Vedi Novita in tema di dibattimento dell'anno: 2012 - 2013
Novità in tema di dibattimento
Negli ultimi anni l’evoluzione della ricerca scientifica ha posto nel processo penale il complesso problema dell’utilizzo delle cd. neuroscienze che, misurando la struttura e la funzionalità del cervello, consentirebbero di individuare i cd. correlati neuronali del comportamento umano1.
I casi balzati alla ribalta della cronaca nazionale ed internazionale sono almeno tre e rivelano come le predette metodologie siano passibili di determinanti applicazioni nell’accertamento della responsabilità.
Si allude alla nota sentenza della Corte d’assise d’appello di Trieste sul cd. “gene dell’aggressività”: in secondo grado era stata disposta una perizia neuro-scientifica, richiesta dalla difesa e volta a ricercare nell’imputato polimorfismi genetici significativi per modulare le reazioni ambientali, specie di fronte all’esposizione ad eventi stressanti2.
Inoltre, il riferimento va alla sentenza Albertani, emessa dal Giudice per le indagini preliminari di Como, dove la prova neuroscientifica è stata applicata nell’ambito di una consulenza tecnica prodotta dalla difesa al fine di dimostrare la scemata capacità di intendere e di volere dell’imputata3.
Infine, merita ricordare la sentenza Serventi del Tribunale di Cremona, in relazione ad una perizia condotta con metodi neuroscientifici sulla memoria autobiografica della persona offesa e sull’eventuale danno post-traumatico da stress subito, a seguito della quale l’imputato è stato condannato4.
La levatura degli interessi coinvolti e la prospettabilità di interventi della Corte di legittimità sul tema rendono utile tracciare alcune coordinate di fondo per una soluzione conforme al sistema del codice ed ai princìpi costituzionali.
Merita ricordare che le neuroscienze costituiscono un complesso piuttosto articolato e difficilmente riconducibile ad unità, giacché hanno ad oggetto lo studio del cervello e del sistema nervoso degli organismi viventi a livello molecolare, biochimico e genetico. Lo scopo delle predette discipline è quello di analizzare la base biologica delle espressioni mentali e comportamentali dell’animale e dell’uomo a partire dallo studio delle singole cellule nervose, i neuroni. All’interno delle neuroscienze si distinguono determinati livelli di analisi e di ricerca5. Particolare interesse, ai fini del possibile impiego in ambito forense, rivestono la neuroscienza cognitiva e la neuroscienza comportamentale. La prima studia i meccanismi neurali delle principali attività della mente umana con particolare riferimento alla percezione, alla memoria, all’emozione, al linguaggio e all’apprendimento. La seconda ha ad oggetto lo studio del funzionamento dei sistemi neurali che stanno alla base del comportamento umano e, più in particolare, l’analisi genetica della struttura del cervello in relazione al comportamento medesimo6.
La questione si colloca sulla sottile linea di discrimine che corre tra le ipotesi nelle quali l’individuo rileva come fonte di prova dichiarativa e quelle in cui rileva come fonte di prova reale7. Particolari perplessità si appuntano sull’impiego processuale della neuroscienza cognitiva.
Si può, infatti, effettuare una summa divisio tra l’impiego della stessa quale strumento per così dire di “validazione” dell’attendibilità di una qualunque prova dichiarativa e l’utilizzo di siffatti accertamenti nell’ambito della perizia psichiatrica.
Un profilo comune ad entrambi i settori concerne la necessità di verificare la qualità del singolo esame neurologico impiegato, alla luce dei parametri di scientificità ormai noti al processo penale che fa, di consueto, riferimento ai criteri stabiliti dalla sentenza Daubert del 19938. Com’è noto, il Daubert test richiede i seguenti requisiti: controllabilità empirica della teoria; falsificabilità della stessa; conoscenza della percentuale di errore; pubblicazione previo controllo da parte di altri scienziati (peer review). Soltanto in via residuale, può ancora farsi riferimento al criterio della general acceptance. Ebbene, al di là del requisito della generale accettazione, ormai ritenuto non indispensabile, il punto fondamentale consiste nella conoscenza del tasso di errore, che non sempre risulta noto in relazione agli accertamenti dei quali si fa questione, e nella falsificabilità della teoria9.
Tuttavia, a nostro avviso, anche a voler dare per accertato il profilo oggettivo – tutt’altro che pacifico – concernente la qualità, la caratura scientifica della tecnica impiegata e la certezza dei risultati – si pongono questioni di natura soggettiva con riferimento alla libertà di autodeterminazione della persona sottoposta all’accertamento.
Ogniqualvolta, infatti, si analizzino le dinamiche cognitive del cervello umano, si rischia di accedere ad una sfera sottratta al controllo dell’interessato, in relazione alla quale l’individuo non è libero di autodeterminarsi, giacché oggetto di studio sono proprio le origini del comportamento di quella persona, ciò che sta prima e al di là del controllo volontario del proprio agire, come se tra corpo e mente non esistesse una soluzione di continuità. «Il primo indiscusso portato filosofico delle neuroscienze è consistito nella critica e nel superamento di quello che venne evocativamente definito da Antonio Damasio l’errore di Cartesio, filosofo inviso ai neuro-scienziati ... per aver riproposto e difeso l’idea (invero ben più risalente) che corpo e mente siano due entità tra loro distinte ... le neuroscienze argomentano spesso a partire da patologie neurologiche per dimostrare come molte disfunzioni che per cultura attribuiamo alla nostra “personalità” siano in realtà causate da deficit neurologici»10. Accogliendo un simile approccio – alla stregua di una «moderna forma di riduzionismo biologico»11 – la distinzione tra la persona come fonte di prova dichiarativa e come fonte di prova reale finirebbe per scolorarsi, giacché, in ultima analisi, si potrebbe affermare che, dietro alla genesi di ogni comportamento e di ogni dichiarazione, esiste un fenomeno fisico al quale si può accedere alla stregua di una res. Viene alla mente l’antico orientamento filosofico sulla corporeità dell’anima sul quale Socrate dibatte nel Fedone di Platone.
Tuttavia, al di là del fascino ambiguo di simili considerazioni – e al fine di contenere spinte “eversive” delle fondamentali regole di civiltà giuridica – è opportuno richiamarsi ancora una volta ai modelli di tutela ed ai pilastri di riferimento ricavabili dal sistema costituzionale e codicistico.
Maggiori certezze si riscontrano in relazione all’impiego delle neuroscienze nell’ambito dell’acquisizione della prova dichiarativa, ad esempio quale metodo di validazione della deposizione. Applicazioni siffatte sembrano da respingersi tout court giacché viene in gioco necessariamente la necessità di rispettare la libertà di autodeterminazione, che si atteggia alla stregua di uno sbarramento insuperabile nell’acquisizione di informazioni che appartendono al foro interno dell’individuo. La liberà morale è considerata ex professo inviolabile ed indisponibile dall’art. 188 c.p.p.; il limite assoluto continua ad operare finanche in presenza del consenso dell’interessato. Si ponga mente, ad esempio, all’impiego dell’implicit association test (cd. IAT) che misura i tempi di reazione di un soggetto di fronte ad una affermazione e mette in evidenza se ci sono meccanismi di difesa di fronte ad essa. Un siffatto controllo dell’inconscio, nel momento in cui viene reso un esame o una testimonianza, è da considerarsi radicalmente inibito, anche laddove la richiesta provenga dalla difesa o dall’individuo sottoposto all’escussione, per motivi identici a quelli che tradizionalmente inducono a ritenere vietata l’ipnosi o la macchina della verità. In proposito, non manca chi opta per l’assimilazione del settore oggi occupato dalle neuroscienze a quello che in passato costituiva terreno elettivo della psicoanalisi: la neuroscienza «suggerisce spiegazioni biologiche di fenomeni che hanno a che fare con la coscienza e con l’inconscio e che in precedenza costituivano monopolio della psicoanalisi»12.
Più controverso si rivela l’utilizzo delle neuroscienze cognitive e comportamentali nell’ambito della perizia psichiatrica. La peculiarità di siffatto mezzo di prova consiste nel fatto che esso ha ad oggetto l’individuo come fonte di prova reale, giacché, al fine di stabilire l’esistenza di una malattia mentale o di un disturbo della personalità, l’esame neurologico si atteggia con modalità che richiamano gli accertamenti sulla fisicità dell’individuo (es. prelievo di campioni al fine di estrarre il profilo del DNA, ricognizione di persona o di voce, accertamenti medici). Tuttavia, allorché la perizia psichiatrica passi attraverso una interazione con la persona (si pensi agli esami che richiedono la collaborazione dell’individuo il quale è chiamato a scegliere se e come rendere dichiarazioni) si pone, anche in tale sede, il problema del rispetto della libertà di autodeterminazione. Si delinea, dunque, una sorta di limbo nel quale la separazione tra profilo “dichiarativo” e profilo “reale” non è individuabile con chiarezza.
Su di un piano più generale, v’è da considerare che, laddove gli esami neuroscientifici vengano collocati nell’alveo in cui l’individuo (con la sua componente cerebrale) interessa alla stregua di una mera res, si prospetta un cupo scenario: simili metodiche possono addirittura essere ricondotte nell’ambito accertamenti medici eseguibili coattivamente nel corso della perizia o della consulenza tecnica ex artt. 224 bis e 359 bis c.p.p. In relazione a siffatti strumenti, peraltro, uno sbarramento potrebbe comunque individuarsi nel divieto di ledere la dignità (art. 224 bis, co. 5, c.p.p.). Per questo motivo, occorre ritenere che – per quanto non identificabili toutcourt con l’acquisizione di dichiarazioni in relazione alla quale l’individuo è senz’altro fonte di prova dichiarativa – anche gli esami riconducibili alle neuroscienze cognitive e comportamentali, utilizzabili nell’ambito della perizia psichiatrica, debbano quanto meno essere effettuati con il consenso della persona che vi è sottoposta. Sempre che non si ritenga di escludere la validità di un siffatto consenso applicando sic et simpliciter il divieto stabilito dall’art. 188 c.p.p.13
Si tratta, indubbiamente, di una frontiera inesplorata per il processo penale, in relazione alla quale, tuttavia, occorre prestare attenzione onde evitare deprecabili scadimenti rispetto alla irrinunciabile tutela del nucleo essenziale delle garanzie individuali.
Con la sentenza Pasqua, depositata il 18.7.201214, le Sezioni unite hanno affrontato la delicata materia della acquisizione della corrispondenza del detenuto effettuando un’attenta ricostruzione del sistema e tracciando alcune considerazioni di teoria generale che si collocano nel solco di un nutrito orientamento volto ad affermare un vero e proprio principio di legalità in materia probatoria15.
Da tempo ormai il diritto vivente si cimenta con il cd. ordine di esibizione della corrispondenza del detenuto, che ha dato luogo a vivaci discussioni. È il caso del pubblico ministero che, all’insaputa dell’interessato, ordina all’amministrazione penitenziaria di consegnare la corrispondenza alla polizia, a sua volta incaricata di estrarne copia. Successivamente, le buste vengono richiuse ed inoltrate al destinatario che rimane ignaro dell’accaduto.
Una siffatta attività risulta prima facie del tutto priva di una specifica regolamentazione, sia nel codice, sia nell’ordinamento penitenziario. Per questo motivo la giurisprudenza si è interrogata sulla praticabilità di un inquadramento all’interno degli strumenti probatori espressamente previsti o sulla possibilità di richiamare la disciplina della prova atipica. Si tratta di una questione di estrema importanza perché è proprio da tale soluzione che dipende la legittimità dell’attività acquisitiva e, conseguentemente, l’utilizzabilità delle informazioni raccolte.
L’orientamento maggioritario – sia pure con varietà di sfumature – ha escluso che il provvedimento sia riconducibile alla nozione di intercettazione ed ha richiamato, in proposito, la necessità di rispettare le regole generali tracciate dal codice in relazione al sequestro di corrispondenza (artt. 254 e 353 c.p.p.) e dall’ordinamento penitenziario in merito al visto di controllo epistolare disposto nei confronti di persone detenute (art. 18 ter ord. pen.). Pertanto, nelle ipotesi in cui l’attività fosse stata posta in essere al di fuori dei limiti tracciati dalla predetta disciplina, si è giunti a ritenere l’inutilizzabilità della prova acquisita16. A siffatte conclusioni si è giunti, ad esempio, nell’ipotesi frequente in cui il provvedimento fosse stato disposto dal pubblico ministero in assenza di un preventivo o successivo controllo del giudice e senza alcuna informazione in favore dell’indagato17.
Tuttavia, vi è stata almeno una pronuncia che, accogliendo un differente orientamento, ha tentato di ricondurre l’attività nell’alveo delle intercettazioni, richiamando per analogia quest’ultima disciplina. La medesima sentenza ha poi escluso la possibilità di invocare la regolamentazione relativa al visto di controllo ex art. 18-ter ord. pen. in ragione di una asserita finalità preventiva insita in tale norma, considerata del tutto incompatibile con gli scopi accertativi che connotano l’attività investigativa del pubblico ministero. Per l’arresto in esame, dunque, risultava valido l’ordine di controllo e acquisizione a fini probatori della corrispondenza, emesso dal giudice per le indagini preliminari su richiesta del pubblico ministero, considerato alla stregua di un provvedimento complesso composto da un ordine di sequestro della corrispondenza se del caso già sottoposta a controllo e di un provvedimento di intercettazione di comunicazioni con eventuale sequestro della corrispondenza ritenuta rilevante18.
Dopo un primo tentativo, esperito invano, nel 2009, la questione relativa all’inquadramento di un’attività tanto invasiva quanto caratterizzata da una formidabile utilità investigativa è stata rimessa alle Sezioni unite. Una pronuncia chiarificatrice del Supremo collegio si è rivelata vieppiù utile in ragione della delicatezza degli interessi coinvolti e della difficoltà incontrate nello stabilire limiti netti in relazione ad atti che sembrano sfuggire alle maglie dell’intelaiatura codicistica in materia di prove19.
In buona sostanza la pronuncia si basa su due argomenti principali. Anzitutto, il Collegio esteso ha escluso la necessità di procedere ad una interpretazione analogica delle norme sulle intercettazioni, rilevando come l’acquisizione della corrispondenza del detenuto rinvenga già una disciplina positiva rappresentata dalle norme codicistiche sul sequestro di corrispondenza (artt. 254 e 353 c.p.p.) e dalle disposizioni sul visto di controllo epistolare delineate nell’ordinamento penitenziario (art. 18 ter ord. pen.). In particolare, a quest’ultimo proposito, le Sezioni unite hanno affermato che l’art. 18 ter ord. pen. è una disposizione che non ha soltanto una finalità preventiva, bensì si riferisce ad ogni finalità perseguita dall’autorità pubblica, compresa l’attività di indagine20.
Dalle norme appena ricordate si ricava un dato inequivoco: l’acquisizione di corrispondenza in generale, e quella del detenuto in particolare, non può essere effettuata all’insaputa dell’interessato. Infatti, sia la disciplina codicistica, sia quella tratteggiata dall’ordinamento penitenziario, prevedono garanzie informative.
In secondo luogo – con affermazione di principio, suscettibile di sortire ripercussioni anche al di fuori dello specifico contesto – le Sezioni unite hanno ritenuto comunque inammissibile un’interpretazione analogica della disciplina delle intercettazioni, muovendo dal modello di tutela costituzionale della segretezza delle comunicazioni. A detta della Suprema Corte, infatti, dalla riserva di legge stabilita dall’art. 15 Cost., si ricava come non sia «consentita interpretazione analogica o estensiva di discipline specificamente dettate per singoli settori». Pertanto, poiché gli artt. 266 ss. c.p.p. fanno riferimento alle intercettazioni di «conversazioni o comunicazioni telefoniche o di altre forme di telecomunicazione», è escluso che le predette norme possano estendersi alla corrispondenza epistolare. A conferma, il Collegio esteso ha richiamato le osservazioni con le quali il Governo – nel corso dei lavori per l’approvazione del codice del 1988 – aveva respinto una proposta emendativa della Commissione parlamentare volta a richiamare la materia del sequestro di corrispondenza nell’ambito della disciplina delle intercettazioni. A parere del Governo, le intercettazioni presuppongono la «comunicazione orale e in itinere» pertanto non ricomprendono «“intercettazioni statiche” e cioè dei risultati delle comunicazioni».
Occorre ancora considerare che la sentenza Pasqua si contraddistingue per alcune affermazioni di principio in relazione ai limiti connaturati alla categoria della prova atipica. A chiusura del cerchio idealmente tracciato nella ricostruzione del sistema, infatti, il Supremo collegio ha escluso che l’intercettazione di corrispondenza possa avere ingresso processuale attraverso il canale della prova atipica. Quest’ultima categoria, infatti, non può valere quale escamotage finalizzato ad aggirare i limiti tratteggiati da altre norme in tema di prove. Poiché – come la Cassazione ha chiarito sin dall’inizio – l’acquisizione della corrispondenza del detenuto rinviene la propria disciplina nelle norme sul sequestro e sul visto di controllo, è alle forme delineate da tali disposizioni che occorre fare riferimento21. La prova atipica mira a consentire l’impiego di strumenti non disciplinati dalla legge, ma non può valere a eludere la disciplina legale – semplificandone o escludendone le forme – quando questa esiste22.
Si tratta di un’affermazione di estrema importanza, che si ricollega a quanto già diffusamente chiarito dalle Sezioni unite “Torcasio” nel 200323. Esiste un principio di non sostituibilità che presidia i limiti ricavabili dal sistema e che rafforza il canone di legalità delle prove, oggi saldamente compenetrato con gli enunciati dell’art. 111, co. 1, Cost.24.
È dunque impossibile che la prova atipica possa valere a superare i divieti stabiliti dalla legge sia quando siffatti limiti risultano espressamente fissati, sia qualora essi si ricavino dalle forme e dalle competenze stabilite da norme che incidono sui diritti fondamentali e, dunque, hanno natura tassativa. Qualora si verifichi un simile aggiramento, scatta l’inutilizzabilità patologica generale per violazione di divieti probatori (art. 191 c.p.p.).
L’acquisizione di corrispondenza del detenuto, per la sentenza in esame, non deve considerarsi come uno strumento probatorio sui generis. Le finalità sottese ad una siffatta attività possono essere perseguite nelle forme e con i limiti tracciati dalla disciplina generale prevista dal codice in tema di sequestro e dall’ordinamento penitenziario in materia di visto epistolare. Dal simultaneo operare delle predette norme si desume che a risultare radicalmente esclusa, in definitiva, è la possibilità di disporre una simile attività acquisitiva in modo occulto ed inoppugnabile.
L’assoluta condivisibilità delle affermazioni di principio sconta soltanto l’assenza di una ricostruzione organica della disciplina applicabile all’acquisizione di corrispondenza. Il Collegio esteso si è limitato a indicare la strada del riferimento simultaneo alle norme relative al sequestro di corrispondenza ed al visto di controllo nei confronti dei detenuti. Attraverso quest’ultima disciplina, in particolare, l’ordinamento penitenziario mira a garantire al detenuto il rispetto dei diritti fondamentali compatibili con siffatto status ed impone che i poteri di intrusione dell’autorità giudiziaria nella corrispondenza che transita per gli istituti penitenziari siano attentamente calibrati con la previsione di limiti temporali e della facoltà di reclamo25.
Alcune indicazioni operative, invero, si traggono dall’analisi del caso di specie. La Corte ha affermato che, fino alla sentenza di primo grado, competente all’adozione del visto di controllo è il giudice per le indagini preliminari. Nessun potere autonomo è riconosciuto al pubblico ministero, neppure in via di urgenza.
Inoltre, il visto di controllo epistolare implica la necessità che, previa apertura non occulta del plico, sul contenuto della corrispondenza sia impresso un segno riconoscibile e idoneo ad attestare l’effettuato controllo, rendendo in tal modo edotti i soggetti che intrattengono la corrispondenza.
Infine, qualora si intenda non solo apprendere il contenuto della corrispondenza ma anche acquisirne la prova documentale mediante estrazione di copia, si realizza un pur momentaneo trattenimento della stessa che impone la immediata informazione al detenuto ai sensi dell’art. 18 ter, co. 5, ord. pen.
Da ultimo, la Corte ha dichiarato l’inutilizzabilità dei dati raccolti applicando la disciplina delle intercettazioni in violazione dei divieti ricavabili dal sistema e dalle norme sul sequestro di corrispondenza e sul visto di controllo.
In chiusura, occorre rimarcare qualche riserva sulla, pur condivisibile, radicalità della esclusione dell’interpretazione analogica in tema di intercettazioni. Come è noto, infatti, la stessa Corte di cassazione, sulla scorta delle indicazioni della Consulta, aveva ritenuto possibile applicare alle videoriprese di comportamenti comunicativi la disciplina delle intercettazioni, senza tener conto del fatto che l’apprensione dell’immagine, per la sua natura e per le delicatissime implicazioni che vi sono connesse, non pare sic et simpliciter idonea ad essere ricompresa nel concetto di “comunicazione”26.
La Cassazione si è pronunciata con inedita statuizione in merito all’ambito applicativo del divieto di domande suggestive27. In prima battuta, il Supremo collegio ha confermato – secondo quanto nitidamente ricavabile dal tenore letterale dell’art. 499, co. 3, c.p.p. – che il predetto divieto si applica esclusivamente nel corso dell’esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del dichiarante e da chi abbia un interesse comune. Cionondimeno, la Corte ha affermato che tale limite si estende attraverso il riferimento al divieto di domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte (art. 499, co. 2, c.p.p.). Per un verso, infatti, nella sua accezione di genere, quest’ultima più ampia categoria è idonea ricomprendere anche le domande suggestive. Per altro verso, il divieto di domande nocive – poiché la norma appena ricordata non distingue in alcun modo – opera nei confronti di tutti i soggetti che partecipano all’esame incrociato, e vale a fortiori per il giudice nei casi in cui la legge gli consente di rivolgere domande, come accade nell’esame del minore. D’altro canto, l’art. 499, co. 6, c.p.p. pone in capo a tale soggetto l’obbligo di assicurare in ogni caso la genuinità delle risposte.
All’evidenza, la sentenza è spinta dalla volontà di limitare il ricorso a domande suggestive, specialmente quando l’esame sia condotto dal giudicante. Sul punto, infatti, si è formato un contrasto di giurisprudenza in relazione all’ipotesi, dianzi ricordata, in cui tale soggetto si trovi a condurre l’esame del minore28.
Tuttavia, dal punto di vista tecnico, un’interpretazione come quella prospettata dalla Cassazione – considerando lo sbarramento rispetto alle domande suggestive già ricavabile dal divieto di domande nocive ex art. 499, co. 2, c.p.p. – finisce per rendere pleonastico lo specifico divieto sancito dall’art. 499, co. 3, c.p.p. Una simile esegesi, oltre a non rispettare il principio di conservazione delle norme giuridiche, appare altresì contra legem nella parte in cui trascura le rationes sottese ai limiti soggettivi tratteggiati dall’art. 499, co. 3, c.p.p. Il divieto di domande suggestive, infatti, non opera nel controesame giacché la possibilità di rivolgere leading questions svolge in tale contesto la funzione di mettere in crisi la credibilità del dichiarante e l’attendibilità della risposta fornita nell’esame diretto. Ben diversa, per contro, è la domanda nociva che potrebbe trarre scorrettamente in inganno il dichiarante, fornendogli informazioni errate e tali da minare la stessa sincerità della sua risposta. Poiché quesiti di tal guisa recano in sé un potenziale idoneo ad inquinare la dichiarazione, essi risultano vietati in ogni fase dell’esame incrociato ed a qualunque soggetto si trovi a svolgere l’escussione29.
Il Supremo collegio nel 2012 ha emesso ancora una pronuncia in materia di contestazioni al dichiarante che sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro affinché non deponga o deponga il falso30. Com’è noto, in tal caso le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo dibattimentale e possono costituire prova del fatto narrato (art. 500, co. 4, c.p.p.).
Con la sentenza in esame, la Cassazione ha affermato che il procedimento incidentale diretto ad accertare gli elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a condotta illecita deve fondarsi su parametri di ragionevolezza e di persuasività, nel cui ambito può assumere rilievo qualunque elemento sintomatico dell’intimidazione subita dal teste, purché sia connotato da precisione, obiettività e significatività, secondo uno standard probatorio che non può essere rappresentato dal semplice sospetto, ma neppure da una prova al di là di ogni ragionevole dubbio, richiesta soltanto per il giudizio di condanna.
La pronuncia si inserisce sullo sfondo di un contrasto giurisprudenziale sorto nell’immediatezza dell’entrata in vigore della nuova disciplina – e tuttora assai acceso – in merito agli elementi dai quali desumere l’esistenza di una condotta illecita. La querelle è stata generata dall’ambiguo tenore lessicale dell’art. 500, co. 4, c.p.p. a mente del quale è possibile ritenere integrata la fattispecie normativa «quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere» la sussistenza della situazione de qua.
Un primo indirizzo ritiene che la situazione di inquinamento probatorio non possa essere desunta dalle sole circostanze emerse dal dibattimento e richieda necessariamente la presenza di ulteriori elementi31. L’effetto, ovviamente, è quello di restringere la portata applicativa della deroga al contraddittorio.
Un secondo orientamento esegetico, nel quale si iscrive la pronuncia in esame, non esclude a priori il novero delle risultanze dalle quali si può ricavare la prova dell’inquinamento della fonte dichiarativa e lascia aperta la possibilità di porre a base della relativa valutazione anche le sole modalità della deposizione dibattimentale, purché la prova sia tratta da elementi concreti32.
La differenza tra le ricordate impostazioni ci pare assimilabile alla divaricazione che intercorre tra il concetto di probabilità statistica e di probabilità logica. Come si afferma che non assume rilevanza il valore predittivo astratto della legge scientifica, bensì l’accertamento dell’idoneità esplicativa nel caso concreto alla luce del parametro del ragionevole dubbio, così può ben sostenersi che non conta tanto la delimitazione del novero degli elementi dai quali si può desumere la prova della condotta illecita sul dichiarante quanto il grado di persuasione che si può trarre dagli stessi nel caso concreto. Ovviamente, resta fermo quanto precisato anche dalla sentenza in esame: la condotta illecita rappresenta un fatto processuale ex art. 187, co. 2, e, dunque, il relativo standard probatorio non è l’al di là del ragionevole dubbio – parametro destinato a riferirsi ai fatti di cui all’imputazione – bensì un quantum assimilabile, con qualche approssimazione, al concetto civilistico del più probabile che no33.
È importante evidenziare come il legislatore, nell’ipotesi in oggetto, abbia stabilito l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento non soltanto delle precedenti dichiarazioni utilizzate per la contestazione, bensì dell’intero verbale34.
1 Sul punto, senza pretesa di esaustività, Bianchi, A., Manuale di neuroscienze forensi, Milano, 2009; Capraro, L.-Cuzzocrea, V.-Picozza, E.-Terracina, D., Neurodiritto. Una introduzione, Torino, 2011; Collica, M.T., Il riconoscimento del ruolo delle neuroscienze nel giudizio di imputabilità, in www.penalecontemporaneo.it, 8 ss.; Lavazza, A.-Sammicheli, L., Il delitto nel cervello, Torino, 2012; Merzagora Betsos, I., Il colpevole è il cervello: imputabilità, neuroscienze, libero arbitrio: dalla teorizzazione alla realtà, in Riv. it. med. leg., 2011, 175; Stracciari, A., Bianchi A., Sartori, G., Neuropsicologia forense, Bologna, 2010, 49 ss.; Sartori, G.-Rigoni, D.-Mechelli A.-Pietrini P., Neuroscienze, libero arbitrio, imputabilità, in AA.VV., Psichiatria forense, criminologia ed etica psichiatrica, a cura di V. Volterra, Milano, 2010, 36 ss.
2 Sentenza 18.9.2009, in Riv. pen., 2010, 70 (con nota di A. Forza, Le neuroscienze entrano nel processo penale).
3 Sentenza 20.5.2011, Albertani, in www.guidaaldiritto.it, 30.8.2011 (con nota di P. Maciocchi, Gip di Como: le neuroscienze entrano e vincono in tribunale) e in Guida dir., 2012, n. 5, 63 (con nota di D. Terracina, Neuroscienze: lo studio della morfologia del cervello determinante nello stabilire il vizio parziale di mente). Nella sentenza in esame, peraltro, il giudice precisa che le indagini neuroscientifiche sono state disposte con estremo rigore dai consulenti tecnici a completamento delle indagini psichiatriche e neuropsicologiche tradizionali.
4 Trib. di Cremona, 19.7.2011, in corso di pubblicazione in Riv. it. med. leg., con nota di L. Algeri, Neuroscienze e testimonianza della persona offesa. Sulle pronunce, Casasole, F., Neuroscienze, genetica comportamentale e processo penale, in Dir. pen. e processo, 2012, 110 ss.; Collica, M.T., Il riconoscimento, cit., spec. 21 ss. Nel panorama internazionale, Feresin, E., Italian court reduces murder sentence based on neuroimaging, in Nature, 1.9.2011; Hamzelou, J., Brain scans reduce murder sentence in Italian court, in New Scientist, 2.9.2011. Secondo Di Giovine, O., Chi ha paura delle neuroscienze?, in Arch. pen., 2011, 840, nelle predette pronunce le neuroscienze non mutano le consuete categorie concettuali cui il giudice fa ricorso; esse si accostano ai tradizionali elementi valutativi senza scardinarli e senza sovvertire i princìpi e le categorie dogmatiche consolidate. Sottolinea l’utilizzo in bonam partem delle neuroscienze, Ronco, M., Sulla “prova” neuroscientifica, in Arch. pen., 2011, 858.
5 Cfr. Algeri, L., Neuroscienze e testimonianza della persona offesa, cit. Per ulteriori approfondimenti si vedano Bear, M.F., Connors, B.W., Paradiso, M.A., Neuroscience. Exploring the Brain, III ed., Lippincott Williams & Wilkins, U.S.A., 2007, 12 ss.
6 V. ancora Algeri, L., Neuroscienze, cit.
7 Si rinvia amplius alle considerazioni svolte in Tonini, P.-Conti, C., Il diritto delle prove penali, Milano, 2012, 176 ss.
8 Si allude ovviamente alla sentenza emessa dalla Corte Suprema statunitense, sulla quale, amplius, Tonini, P.-Conti, C., Il diritto delle prove penali, cit., 335
9 Si veda Bertolino, M., Il “breve” cammino del vizio di mente. Un ritorno al paradigma organicistico, in Criminalia, 2008, 325 e in Aa.Vv., Le neuroscienze e il diritto, a cura di A. Santosuosso, Pavia, 2009, 121 ss.; Collica, M.T., Il riconoscimento, cit., 13; Ronco, M., Sulla “prova” neuroscientifica, cit., 866.
10 Così Di Giovine, O., Chi ha paura delle neuroscienze?, cit., 836. Ritiene che la questione della libertà del volere possa essere risolta soltanto sul piano metafisico, Ronco, M., Sulla “prova” neuroscientifica, cit., 854. Sull’impiego delle neuroscienze nell’accertamento della capacità di intendere e di volere Collica, M.T., Il riconoscimento, cit., 8 che rileva comunque la necessità di accertare il nesso causale tra il disturbo e la genesi e la dinamica del reato; in merito alla figura del dolo, Fiandaca, G., Appunti sul “pluralismo” dei modelli e delle categorie del diritto penale contemporaneo, in Corte Ass., 2011, 83 ss. Su entrambi i profili, si veda ancora Di Giovine, O., Chi ha paura, cit., 843.
11 L’espressione è di Di Giovine, O., Chi ha paura, cit., 838. Si veda Fornari, U., Le neuroscienze forensi: una nuova forma di neopositivismo?, in Cass. pen., 2012, 2719.
12 Di Giovine, O., Chi ha paura, cit., 837. Sia consentito rinviare a Tonini, P.-Conti, C., Il diritto delle prove penali, cit., 181 ss.
13 Nel caso di Trieste ed in quello di Como vi era il consenso, o addirittura l’iniziativa, della difesa al fine (concretamente perseguito) di attenuare la pena dimostrando l’assenza (o la diminuzione) della capacità di intendere e di volere.
14 Cass., S.U., 19.07.2012, n. 28997.
15 Sulla sentenza Leo, G., Le Sezioni unite escludono la legittimità di controlli occulti sulla corrispondenza dei detenuti e non solo, in www.penalecontemporaneo.it; Romeo, G., Le Sezioni unite sull’applicabilità delle disposizioni relative alle intercettazioni, alla sottoposizione a controllo e all’acquisizione probatoria della corrispondenza epistolare del detenuto, ibidem.
16 In dottrina, sulla questione, Chelo Manchia, A., Acquisizione di corrispondenza o «intercettazione epistolare»?, in Dir. pen. proc., 2007, 1051; Cicala, A., Limitazioni e controlli della corrispondenza del detenuto: la «risposta» alle condanne irrogate da Strasburgo, in Giur. mer., 2009, 459; Felici, E., Alcune considerazioni sulla pretesa effettiva inviolabilità del diritto alla corrispondenza dei detenuti, in Giur. merito, 2005, 2430; Iovene, F., Il diritto del detenuto alla segretezza della corrispondenza, in Cass. pen., 2010, 3523; Murro, O., Il rapporto tra controllo e garanzie della corrispondenza, in Dir. pen. proc., 2010, 706; Radicetti, L., Sulla corrispondenza della persona in vinculis, in Giur. mer., 2006, 1742; Tesoriero, S., Uno strano ordine di esibizione della corrispondenza sospeso tra sequestro ed intercettazione, in Cass. pen., 2008, 661.
17 Cass. pen. 23.06.2006, n. 20228; Cass. pen., 10.12.2009, n. 47009, che peraltro, dopo aver escluso la validità dell’atto acquisitivo della corrispondenza, ha ritenuto comunque utilizzabile il sequestro di armi effettuato sulla base delle informazioni tratte dallo scambio epistolare; Cass. pen., 29.04.2010, n. 16575. Quest’ultima sentenza è commentata da Chelo, A., Acquisizione clandestina della corrispondenza del detenuto: un’intercettazione che “non s’ha da fare”, in Dir. pen. proc., 2010, 1313.
18 Cass. pen., 18.10.2007, n. 3579. Sulla sentenza appena ricordata, Calò, L., Art. 15 Cost.: quello strenuo conflitto tra garanzia e limitazione della corrispondenza in Cass. pen., 2009, p. 621.
19 Si veda Tonini, P.-Conti, C., Il diritto delle prove penali, Milano, 2012, 391.
20 In tal modo si sono discostate dai rilievi di Cass. pen., 18.10.2007, n. 3579.
21 Per un inquadramento in questi termini della questione, v. già, Conti, C., Il volto attuale dell’inutilizzabilità: derive sostanzialistiche e bussola della legalità, in Dir. pen. e processo, 2010, 781.
22 In tal senso, con riferimento alla questione della corrispondenza del detenuto, Cass. pen., 10.12.2009, n. 47009.
23 Cass., S.U., 28.05.2003, n. 36747. In proposito, già, Rafaraci, T., Ricognizione informale dell’imputato e (pretesa) fungibilità delle forme probatorie, in Cass. pen., 1998, 1745, nonché, volendo, Conti, C., Accertamento del fatto e inutilizzabilità nel processo penale, Padova, 2007, 274 ss.
24 Sul punto, Spangher, G., «E pur si muove»: dal male captum bene retentum alle exclusionary rules, in Giur. cost., 2001, 2821.
25 Come è noto a seguito di numerose condanne emesse dalla Corte europea dei diritti umani nei confronti dell’Italia, la disciplina è stata modificata dalla legge 8.4.2004, n. 95 che ha inserito l’art. 18 ter ord. pen. Peraltro, anche anteriormente a siffatta novella, l’art. 38, co. 10, reg. ord. pen. prevedeva che il detenuto dovesse essere immediatamente informato che la corrispondenza era stata trattenuta. Sulla riforma, volendo, Conti, C., Il reclamo sulle restrizioni della corrispondenza in carcere nel quadro della tutela dei diritti dei detenuti, in Cass. pen., 2006, 282 ss.
26 C. Cost., 24.04.2002, n. 135; Cass., S.U., 28.03.2006, n. 26795. Sul punto, volendo, Conti, C., Accertamento del fatto e inutilizzabilità nel processo penale, cit., 198.
27 Cass. pen., 24.02.2012, n. 7373. Sulla sentenza Brichetti R., L’inosservanza di regole sulla sincerità del teste rende la prova «non genuina e poco attendibile», in Guida dir., 2012, 18, 45.
28 Nel senso che il divieto non operi, si veda Cass. pen., 4.03.2010, n. 16854; Cass. pen., 12.12.2007, n. 4721. Per l’operatività del divieto, Cass. pen., 11.05.2011, n. 25712. Sulla sentenza Pussini, I., Giudice e domande suggestive: un nodo irrisolto, in Cass. pen., 2012, 589 secondo cui, ove si ritenesse diversamente, si arriverebbe all’assurda conclusione che le regole fondamentali per assicurare una testimonianza corretta verrebbero meno laddove, per la fragilità e la suggestionabilità del dichiarante, sono più necessarie.
29 Si veda Carofiglio, G., Il controesame, Milano, 1997, 143; Carponi Schittar, D., Esame e controesame nel processo accusatorio, Padova, 1989, 77 ss.; Id., Esame e controesame. Teoria e tecnica, Milano, 2012, 339 ss.; Randazzo, E., La prova dichiarativa e le prassi applicative, in AA.VV., L’esame incrociato, Milano, 2012, 6; Id., Insidie e strategie dell’esame incrociato, II ed., 2012, 8-9.
30 Cass. pen., 26.06.2012, n. 25254.
31 Cass. pen., 8.10.2009, n. 48140; Cass. pen., 2.03.2007, n. 11203.
32 Cass. pen., 19.05.2010, n. 25069. In termini analoghi, Cass. pen., 16.05. 2007, n. 31666; Cass. pen., 4.11.2009, n. 49579; Cass. pen., 14.01.2009, n. 5224. Si veda, inoltre, in relazione al riavvicinamento tra imputato e persona offesa quale elemento idoneo ad incidere sulla genuinità dell’esame, Cass., pen., 13.06.2007, n. 33817; Cass., pen., 3.10.2006, n. 38109. Sulla sentenza Grevi, V., Sulla (non) rilevanza della “riappacificazione” tra testimone e imputato ai fini dell’art. 500, comma 4, c.p.p., in Cass. pen., 2007, 2707.
33 In termini, Cass. pen., 8.02.2006, n. 7230; Cass. pen., 20.04.2010, n. 1704; Cass. pen., 30.09.2009, n. 44160.
34 Si veda, in tal senso, Cass. pen., 15.06.2010, n. 27582. In motivazione la Corte ha aggiunto che l’espressione “sono acquisite”, impiegata dalla norma citata, indica un automatismo che ne consente l’acquisizione anche in assenza di una richiesta delle parti. Nel senso dell’esistenza di un potere officioso del giudice, Cass. pen., 9.10.2009, n. 44491.