Abstract
Vengono esaminati gli aspetti strutturali e funzionali delle nullità degli atti del processo civile, anche nei rapporti con le altre specie di invalidità degli atti giuridici, con particolare riguardo all’individuazione delle rispettive rationes, nonché dei principi generali e delle norme ad esse applicabili.
L’invalidità dell’atto processuale è la conseguenza della inosservanza delle norme che disciplinano il modello, la forma degli atti processuali; vale a dire la conseguenza del mancato o difettoso compimento delle condotte che la legge processuale pone come condizioni di efficacia dell’atto processuale strumentale e dell’atto finale del processo, il provvedimento del giudice (per quanto riguarda il concetto di forma dell’atto processuale ed i rapporti tra atti del processo e provvedimento finale, v. Atti processuali).
Nel codice di procedura civile l’invalidità è trattata, anzitutto, come microsistema ed al fine di definirne i principi fondamentali, nelle disposizioni generali e specificamente negli artt. 156 ss. c.p.c. Qui il legislatore nomina solo la nullità, quale forma di invalidità degli atti. Altre disposizioni del codice si occupano, poi, di singole figure di nullità (ad es., artt. 158, 160, 164, 291 c.p.c.) e di altre specifiche cause di invalidità, come l’inammissibilità (ad es., artt. 342, 366, 398, co. 2, c.p.c.) e l’improcedibilità (ad es., art. 369 c.p.c.).
L’indagine deve quindi procedere con la definizione delle caratteristiche della nullità degli atti processuali, anche al fine di verificare se effettivamente sussistano altre specie di invalidità e, in caso affermativo, come queste si differenzino dalle nullità. Il tutto, tenuto conto del fatto che l’autonomia concettuale di una figura di invalidità è giustificata se essa presenta caratteristiche distintive sul piano della disciplina positiva (Conso, G., Il concetto e le specie di invalidità, Milano, 1955, 73).
Per definire la nullità processuale, quale specie di invalidità, occorre identificare: a) il profilo strutturale: le fonti delle nullità, le possibili cause o vizi di nullità e le ragioni giustificative delle nullità; b) il profilo funzionale: le conseguenze della verificazione del vizio di nullità, sia sull’atto sia sul procedimento, ossia il regime della nullità in senso ampio.
Con riferimento al profilo strutturale, si deve osservare che, per quanto riguarda le fonti delle nullità processuali, l’art. 156 c.p.c. chiarisce in primo luogo che esse sono predeterminate dalla legge (co. 1), ma questo principio di tassatività è solo apparente, giacché è sempre fatto salvo il potere del giudice di pronunciare la nullità quando, pur in mancanza di previsione di legge, l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo (co. 2). In quest’ultima ipotesi al giudice spetta evidentemente anche il compito di individuare per intero lo specifico regime della nullità.
Causa di nullità, dal punto di vista della fisionomia del vizio, è anzitutto la mancanza o l’assoluta incertezza di uno o più requisiti formali che assumono rilevanza esteriore per la tipicità dell’atto, giusta previsione espressa di legge (ad es., artt. 164, 480, co. 2, c.p.c.), o in applicazione dell’art. 156, co. 2, c.p.c. Costituisce causa di nullità anche la mancanza dei requisiti che, pur non appartenendo alla veste esteriore dell’atto, rappresentano elementi della sua fattispecie (ad es., volontarietà dell’atto, capacità e legittimazione processuale). Anche lo spazio e il tempo devono essere considerati requisiti formali dell’atto processuale, cosicché la loro violazione comporta la nullità dell’atto. Causa di nullità è pure la violazione di una norma di procedura, mirante a scandire i modi e l’ordine delle singole fasi processuali (ad es., artt. 112, 158 e 160, c.p.c.), anche se la nullità non è comminata espressamente dalla legge.
Problematico è stabilire se il complesso di norme riguardanti la nullità (artt. 156-162 c.p.c.) contempli e, dunque, in qualche modo regoli anche il difetto di tutti i requisiti formali dell’atto, ovvero l’ipotesi di omissione totale, di inesistenza storica dell’atto. Al riguardo si può osservare che, nella logica delle nullità processuali, la distinzione tra condotta difettosa ed omessa condotta non sembra rilevante, dovendosi solo verificare se sono state compiute o meno le condotte che la legge processuale ritiene indispensabili per il raggiungimento dello scopo della norma che regola l’atto. In ogni caso, certo è che, pure in ipotesi di omissione di un atto essenziale della serie procedimentale, possono operare quei meccanismi previsti dalle stesse disposizioni sulle nullità (artt. 156, co. 3, 157, co. 2, e 162 c.p.c.) che rendono rimediabile la verificazione del vizio e, per l’effetto, sanano il procedimento nel senso che consentono a questo di proseguire verso la sentenza di merito, anziché concludersi con una sentenza di rito.
Dal punto di vista della ragione giustificativa della nullità, appare fondamentale la distinzione – rilevante, come vedremo, anche per ciascun profilo del regime delle nullità – tra nullità per mancanza dei requisiti di esistenza e di certezza del potere esercitato (ad es., citazione o ricorso nulli per indeterminatezza della domanda; impugnazione priva di motivi specifici), e nullità per illegittimo esercizio del potere esistente ed individuabile (ad es., citazione o ricorso, anche in sede d’impugnazione, nulli per mancata osservanza del termine minimo per comparire) (sul punto v. Poli, R., Invalidità ed equipollenza degli atti processuali, Torino, 2012, 158 ss.).
Per quanto riguarda il profilo funzionale, ossia il piano dell’individuazione delle conseguenze sull’atto della verificazione del vizio di nullità, in base ai principi della nullità parziale (art. 159, co. 2, c.p.c.) e della conservazione degli effetti dell’atto (art. 159, co. 3, c.p.c.), l’atto nullo può produrre gli effetti tipici correlati ai requisiti formali in concreto esistenti, mentre non produce quelli correlati ai requisiti in concreto mancanti, punteggiando la sequenza procedimentale in ragione delle singole, specifiche fattispecie di nullità, tutte accomunate dalla tensione a garantire, fin quando è possibile, la pronuncia di merito (ad es., artt. 50, 102, 164, 182, 291, 427 c.p.c., ecc.). Anche a questo riguardo deve essere tenuta presente la fondamentale distinzione – poc’anzi tracciata – tra nullità per mancanza dei requisiti di esistenza e di certezza del potere esercitato, da un lato; e nullità per illegittimo esercizio del potere esercitato, dall’altro: mentre nel primo caso l’atto non produce, nemmeno interinalmente, gli effetti dell’esercizio del potere collegati ai requisiti mancanti (sicché la relativa pronuncia di nullità opera con carattere dichiarativo), nelle seconde di regola l’atto produce provvisoriamente ed in via precaria gli effetti collegati all’esercizio del potere, fino alla pronuncia di nullità (qui con carattere costitutivo) o alla sanatoria del vizio, momento in cui tali effetti si consolidano (Poli, R., Invalidità ed equipollenza, cit., 174 ss.).
Per quanto riguarda, invece, le conseguenze sul procedimento della verificazione del vizio di nullità, il nostro sistema non adotta lo schema secondo cui, una volta riscontrato un vizio di nullità degli atti del procedimento, il giudice deve limitarsi a rilevarlo, chiudendo il processo in rito (con possibilità di riproposizione della domanda in un successivo processo, salve decadenze). Al contrario, per il principio di conservazione degli effetti degli atti giuridici – ed anche per immanenti esigenze di economia processuale –, il processo è disseminato di cd. cause di sanatoria, ovvero di meccanismi finalizzati, con modalità ed effetti diversi, ad eliminare per quanto possibile la rilevanza degli inadempimenti formali, a rimediare agli errori commessi dalle parti nel compimento degli atti processuali, affinché lo stesso processo originariamente avviato possa raggiungere il suo scopo. Solo nel caso in cui non operi uno di questi rimedi (per mancanza dei presupposti oggettivi o per inattività della parte onerata), e pertanto il procedimento rimanga viziato (eventualmente anche per estensione della nullità agli atti dipendenti da quello viziato: art. 159, 1° co., c.p.c.), la nullità si presenta al giudice come una questione pregiudiziale di rito, idonea a definire il giudizio per absolutio ab instantia. Dall’insieme delle numerose disposizioni che prevedono le cause di sanatoria dei vizi degli atti processuali – si vedano, ad es., gli artt. 50, 102, 162, 164, 167, 182, 291, 367, 426, 427 c.p.c., nonché le disposizioni sulla translatio iudicii in caso di difetto di giurisdizione – sembra potersi ritrarre il principio generale secondo cui, quando il vizio riguarda solo il modo di esercizio di un potere processuale esistente ed individuabile, il procedimento conosce sempre delle cause di sanatoria che consentono alla parte di rimediare al suo errore e di conservare gli effetti derivanti dall’esercizio del potere esistente ed individuabile, anche se difettosamente esercitato (spunti in tal senso già in Proto Pisani, A., Violazione di norme processuali, sanatoria «ex nunc» o «ex tunc» e rimessione in termini, in Foro it., 1992, I, 1719 ss.).
Il terzo aspetto che occorre considerare per definire la nullità processuale, sotto il profilo strutturale, è quello del suo regime in senso stretto, il quale è costituito principalmente dalle modalità di: a) rilevabilità del vizio; b) sanabilità del vizio stesso, ove esistenti; c) rinnovabilità dell’atto viziato.
In merito alla rilevabilità del vizio l’art. 157, co. 1, c.p.c., stabilisce che «Non può pronunciarsi la nullità senza istanza di parte, se la legge non dispone che sia pronunciata d’ufficio». Tale disposizione, che pure fissa una regola ed un’eccezione, non è però esaustiva, perché non tiene conto delle nullità non testuali (art. 157, co. 2, c.p.c.), per le quali l’intero regime, incluso l’aspetto della rilevabilità, deve essere ricostruito in via interpretativa. Da un esame delle disposizioni che prevedono nullità rilevabili d’ufficio, e da considerazioni di carattere sistematico si individua il principio secondo cui, di regola, sono rilevabili d’ufficio le nullità per mancanza dei requisiti di esistenza e di certezza del potere esercitato, perché in questi casi il giudice comunque non può pronunciare la risposta ad una domanda che non c’è (o perché difetta il potere di proporla, o perché la domanda non è individuabile); mentre sono rilevabili solo su eccezione di parte le nullità per illegittimo esercizio del potere esistente ed individuabile, in quanto di regola impediscono o limitano un potere processuale di altri soggetti del processo che rientra nello loro esclusiva disponibilità. Derogano a questa regola i casi in cui, proprio a causa del vizio, la parte interessata non è in grado di far valere il vizio stesso (ad es., nullità della notificazione della citazione, o della citazione stessa, difetto di integrità del contraddittorio) (Poli, R., Invalidità ed equipollenza, cit., 192 ss.).
Deve essere poi ricordato che esistono delle nullità rilevabili d’ufficio solo entro determinate fasi del processo (ad es., le nullità ex art. 158 c.p.c.), e per tale ragione dette trasformabili (in rilevabili solo ad istanza di parte). Ne segue che, la sola indicazione di «nullità rilevabile d’ufficio» (o “assoluta”, in contrapposizione a “relativa”) non è idonea ad indicare compiutamente la rilevabilità di un determinato vizio.
Per quel che riguarda la sanabilità dei vizi di nullità, si tratta di un tema fra quelli di maggiore momento nello studio sistematico delle nullità processuali, per molteplici ragioni di diversa natura. Anzitutto, proprio la considerazione delle forme di sanabilità dei vizi – più tecnicamente, la considerazione del modo di profilarsi dei rapporti tra l’atto imperfetto e gli effetti del corrispondente atto perfetto – consente, più marcatamente di altri criteri, di differenziare tra loro le varie specie di invalidità e, per quanto riguarda il codice di rito civile, anche le varie specie di nullità (Conso, G., Il concetto e le specie di invalidità, cit., 73). Sotto diverso profilo, lo studio del tema della sanabilità dei vizi degli atti processuali getta luce sul fenomeno del procedimento in quanto tale, poiché la constatazione dell’esistenza di meccanismi interni al processo volti alla eliminazione della rilevanza dei singoli vizi, rafforza e rischiara il concetto di serie di atti cronologicamente e funzionalmente collegati tra loro verso un medesimo fine.
Ciò premesso, si può osservare che per sanabilità di un vizio si intende, genericamente, la sussistenza di un meccanismo processuale in forza del quale un atto del processo compiuto in violazione delle norme che ne prescrivono il modello legale – e perciò viziato, invalido e, di conseguenza, inefficace – può produrre, in tutto o in parte, gli stessi effetti che la legge associa al corrispondente atto perfetto, vale a dire compiuto secondo il modello legale.
Deve essere anche a questo riguardo rimarcato che, in presenza di una differenziata pluralità di cause di sanatoria dei vizi degli atti processuali, la mera qualificazione di una nullità in termini di nullità “sanabile”, o “insanabile”, non è affatto idonea ad indicare lo specifico regime del vizio corrispondente. Nella maggior parte dei casi, infatti, le forme e il grado di sanabilità dei singoli vizi possono essere accertati solo in concreto, distinguendo da caso a caso a seconda dello specifico iter del procedimento di cui si tratta: basti pensare al complesso ed articolato regime di sanabilità dei vizi dell’atto di citazione, che varia, tra l’altro, a seconda della condotta del convenuto (artt. 164 e 294 c.p.c.); o dei vizi di costituzione del giudice e di intervento del p.m. ex art. 158 c.p.c., sanabili se non dedotti dalla parte interessata come motivi d’impugnazione. In questa sede interessa piuttosto verificare qual è lo spettro delle modalità attraverso cui opera la sanabilità dei vizi di nullità degli atti processuali – in una prospettiva di individuazione dei caratteri che conferiscono identità ed autonomia alla categoria di invalidità ora in discorso – ed a tal fine l’esame deve essere diretto nei confronti delle cause di sanatoria “generali”, regolate nell’ambito delle disposizioni sulle nullità in generale, con particolare attenzione all’incidenza della sanatoria sugli effetti dell’atto viziato. E si vedrà che anche in questa prospettiva assume sicuro rilievo la distinzione tra nullità per mancanza dei requisiti di esistenza e di certezza del potere esercitato, da un lato; e nullità per illegittimo esercizio del potere esercitato, dall’altro.
La più importante causa di sanatoria delle nullità, dei vizi della sentenza in particolare, è il passaggio in giudicato della sentenza stessa. Ai sensi dell’art. 161 c.p.c. se la parte interessata non propone impugnazione avverso la sentenza, questa passa in giudicato e resta precluso il rilievo degli eventuali motivi di nullità, che in questo senso possono considerarsi sanati. Fanno eccezione a questa regola, e sopravvivono quindi al passaggio in giudicato, solo le nullità per mancanza del potere giurisdizionale (art. 161, co. 2, c.p.c.) e, come si ricava dal sistema, per indeterminatezza del potere stesso (ad es., nel caso di sentenza dal contenuto non determinabile).
Della stessa natura è la causa di sanatoria per acquiescenza parziale ex art. 329, co. 2, e 161, co. 1, c.p.c. Ai sensi di quest’ultima disposizione, se l’impugnazione è proposta, i vizi di nullità della sentenza devono essere fatti valere con l’impugnazione, altrimenti è precluso il loro rilievo nella successiva fase del processo. Questa regola non si applica – non solo, ovviamente, alle nullità che sopravvivono al passaggio in giudicato della sentenza, ma altresì – alle nullità rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo (ad es., difetto di giurisdizione, difetto delle condizioni dell’azione, difetto d’integrità del contraddittorio), sempre che sul punto non si sia formato il giudicato interno.
Altra forma di acquiescenza – del pari con effetto sanante di carattere preclusivo – rispetto alla situazione processuale venutasi a creare a seguito della verificazione di un vizio di nullità è la mancata opposizione del vizio disciplinata dall’art. 157, co. 2, c.p.c. con riferimento agli atti del processo e non della sentenza, secondo il quale la parte che ha interesse a far valere un vizio del processo «deve farlo nella prima istanza o difesa successiva all’atto o alla notizia di esso». Qui, evidentemente, vengono in rilievo solo le nullità rimesse alla esclusiva disponibilità delle parti e si tratta, in particolare, dei casi in cui l’illegittimo esercizio di un potere esistente ed individuabile – e quindi il vizio – ha impedito o limitato un potere processuale della parte.
In questi casi, il mancato rilievo della nullità opera alla stregua di una rinuncia tacita agli effetti che la verificazione ed il rilievo del vizio di nullità comporta sull’atto e sul procedimento, tra cui il potere di far pronunciare la nullità dell’atto e l’estensione della nullità agli atti dipendenti da quello nullo (art. 159, co. 1, c.p.c.). Rinuncia tacita, pertanto, della parte ad avvalersi delle garanzie procedimentali che la norma violata assicura, ad essere reintegrata nei poteri processuali impediti o limitati a causa del vizio. Ne segue che, in questi casi, il vizio non impedisce la produzione degli effetti del potere mal esercitato e che la sanatoria opera, secondo la formula tradizionale, retroattivamente, vale a dire con effetto ex tunc.
Probabilmente la più importante causa di sanatoria dei singoli atti del processo è invece il raggiungimento dello scopo dell’atto, nonostante la verificazione di un vizio di nullità (rectius: il raggiungimento dello scopo della norma che prescrive il modello dell’atto di cui si tratta), contemplato nell’art. 156, co. 3, c.p.c. In sintesi, lo scopo della norma che prescrive la forma dell’atto consiste nel permettere agli altri soggetti del processo di esercitare quei poteri processuali che la norma processuale attribuisce loro nel segmento di procedimento che segue il compimento del singolo atto di cui si tratta, secondo i tempi ed i modi previsti dalla legge stessa (Proto Pisani, A., Violazione di norme processuali, cit., 1720).
Il principio della generale sanabilità delle nullità per il raggiungimento dello scopo ha una grande importanza sistematica – ai fini della comprensione del ruolo delle forme degli atti del processo – ed una portata generale, si applica cioè non solo a tutti gli atti processuali, com’è ovvio, ma anche a tutte le figure di difformità dal modello legale diverse dalle nullità in senso stretto, ed in particolare alla inammissibilità ed alla improcedibilità. Questa conclusione dovrebbe apparire necessitata qualora si prendesse atto che il principio in parola è già tutto contenuto, quale sua diretta ed ineludibile conseguenza logica, nel più generale principio di strumentalità delle forme, e non si può dubitare che quest’ultimo principio abbia una portata generale (artt. 121 e 131 c.p.c.) (Poli, R., Invalidità ed equipollenza, cit., 81 ss.). Tuttavia la giurisprudenza, sia pur con significative oscillazioni, generalmente non ritiene applicabile questo principio alle ipotesi di inammissibilità ed improcedibilità delle impugnazioni.
Questo principio opera attraverso due modalità: a) la fattispecie (ab origine) conforme allo scopo, che si determina quando, pur in presenza di un atto carente di taluni elementi che la legge in astratto ritiene essenziali ai fini della sua validità ed efficacia, lo scopo della norma è pienamente raggiunto, perché la mancanza di quegli elementi non ha in concreto per nulla impedito o limitato l’esercizio dei poteri degli altri soggetti del processo, secondo i tempi e i modi previsti dalla legge (ad es., nel giudizio di cassazione, l’omesso deposito dell’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio comporta l’improcedibilità del ricorso solo se l’esame di detto fascicolo risulti indispensabile ai fini della decisione del giudice di legittimità); b) integrazione o realizzazione successiva della forma legale difettosa od omessa (fattispecie a progressivo raggiungimento dello scopo), determinata dal combinarsi dell’atto invalido con un atto ulteriore, destinato a comporre con il primo una diversa fattispecie prevista in rapporto di sussidiarietà rispetto alla fattispecie tipica e dotata della medesima efficacia (ad es., integrazione spontanea del contraddittorio da parte dell’attore, che rende superfluo l’ordine del giudice ai sensi dell’art. 102, co. 2, c.p.c.). Secondo questa prospettiva, il conseguimento dello scopo si colloca tra le cause di sanatoria in base alla nota concezione secondo cui per causa di sanatoria si intende il fatto che, unendosi al precedente fatto imperfetto, fa sì che questo acquisti la medesima rilevanza del corrispondente atto perfetto.
Non facile è stabilire se la sanatoria per raggiungimento dello scopo operi ex tunc o ex nunc: se si tiene conto del rilievo sistematico secondo cui l’utilizzazione dell’atto imperfetto agli stessi fini del corrispondente atto perfetto, attuandosi con la causa di sanatoria, dà vita ad una situazione effettuale che coincide con quella che si sarebbe determinata se l’atto fosse stato perfettamente compiuto, soltanto a partire dal momento in cui si verifica la sanatoria (Conso, G., Il concetto e le specie di invalidità, cit., 43), sembra potersi affermare, almeno tendenzialmente che, nei casi di fattispecie conforme agli scopi, l’atto contiene tutti gli elementi necessari alla sua funzione tipica, nonostante la difformità dal modello legale, e pertanto esso produce tutti i suoi effetti tipici sin dalla sua formazione. In tutti gli altri casi di integrazione o compimento successivo della fattispecie, la sanatoria viceversa opera ex nunc, tenuto tuttavia conto che l’atto nullo, in base ai principi generali, produce sin dall’origine – eventualmente in forma precaria – gli effetti correlati ai requisiti in concreto presenti (art. 159, co. 3, c.p.c.). Nei casi di raggiungimento del risultato pratico nel processo – provato attraverso l’esercizio della facoltà cui l’atto nullo è preordinato o comunque attraverso il compimento di un atto del processo – la sanatoria opera dal momento in cui il raggiungimento del risultato pratico può dirsi provato, salvo che operi anche il meccanismo della mancata opposizione ex art. 157, co. 2, c.p.c. nel qual caso il vizio perde qualsiasi rilevanza ex tunc.
Anche a questo riguardo si deve tener presente la distinzione che abbiamo tracciato in punto di struttura e funzione della nullità, per cui, se il vizio riguarda l’esistenza o la certezza del potere esercitato, il raggiungimento dello scopo determina la produzione degli effetti dal momento in cui il potere è venuto ad esistenza ed è individuabile; diversamente, se il vizio riguarda solo il modo di esercizio del potere esistente ed individuabile, il raggiungimento dello scopo consolida gli effetti dell’atto di esercizio del potere già prodottisi al momento del compimento dell’atto stesso (Poli, R., Invalidità ed equipollenza, cit., 463 ss.).
La rinnovabilità dell’atto viziato, di cui l’art. 162 c.p.c. sancisce la portata generale – salvi i casi in cui essa non sia possibile, materialmente (ad es., sopravvenuto mutamento della situazione di fatto il cui accertamento costituisce presupposto necessario della consulenza tecnica da rinnovare) o giuridicamente (ad es., nullità derivante dal compimento dell’atto oltre il termine perentorio per esso previsto) – costituisce anch’essa una causa di sanatoria dei vizi di nullità, e tuttavia per la sua importanza sistematica merita una trattazione a parte. Essa infatti chiarisce che, in mancanza di altre disposizioni specifiche, la verificazione di un vizio di nullità non comporta mai la pronuncia di absolutio ab instantia, bensì impone l’emanazione di un provvedimento che elimini, ove possibile, il vizio stesso e consenta al processo di proseguire verso la sua naturale meta, la sentenza di merito.
Per quanto riguarda il modo di operare della rinnovazione, in base ai principi generali sin qui ricordati, si può affermare che, quando si tratta di un vizio della domanda (di primo grado o d’impugnazione), per inesistenza o mancanza di certezza del potere esercitato, la rinnovazione opera sempre ex nunc, “rispetto agli effetti della domanda”, in base ai principi generali (ex combinato disposto degli artt. 159 e 164 c.p.c.). Qui la rinnovazione opera «ferme le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o alla integrazione» (art. 164, co. 5, c.p.c.), che pertanto può anche rivelarsi del tutto inutile o impedita dalle già verificatesi preclusioni e decadenze al momento in cui dovesse essere disposta. Quando si tratta di una nullità di atti del procedimento diversi dalla domanda, per esercizio illegittimo del potere esercitato, la rinnovazione invece opera ex nunc, “rispetto al vizio del procedimento”, rimuovendo l’impedimento alla decidibilità della causa nel merito e, in tal modo, “recuperando” quegli effetti sul procedimento – vale a dire la sua idoneità a proseguire verso la decisione nel merito – che il vizio aveva impedito. In ogni caso, “rispetto agli effetti della domanda”, che si erano prodotti, sia pur provvisoriamente, sin dal primo atto, la rinnovazione opera sottraendo loro il carattere di provvisorietà che derivava dalla presenza del vizio del procedimento, sanabile ma ancora non sanato. Qui la rinnovazione opera sanando i vizi del procedimento, anche se al momento della disposta rinnovazione è decorso il termine che la legge prevede per il compimento dell’atto viziato, «e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono sin dal momento della prima notificazione» (art. 164, co. 2, c.p.c.).
Dalla considerazione complessiva della disciplina della nullità processuale può essere ritratto il seguente, fondamentale, principio generale, da applicarsi nei casi in cui la legge non regola espressamente il regime di un determinato vizio: in presenza di un errore della parte nel compimento dell’atto, di un vizio che riguarda il legittimo esercizio di un potere esistente ed individuabile, il procedimento adotta sempre uno schema di sanatoria del vizio stesso, che, se utilizzato dalla parte interessata, consente di sanare il procedimento e di conservare gli effetti del potere esercitato, sin dal primo compimento dell’atto viziato. Diversamente, laddove il vizio riguardi l’esistenza stessa o l’individuabilità del potere esercitato, lo schema di sanatoria, che comunque sussiste, opera del pari sanando il procedimento, ma gli effetti del potere si producono solo dal momento in cui questo viene ad esistenza e/o è esercitato in modo che sia individuabile nei suoi elementi soggettivi ed oggettivi. Di conseguenza, in queste ipotesi, se dal compimento dell’atto viziato al momento di perfezionamento dello schema di sanatoria si verifica una decadenza processuale dal potere di compiere l’atto, o altro tipo di impedimento al compimento del medesimo atto, non è possibile recuperare gli effetti che l’atto viziato non aveva potuto produrre, a causa del vizio stesso.
Una volta definiti i caratteri della nullità processuale è possibile verificare se vi è spazio per altre specie di invalidità nell’ordinamento processuale civile.
La normativa scaturente dai tre commi dell’art 156 c.p.c. presuppone, implicitamente ma pur tuttavia chiaramente, ipotesi di carenza di requisiti formali dell’atto non indispensabili al raggiungimento del suo scopo e, in quanto tali, non costituenti vizi di nullità.
Per definire concettualmente le ipotesi che ora stiamo esaminando si può ricorrere, con la dottrina tradizionale e con la giurisprudenza, al concetto di irregolarità, con cui si indica specificamente l’inosservanza di forme che non influisce in alcun modo sulla produzione degli effetti tipici dell’atto. Si può così distinguere la fattispecie legale dell’atto, formata dai requisiti che l’atto deve necessariamente contenere affinché lo stesso produca i suoi effetti tipici (requisiti a pena di nullità), dal modello legale dell’atto, formato dalla fattispecie legale e da quegli ulteriori requisiti, previsti dalla legge, la cui mancanza non comporta alcuna conseguenza sull’efficacia dell’atto (requisiti a pena di irregolarità).
Nel codice di rito l’annullabilità non viene mai nominata. Ed in effetti abbiamo visto che, secondo i principi generali, «se il vizio impedisce un determinato effetto, l’atto può tuttavia produrre gli altri effetti ai quali è idoneo»; per cui non sembra che vi sia spazio per la figura dell’annullabilità con le caratteristiche che questa tradizionalmente presenta nel diritto sostanziale, ovvero di invalidità che non impedisce la produzione integrale degli effetti dell’atto invalido, sia pur in forma precaria e fino alla pronuncia, di carattere costitutivo, che accerta l’invalidità stessa.
Una querelle mai definitivamente risolta è quella dei rapporti tra nullità ed inesistenza, ciò che si riassume nel problema della configurabilità di un’imperfezione degli atti processuali – l’inesistenza, appunto – più grave, distinta e autonoma, anche concettualmente, dalla nullità. La rilevanza pratica della questione risiede nel fatto che la giurisprudenza utilizza tale qualificazione per negare qualunque forma di sanatoria rispetto a vizi che ritiene particolarmente gravi, in contrasto con i principi generali che abbiamo visto caratterizzare la nullità (sul punto v., di recente, l’importante Cass., ord. 30.3.2015, n. 6427).
Per maggiore chiarezza espositiva, è opportuno, da un lato, trattare il problema prima con riguardo agli atti interni del procedimento e, successivamente, con riguardo all’atto conclusivo del procedimento stesso, ossia alla sentenza; dall’altro lato, considerare separatamente le ipotesi di inesistenza storica e di inesistenza giuridica.
Per quanto riguarda l’inesistenza storica di un atto interno del procedimento, viene in rilievo l’ipotesi di mancanza di qualsiasi attività materiale, di totale omissione di qualsiasi atto (omessa comunicazione di ordinanza pronunciata fuori udienza, omessa notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza nel rito del lavoro, ecc.): come osservato poc’anzi (cfr. supra, § 1.2), dal punto di vista strutturale, l’ipotesi appare ricompresa nella fattispecie di nullità di cui all’art. 156, co. 2, c.p.c., mentre dal punto di vista funzionale tale ipotesi non impone al giudice la chiusura in rito del processo (ovvero non esclude che il procedimento viziato possa sanarsi), quando la parte interessata si è avvalsa della facoltà al cui esercizio l’atto omesso è preordinato (art. 156, co. 3, c.p.c.), rinunciando contestualmente ad opporre il vizio (art. 157, co. 2, c.p.c.), o quando la sanatoria è possibile a seguito di un intervento del giudice (art. 162 c.p.c.). Ne segue che non vi è alcun bisogno, in queste ipotesi, di adottare qualificazioni dell’atto diverse dalla nullità. Per quanto riguarda l’inesistenza giuridica di un atto interno del procedimento, occorre ulteriormente distinguere: a) se consideriamo un atto processuale gravemente viziato, dal punto di vista strutturale appare corretto il rilievo secondo cui la distinzione in esame è frutto di un equivoco, in quanto la validità è sempre in funzione della sua conformità alla fattispecie legale, e pertanto qualunque difformità rende l’atto inesistente o nullo che dir si voglia, senza possibilità di distinguere tra grandi o piccole difformità. Dal punto di vista funzionale, invece, occorre prendere atto che l’ipotesi più grave di vizio (sia pure della sentenza), in quanto non sanabile nemmeno con il giudicato, è espressamente qualificata dalla legge in termini di nullità (art. 161, co. 2, c.p.c.). b) Se consideriamo, invece, un atto materialmente esistente però privo degli elementi necessari minimi per renderlo riconoscibile come atto appartenente ad un determinato tipo (o modello legale) e, di conseguenza, improduttivo di qualsiasi effetto, tale ipotesi, dal punto di vista del sistema delle nullità processuali civili, non sembra diversa da quella di mancanza materiale dell’atto – sia per il profilo strutturale sia per quello funzionale –, e ad essa può pertanto essere assimilata. Anche a questo proposito, pertanto, non sembra esservi ragione per far ricorso alla qualificazione di inesistenza.
Con riguardo, diversamente, al provvedimento del giudice, ed in particolare a proposito dell’ipotesi di sentenza priva di sottoscrizione, contemplata dall’art. 161, co. 2, c.p.c., si parla, come noto, di inesistenza, per distinguere il regime di tale atto da quello proprio dell’atto nullo. Secondo l’impostazione classica del problema, si ritiene infatti che, siccome tale nullità sopravvive al passaggio in giudicato della sentenza – o, secondo altra prospettiva, impedisce il passaggio in giudicato della sentenza stessa – il vizio in esame, da un canto, non consente alla sentenza di produrre i suoi effetti nemmeno in forma precaria, dall’altro, è insuscettibile di sanatoria, con la conseguenza che tale vizio potrà essere fatto valere, senza limiti di tempo, con un’autonoma actio nullitatis, con l’opposizione all’esecuzione ed anche in via di mera eccezione. Muovendo dall’analisi di questa disciplina la dottrina ha elaborato il concetto di inesistenza – per distinguere il vizio ivi previsto, come detto, dalle altre forme, meno gravi, di nullità – ed asserendo, unitamente alla giurisprudenza, la portata esemplificativa della disposizione in esame, ha ritenuto di poter elevare l’inesistenza stessa a categoria generale, ove far confluire tutti i vizi che, pur non espressamente previsti dal legislatore, siano talmente gravi da impedire perfino il passaggio in giudicato della sentenza; e ciò al fine di neutralizzare i silenzi del legislatore nei confronti di quelle più gravi violazioni che, in forza appunto della loro macroscopicità, non sono state ritenute degne di previsione. Oltre a quella contemplata all’art. 161, co., 2 c.p.c., le ipotesi che, all’esito di questa operazione interpretativa, vengono tradizionalmente ricondotte nell’ambito dell’inesistenza sono: a) la sentenza resa nei confronti di un soggetto inesistente o deceduto prima della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio; b) quella priva di dispositivo o dal dispositivo incerto, contraddittorio, incomprensibile o impossibile; c) quella resa solo oralmente; d) e, ipotesi su cui vi è assoluta concordia, la sentenza pronunciata a non iudice.
Premesso che oggi la dottrina decisamente prevalente ritiene la nozione di inesistenza inaccettabile nel suo significato logico e letterale, ma utilizzabile nel suo significato convenzionale di vizio insanabile in modo assoluto, ossia non sanabile neppure attraverso l’applicazione della regola della conversione dei vizi di nullità in motivi di gravame, residuano dubbi sulle ipotesi riconducili alla categoria dell’inesistenza così intesa e sul loro specifico regime.
A ben vedere, tuttavia, il complesso delle disposizioni sulle nullità in generale dovrebbe consentire di risolvere tutti i problemi che l’invalidità degli atti processuali pone, senza alcun bisogno di ricorrere alla figura dell’inesistenza. In particolare, occorre tener presente: a) che per l’art. 156, co. 2, c.p.c.: aa) l’atto è nullo quando manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo; bb) in tali casi, l’atto è nullo e la nullità può essere pronunciata anche se essa non è altrimenti prevista espressamente dal legislatore; cc) in tali casi, il regime complessivo del vizio deve essere interamente ricostruito in via interpretativa, essendo del tutto silente il legislatore al riguardo; dd) l’atto è nullo (e non inesistente) anche quando manca di tutti requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo; ee) l’atto nullo di regola non produce i suoi effetti tipici, ma può produrre taluni effetti, ai quali è idoneo, in quanto non impediti dai vizi che ne determinano la nullità; effetti che quindi variano, per quantità e natura, a seconda della quantità e natura dei vizi che inficiano l’atto stesso; b) che anche per le sentenze può essere utilmente operata la distinzione tra vizi che condizionano l’esistenza e l’individuazione del potere esercitato, da un lato; e vizi che condizionano il legittimo esercizio del potere esistente e individuato, dall’altro; c) che per l’unico vizio per il quale è prevista espressamente la deroga al principio della conversione dei vizi di nullità in motivi d’impugnazione (art. 161, co. 2, c.p.c.) il codice – che qualifica espressamente tale vizio in termini di nullità – non esclude ma anzi espressamente contempla l’impugnabilità della sentenza (art. 354, co. 1, c.p.c.). Tutto ciò considerato, sembra che dalle disposizioni del codice di rito sulle nullità in generale – fra le quali, per natura anche se non per collocazione topografica, va ricondotto pure l’art. 354 c.p.c. – si possano ricavare tutte le regole necessarie per disciplinare le ipotesi tradizionalmente ricondotte alla inesistenza della sentenza non espressamente regolate dalla legge. In questa prospettiva, le ipotesi di sentenza priva di dispositivo (ove non sia altrimenti individuabile il contenuto della sentenza), priva di motivazione (ove tale vizio comporti la non individuabilità del contenuto della sentenza espresso nel dispositivo), dal contenuto comunque incerto o impossibile, dovrebbero essere considerate nulle per mancanza di requisiti indispensabili allo scopo. Si tratta di vizi che condizionano l’individuazione del potere esercitato. E poiché tali motivi di nullità rendono le relative sentenze inidonee anche allo scopo di decidere nel merito la controversia, essi non consentono la produzione dell’effetto di accertamento di cui all’art. 2909 c.c. e non sono sanabili attraverso il passaggio in giudicato formale delle sentenze stesse; per l’effetto, tali motivi di nullità possono essere fatti valere anche in sede di opposizione all’esecuzione e con un’azione autonoma di accertamento negativo, ove non si voglia ammettere un’actio nullitatis in senso tecnico. Peraltro, alla stregua della regola prevista per il vizio disciplinato dall’art. 161, co. 2, c.p.c., regola che non esclude la soggezione ai normali mezzi di impugnazione delle sentenze affette da vizi che sopravvivono al giudicato formale (o, se si preferisce, che impediscono il passaggio in giudicato della sentenza) – ed in mancanza di altre specifiche ragioni di incompatibilità – le sentenze così viziate restano comunque soggette anche ai normali mezzi d’impugnazione.
In base a quanto osservato sinora, nel processo civile nullità e inefficacia rappresentano, rispettivamente, la qualificazione data dal legislatore ad un atto viziato, perché mancante dei requisiti indispensabili al suo scopo, e la conseguenza derivante dalla verificazione di quel vizio, ovvero l’inidoneità dell’atto stesso a produrre i suoi effetti tipici (art. 159 c.p.c.). Questa relazione tra nullità ed inefficacia è riconosciuta anche in sede di teoria generale, ove esattamente si precisa che l’invalidità è una delle cause dell’inefficacia degli atti. Non vi è quindi spazio nemmeno per la inefficacia, se intesa come un’autonoma figura di invalidità degli atti processuali.
Decisamente delicato è anche il tema dei rapporti tra nullità e inammissibilità. Infatti, a parte la considerazione, generalmente condivisa, secondo cui l’inammissibilità, quale categoria logico-giuridica processuale generale, sarebbe una species del genus invalidità, intesa quest’ultima come categoria ove raggruppare e riassumere i vari tipi di trattamento a cui il legislatore sottopone gli atti imperfetti, non sono affatto chiari sia il fenomeno che tale termine dovrebbe qualificare, sia le specifiche fattispecie che dovrebbero essere sussunte in quello schema, sia la specifica disciplina applicabile a tale figura d’invalidità e che dovrebbe giustificarne l’autonomia concettuale.
Secondo la dottrina prevalente e la giurisprudenza, le ipotesi formali di inammissibilità – che vengono in rilievo essenzialmente negli atti introduttivi dei giudizi di impugnazione (cfr., ad es., gli artt. 342, 366 e 398 c.p.c.) – sono sempre rilevabili d’ufficio ed insanabili.
Secondo una diversa e minoritaria impostazione, muovendo da un esame esclusivo del momento effettuale dei fenomeni studiati, si è giunti a negare autonomia concettuale alla inammissibilità rispetto alla nullità. La considerazione dei diversi trattamenti contemplati per i vari vizi di nullità, infatti, conduce alla conclusione che la nullità, come categoria generale positivamente contemplata, copre tutto quanto è logicamente compatibile con l’ordinamento di rito entro l’ambito compreso tra l’irregolarità e l’inesistenza. La negazione dell’autonomia logico-giuridica della nozione di inammissibilità, comporta come principale conseguenza l’applicabilità della disciplina generale in tema di nullità, compreso il principio di strumentalità delle forme ed i suoi corollari – tra i quali il principio della sanabilità del vizio per raggiungimento dello scopo –, anche alle imperfezioni sanzionate con l’inammissibilità. L’applicabilità del principio di strumentalità delle forme, a ben vedere, non potrebbe essere qui negata – come invece sovente fa la giurisprudenza – anche riconoscendo autonomia concettuale all’inammissibilità, perché in ogni caso essa rappresenta una ipotesi di inosservanza di forme, la quale dovrebbe ritenersi soggetta, in quanto tale, al principio in parola ed ai suoi corollari.
Per quanto riguarda i rapporti tra nullità e improcedibilità, si devono prendere le mosse dall’osservazione che quest’ultima si pone come una species del genus inattività, oggettivamente limitata alla fase introduttiva dei giudizi d’impugnazione e qualificata dalla specialità della sanzione, ovvero la non riproponibilità dell’impugnazione dichiarata improcedibile a norma degli artt. 358 e 387 c.p.c. Premesso pertanto che anche l’improcedibilità consiste nella inosservanza di forme che comporta l’inidoneità dell’atto a produrre i suoi effetti tipici, il problema che qui si pone, in mancanza di una disciplina espressa, è quello della applicabilità diretta o analogica delle norme dettate per le nullità, con particolare riguardo al principio della sanabilità per raggiungimento dello scopo. Se si considera che anche l’improcedibilità è la conseguenza della inosservanza di norme sulla forma degli atti, si dovrebbe riconoscere – come per l’inammissibilità, lo abbiamo appena visto, ma anche qui in contrasto con la giurisprudenza prevalente – che anche alla improcedibilità si applica il principio di strumentalità delle forme con i suoi corollari, ivi incluso il principio della sanabilità delle inosservanze di forme per raggiungimento dello scopo della norma non osservata.
La disciplina della nullità degli atti processuali civili, quale species del genus invalidità, è dunque la disciplina delle conseguenze che l’ordinamento processuale ricollega al difettoso esercizio dei poteri di azione e di giurisdizione (perché mancanti del tutto o perché, pur esistenti, non individuabili o esercitati illegittimamente).
Nel codice di rito civile italiano l’invalidità assume essenzialmente la denominazione di nullità e presenta caratteristiche strutturali e funzionali proprie, non assimilabili a quelle di altre specie di invalidità conosciute nel diritto sostanziale. Talvolta, lo abbiamo riscontrato, l’impedimento alla decisione di merito si trova sussunto sotto un nomen iuris, una qualificazione diversa dalla nullità: si parla, infatti, in questi casi, anche a seconda della fase processuale di cui si tratta, di inammissibilità o di improcedibilità. La differente qualificazione formale non deve tuttavia essere sopravvalutata, giacché si tratta sempre di fenomeni riconducibili, dal punto di vista strutturale e funzionale, allo schema della nullità.
Sembra potersi affermare, quindi, che nel processo civile la nullità ricomprenda e riassuma, in via esauriente ed esclusiva, i vari tipi di trattamento cui il legislatore sottopone gli atti processuali non conformi al modello, senza che vi sia spazio per altre forme di invalidità. Conclusione, questa, che non sorprende, se si tiene nel dovuto conto l’estrema elasticità che la figura della nullità assume nella disciplina positiva del processo civile: vuoi con riguardo alle sue caratteristiche strutturali (v. supra, § 1.2), vuoi con riguardo a quelle funzionali (v. supra, § 1.3).
Se è vero, dunque, che per conseguire l’effetto costituzionale del processo, cioè la pronuncia sul merito del diritto controverso, è necessario e sufficiente esercitare regolarmente, legittimamente il potere di azione, vale a dire osservare le norme che disciplinano la forma degli atti del processo, per spiegare e definire, rispettivamente, i concetti di validità e nullità degli atti processuali, sembra ci si debba richiamare allo schema del potere: ad ogni integrale, perfetta, riproduzione dello schema legale si avrà legittimo esercizio del potere e, quindi, ricollegamento degli effetti, con particolare riferimento al dovere di pronunciare la decisione nel merito della controversia; correlativamente, ad ogni deviazione rilevante dallo schema legale, rispetto allo scopo da questo schema perseguito, si avrà la nullità che, dunque, si risolve, almeno con riguardo agli atti di parte, nella mancanza o nell’illegittimo esercizio del potere (Cordero, F., Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1957, 22-23, 93, nt. 114, 198, 228-229, 233-234, 260, 204, 216-217, 264).
Le cose non cambiano di molto con riguardo agli atti del giudice, dovendosi ricollegare la nullità dei provvedimenti alla mancanza del potere giurisdizionale o all’illegittimo esercizio del potere-dovere da parte del giudice, nei termini e con le rispettive conseguenze sintetizzati nelle pagine che precedono.
Artt. 156-162 c.p.c.
Auletta, F., Nullità e «inesistenza» degli atti processuali civili, Padova, 1999; Conso, G., Il concetto e le specie di invalidità, Milano, 1955; Ciaccia Cavallari, B., La rinnovazione nel processo di cognizione, Milano, 1981; Denti, V., Nullità degli atti processuali civili, in Nss. D.I., XI, Torino, 1968, 467 ss.; Oriani, R., Nullità degli atti processuali: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990; Poli, R., Invalidità ed equipollenza degli atti processuali, Torino, 2012; Proto Pisani, A., Violazione di norme processuali, sanatoria «ex nunc» o «ex tunc» e rimessione in termini, in Foro it., 1992, I, 1719 ss.