Per lungo tempo, la Corte di cassazione ha ritenuto che la misura ablativa in parola potesse essere disposta dal giudice penale anche in caso di assoluzione per difetto dell’elemento soggettivo ovvero di proscioglimento per estinzione del reato, laddove fosse accertata sul piano materiale la commissione di un fatto oggettivo di lottizzazione abusiva. La Cassazione giungeva a questa conclusione valorizzando la lettera della norma, che non richiede espressamente tra i presupposti della confisca la pronuncia di una sentenza di condanna, e affermando la natura extrapenale di tale misura considerata una «sanzione accessoria amministrativa».
Questo orientamento giurisprudenziale è stato posto per la prima volta in discussione dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Sud Fondi c. Italia2. La Corte europea ha affermato che la confisca prevista dall’art. 44, d.P.R. n. 328/2001 ha in realtà natura sanzionatoria e deve essere qualificata come “sanzione penale” ai fine dell’applicazione delle garanzie previste dalla Convenzione non solo perché consegue ad un fatto che costituisce reato ed è applicata dal giudice penale all’esito di un processo finalizzato all’accertamento di reati, ma soprattutto perché ha un’evidente finalità punitiva in quanto colpisce, oltre ai manufatti edificati abusivamente, anche i terreni non ancora edificati. Una volta riconosciuta la natura sanzionatoria della misura in oggetto, nel caso Sud Fondi la Corte europea ha affermato che disporre la confisca quando l’imputato versa in una situazione di errore inevitabile sul precetto penale ed è stato assolto per difetto di colpevolezza, costituisce una violazione del principio di legalità (art. 7 CEDU) perché tale principio esige che la norma penale sia accessibile e sia prevedibile per il cittadino la possibilità di essere assoggettato alla pena, nonché una violazione del diritto di proprietà (art. 1, prot. 1, CEDU).
In seguito alla sentenza Sud Fondi, la Corte di cassazione ha modificato la propria giurisprudenza, escludendo l’applicabilità della confisca in caso di assoluzione per difetto dell’elemento soggettivo,ma ha continuato a ritenere legittima e non in contrasto con gli obblighi convenzionali la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere illegittimamente edificate in caso di proscioglimento per intervenuta prescrizione del reato. Le sentenze di proscioglimento per intervenuta prescrizione – questo l’argomento sul quale fa leva la Cassazione – pur non applicando la pena, possono comportare il pieno accertamento del fatto di reato e della responsabilità dell’imputato, e quindi possono giustificare anche sul piano delle garanzie convenzionali l’applicazione della confisca3.
La Corte europea dei diritti dell’uomo è tornata quindi a occuparsi della confisca urbanistica nel caso Varvara c. Italia e ha affermato espressamente che l’applicazione della confisca in caso di proscioglimento per estinzione del reato – e, dunque, quando la responsabilità dell’imputato non è accertata con una sentenza definitiva di condanna – costituisce una violazione del principio di legalità penale (art. 7 CEDU) e del diritto di proprietà (art. 1, prot. 1, CEDU)4.
Risolto con un semplice richiamo al caso Sud Fondi il problema della qualificazione della confisca urbanistica come misura penale, la Corte europea ha affermato che il divieto di irrogare una pena senza accertamento della responsabilità dell’imputato costituisce un corollario del principio di legalità: «la logica della “pena” e della “punizione”, e la nozione di “guilty” (nella versione inglese) e la corrispondente nozione di “personne coupable” (nella versione francese), depongono per un’interpretazione dell’art. 7 che esiga, per punire, una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che consenta di attribuire il reato e di infliggere la pena al suo autore. In mancanza di ciò, la punizione non avrebbe senso… Sarebbe infatti incoerente esigere, da una parte, una base accessibile e prevedibile e permettere, dall’altra, una punizione quando, come nel caso di specie, la persona interessata non è stata condannata» (par. 71).
Come è stato osservato dalla dottrina che per prima ha commentato la pronuncia, benché la motivazione della Corte possa sembrare non del tutto coerente, riconducendo nell’alveo dell’art. 7 una regola che, in realtà, avrebbe dovuto ricavare dal principio della presunzione di innocenza di cui all’art. 6, par. 2, le ragioni che hanno portato i giudici europei ad affermare la contrarietà alla CEDU di una confisca in assenza di condanna sono evidenti5. Se la confisca urbanistica è una “sanzione penale” ai sensi della Convenzione, allora essa non potrà che essere applicata a seguito di una sentenza di condanna perché «non si può neppure concepire un sistema in cui una persona dichiarata innocente o, comunque, la cui responsabilità penale non è stata accertata con una sentenza di colpevolezza subisca una pena» (par. 67).
Le reazioni da parte della giurisprudenza interna non si sono fatte attendere. Primo ad occuparsi della questione è stato il Tribunale di Teramo che, rilevata l’esistenza di un contrasto – non ricomponibile in via ermeneutica – tra i principi affermati dalla Corte europea nel caso Varvara e l’interpretazione dell’art. 44, co. 1, d.P.R. n. 380/2001, unanimemente accolta dalla giurisprudenza (tanto da poterla considerare “diritto vivente”), ha ritenuto necessario sollecitare l’intervento della Corte costituzionale perché sancisse l’illegittimità del citato art. 44, in relazione agli artt. 117, co. 1, Cost. e 7 CEDU come parametro interposto6.
A breve distanza, anche la Corte di cassazione – chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di un provvedimento di confisca disposto nonostante l’avvenuta prescrizione del reato di lottizzazione abusiva – ha deciso di rimette la questione alla Corte costituzionale7.
Tuttavia, il petitum della Cassazione è molto diverso rispetto a quello formulato dal giudice abruzzese: la Cassazione, ponendosi in forte polemica con i giudici di Strasburgo, chiede alla Corte costituzionale di riconoscere che l’interpretazione dell’art. 7 CEDU fornita dalla Corte europea si pone in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione italiana e dunque non può essere accolta nel nostro ordinamento.
Ad avviso della Cassazione, il principio espresso dalla Corte europea nella sentenza Varvara si pone in contrasto con gli artt. 2, 9, 32, 41, 42, e 117, co. 1, Cost., «i quali impongono che il paesaggio, l’ambiente, la vita e la salute siano tutelati quali valori costituzionali oggettivamente fondanti, cui riconoscere prevalenza nel bilanciamento con il diritto di proprietà». Vietare al giudice italiano di procedere alla confisca delle aree e dei terreni abusivamente lottizzati quando il giudizio non si è concluso con una sentenza di condanna ma con una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione, anche nell’ipotesi in cui sia stata accertata la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva, fa sì che nel bilanciamento tra contrapposti interessi sia sempre data prevalenza al diritto di proprietà, che pure non è un valore assoluto ma deve essere tutelato solo nei limiti della sua funzione sociale.
Pertanto, la terza sezione della Cassazione ha ritenuto necessario sollecitare la Corte costituzionale a prendere essa stessa posizione sulla questione della compatibilità del principio affermato nella sentenza Varvara con gli altri principi costituzionali invocati, in particolare, sollevando «questione di legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, come interpretato dalla Corte EDU (sentenza Varvara)…per violazione degli artt. 2, 9, 32, 41, 42, 117, primo comma, Cost.»8.
2.2 Reati fiscali e confisca per equivalente
La seconda questione sulla quale è opportuno soffermarsi – perché oggetto di un recente intervento delle Sezioni Unite – riguarda la possibilità di disporre la confisca, diretta o per equivalente, dei beni appartenenti a una persona giuridica per le violazioni tributare commesse dal legale rappresentante nell’interesse della società.
Due sono gli indirizzi che si sono contrapposti in giurisprudenza. In base a un primo orientamento sarebbe possibile procedere alla confisca per equivalente anche dei beni appartenenti alla persona giuridica in caso di violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante, in quanto, sebbene la responsabilità per il reato tributario sia riferibile alla sola persona fisica, le conseguenze patrimoniali ricadono sulla società a favore della quale il legale rappresentante ha agito. Di conseguenza, l’ente non potrebbe considerarsi terzo estraneo al reato9.
Secondo un opposto orientamento, invece, quando si procede per violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società, non sarebbe ammissibile la confisca per equivalente dei beni appartenenti alla persona giuridica (salvo nel caso in cui la struttura societaria costituisca un apparato fittizio utilizzato dal reo all’esclusivo scopo di farvi confluire i proventi dell’evasione) perché gli illeciti penali tributari non figurano, come noto, nel novero dei reati presupposto che danno luogo alla responsabilità dell’ente e, dunque, non potrebbe trovare applicazione la speciale confisca di valore stabilita dall’art. 19 d.lgs. 8.6.2001, n. 23110.
Con la sentenza Cass., S.U., 30.1.2014, n. 10561, la Suprema Corte ha sostanzialmente seguito il secondo orientamento interpretativo sopra richiamato, formulando però alcune importati precisazioni11. Ad avviso della Cassazione, infatti, si deve escludere la possibilità di procedere alla confisca per equivalente di beni appartenenti alla persona giuridica, in caso di reato tributario commesso dal legale rappresentante o altro organo dell’ente, ma si deve invece ammettere la possibilità di procedere alla confisca diretta del profitto del reato tributario (o di altri beni ad esso direttamente riconducibili), quando tale profitto è rimasto nella disponibilità della persona giuridica.
Il nodo centrale nella motivazione della sentenza è dunque rappresentato dalla distinzione tra confisca diretta del profitto del reato e confisca per equivalente. Come noto, la confisca diretta (detta anche confisca di proprietà), prevista dall’art. 240 c.p. come misura facoltativa e resa obbligatoria per alcuni reati da singole disposizioni di parte speciale, ha per oggetto il profitto del reato, vale a dire l’utilità economica direttamente o indirettamente conseguita con la commissione del reato. La confisca per equivalente (detta anche confisca di valore), invece, ha per oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente al profitto del reato ed è destinata ad operare nei casi in cui la confisca diretta non sia possibile.
Nella nozione di profitto che consente la confisca diretta, precisano i giudici della Suprema Corte, non rientrano solo i beni appresi per effetto diretto e immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità comunque ottenuta dal reato, anche in via indiretta o mediata, come ad esempio i beni acquistati con il denaro ricavato dall’attività illecita oppure l’utile derivante dall’investimento del denaro di provenienza criminosa. Nel caso di reati tributari, osservano la Sezioni Unite, il profitto confiscabile può consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento di un tributo. Quando il profitto del reato è costituito da una somma di denaro, se la misura ablativa ha per oggetto un bene acquistato con il denaro proveniente dall’attività criminosa, non si è in presenza di confisca per equivalente ma di confisca diretta del profitto.
L’art. 1, co. 143, della l. 24.12.2007, n. 244 (Legge finanziaria 2008) ha esteso ai delitti tributari di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10 bis, 10 ter, 10 quater e 11 del d.lgs. 10.3.2000, n. 74 le disposizioni di cui all’art. 322 ter c.p., norma che rende obbligatoria per alcuni reati contro la pubblica amministrazione la confisca del prezzo o profitto del reato e che introduce la possibilità di procedere alla confisca per equivalente nel caso in cui tale prezzo o profitto non sia facilmente aggredibile. Pertanto, nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti, per uno dei delitti tributari previsti dagli articoli sopra richiamati, «è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato»; quando ciò non è possibile, avrà luogo «la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto».
Concludono allora le Sezioni Unite che la confisca diretta del profitto di reato è possibile anche nei confronti di una persona giuridica per le violazioni fiscali commesse dal legale rappresentante o da altro organo della persona giuridica nell’interesse della società, quando il profitto o i beni direttamente riconducibili a tale profitto sono rimasti nella disponibilità della persona giuridica medesima. Per converso, non è possibile procedere a confisca per equivalente di beni della persona giuridica, salvo nell’ipotesi in cui la persona giuridica stessa sia in concreto priva di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso cui l’amministratore agisce come effettivo titolare.
Sul piano del diritto positivo, osservano le Sezioni Unite, non vi è alcuna disposizione che consenta di disporre la confisca per equivalente di beni appartenenti a una persona giuridica nel caso di violazioni tributare commesse dal legale rappresentante.Tale forma di confisca, infatti, non può essere disposta ai sensi dell’art. 19 d.lgs. n. 231/2001, perché nel citato d.lgs. manca una specifica ipotesi di responsabilità dell’ente per i reati tributari. Non può essere disposta neppure ai sensi dell’art. 322 ter c.p., dal momento che la citata disposizione si applica all’autore del reato e la persona giuridica non può essere considerata tale. Stante il carattere eminentemente sanzionatorio della confisca per equivalente, le norme che la prevedono non possono essere applicate oltre ai casi espressamente considerati, a ciò ostando il divieto di applicazione analogica in malam partem vigente nella materia penale.
2.3 Proventi da evasione fiscale e confisca di prevenzione
La terza questione sulla quale è opportuno richiamare l’attenzione del lettore – anch’essa oggetto di un recente intervento delle Sezioni Unite penali – riguarda la cd. confisca di prevenzione, originariamente prevista dall’art. 2 ter l. 31.5.1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere) e oggi disciplinata dagli artt. 16 ss. d.lgs. 6.9.2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione). Come è noto, la confisca di prevenzione può essere disposta dall’autorità giudiziaria sui beni di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento di prevenzione (indiziati di appartenere ad associazioni mafiose e altre categorie di soggetti ritenuti socialmente pericolosi) «risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica svolta, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego» e di cui lo stesso non possa giustificare la legittima provenienza.
La questione controversa sulla quale è stato sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite è se ai fini della confisca in questione, per individuare il presupposto della sproporzione tra i beni posseduti e il reddito dichiarato o le attività economiche svolte dal soggetto titolare dei beni, debba tenersi conto o meno anche dei proventi dell’evasione fiscale.
Innanzitutto è opportuno precisare che la Corte di cassazione – seguendo un orientamento, in realtà, unitario – ha sempre negato che i proventi dell’evasione fiscale potessero rilevare per giustificare la provenienza legittima dei beni, pur senza approfondire la questione se tali proventi si identifichino con l’intero imponibile al lordo dell’imposta dovuta ovvero solo con l’importo corrispondente all’imposta evasa12. Secondo questa giurisprudenza, infatti, i proventi dell’evasione fiscale non possono essere considerati proventi leciti, perché derivano pur sempre da un’attività costituente reato, e pertanto devono essere assoggettati alla confisca di cui all’art. 2 ter l. n. 575/1965 (oggi art. 16 d.lgs. n. 159/2011) che espressamente prevede la confisca anche «dei beni che risultino frutto di attività illecite». Si è invece affermato un contrasto giurisprudenziale in relazione all’analoga questione sorta a margine della cd. confisca allargata di cui all’art. 12 sexies d.l. 8.6.1992, n. 306, cioè la confisca che il giudice penale deve disporre in caso di condanna per alcuni reati particolarmente gravi elencati dallo stesso art. 12 sexies, e che ha come oggetto il denaro, i beni o le altre utilità «di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, o alla propria attività economica».
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, l’imputato destinatario della misura ablativa non potrebbe giustificare la legittima provenienza del bene allegando proventi di un’attività economica lecita ma non dichiarata al fisco, perché si tratterebbe di proventi comunque illeciti13. Secondo un diverso e oggi prevalente orientamento, invece, al fine di valutare la legittima provenienza dei beni di cui il condannato risulta avere la disponibilità in misura sproporzionata rispetto al proprio reddito, «è irrilevante la circostanza che le fonti lecite di produzione del patrimonio siano identificabili, in termini non sproporzionati ad esse, nel reddito dichiarato ai fini fiscali, ovvero nel valore delle attività economiche svolte, produttive di reddito imponibile pur nell’assenza o incompletezza di una dichiarazione dei redditi»14. Questa conclusione sarebbe imposta dalla ratio dell’istituto che mira a colpire i proventi di attività criminose e «non a sanzionare la condotta di infedele dichiarazione dei redditi, che si colloca in un momento successivo rispetto a quello della produzione del reddito, e per la quale soccorrono specifiche previsioni in materia tributaria».
Ad avviso dei giudici che hanno rimesso la questione allo scrutinio delle Sezioni Unite, «la diversità di orientamenti (contrastato al suo interno l’uno, uniforme l’altro), ancorché relativo a confische disciplinate da normative diverse… non sembra trovare logica giustificazione», in quanto i testi normativi parrebbero del tutto sovrapponibili e «comune si appalesa, per entrambi gli istituti, la ratio legis, che è quella di contrastare soggetti socialmente pericolosi e dediti al delitto colpendone i patrimoni»15.
Al riguardo, la Suprema Corte (Cass., S.U., 29.5.2014, n. 33451) ha confermato l’orientamento sino ad ora seguito della giurisprudenza prevalente e ha escluso che, ai fini dell’applicabilità della confisca di prevenzione, il proposto possa giustificare la disponibilità di beni in valore sproporzionato al proprio reddito, allegando proventi non dichiarati al fisco.
Secondo le Sezioni Unite, diversamente da quanto sostenuto nell’ordinanza di rimessione, la confisca di prevenzione e la confisca di cui all’art. 12 sexies d.l. n. 306/1992, non sono accumunate dalla medesima ratio e i testi legislativi che rispettivamente disciplinano le due misure non sono in realtà sovrapponibili. Osserva, infatti, il Collegio che la confisca prevista dall’art. 12 sexies d.l. n. 306/1992 è subordinata alla condanna per alcuni delitti, mentre la confisca di prevenzione è ancorata a un giudizio di pericolosità che prescinde dall’accertamento in ordine alla commissione di reati. In secondo luogo, se è vero che per entrambe lemisure in questione è prevista la possibilità di confiscare i beni che si trovano nella disponibilità, diretta o indiretta, del soggetto e che siano di valore sproporzionato rispetto al suo reddito o all’attività economica da questi svolta, bisogna tuttavia riconoscere che per la sola confisca di prevenzione è prevista, in via alternativa, anche la confisca dei beni «che siano il frutto di attività illecite e ne costituiscano il reimpiego».
La diversità dei presupposti e la differente struttura normativa, porta ad escludere che le due ipotesi di confisca in esame condividano la medesima ratio.
Ad avviso delle Sezioni Unite, si tratterebbe «di provvedimenti ablatori che agiscono in campi diversi e hanno diverse latitudini»: la confisca di cui all’art. 2 ter l. n. 575/1965 (oggi art. 24 d.lgs. n. 59/2011) è una misura di prevenzione che mira a sottrarre al proposto tutti i beni che siano frutto di attività illecite o che ne costituiscano il reimpiego, in questo modo impedendo che tali beni siano utilizzati per realizzare ulteriori vantaggi e che il funzionamento del sistema economico legale sia alterato da anomali accumuli di ricchezza; la confisca di cui all’art. 12 sexies d.l. n. 306/1992 è una misura di sicurezza atipica che, attraverso l’ablazione del patrimonio di cui la legge presume l’origine illecita, «mira principalmente ad impedire la commissione di nuovi reati».
La profonda diversità che corre tra le due ipotesi di confisca, secondo le Sezioni Unite, giustifica i diversi orientamenti seguiti dalla giurisprudenza in punto di rilevanza dei proventi dell’evasione fiscale.
È coerente con la struttura normativa dell’art. 12 sexies d.l. n. 306/1992, «che prevede che il requisito della sproporzione debba essere confrontato con il “reddito dichiarato” o con la “propria attività economica”», il più recente approdo giurisprudenziale che consente di tener conto dei redditi derivanti da attività lecita, anche se sottratti al fisco. Ed è ugualmente coerente con la struttura normativa dell’art. 2 ter l. n. 575/1965 (oggi art. 24 d.lgs. n. 159/2011), che tale approdo giurisprudenziale non possa essere seguito in relazione alla confisca di prevenzione «per la quale rileva – e dunque non è deducibile a discarico – anche il fatto che i beni siano “il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”» perché «sicuramente l’evasione fiscale integra ex se attività illecita (contra legem) anche qualora non integri reato».
Escluso che possa tenersi conto dei proventi dell’evasione fiscale per giustificare la legittima provenienza dei beni di cui il proposto ha la disponibilità in valore sproporzionato al proprio reddito, resta da precisare se i proventi illeciti, di cui non si deve tenere conto, corrispondano all’intero imponibile ovvero alla sola imposta evasa. Su questo punto, però, la Corte non prende posizione. Osservano le Sezioni Unite che il caso di specie – in cui è pacifico che l’evasione fiscale è stata di notevoli dimensioni e ripetuta negli anni – preclude di effettuare una valutazione sulla quota confiscabile. Tale valutazione avrebbe senso solo ove si trattasse di un’evasione puntuale, circoscritta e un insussistente. Nel caso di evasione fiscale ripetuta nel tempo, invece, si attua inevitabilmente un reimpiego delle utilità illecite nel circuito economico dell’evasore, con la conseguenza che diviene praticamente impossibile distinguere il provento lecito da quello illecito. Conclude, allora, la Corte che «l’inquinamento, per definizione e per legge logico-economica, non può non essere omnipervasivo e travolgente».
2.4 La direttiva UE in tema di congelamento e confisca
Un’ultima importante novità in tema di confisca è rappresentata dalla direttiva 2014/42/UE del Parlamento e del Consiglio del 3.4.2014 relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione Europea.
Si tratta di uno strumento normativo che ha visto la luce – con la pubblicazione sulla GUCE il 29 aprile 2014 – dopo un lungo inter legislativo iniziato nel 2012 con la proposta di direttiva della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio (COM/2012/0085), proposta che è stata peraltro sviluppata a seguito della richiesta d’iniziativa legislativa rivolta dallo stesso Parlamento alla Commissione nell’ottobre del 201116. La direttiva, entrata in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione, deve essere attuata dagli Stati membri entro il 4 ottobre 2015.
Come esplicitato nei 44 consideranda che precedono l’articolato, la direttiva muove dalla consapevolezza che il motore principale della criminalità organizzata – che sempre più spesso assume una dimensione transfrontaliera – è il profitto economico e che la prevenzione e la lotta efficace contro tale forma di criminalità richiede la neutralizzazione di questo profitto.
Sulla base di questo assunto, la direttiva si pone l’obiettivo di introdurre norme minime che consentano il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in modo da favorire la cooperazione tra le diverse autorità nazionali e rafforzare l’efficacia del congelamento (o, secondo la terminologia usata dal giurista italiano, del sequestro) e della confisca dei beni, pur nel rispetto di alcune garanzie fondamentali che devono essere riconosciute alle persone destinatarie dei provvedimenti ablativi.
L’ambito di applicazione della direttiva è circoscritto ad alcune materie di competenza dell’Unione Europea. In particolare la direttiva si applica ai reati già previsti dalla Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione, dalle decisioni quadro relative al rafforzamento della tutela contro la falsificazione di monete (2000/383/GAI) e contro le frodi e le falsificazioni di mezzi di pagamento diversi dai contanti (2001/413/GAI), dalle decisioni quadro concernenti il riciclaggio di denaro, (2001/500/GAI), la lotta contro il terrorismo (2002/475/GAI), la lotta contro la corruzione nel settore privato (2003/568/GAI), i reati e le sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti (2004/757/GAI), la lotta contro la criminalità organizzata (2008/841/GAI), nonché dalle direttive concernenti la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani (2011/36/UE), la lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile (2011/93/UE) e la direttiva relativa agli attacchi contro sistemi informatici (2013/40/UE).
Venendo ai contenuti, l’art. 4 della direttiva pone a carico degli Stati membri l’obbligo di adottare «le misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, di beni strumentali o proventi da reato, o di beni di valore corrispondente a detti beni strumentali o proventi, in base a una condanna penale definitiva». La normativa europea, pertanto, introduce l’obbligo per gli Stati membri di prevedere che in caso di condanna l’autorità giudiziaria possa disporre la confisca – diretta o per equivalente – sia dei beni utilizzati o destinati ad essere utilizzati, in qualsiasi modo, in tutto o in parte, per commettere uno o più reati («beni strumentali»), sia di ogni vantaggio economico derivato, direttamente o indirettamente, dalla commissione di reati («proventi»). La direttiva propone una definizione molto ampia di «provento» secondo la quale «esso può consistere in qualsiasi bene e include ogni successivo reinvestimento o trasformazione di proventi diretti e qualsiasi vantaggio economicamente valutabile» (art. 2). Agli Stati membri è riconosciuta la facoltà di stabilire se la confisca per equivalente debba essere considerata come sussidiaria o alternativa rispetto alla confisca diretta.
La direttiva, pur subordinando in linea di principio l’obbligo di procedere alla confisca al presupposto di una sentenza definitiva di condanna, al par. 2 dell’art. 4 estende tale obbligo anche alle ipotesi in cui non è possibile giungere a una sentenza definitiva di condanna «almeno nei casi in cui tale impossibilità risulti da malattia o da fuga dell’indagato o imputato».
In questo caso, gli Stati membri sono tenuti ad adottare le misure necessarie per consentire la confisca dei beni strumentali e dei proventi del reato «laddove sia stato avviato un procedimento penale per un reato che può produrre, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico e detto procedimento avrebbe potuto concludersi con una condanna penale se l’indagato o l’imputato avesse potuto essere processato».
Assai rilevante nel quadro della nuova normativa europea, anche la disposizione contenuta nell’art. 5 della direttiva che disciplina i cd. poteri estesi di confisca, vale a dire una misura che può essere assimilata alla cd. confisca allargata prevista dall’art. 12 sexies d.l. n. 306/1992. La previsione di poteri estesi di confisca è introdotta dalla direttiva «allo scopo di contrastare efficacemente le attività della criminalità organizzata» nella convinzione che vi possono essere situazioni nelle quali «è opportuno che la condanna penale sia seguita dalla confisca non solo dei beni associati ad un dato reato, ma anche di ulteriori beni che l’autorità giudiziaria stabilisca costituire proventi da altri reati» (considerando n. 19).
L’esercizio dei poteri estesi di confisca è subordinato dal legislatore europeo al ricorrere di un duplice presupposto: innanzitutto è necessario che la persona nei cui confronti è disposta la misura ablativa sia stata condannata per uno dei reati «suscettibili di produrre, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico» previsti dallo stesso art. 5, par. 2 (corruzione attiva e passiva nella quale sono coinvolti funzionari delle istituzioni dell’Unione o degli Stati membri e corruzione nel settore privato, reati relativi alla partecipazione a un’organizzazione criminale almeno nei casi in cui il reato ha prodotto vantaggi economici, reati di pornografia minorile, reati concernenti l’attacco a sistemi informatici, nonché ogni altro reato – ovviamente tra quelli rientranti nel campo di applicazione della direttiva – per il quale è prevista dallo strumento comunitario pertinente o dalla normativa nazionale una pena detentiva pari nel massimo ad almeno quattro anni). In secondo luogo, è necessario che il giudice raggiunga la convinzione circa l’origine illecita dei beni che appartengono alla persona condannata. Con riferimento allo standard di prova richiesto, il testo della norma si limita a stabilire che la confisca deve essere disposta quando «l’autorità giudiziaria … è convinta che» (nella versione inglese: «where a court … is satisfied that»; e nella versione francese: «lorsqu’une juridiction …est convaincue que») i beni in questione derivino da condotte criminose e che tale convinzione può essere ricavata anche dal fatto che il valore dei beni è sproporzionato rispetto al reddito legittimo della persona condannata. Rilevante a questo proposito il considerando n. 21 ove si precisa che «ciò non significa che debba essere accertato che i beni in questione derivano da condotte criminose» in quanto «gli Stati membri possono disporre, ad esempio, che sia sufficiente che l’autorità giudiziaria ritenga, in base ad una ponderazione delle probabilità, o possa ragionevolmente presumere, che sia molto più probabile che i beni in questione siano il frutto di condotte criminose piuttosto che di altre attività».
Allo scopo di contrastare la pratica «comune e sempre più diffusa» del trasferimento dei beni al fine di evitare la confisca da parte di un indagato o di un imputato ad un terzo compiacente, l’art. 6 della direttiva introduce la possibilità di procedere alla confisca, sia diretta che per equivalente, dei proventi da reato (e non anche dei beni strumentali) «che sono stati trasferiti, direttamente o indirettamente, da un indagato o un imputato a terzi, o che sono stati da terzi acquisiti da un indagato o imputato, almeno se tali terzi sapevano o avrebbero potuto sapere che il trasferimento o l’acquisizione dei beni aveva lo scopo di evitare la confisca». Tale circostanza deve essere accertata sulla base di fatti e circostanze concreti, ivi compreso il fatto che il trasferimento o l’acquisto sia stato effettuato a titolo gratuito o contro il pagamento di un corrispettivo significativamente inferiore al valore di mercato. Ovviamente, la possibilità di procedere alla confisca di beni nei confronti di terzi non pregiudica i diritti acquisiti dai terzi in buona fede.
La direttiva detta altre disposizioni volte a rafforzare la cooperazione tra Stati membri in materia di recupero e confisca dei beni di origine criminosa, alle quali possiamo dedicare in questa sede solo un fugace cenno. L’art. 7 stabilisce l’obbligo per gli Stati membri di introdurre le misure necessarie per consentire il congelamento (vale a dire, il sequestro) dei beni in vista di un’eventuale successiva confisca.
L’art. 9 pone l’obbligo di adottare le misure necessarie per individuare e rintracciare i beni da congelare e confiscare, nonché per assicurare l’efficace esecuzione del provvedimento di confisca. L’art. 10 fissa delle regole sulla gestione dei beni sottoposti a sequestro e confisca.
Infine, poiché la confisca – come viene riconosciuto anche dal legislatore europeo nel considerando n. 33 – «ha conseguenze rilevanti sui diritti delle persone, non solo degli indagati o degli imputati,ma anche di terzi», la direttiva impone l’obbligo agli Stati membri di introdurre specifiche misure volte a garantire che alle persone colpite da confisca siano riconosciuti alcuni diritti fondamentali (quali il diritto a un ricorso effettivo contro i provvedimenti di congelamento e confisca, il diritto a un giudice imparziale, il diritto a che la decisione di congelamento dei beni sia comunicata all’interessato il prima possibile con l’indicazione, almeno sommaria, del motivo o dei motivi del provvedimento, il diritto a che ciascun provvedimento di confisca sia tempestivamente comunicato all’interessato e sia motivato).
Le novità che hanno interessato l’istituto della confisca nel corso dell’ultimo anno, e delle quali abbiamo qui dato conto, riportano al centro dell’attenzione il problema della individuazione e definizione dello “statuto” costituzionale (e convenzionale) della confisca. Infatti, se tale misura può essere assimilata a una vera e propria pena – a carattere afflittivo, repressivo e sanzionatorio – ad essa dovrebbero applicarsi i principi fondamentali e le garanzia che la Costituzione e le fonti internazionali dettano per la materia penale (si pensi, ad esempio, agli artt. 25, 27 e 111 Cost.; nonché agli artt. 6, parr. 2 e 7 CEDU, agli artt. 2 e 4, prot. n. 7, CEDU, e agli artt. 48, 49 e 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE).
Se invece si ritiene che la confisca non possa essere assimilata a una vera e propria pena, occorre domandarsi quali siano i principi che presiedono l’applicazione di tale misura e le garanzie comunque applicabili ai destinatari.
Il problema del rispetto dei diritti fondamentali e dei principi penalistici di garanzia si è presentato con particolare evidenza nel caso di applicazione della confisca urbanistica in assenza di condanna.
L’affermazione del principio secondo cui l’applicazione di tale misura presuppone una dichiarazione di colpevolezza dell’imputato consacrata in una sentenza di condanna – principio contro il quale la Cassazione si è apertamente ribellata – rappresenta in realtà la conseguenza obbligata del riconoscimento della natura autenticamente sanzionatoria della confisca in parola (riconoscimento del quale non crediamo, francamente, si possa dissentire, dal momento che la misura colpisce non solo i manufatti costruiti in violazione delle leggi urbanistiche – in relazione ai quali si potrebbe anche affermare una funzione di ripristino dello status quo ante – ma anche i terreni non ancora edificati). L’inflizione della pena richiede un giudizio di responsabilità che deve essere cristallizzato necessariamente in una sentenza di condanna. Non si può applicare una pena se il giudizio di accertamento della responsabilità dell’imputato si è concluso con una sentenza di proscioglimento. Questo principio vale anche nel caso di intervenuta prescrizione, perché la prescrizione indica il momento a partire dal quale viene meno l’interesse pubblico alla repressione dei reati, e quindi all’esercizio della potestà punitiva. Dunque, trascorso il tempo necessario a prescrivere il reato, non sussiste più alcuna ragione che giustifichi l’inflizione della sanzione penale (compresa, naturalmente, la confisca se si riconosce la sua natura sanzionatoria).
La preoccupazione di applicare la confisca nel rispetto del principio di legalità e dei principi di garanzia che presiedono la materia penale, ha spinto le Sezioni Unite a escludere la possibilità di procedere alla confisca per equivalente di beni della persona giuridica per reati tributari commessi dal legale rappresentante.
Questa soluzione – che ci sembra condivisibile almeno nella parte in cui riconosce chiaramente che la confisca per equivalente non può essere applicata al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge – si presta comunque ad alcune osservazioni critiche. In primo luogo, la Cassazione ha esteso l’ambito di operatività della confisca diretta del profitto del reato; e lo ha fatto tratteggiando una nozione di profitto molto ampia che sembrerebbe porsi, come una dottrina perspicua non ha mancato di rilevare, in tensione con i principi di legalità e tassatività che presiedono la materia penale17. In secondo luogo, in base a quanto affermato dalle Sezioni Unite, quando non è possibile individuare il profitto del reato, si dovrà procedere alla confisca per equivalente, aggredendo non il patrimonio della società beneficiaria del risparmio d’imposta ma quello della persona fisica che non ha tratto alcun profitto dalla commissione del reato. In questo modo, però, la confisca perde la sua funzione “naturale”, che è quella di privare l’autore dell’illecito dei vantaggi derivanti dalla sua attività criminosa, secondo la logica per cui crimen non lucrat, e finisce per trasformarsi in una misura a contenuto esclusivamente sanzionatorio, che si “somma” alla pena principale, traducendosi in una vera e propria pena che colpisce il patrimonio del reo in misura non proporzionata alla sua colpevolezza.
Anche la decisione della Corte di cassazione sulla rilevanza dei proventi dell’evasione fiscale nella confisca di prevenzione ripropone il problema del rapporto tra confisca e diritti fondamentali. Come si è visto, la Cassazione – confermando un orientamento “granitico” della giurisprudenza di legittimità – ha escluso la possibilità di giustificare la provenienza legittima dei beni di cui il soggetto ha la disponibilità in valore sproporzionato rispetto al proprio reddito, allegando proventi non dichiarati al fisco, perché si tratterebbe comunque di proventi illeciti.
Ad avviso della Cassazione, l’illiceità investirebbe non solo il provento dell’evasione fiscale (vale a dire la quota corrispondente all’imposta evasa) ma l’intero reddito non dichiarato al fisco, perché quando l’evasione è ripetuta nel tempo risulta impossibile operare in concreto una distinzione tra proventi dell’attività economica lecitamente svolta e proventi dell’evasione fiscale. Questa soluzione, però, per un verso sembra obliterare la lettera della legge, che impone di tener conto, oltreché del reddito dichiarato, anche dell’attività economica svolta lecitamente (la confisca di prevenzione colpisce i beni di cui il proposto ha la disponibilità «in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica»), violando così il principio di legalità. Per altro verso, legittimando la confisca dell’intero patrimonio, finisce per trasformare la misura di prevenzione in uno strumento sanzionatorio di inusitata afflittività, in violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, nonché del diritto di proprietà del destinatario della misura.
Infine, anche la direttiva europea in tema di congelamento e confisca dei beni presta un’attenzione particolare al profilo della tutela dei diritti degli individui e al rispetto dei principi fondamentali di garanzia. Come esplicitato nel considerando n. 38, la confisca disciplinata dallo strumento normativo europeo «rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea… e della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali…, come interpretate nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo» e, pertanto, la direttiva «dovrebbe essere attuata conformemente a tali diritti e principi». Allo scopo di evitare che la confisca si traduca in una compromissione eccessiva del diritto di proprietà, la direttiva ha cura di precisare che le disposizioni sulla confisca di beni di valore corrispondente ai beni strumentali al reato trovano applicazione «se, alla luce
delle circostanze particolari del caso di specie, tale misura è proporzionata, considerato, in particolare, il valore dei beni strumentali interessati» (considerando n. 17); e, più in generale, che nell’attuazione della direttiva «gli Stati membri possono prevedere che, in circostanze eccezionali, la confisca non sia ordinata qualora … essa rappresenti una privazione eccessiva per l’interessato» (considerando n. 18).
1 Sull’argomento cfr. Panzarasa, M., Confisca senza condanna?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, 1672 ss.; nonché l’analisi compiuta da Nicosia, E., La confisca, le confische, Torino, 2012, 76 ss.
2 C. eur. dir. uomo, 30.8.2007, Sud Fondi c. Italia (decisione sull’ammissibilità); nonché C. eur. dir. uomo, 20.1.2009, Sud Fondi c. Italia (decisione sul merito).
3 Cass. pen., 4.2.2013, n. 17066.
4 C. eur. dir. uomo, 29.10.2013, Varvara c. Italia. Per un primo commento alla sentenza cfr. Balsamo, A., La Corte europea e la “confisca senza condanna” per la lottizzazione abusiva, in Cass. pen., 2014, 1395 ss.
5 Si vedano le considerazioni di Viganò, F., Confisca urbanistica e prescrizione: a Strasburgo il re è nudo, in www.penalecontemporaneo.it, 9.6.2014.
6 Trib. Teramo, 17.1.2014, in www.penalecontemporaneo.it, 8.6.2014, con nota diGalluccio, A., La confisca urbanistica ritorna alla Corte costituzionale.
7 Cass. pen., 30.4.2013, n. 20646.
8 Come è stato giustamente rilevato, la questione così formulata si presta a qualche dubbio preliminare di ammissibilità perché la Corte europea, in realtà, non ha mai inteso interpretare l’art. 44, co. 2, d.P.R. n. 380/2001, non rientrando tra le sue prerogative di interpretare i testi normativi dell’ordinamento interno degli Stati membri. La Cassazione avrebbe dovuto piuttosto sollevare questione di legittimità costituzionale della disposizione contenente l’ordine di esecuzione del trattato internazionale, nella parte in cui recepisce la norma della CEDU che, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, si pone in contrasto con la Costituzione italiana (così Viganò, F., op. cit., 7 s.).
9 Così, tra le altre, Cass. pen., 19.7.2011, n. 28731.
10 In questo senso, per tutte, v. Cass. pen., 19.9.2012, n. 1256.
11 Per un primo commento alla pronuncia delle S.U. cfr. Corso, P., Reato non presupposto di responsabilità amministrativa e limiti del sequestro/confisca nei confronti dell’ente, in Giur. it., 2014, 994 ss.; Santoriello, C., Confiscabilità “limitata” dei beni della società per i reati commessi dall’amministratore, in Fisco, 2014, 1249 ss.
12 Questo orientamento risale a Cass. pen., 5.2.1990, n. 265. Più di recente, exmultis,Cass. pen., 27.3.2012, n. 27037, e Cass. pen., 17.5.2013, n. 39204. In senso difforme, v. Cass. pen. 24.10.2012, n. 44512, che costituisce però un precedente isolato.
13 In questo senso cfr. Cass. pen., 10.6.1994, n. 2860; nonché, più recentemente, Cass. pen., 28.9.2011, n. 36913.
14 Così Cass. pen., 31.5.2011, n. 29926. Conformi, tra le altre, Cass. pen., 22.1.2013, n. 6336, e Cass. pen., 5.11.2013, n. 9678.
15 Cass. pen., ord. 12.12.2013, n. 7289. Sull’ordinanza di rimessione, si vedano altresì i commenti di Maugeri, A.M., La confisca allargata: dalla lotta alla mafia alla lotta all’evasione fiscale?, in www.penalecontemporaneo.it, 9.3.2014, e Menditto, F., La rilevanza dei redditi da evasione fiscale nella confisca di prevenzione e nella confisca “allargata”, ibidem.
16 Per un primo commento al testo della sirettiva si veda Maugeri, A.M., La Direttiva 2014/42/UE relativa alla confisca degli strumenti e dei proventi da reato nell’Unione europea tra garanzie ed efficienza: un “work in progress”, in www.penalecontemporaneo.it, 19.9.2014 (e ivi per ampi riferimenti al complesso iter legislativo che ha condotto all’adozione della direttiva).
17 Così Russo, R., Il senso del profitto, in corso di pubblicazione in Arch. pen., 2014, III.