Novità in tema di misure cautelari
Con la recente sentenza di rigetto n. 45/20141, la Corte costituzionale ha fornito importanti chiarimenti sulla disciplina che regola il trattamento cautelare per i tossicodipendenti accusati di reati di particolare gravità2, alla luce delle pronunce che hanno eliminato i rigidi automatismi progressivamente introdotti dal legislatore nella scelta delle misure cautelari3.
La questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Catanzaro, ha riguardato l’art. 89, co. 4, d.P.R. 9.10.1990, n. 309, nella parte in cui prevede che le disposizioni di cui ai precedenti co. 1 e 2 non si applicano quando si procede per il delitto previsto dall’art. 74 del medesimo decreto (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope).
Ad avviso del giudice remittente, la disciplina censurata, precludendo la sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari presso una comunità terapeutica per tossicodipendenti, si porrebbe in contrasto con l’art. 32 Cost. (in quanto accorderebbe al diritto alla salute del tossicodipendente una tutela ingiustificatamente più ridotta di quella prefigurata dagli artt. 275, co. 4 ss., e 286 c.p.p. in rapporto ad altre situazioni, quali quelle della donna incinta omadre di prole in tenera età, dell’ultrasettantenne, ecc.); con l’art. 3 Cost. (sia sotto il profilo della ingiustificata discriminazione tra i tossicodipendenti imputati del suddetto delitto associativo e quelli imputati di altri reati; sia sotto l’ulteriore profilo dell’irragionevole equiparazione delle diverse fattispecie concrete integrative del delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti); con gli artt. 3 e 27, co. 2, Cost. (in quanto escluderebbe il tossicodipendente sottoposto a misura cautelare per il reato de quo dalle più ampie possibilità di accesso a programmi di recupero accordate ai tossicodipendenti dagli artt. 90 e 94 d.P.R. n. 309/1990 in sede di esecuzione della pena), oltre che con gli artt. 13, co. 1, e 27, co. 2, Cost. La Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione, evidenziando la erroneità della ricostruzione del quadro normativo operata dal giudice remittente, il quale ha trascurato gli effetti della più recente giurisprudenza della Consulta in materia4.
Nel descrivere le linee-guida della regolamentazione dettata dall’art. 89 del d.P.R. n. 309/1990 – che contiene una speciale disciplina di favore, rispetto ai criteri generali di scelta delle misure cautelari personali, per le persone tossicodipendenti e alcooldipendenti che abbiano in corso, o intendano intraprendere, programmi terapeutici di recupero presso idonee strutture – la Consulta ha enucleato i due dati costanti alle varie versioni della norma, succedutesi nel corso degli anni: da un lato, l’innalzamento ai livelli più elevati («esigenze cautelari di eccezionale rilevanza») del grado di periculum libertatis necessario affinché possa essere disposta o mantenuta la custodia in carcere; dall’altro lato, la previsione di una condizione negativa suscettibile di escludere l’applicabilità del regime cautelare di favore allorché si proceda per determinati delitti, di particolare gravità e allarme sociale, tra i quali rientra la fattispecie associativa incriminata dall’art. 74 cit.
La Corte costituzionale ha quindi ripercorso i rapporti tra tale disciplina speciale e quella generale contenuta nell’art. 275 c.p.p., sottolineando che fino al 2009 la soluzione normativa non implicava alcun tipo di “automatismo cautelare carcerario”. La situazione era mutata a seguito della modifica dell’art. 275, co. 3, c.p.p. introdotta dal d.l. 23.2.2009, n. 11, convertito in legge dalla l. 23.4.2009, n. 38, che aveva incluso il suddetto reato associativo nel catalogo dei delitti ai quali è collegata una presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere. Per effetto di tale intervento normativo, il tossicodipendente gravemente indiziato del delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, escluso dal regime di favore previsto dall’art. 89, co. 1 e 2, del d.P.R. n. 309/1990, veniva automaticamente a ricadere nell’opposto regime “di rigore” prefigurato dall’art. 275, co. 3, c.p.p., che in presenza delle ordinarie esigenze cautelari lo rendeva assoggettabile a custodia in carcere senza alcuna possibile alternativa.
In proposito, la Consulta ha però evidenziato che il vulnus ai principi costituzionali insito in tale assetto normativo è stato rimosso da C. cost., 22.7.2011, n. 2315, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il novellato art. 275, co. 3, c.p.p., nella parte in cui prevedeva il suddetto “automatismo” cautelare.
Per effetto di tale pronuncia, il tossicodipendente imputato del delitto associativo de quo ha riacquistato la possibilità di fruire, sulla base di una valutazione “individualizzata” della singola vicenda, della misura degli arresti domiciliari finalizzati allo svolgimento di un programma di recupero. Anche se non diviene applicabile quella sorta di “semi-automatismo in favor” nella concessione degli arresti domiciliari delineata dai primi due commi dell’art. 89, il giudice potrà comunque disporre, sulla base degli ordinari criteri di selezione, misure meno gravose della custodia in carcere e che agevolino la riabilitazione dell’interessato.
La suesposta ricostruzione dell’attuale assetto normativo ha indotto la Corte costituzionale a riconoscere la infondatezza delle denunce di violazione dell’art. 3 Cost. (in quanto il legislatore può, nella sua discrezionalità, escludere da un regime cautelare di favore i soggetti indagati per determinati reati, avuto riguardo alla loro gravità e alla pericolosità soggettiva da essi solitamente desumibile, a condizione che ciò non comporti il loro assoggettamento ad un indiscriminato “automatismo sfavorevole”); degli artt. 13, co. 1, e 27, co. 2, Cost. (giacché il tossicodipendente gravemente indiziato del delitto in questione non si trova più indefettibilmente esposto al massimo sacrificio della libertà personale); dell’art. 32 Cost.; e degli artt. 3 e 27 Cost. (essendo stato prospettato un raffronto tra situazioni eterogenee).
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 293/20136, ha affrontato la controversa questione relativa alle condizioni cui è subordinata la deducibilità della retrodatazione, nel procedimento di riesame, della decorrenza dei termini di durata massima delle misure cautelari, prevista dalla disciplina della “contestazione a catena” di cui all’art. 297, co. 3, c.p.p. Sul punto, recentemente le Sezioni Unite, con la sentenza n. 45246/20127, avevano raggiunto una soluzione che la Consulta ha definito “di compromesso”, affermando che la questione relativa alla retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare può essere dedotta anche nel procedimento di riesame alle seguenti condizioni: a) termine interamente scaduto, per effetto della retrodatazione, al momento del secondo provvedimento cautelare; b)
desumibilità dall’ordinanza applicativa della misura coercitiva di tutti gli elementi idonei a giustificare l’ordinanza successiva.
Nel giudizio di rinvio susseguente alla predetta pronuncia di annullamento il Tribunale di Bologna ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 309 c.p.p., in relazione all’art. 297, co. 3, c.p.p., nella parte in cui subordina alla seconda condizione sopra indicata la deducibilità della questione della retrodatazione dell’ordinanza cautelare.
Tale questione è stata ritenuta fondata dalla Consulta, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 309 c.p.p., in quanto interpretato nel senso che la deducibilità, nel procedimento di riesame, della retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure cautelari, prevista dall’art. 297, co. 3, c.p.p., sia subordinata – oltre che alla condizione che, per effetto della retrodatazione, il termine sia già scaduto al momento dell’emissione dell’ordinanza cautelare impugnata – anche a quella che tutti gli elementi per la retrodatazione risultino da detta ordinanza.
La Corte ha infatti ravvisato una violazione del principio di uguaglianza, sancito dall’art. 3, co. 1, Cost., osservando che la regula iuris censurata «si presta a determinare disparità di trattamento tra soggetti che versano in situazioni identiche in correlazione a fattori puramente accidentali, avulsi dalla ratio degli istituti che vengono in rilievo. A parità di situazione, infatti, la fruibilità del riesame finisce per dipendere dall’ampiezza e dalla puntualità delle indicazioni contenute nella motivazione del provvedimento coercitivo. Il livello della tutela viene ad essere determinato, in altre parole, dal maggiore o minore scrupolo con il quale il giudice della cautela assolve all’onere di motivare l’ordinanza restrittiva e, prima ancora, dal fatto che egli sia o non sia a conoscenza degli elementi che impongono la retrodatazione».
Sono stati quindi disattesi gli argomenti valorizzati dalle Sezioni Unite per introdurre la suddetta condizione. In particolare, l’argomento relativo alla difficile “gestibilità” di una tematica complessa, quale quella delle “contestazioni a catena”, da parte del tribunale del riesame, costretto a decidere in tempi brevissimi e senza fruire di poteri istruttori, è stato respinto sulla base del rilievo che le questioni sulle quali il tribunale del riesame è chiamato ordinariamente a pronunciarsi spesso risultano non meno complesse. Inoltre, l’obiezione collegata al carattere solo eventuale del contraddittorio, proprio del procedimento di riesame, è stata ritenuta inconferente poiché il pubblico ministero può comunque intervenire in udienza.
La sentenza in esame finisce per ampliare i poteri del giudice del riesame e per estendere, anticipandola, la disciplina della “contestazione a catena”8.
La Consulta ha, peraltro, specificato che la possibilità di far valere, in sede di riesame, la retrodatazione debba considerarsi aggiuntiva, e non sostitutiva, rispetto a quella di chiedere la revoca della misura, illustrando i rispettivi vantaggi e svantaggi dei due strumenti.
Dal complessivo iter motivazionale della pronuncia emerge comunque la condivisione, da parte della Corte costituzionale, della prima condizione indicata dalle Sezioni Unite ai fini della deducibilità della retrodatazione: l’esigenza che il termine massimo della misura sia interamente scaduto, per effetto della retrodatazione, al momento del secondo provvedimento cautelare, è infatti considerata in linea con il carattere impugnatorio del mezzo di gravame, con cui è quindi possibile far valere solo vizi originari della misura9.
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione10 hanno risolto il contrasto manifestatosi nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla cumulabilità o meno della sospensione e dell’aumento (fino a sei mesi) dei termini di custodia cautelare, rispettivamente previsti dall’art. 304, co. 2, e dall’art. 303, co. 1, lett. b), n. 3-bis, ai fini del superamento del termine massimo di durata della misura, fissato nel doppio dei termini di fase dall’art. 304, co. 6, c.p.p.
In proposito, un orientamento giurisprudenzialeminoritario11 aveva escluso che nel computo del doppio del termine di fase della custodia cautelare si dovesse tenere conto dell’aumento fino a sei mesi. La cumulabilità della sospensione e dell’aumento era stata così ammessa muovendo dall’assunto che la finalità perseguita dal legislatore fosse quella di offrire al giudice del dibattimento un termine aggiuntivo di trattazione, per impedire la scarcerazione di persone imputate di reati di particolare allarme sociale per effetto della maturazione dell’ordinario termine massimo di fase, pur se raddoppiato.
Le Sezioni Unite hanno invece accolto la contrapposta interpretazione, già seguita dalla giurisprudenza maggioritaria, secondo cui, qualora il termine di fase sia stato sospeso per la particolare complessità del dibattimento o del giudizio abbreviato, ai sensi dell’art. 304, co. 2, il termine massimo di durata della custodia cautelare, fissato nel doppio dei termini di fase dal co. 6 della predetta norma, non può essere superato sommando ad esso l’ulteriore termine eventualmente utilizzato nella fase del giudizio ai sensi dell’art. 303, co. 1, lett. b), n. 3-bis, c.p.p.
In questo senso sono stati valorizzati gli argomenti desumibili dal tenore letterale dell’art. 304, co. 6, c.p.p., da considerazioni di natura logico-sistematica e dalla ricostruzione storica del procedimento di formazione della norma, che evidenzia che la legge di conversione ha mutato l’originaria formulazione del decreto legge, la quale prevedeva espressamente la possibilità di cumulo in esame.
Le Sezioni Unite hanno altresì sottolineato l’esigenza di adottare, in questo campo, una interpretazione costituzionalmente orientata, ispirata ai principi di adeguatezza e di proporzionalità operanti anche in relazione ai limiti di durata della custodia cautelare.
Di particolare interesse, infine, le argomentazioni sviluppate dalla Suprema Corte con riferimento alla necessità del rispetto della normativa convenzionale, sia sotto il profilo (ricavabile agevolmente dall’art. 5, par. 3, CEDU) della necessità che la privazione della libertà personale prima della condanna definitiva sia il più possibile limitata nel tempo e comunque non si protragga secondo criteri irragionevoli, sia sotto l’aspetto – già segnalato da un’altra pronuncia di legittimità12 – della prevedibilità del risultato interpretativo cui perviene l’elaborazione giurisprudenziale.
La mancanza di tale carattere comporta una violazione dell’art. 7 CEDU, che riafferma il principio di legalità convenzionale riferibile non solo al diritto di emanazione legislativa ma altresì a quello di derivazione giurisprudenziale. Il principio in esame è stato così esteso alle norme processuali, conducendo ad escludere che «un’applicazione univoca decennale da parte della Corte di cassazione di un principio affermato a garanzia della libertà della persona possa essere messo nel nulla da una difforme interpretazione, anche se plausibile, proprio perché questo risultato interpretativo non è “prevedibile” dall’agente».
Vengono così portate ad ulteriori, significative conseguenze le indicazioni scaturenti dalla sentenza Beschi13 che aveva evidenziato come gli elementi qualitativi dell’accessibilità e della prevedibilità si riferiscano alla norma “vivente”, risultante dall’applicazione e dall’interpretazione dei giudici.
Di notevole rilevanza applicativa risulta anche la precisazione che ammette la possibilità di utilizzare il prolungamento conseguente al “recupero” del termine semestrale direttamente nel giudizio di appello14.
La sez. V della Corte di cassazione15 ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa alla necessità o meno del previo interrogatorio in caso di nuova emissione di misura cautelare, a seguito di dichiarazione di inefficacia di quella precedente, per il mancato rispetto dei termini nel procedimento di riesame.
A fondamento della rimessione è stata affermata la presenza di un contrasto di giurisprudenza. Da un lato, l’orientamento interpretativo maggioritario aveva sempre escluso la necessità di un secondo interrogatorio, richiamando il principio costantemente affermato in tema di misura cautelare disposta da giudice incompetente e rinnovata da quello competente nel termine di venti giorni dall’ordinanza di trasmissione degli atti, negando la possibilità di applicazione analogica delle prescrizioni di cui agli artt. 294 e 302 c.p.p., e ravvisando nel nuovo interrogatorio una mera, superflua, formalità nel caso in cui la nuova ordinanza non contenga elementi nuovi e diversi rispetto a quella precedente. Dall’altro, un indirizzo minoritario sembrava affermare la necessità di un nuovo interrogatorio, sostenendo che si tratterebbe di provvedimento nuovo – e non già meramente reiterativo o sostitutivo di quello originario, ancora valido al momento dell’emissione del successivo – tanto da imporre una nuova richiesta del p.m., cui dovrebbe far seguito il previo interrogatorio dell’indagato a pena di inefficacia ai sensi del combinato disposto degli artt. 294 e 302 c.p.p.16.
Le Sezioni Unite17 hanno risolto la questione aderendo al prevalente orientamento, alla luce di una puntuale ricostruzione del quadro normativo di riferimento e delle pronunce apparentemente riconducibili al contrario indirizzo interpretativo, nelle quali, tuttavia, l’affermazione della necessità di un “nuovo” interrogatorio era stata affermata con riferimento alle ipotesi in cui il primo interrogatorio non fosse stato effettuato nel termine di legge, ovvero dovesse considerarsi nullo, o, ancora, in presenza di una misura nuova (e non meramente reiterativa o sostitutiva della precedente).
Non essendo quindi riscontrabile nella giurisprudenza di legittimità un reale orientamento contrario rispetto a quello oramai consolidato, le Sezioni Unite hanno confermato quest’ultimo, osservando che l’interrogatorio de quo è posto a garanzia dell’imputato, sicché tale garanzia non ricorre ove lo stesso sia stato messo nelle condizioni di esprimere in precedenza le sue difese sulla medesima imputazione.
È stato quindi enucleato il principio secondo cui, nel caso di emissione di nuova misura cautelare custodiale conseguente ad una dichiarazione di inefficacia, ai sensi dei co. 5 e 10 dell’art. 309 c.p.p., di quella precedente, il g.i.p. non è tenuto ad interrogare l’indagato prima di ripristinare nei suoi confronti il regime custodiale né a reiterare l’interrogatorio di garanzia successivamente all’esecuzione della nuova misura, sempre che tale adempimento sia stato in precedenza regolarmente espletato e sempre che l’ultima ordinanza cautelare non contenga elementi nuovi e diversi rispetto alla precedente.
1 C. cost., 13.3.2014, n. 45 (Pres. Silvestri, Est. Frigo).
2 Al riguardo v. Leo, G., La Corte costituzionale sulle misure cautelari per i tossicodipendenti interessati a programmi di recupero, in www.penalecontemporaneo.it.
3 Cfr. Di Chiara, G., Tossicodipendenza, regimi cautelari e criteri di scelta delle misure, in Dir. pen. e processo, 2014, 686; v. altresìManes, V., Lo “sciame di precedenti” della Corte costituzionale sulle presunzioni in materia cautelare, ibidem, 457.
4 Così Aprile, E., Sull’inapplicabilità della disciplina di cui all’art. 89, commi 1 e 2, d.P.R. 309 del 1990 ai soggetti sottoposti a procedimento per il reato previsto dall’art. 74 del medesimo d.P.R., in Cass. pen., 2014, 2092.
5 In Giur. cost., 2011, 2965, con nota diMarandola, A., Associazione per il narcotraffico e negazione della ragionevolezza della carcerazione obbligatoria fra Corte costituzionale e Sezioni Unite.
6 C. cost., 6.12.2013, n. 293 (Pres. Silvestri, Est. Frigo).
7 Cass. pen., S.U., 19.7.2012, n. 45246, in Cass. pen., 2013, 1412, con nota di Cappuccio, D., Il giudice del riesame deve dichiarare l’inefficacia del titolo ex art. 297, comma 3, c.p.p. se tutti gli elementi per la retrodatazione risultino dall’ordinanza cautelare: un parziale mutamento di indirizzo delle Sezioni Unite.
8 Aprile, E., Sulla portata applicativa della “contestazione a catena”, in Cass. pen., 2014, 798.
9 Carboni, L., “Contestazioni a catena” e giudizio di riesame: è fondata la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 309 c.p.p., in ww.penalecontemporaneo.it.
10 Cass. pen., S.U., 29.5.2014, n. 29556.
11 Cass. pen., 11.7.2012, n. 30759.
12 Cass. pen., 21.11.2013, n. 46482, in Giur. it., 2014, 415, con nota diMarandola, A., Termini della custodia cautelare: la Cassazione (ri)confina i c.d. resti semestrali entro la durata massima della carcerazione.
13 Cass. pen., S.U., 21.1.2010, n. 18288.
14 Sul punto v. in senso criticoMalerba,M., Durata massima della custodia cautelare: il principio del favor libertatis non è derogabile dall’interprete, in www.penalecontemporaneo.it.
15 Cass. pen., 5.2.2014, n. 8070.
16 In quest’ultimo senso Cass. pen., 12.11.2010, n. 5135. V. anche Cass. pen., 10.6.1998, n. 2119, e Cass. pen., 11.5.2010, n. 22801.
17 Cass. pen., S.U., 24.4.2014, n. 28270; cfr.Montagna, A., Reiterazione dimisura cautelare per inefficacia della precedente ed interrogatorio dell’indagato, in Dir. pen. e processo, 2014, 1055.