Novità normative in tema di patteggiamento
Dopo anni di polemiche sull’eccessiva “premialità” dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, il legislatore è intervenuto su alcuni dei nervi scoperti della disciplina degli artt. 444 e ss. c.p.p. e, in particolare, su quella sensazione di “fuga” dalla sanzione che si accompagna a questo specifico rito negoziale. Si è così scelto di rendere più difficile il ricorso al patteggiamento, inserendo una nuova condizione di ammissibilità della richiesta, e si è fatto in modo di evitare che l’accesso al rito speciale sia un comodo escamotage per sottrarsi alle conseguenze della propria condotta.
Al fine di arginare il fenomeno del cd. “patteggiamento facile”1 e di restituire effettività alla “sanzione” penale, il legislatore ha predisposto una disciplina idonea a colpire i patrimoni, imponendo la restituzione del maltolto e rinforzando le ipotesi di confisca, anche per equivalente.
L’intervento si è sviluppato su diversi piani.
Da un lato, si è inciso direttamente sulla normativa processuale: l’art. 6 l. 27.5.2015, n. 69 (Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio) inserisce un nuovo comma 1-ter all’art. 444 c.p.p., introducendo una condizione di ammissibilità del patteggiamento.
Dall’altro, sono stati inseriti diversi riferimenti alla sentenza che applica la pena su richiesta delle parti dalla l. 22.5.2015, n. 68 (Diposizioni in materia di delitti contro l’ambiente) che ha aggiunto un titolo (il VI-bis dei delitti contro l’ambiente) nel codice penale.
Il legislatore, poi, si era indirizzato verso una complessiva “riscrittura” del rito negoziale. Secondo il d.d.l. A.C. 2798, il patteggiamento sarebbe dovuto essere limitato alle ipotesi in cui la pena non avesse superato i tre anni di reclusione, soli o congiunti a pena pecuniaria, e contestualmente sarebbero dovute essere introdotte delle semplificazioni con riguardo alla correzione di errori materiali e ridotte le ipotesi di impugnazione. Il provvedimento aveva anche, in origine, l’ambizione di introdurre la «sentenza di condanna su richiesta dell’imputato», un rito speciale che avrebbe consentito l’emissione di una sentenza di condanna a pena specificatamente indicata non superiore, tenuto conto delle circostanze e diminuita da un terzo alla metà, ad otto anni di reclusione. Il dibattito parlamentare ha portato ad accantonare, per ora, questo nuovo rito negoziale e a mantenere l’attuale distinzione tra patteggiamento minor e maior, ma le continue proposte di modifica sono indici dell’incessante fermento che vive questo rito.
Come anticipato, l’art. 6 l. n. 69/2015 reca un’integrazione dell’art. 444 c.p.p., inserendo, nel nuovo comma 1-ter, una condizione di ammissibilità per la richiesta di applicazione della pena. Nei procedimenti per i delitti di peculato (art. 314 c.p.), concussione (art. 317 c.p.), corruzione per l’esercizio di una funzione (art. 318 c.p.), corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio (art. 319 c.p.), corruzione in atti giudiziari (art. 319 ter c.p.), induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.) anche quando coinvolgano organi delle Comunità europee e funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri (art. 322 bis c.p.), l’ammissibilità della richiesta di patteggiamento è subordinata alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato.
Il legislatore ha voluto così inserire un’ulteriore condizione di ammissibilità della richiesta di applicazione della pena che si aggiunge alle altre condizioni di cui all’art. 444 c.p.p., ossia al limite edittale per accedere al rito speciale e alle esclusioni soggettive e oggettive del cd. patteggiamento allargato.
Può notarsi come, in questo caso, il legislatore abbia espressamente richiamato il concetto di «ammissibilità» della richiesta e abbia ritenuto di non riproporre la distinzione tra patteggiamento minor (a due anni) e patteggiamento maior (cinque anni) che contraddistingue le esclusioni oggettive e soggettive di cui all’art. 444, co. 1-bis, c.p.p. Si tratta quindi di una condizione di ammissibilità al rito per così dire generale, destinata ad operare indipendentemente dall’entità della pena per cui vi è accordo tra le parti.
Sembrerebbe invece più difficile sostenere che si sia al cospetto di un patteggiamento condizionato alla restituzione: i termini utilizzati dal legislatore fanno propendere per la prova dell’integrale restituzione del maltolto per poter presentare la richiesta di applicazione della pena.
Presumibilmente colui che voglia richiedere il rito speciale si adopererà, in accordo con il pubblico ministero, per l’individuazione e la restituzione delle somme percepite, sì da realizzare la prevista condizione di ammissibilità.
Va infine segnalato che, trattandosi di disposizione processuale, vale il canone tempus regit actum, sicché la nuova previsione è destinata ad operare immediatamente.
La disposizione in esame non tarderà a creare notevoli problemi interpretativi.
Una prima questione riguarda l’esatta individuazione dei soggetti cui la nuova condizione di ammissibilità della richiesta di patteggiamento si applica; non è chiaro, infatti, se la preclusione operi esclusivamente per coloro che rivestano le qualifiche soggettive espressamente prese in considerazione nelle fattispecie richiamate, oppure per chi risulti comunque punibile per i fatti di reato considerati negli articoli richiamati.
Il quesito sorge, in particolare, per l’incaricato di pubblico servizio e per il privato corruttore, la cui punibilità, per alcuni dei reati ora previsti dall’art. 444, co. 1-ter, c.p.p., è sancita, rispettivamente, dagli artt. 320 e 321 c.p.
Nei primi commenti si è notato che il mancato richiamo dell’art. 320 c.p. nonché dell’art. 321 c.p. comporti una parziale inapplicabilità della nuova disciplina in materia di patteggiamento all’incaricato di pubblico servizio e al privato corruttore2. In altri termini, per il privato non opererebbe la condizione di ammissibilità del patteggiamento qualora sia imputato dei reati di corruzione (per l’esercizio della funzione; per un atto contrario ai doveri di ufficio e in atti giudiziari), mentre sarebbe tenuto all’integrale restituzione del prezzo e del profitto in caso di imputazione per induzione indebita a dare o promettere utilità. Corrispondentemente, la condizione di ammissibilità opererebbe per l’incaricato di pubblico servizio qualora sia chiamato a rispondere dei reati di cui agli artt. 319 quater e 322 bis c.p., e non per le fattispecie di corruzione.
Questa differenziazione è stata anche ritenuta in qualche modo giustificabile: la condizione dell’integrale restituzione del prezzo e del profitto può essere posta a carico solo del soggetto “pubblico” che, con il proprio comportamento, offende la pubblica amministrazione3.
Occorrerà verificare gli orientamenti giurisprudenziali che si formeranno al riguardo, tuttavia non sembra da escludere, pure per restituire coerenza alla disposizione, che si consolidi un’interpretazione secondo la quale anche per l’incaricato di pubblico servizio e per il corruttore valga la nuova condizione di ammissibilità, in quanto soggetti comunque punibili per le condotte prese in considerazione dal comma 1-ter dell’art. 444 c.p.p.
Una seconda questione riguarda l’interpretazione del concetto sotteso a «restituzione integrale del profitto o del prezzo del reato»4.
Innanzitutto, non risulta chiaro se l’alternativa (profitto o prezzo) si riferisca alla condotta tenuta in concreto o sia invece rimessa ad una scelta giudiziale. Peraltro, il riferimento a «restituzione» fa presumere che si tratti di un versamento valutabile a scomputo di quanto dovuto a titolo risarcitorio5.
In ogni caso, la previsione in discorso presuppone che, in fatto, esistano elementi oggettivi idonei a quantificare pecuniariamente il prezzo o il profitto dell’illecito, anche se costituito da utilità diverse dalla corresponsione e dalla percezione di una somma di denaro.
La quantificazione, che sarà necessaria visto il riferimento a “restituzione integrale” – mentre in altre disposizioni si è fatto riferimento al concetto di “riparazione” – incontrerà concrete difficoltà sia nella definizione del profitto (andrà inteso come lordo o netto?) sia nelle ipotesi di beni immateriali o di vantaggi ottenuti mediante favoritismi (ad esempio in graduatorie e in gare di appalto), non facilmente e immediatamente “monetizzabili” o di compiacenze, quali possono essere quelle che si risolvono nella velocizzazione di procedure a scapito di altri soggetti.
Ancora, proprio il riferimento alla «restituzione integrale» dovrebbe escludere la dazione di una somma di denaro di importo pari a quella che fu soltanto promessa, vagheggiata, lasciata intendere, in quanto mancherebbe il connotato essenziale dell’essere una restitutio in integrum6.
Ciò che è certo è che quando il reato ha prodotto un utile che è stato percepito e che è valutabile come una sottrazione di utilità al soggetto offeso, il patteggiamento deve essere subordinato alla restituzione, impedendo così al reo di godere il frutto della sua azione illecita. Nel caso in cui nessuna diminuzione di beni patrimonialmente valutabili è avvenuta, invece, potrebbero non esservi ragioni per condizionare l’accesso al rito speciale.
Detto altrimenti, la subordinazione alla restituzione si applicherebbe soltanto quando è stata effettuata una prestazione illecita che ammette un ripristino del patrimonio del soggetto passivo7.
La restituzione sarà, in caso di peculato, a favore della pubblica amministrazione, negli altri casi occorrerà stabilire chi rivesta la qualifica di soggetto passivo da rifondere: la pubblica amministrazione, ivi compresa l’amministrazione della giustizia; il privato.
Sempre con riferimento alla restituzione “integrale” si pone la questione, in caso di concorso di persone nel reato, della possibilità di concordare una restitutio pro quota. Per un verso, i termini utilizzati dal legislatore sembrano escludere una tale possibilità, per altro verso, potrebbe apparire eccessivo precludere il patteggiamento a chi è disposto a riconsegnare quanto abbia effettivamente percepito.
Vi è poi l’ulteriore aspetto dei rapporti tra questa restituzione e l’attenuante di cui all’art. 62, n. 6, c.p., ossia se l’integrale restituzione, oltre ad essere requisito per la definizione del rito, possa fondare anche la circostanza attenuante, giustificando un’ulteriore diminuzione della pena. La risposta non può essere univoca in quanto – stante la differenza tra restituzione e risarcimento – occorrerà verificare in concreto se oltre alla restituzione siano integrati i presupposti dell’attenuante8.
Altre questioni esegetiche si porranno, poi, con riferimento agli “effetti” della sentenza di patteggiamento, dal legislatore solo «equiparata» ad una pronuncia di condanna. Ferma restando la possibilità di disporre la confisca ai sensi dell’art. 322 ter c.p., dove peraltro si richiama la pronuncia ex art. 444 c.p.p., qualche dubbio potrebbe essere espresso con riferimento alla riparazione di cui all’art. 322 quater c.p., ordinata nel solo caso di «condanna»9. Nella prima versione della proposta di legge si prevedeva un obbligo di riparazione anche in seguito all’applicazione della pena su richiesta delle parti; il riferimento al patteggiamento è poi stato eliminato con l’introduzione della condizione di ammissibilità di cui all’art. 6, che, però, come si è visto, richiama il concetto di «restituzione», che non coincide con quello di riparazione. Peraltro, anche l’ambito dei soggetti presi in considerazione dalle due disposizioni non è perfettamente sovrapponibile: nell’art. 6, come si è visto, manca il richiamo all’art. 320 c.p.
Se chiaro è lo scopo perseguito, ossia recuperare sempre il “maltolto” (v. al riguardo anche il nuovo art. 165, co. 4, c.p.), la tecnica legislativa – ancora una volta – lascia a desiderare.
3.1 I richiami nella nuova disciplina dei reati ambientali
Nell’ottica di rinforzare le conseguenze “sanzionatorie” di alcuni reati ambientali10, escludendo che l’inquadramento dogmatico della pronuncia che applica la pena – solo equiparata ad una sentenza di condanna – possa determinare eccessivi “benefici” per il richiedente, il legislatore ha inserito più volte il riferimento anche alla sentenza di applicazione della pena come provvedimento atto a consentire la confisca e a imporre l’obbligo di “ripristino” dei luoghi.
Oggi, infatti, ai sensi dell’art. 452 undecies c.p. nel caso dei delitti di inquinamento ambientale (art. 452 bis), disastro ambientale (art. 452 quater), traffico ed abbandono di materiale ad alta radioattività (art. 452 sexies), impedimento del controllo (452 septies)e reato associativo finalizzato ai reati ambientali (art. 452 octies) «è sempre ordinata» la confisca delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato o che servirono a commettere il reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato.
È inoltre prescritta, «a seguito di condanna per uno dei delitti previsti», la confisca per equivalente dei beni di cui il condannato abbia, anche per interposta persona, la disponibilità. L’istituto della confisca non trova applicazione nel caso in cui l’imputato abbia efficacemente provveduto alla messa in sicurezza e ove necessario alla attività di bonifica e di ripristino dei luoghi.
Non è questa la sede per affrontare il complesso tema della confisca; può solo notarsi, da un lato, che per la prima ipotesi, ossia la confisca obbligatoria, non era a rigore necessario alcun riferimento alla sentenza che applica la pena, visto il richiamo nell’art. 445 c.p.p. alle ipotesi di confisca ex art. 240 c.p. L’attuale espresso riferimento alla sentenza di “patteggiamento”, allora, è funzionale a fugare qualsiasi dubbio sull’operatività della confisca anche nelle ipotesi di pronuncia «equiparata» ad una sentenza di condanna. Dall’altro lato, il richiamo, nel secondo comma, solo all’ipotesi di «condanna» pone la questione dell’applicabilità della confisca per equivalente nel caso di sentenza di patteggiamento. Analogo interrogativo sorge con riferimento alla nuova ipotesi di confisca obbligatoria prevista, per il reato di traffico illecito di rifiuti, dal comma 4-bis dell’art. 260 d.lgs. 3.4.2006, n. 152 (che riguarda le cose che servirono a commettere il reato o che costituiscono il prodotto o il profitto del reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato) nonché per la corrispondente ipotesi di confisca per equivalente. In questo caso manca qualsiasi riferimento al provvedimento, di condanna o di applicazione della pena su richiesta, che legittima la confisca, ma dovrebbe ritenersi che, trattandosi di ipotesi anche presa in considerazione – sia pur come caso di confisca facoltativa – dall’art. 240 c.p., essa vada disposta anche in caso di “patteggiamento”.
Va poi segnalata un’ulteriore previsione, l’art. 452 duodecies c.p., che sancisce il principio secondo cui il danno arrecato all’ambiente va sempre “riparato” a spese del trasgressore. La disposizione in esame infatti prevede, anche nel caso di sentenza di applicazione della pena su richiesta, che il giudice ordini il recupero e ove tecnicamente possibile il ripristino dello stato dei luoghi, ponendone l’esecuzione a carico del condannato e dei soggetti di cui all’art. 197 c.p.11. Anche in questo caso è esclusa qualsiasi discrezionalità del giudice (visto l’utilizzo dell’indicativo «ordina») nel porre l’obbligo congiunto di recupero e ripristino dello stato dei luoghi12.
Si tratta di obblighi che conseguono anche alla sentenza di patteggiamento a prescindere da qualsiasi accordo sul punto.
1 Cfr. Arrotino, A., Innovazioni e criticità della nuova legge anticorruzione, in Razzanti, R., a cura di, La nuova regolamentazione anticorruzione, Torino, 2015, 27.
2 In questo senso: Amato, G., Pagare “sempre” quanto ricevuto a titolo ripartivo, in Guida dir., 2015, fasc. 26, 48; Cingari, F., Una prima lettura delle nuove norme penali a contrasto dei fenomeni corruttivi, in Dir. pen. e processo, 2015, 811.
3 Amato, G., Pagare “sempre”, cit., 47, con riferimento alla misura “riparatoria”.
4 V. per le rispettive definizioni: Cass., S.U., 6.3.2008, n. 10280, Marigliotta, in Giur. it., 2008, 2311.
5 Per tutte queste osservazioni: Padovani, T., La legge Severino, riforma della riforma con nodi inestricabili, in Guida dir., 2015, fasc. 28, 13.
6 Bartolini, F., La nuova disciplina di contrasto alla corruzione e i delitti di falso in bilancio, Piacenza, 2015, 146.
7 Bartolini, F., La nuova disciplina, cit., 147.
8 V. al riguardo Cass. pen., 7.1.1993, n. 1096, Becchetti, in CED rv. n. 193505.
9 V., con riferimento alla riparazione: Arrotino, A., Innovazioni e criticità, cit., 28.
10 Per alcune considerazioni, v. Molino, P., Novità legislative: Legge n. 68 del 22 maggio 2015, recante “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”, Rel. III/4/2015, Relazione dell’ufficio del Massimario del 29.5.2015, 30; Telesca, M., Osservazioni sulla l. n. 68/2015 recante “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”: ovvero i chiaroscuri di una agognata riforma, in www.penalecontemporaneo.it, 17.7.2015, 15.
11 Per un’analisi v. Salvatore, A., Ravvedimento operoso: se si riduce l’impatto arriva lo «sconto», in Guida dir., 2015, fasc. 25, 54.
12 Sebbene lo scopo principale sia quello del ripristino, ossia la reintegrazione dei luoghi, il più delle volte il soggetto si dovrà adoperare per il recupero del sito ponendo in essere programmi atti allo scopo: Molino, P., Novità legislative, cit., 31; Telesca, M., Osservazioni sulla l. n. 68/2015, cit., 14.