Abstract
Si espongono le linee essenziali del sistema della nullità nel diritto civile, seguendo lo schema ancora valido delineato nella parte generale del contratto e tenendo conto delle ipotesi sempre più numerose di nullità c.d. speciali. Di tale composito sistema vengono poi tratteggiati gli aspetti disciplinari con particolare attenzione agli indirizzi innovativi della giurisprudenza.
Nel sistema del diritto civile la nullità si configura come una forma di invalidità dell’atto negoziale. Più che riflettere un predefinito schema dogmatico, essa si delinea alla stregua di un istituto di diritto positivo attraverso il quale l’ordinamento, rimediando a vizi gravi dell’atto negoziale, individuati in via generale ovvero con riferimento a singoli casi, mira a realizzare un determinato assetto di interessi. Questa concezione plurale e funzionale della nullità emerge dallo stesso sistema codicistico, che contempla una disciplina differenziata per le diverse principali tipologie di atti negoziali (matrimonio, testamento e contratto) e configura la stessa nullità contrattuale come un modello elastico ed aperto, caratterizzato da pluralità (e atipicità) di cause e statuti. E trova conferma nelle numerose ipotesi di nullità cd. speciali che, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, sono state introdotte nell’ordinamento e che, come si vedrà, si caratterizzano per il particolare atteggiarsi della tutela apprestata (protezione di un contraente) e per il regime ad esse riservato (parzialità e relatività della nullità).
Il contesto appena tratteggiato si riflette sulla demarcazione della nullità dall’altra categoria dell’invalidità: l’annullabilità. Tradizionalmente fondata sulle partizioni concettuali della pandettistica e sulle differenti connotazioni delle relative azioni (prescrizione, legittimazione ad agire, efficacia del contratto, natura della sentenza, sanabilità), la distinzione sembra affievolirsi e residuare solo in ragione della tipicità delle cause di annullamento.
L’impostazione relativistica e pluralistica della materia induce ad abbandonare ogni tentativo di costruzione di una categoria generale e unitaria di nullità e a considerare che ciascun atto ha la sua patologia e che le stesse espressioni utilizzate dalla legge, ancorché identiche, non sempre esprimono lo stesso significato (del Prato, E., Patologia del contratto: rimedi e nuove tendenze, in Riv. dir. comm., 2015, 5).
È quanto si verifica, ad esempio nelle invalidità matrimoniali, per le quali, benché la legge adotti l’espressione “nullità” (cfr. la rubrica della Sez. VI del libro I del c.c.: art. 117 e ss.), è previsto un regime che non rientra nello schema della nullità contrattuale e si avvicina invece a quello dell’annullamento.
L’evoluzione del sistema non sembra invece riflettersi più di tanto sulla distinzione, di matrice squisitamente dogmatica, tra nullità ed inesistenza. La qualificazione negativa in termini di nullità presuppone che il contratto o l’atto – seppur viziato – sussista e sia identificabile come tale; ove difetti anche l’apparenza di un negozio si è, invece, di fronte al fenomeno dell’inesistenza. Una proposta di vendita alla quale non faccia seguito alcuna accettazione non dà luogo ad un contratto nullo per mancanza di accordo, ma è più semplicemente un accadimento insuscettibile di qualificazione da parte dell’ordinamento giuridico, ed al quale quindi non è possibile ricollegare gli effetti generati dalla nullità, come ad es. la conversione (art. 1424 c.c.). Un esempio di scuola di inesistenza è stato a lungo considerato il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Oggi sono invece sempre più numerosi gli ordinamenti che hanno esteso il matrimonio a coppie omosessuali e nel nostro Paese, che pure non ammette tale matrimonio, esso è ora considerato semplicemente inefficace (Cass., 15.3.2012, n. 4184).
La prima causa di nullità, che viene in rilievo nello schema disegnato dagli artt. 1418-1424 c.c. e che si pone come fondamento generale dell’intera categoria dell’invalidità, è quella della contrarietà del contratto con la norma imperativa (art. 1418, co. 1, c.c.). Questa nullità viene definita ‘virtuale’, in contrapposizione a quella testuale, espressamente sancita (art. 1418, co., 2-3, c.c.). Per comprendere il significato e la portata applicativa di questa causa di nullità, occorre muovere dalla considerazione che il legislatore, nel prevedere nei singoli casi norme imperative, affronta e risolve il problema della composizione di interessi confliggenti, delineando, di volta in volta, l’assetto di interessi che costituisce il punto di equilibrio positivamente individuato. Ciò suggerisce di assumere come parametro di valutazione della sussistenza della ‘contrarietà’ l’incompatibilità tra l’assetto degli interessi realizzato dalla norma imperativa e quello perseguito invece dalle parti con la regola contrattuale (su queste nozioni, v. Buzzelli, D., Mutuo usurario e invalidità del contratto, Napoli, 2012, 70 ss.).
Il contrasto del contratto con la norma imperativa è causa di nullità «salvo che la legge disponga diversamente». L’inciso pone due differenti ordini di problemi che non devono essere confusi: un primo riguarda l’individuazione del contenuto della diversa previsione di legge; un secondo, attiene invece alla forma, al modo in cui la diversa volontà della legge può manifestarsi. Riguardo al primo, la diversa previsione che la legge può disporre in luogo della nullità può consistere o nella deroga alla nullità ovvero nella deroga al regime per essa ordinariamente previsto. La prima ipotesi ricomprende sia i casi in cui si esclude la nullità, sia i casi in cui, in luogo della nullità, si prevede un’altra forma di invalidità, come l’annullabilità, ovvero un diverso rimedio come l’inefficacia, la risoluzione, il risarcimento del danno, l’irregolarità, ecc.. Relativamente al secondo problema, se è certo che la diversa disposizione deve pur sempre promanare dalla legge, non è richiesto tuttavia che essa sia espressa, essendo sufficiente che risulti che l’assetto di interessi perseguito dalla norma imperativa violata sia assicurato con un rimedio diverso dalla nullità e dalla disciplina per essa prevista (Buzzelli, D., Mutuo usurario, cit., 93 ss.).
Tra le norme imperative che vengono in rilievo, quelle cioè non derogabili per volontà delle parti, non rientrano quelle c.d. di comportamento che impongono alle parti particolari doveri di correttezza, diligenza (es. gli artt. 1337 e 1338 c.c.), la cui violazione potrà importare invece l’irrogazione di una diversa sanzione sia essa penale, civile o amministrativa (Cass. S.U., 19.12.2007, n. 26724).
Un settore tormentato è quello delle norme imperative penali. La nullità infatti non discende automaticamente dalla violazione della norma penale. Ma è necessario pur sempre che sussista quella specifica situazione di contrarietà posta dall’art. 1418, co. 1, c.c., a fondamento dell’ipotesi di nullità e che quindi il contratto realizzi un assetto di interessi vietato dalla norma penale. Così nel caso della truffa contrattuale, il contratto posto in essere in violazione dell’art. 640 c.p., non risulta, di per sé, incompatibile con il divieto posto dalla norma penale, giacché questa vieta il comportamento d’induzione in errore del deceptus, e non già, direttamente, il regolamento conseguente all’atto di disposizione frutto della condotta truffaldina; regolamento che, tuttavia, in quanto frutto di un comportamento vietato, è soggetto alla disciplina del dolo negoziale (art. 1349 c.c.). Discorso sostanzialmente analogo deve farsi per il contratto che deriva dalla circonvenzione di un incapace (art. 643 c.p.), anche se la giurisprudenza ne afferma la nullità (tra le più recenti, Cass., 7.2.2008, n. 2860); conseguenza questa che appare, invece, più correttamente attagliarsi soltanto a quelle ipotesi in cui «lo stato di infermità o deficienza fisica» previsto dall’art. 643 c.p. sia tale da escludere l’esistenza della volontà e, quindi, la stessa configurabilità dell’accordo (del Prato, E., Le annullabilità, in Gentili, A., a cura di, Rimedi, t. 1, in Tratt. Roppo, IV, Milano, 2006, 181 ss.). Un contrasto rilevante ai fini dell’art. 1418, 1° co. c.c., si delinea invece con riferimento al reato di usura (art. 644 c.p.); qui, tuttavia, sono previsti sul piano civilistico rimedi diversi: per il mutuo, l’improduttività degli interessi (art. 1815, co. 2, c.c.), e per i contratti usurari diversi da quelli di credito, la rescissione ex art. 1448 c.c. (per questa ricostruzione, v. Buzzelli, D., Mutuo usurario, cit., 149 ss. e 242 ss.).
Quali ulteriori cause di nullità dall’atto di autonomia, l’art. 1418, co. 2, c.c., contempla la mancanza di uno dei requisiti essenziali indicati dall’art. 1325 c.c., l’illiceità della causa, del motivo e della condizione (art. 1418, co. 2, c.c.).
Il primo caso si ha quando difetti l’accordo delle parti, la causa, l’oggetto o la forma imposta a pena di nullità. Si parla in questi casi di nullità strutturali, nel cui ambito si fanno rientrare anche le ipotesi del contratto con condizione sospensiva impossibile e quella del contratto sottoposto a condizione meramente potestativa (Roppo, E., Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2001, 744). L’ipotesi della mancanza di accordo che comporti nullità, e non già inesistenza, non è, almeno nella dinamica contrattuale, di agevole configurazione: si fanno gli esempi della violenza fisica o della totale incapacità di volere come quello derivante da ipnosi, mentre si escludono il caso dell’accordo apparente dietro cui si cela un dissenso occulto e quella del contratto concluso dal falsus procurator (cfr. del Prato, E., Requisiti del contratto, Art. 1325, in Comm. c.c. Schlesinger-Busnelli, Milano, 2013, 45 ss., cui si rinvia per un’ampia e accurata prospettiva di confronto tra mancanza di accordo e nullità). Con riferimento al difetto causale esso si ha quando manca una ragione pratica giustificativa dell’autoregolamento degli interessi realizzato dal contratto (Cass., 18.1.1985, n. 136). Al classico e meno problematico esempio dell’acquisto di ciò che è già proprio, può aggiungersi quello del contratto di compravendita di immobile privo della pattuizione di un corrispettivo (Cass. 20.11.1992, n. 12401). Alla mancanza dell’oggetto – di quella parte, cioè, dell’autoregolamento che contiene l’indicazione delle prestazioni – è equiparata l’ipotesi in cui esso sia privo dei requisiti stabiliti dall’art. 1346 c.c., vale a dire possibilità, liceità, determinatezza o determinabilità. Quanto, infine, alla nullità per difetto di forma, essa si determina solo quando il vincolo formale sia richiesto espressamente per la validità del contratto (art. 1350 c.c.).
Nel caso dell’illiceità dei richiamati elementi, l’autoregolamento non presenta difetti strutturali, ma è tuttavia disapprovato dall’ordinamento perché ritenuto incompatibile con interessi e valori fondamentali secondo i generali parametri del contrasto con norme imperative, principi di ordine pubblico e regole di buon costume (art. 1343 c.c.): sono queste le nullità cd. ‘funzionali’ o da ‘disvalore’ (Di Majo, A., La nullità, in Tratt. Bessone, XIII, t. 7, Torino, 2002, 73). La correlazione di questa ipotesi di nullità con quella prevista dal co. 1 dello stesso art. 1418 c.c. fonda la distinzione tra illiceità e illegalità, qualificandosi come contratto illegale quello contrario a norme imperative e come contratto illecito quello con causa, oggetto o motivo illeciti (De Nova, G., Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. crit. dir. priv., 1985, 438 ss.). La distinzione, discutibile sul piano teorico, trova riscontro sul piano positivo atteso che l’illiceità del contratto non produce altra conseguenza rispetto alla nullità, non consentendo il recupero del contratto nullo (artt. 799 e 2126 c.c.) o la sua conversione (art. 1427 c.c.).
Accanto alle cause generali e tipiche sin qui esaminate, il sistema delineato dall’art. 1418 c.c. prevede l’esistenza di altri casi di nullità stabiliti dalla legge (3 co.). Il senso della disposizione si coglie non tanto con riguardo a quei casi nei quali la nullità discenderebbe comunque dall’applicazione dei primi due commi dell’art. 1418, quanto piuttosto con riferimento a quelle ipotesi nelle quali la testuale previsione della legge vale ad introdurre una nuova causa o un nuovo caso di nullità, consentendo così di adeguare la legislazione alle mutevoli esigenze del mercato e dei rapporti sociali.
Come accennato, sono molto numerosi i casi di nullità che negli ultimi decenni, per effetto soprattutto della normativa comunitaria, sono entrati a far parte della nostra legislazione. Tra essi assumono particolare rilievo quelle ipotesi riassunte nella denominazione di ‘nullità di protezione’ ed accumunate dall’essere volte alla tutela di interessi particolari o meglio ‘seriali’, propri cioè di categorie o classi di contraenti che vengono a trovarsi, per varie ragioni, in posizione di debolezza negli scambi del mercato. È il caso delle nullità previste rispettivamente dagli artt. 23 e 24, t.u.f., a tutela degli investitori, dagli artt. 117 e 127, t.u.b., per i clienti di banca e dall’art. 36, c. cons., a tutela dei consumatori. Nel codice del consumo sono ora confluite altre ipotesi di nullità introdotte da leggi speciali di derivazione comunitaria: sulla multiproprietà (art. 78), sui contratti a distanza e conclusi fuori dai locali commerciali (art. 63), sulle clausole di esonero della responsabilità del produttore (art. 124), e sulle clausole di esclusione o limitazione della responsabilità del venditore dei beni di consumo (art. 134). Altre ipotesi di nullità riconducibili a finalità di protezione si rinvengono nell’art. 9 della l. 18.6.1998, n. 192, sull’abuso di dipendenza economica, e nell’art. 2 del d.lgs. 20.6.2005, n. 122, in tema di tutela degli acquirenti di immobili in costruzione. La finalità di protezione, e dunque il perseguimento dell’interesse in vista del quale la nullità è concepita, viene realizzata attraverso una disciplina che, a seconda dei casi, diverge dall’ordinario regime codicistico quanto alla legittimazione all’azione, alla rilevabilità d’ufficio e alla parzialità della nullità. Così, ad es., nei contratti del consumatore la nullità opera soltanto a vantaggio del contraente protetto e colpisce esclusivamente le clausole vessatorie lasciando inalterato il restante assetto di interessi (art. 36 c. cons.).
La nullità può investire l’intero negozio ovvero solo una parte o singole clausole di esso. In questo secondo caso si configura una ipotesi di nullità parziale, limitata cioè alla parte o alla clausola negoziale viziata, da intendersi come singolo precetto dell’autoregolamento isolato o isolabile dal contesto complessivo e inscindibile nelle sue varie proposizioni.
La nullità parziale comporta invece la nullità dell’intero negozio se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità (art. 1419, co. 1, c.c.). Da quest’ultima regola, che costituisce un riflesso del principio di conservazione degli atti di autonomia negoziale, si desume il carattere eccezionale dell’estensione della nullità parziale all’intero contratto. Sul piano applicativo ciò comporta l’impossibilità per il giudice di rilevare d’ufficio l’effetto estensivo (Cass., 3.2.1995, n. 1306), e la necessità che sia la parte interessata ad ottenere la nullità totale a fornire la prova dell’interdipendenza della clausola nulla con la restante parte dell’autoregolamento (Cass. 20.5.2005, n. 10690).
Il giudizio in ordine al carattere ‘essenziale’ o ‘interdipendente’ della clausola nulla deve fondarsi su una valutazione oggettiva circa il peso che detta clausola o parte del contratto ha sull’assetto di interessi che le parti hanno programmato (D’Adda, A., Nullità parziale e tecniche di adattamento del contratto, Padova, 2008, 76 ss.). Sicché quando, nonostante la clausola invalida, l’atto di autonomia consente comunque la realizzazione del sostanziale assetto di interessi perseguito dalle parti, la nullità parziale non si estende a tutto il contratto. La volontà delle parti non rileva dunque in quanto dato psicologico, ma quale realtà esteriorizzata ed oggettivata nell’autoregolamento.
L’indagine sull’essenzialità o meno della clausola invalida non viene in rilievo tutte le volte in cui le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative (art. 1419, co. 2, c.c.). Si attua in questi casi una etero-integrazione del contratto: il contenuto della clausola difforme rispetto a quanto stabilito dalle parti viene imposto autoritativamente a tutela di interessi collettivi di preminente interesse pubblico.
Il principio della sostituzione automatica di clausole, previsto dall’art. 1419, co. 2, c.c., per i contratti c.d. di diritto comune, è esteso dall’art. 1339 c.c. ai contratti in serie o contratti standard (Putti, P.M., Le nullità contrattuali, in Lipari, N. - Rescigno, P., diretto da, Diritto civile, II, Milano, 2009, 935), prevedendosi che le clausole nonché i prezzi di beni o di servizi imposti dalla legge sono di diritto inseriti nel contratto anche in sostituzione delle clausole difformi apposte delle parti.
La nullità parziale si atteggia in modo peculiare nelle ipotesi, più sopra richiamate, di nullità di protezione, nelle quali il legislatore, con una valutazione aprioristica, in deroga alla disciplina di cui all’art. 1419 c.c., prevede la nullità di una singola parte o clausola lasciando impregiudicato il restante assetto di interessi. Si parla in questi casi di nullità parziale ‘necessaria’ per rimarcare il fatto che la nullità di singole clausole, non potendosi estendere all’intera stipulazione contrattuale per non pregiudicare l’interesse in vista del quale la nullità è concepita, deve configurarsi come necessariamente parziale.
Di nullità parziale si può parlare anche in senso soggettivo, con riferimento cioè ai contratti con più di due parti, in cui le prestazioni di ciascuna sono dirette al conseguimento di uno scopo comune. Con riferimento ad essi vale il principio secondo cui la nullità che colpisce il vincolo di una sola delle parti non importa nullità del contratto, salvo che la partecipazione di essa debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale (art. 1420 c.c.).
La nullità, quale vizio genetico del contratto, deve inficiare l’atto al momento della sua perfezione: essa è dunque originaria. Si discute, tuttavia, se possa configurarsi una nullità sopravvenuta o successiva con riferimento in particolare ai contratti di durata stipulati anteriormente alla norma proibitiva sopraggiunta. Benché una parte della dottrina e della giurisprudenza ammettano la figura, il problema – che si è posto in tema di fideiussione omnibus, contratti usurari, normativa antitrust e clausole vessatorie nei contratti dei consumatori – va risolto nel senso di ritenere che, al di fuori dei casi in cui la norma proibitiva è retroattiva, l’intervento successivo del legislatore non possa incidere sul contratto validamente perfezionato rendendolo nullo, ma solo sul rapporto contrattuale in corso inibendone o limitandone l’efficacia.
La nullità di regola può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice (art. 1421 c.c.). Oltre alle parti ad avere legittimazione sono quindi anche i terzi estranei all’atto negoziale, i quali tuttavia devono essere portatori di un interesse ad agire e più precisamente dell’interesse a non subire pregiudizi per effetto del contratto nullo. La regola della rilevabilità d’ufficio, comunemente considerata un riflesso dell’interesse generale che sottostà al giudizio di nullità, ha avuto contrastanti esiti applicativi. Per lungo tempo la giurisprudenza nettamente prevalente ha ritenuto che il potere-dovere del giudice di rilevare la nullità opera solo quando si invoca l’efficacia del contratto e non quando sia proposta domanda volta ad ottenerne l’annullamento, la risoluzione o la revisione (v. tra le ultime v. Cass., 28.11.2008, n. 28424). L’affermarsi di un orientamento di segno contrario (cfr., ad es., Cass., 7.2.2011, n. 2956), avallato anche da larga parte della dottrina, ha dato vita ad un contrasto di recente composto dalle Sezioni Unite che hanno affermato la rilevabilità d’ufficio della nullità anche nel caso in cui il giudice di merito sia investito della domanda di risoluzione del contratto, fermo il rispetto dei principi del contraddittorio, del giudicato e dell’onere di allegazione (Cass., S.U., 4.9.2012, n. 14828). Le stesse Sezioni Unite hanno da ultimo precisato che il giudice innanzi al quale sia stata proposta una qualsiasi impugnativa contrattuale (adempimento, risoluzione, annullamento, rescissione, nullità parziale) ha il dovere di rilevare la nullità e di dichiararla anche in assenza di una manifestazione di interesse delle parti, a meno che non si tratti di nullità speciale che presuppone una tale manifestazione (Cass., S.U. 12.12.2014, n. 26242).
Quelle sin qui descritte non sono regole fisse, ma sono previste eccezioni, ricorrendo le quali la nullità può essere fatta valere solo da determinati soggetti (cfr. art. 1421 c.c., che nel legittimare all’azione di nullità chiunque vi abbia interesse fa espressa salvezza delle «diverse disposizioni di legge»). Sono queste le ipotesi in cui si parla di nullità relativa, in contrapposizione alla nullità assoluta che può essere azionata da qualunque interessato. A parte la peculiare disciplina delle nullità matrimoniali, nell’ambito delle nullità contrattuali un campo elettivo di operatività di queste nullità è, come si è visto, quello delle nullità di protezione.
L’esigenza che determinati interessi, posti alla base della previsione di nullità, siano presidiati a prescindere dal tempo trascorso giustifica l’imprescrittibilità dell’azione di nullità (art. 1422 c.c.). In realtà, la portata pratica della regola è limitata dalla salvezza degli effetti dell’usucapione e dell’azione di ripetizione. È dunque evidente come la reazione dell’ordinamento contro l’atto nullo non sia affatto indifferente al tempo trascorso.
Può così accadere che chi invoca la nullità possa non ottenere alcun risultato pratico se la domanda di restituzione è prescritta ovvero se il bene oggetto del negozio è stato usucapito. Non solo, ma l’art. 1422 c.c. non modifica neppure il regime di prescrizione dell’azione risarcitoria; anzi, la giurisprudenza precisa che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno causato dalla nullità del contratto inizia a decorrere dalla data del contratto se a domandarlo è la stessa parte che ha invocato la nullità; decorre, invece, dalla data di accertamento giudiziale della nullità se è preteso da una parte negoziale diversa da quella che ha fatto valere quest'ultima, perché in questo caso il danno consiste proprio nella declaratoria di nullità di un contratto sulla cui efficacia si faceva affidamento (Cass. 16.5.2013, n. 11933).
L’atto nullo, a differenza di quello annullabile, non è suscettibile di convalida. La regola ammette eccezioni (art. 1423 c.c.). Il primo caso è costituito dalla conferma o esecuzione volontaria di un testamento o di una donazione nulli: è previsto infatti che in questi casi la nullità non può essere fatta valere da chi, conoscendone la causa, ha dopo la morte del testatore o del donante confermato la disposizione testamentaria, o la donazione, o dato ad essi volontaria esecuzione (nel caso della donazione, da parte degli eredi o aventi causa dal donante) (artt. 590 e 799 cc.). Altri casi si individuano nel contratto di lavoro nullo che produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione nei casi in cui la nullità derivi da illiceità dell’oggetto o della causa (art. 2126 c.c.); nel matrimonio nullo che produce gli effetti di quello valido in favore dei coniugi fino alla sentenza che pronuncia la nullità quando essi lo hanno contratto in buona fede, o il loro consenso è stato estorto con violenza, o determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne agli sposi, nonché in favore dei figli nati o concepiti durante il matrimonio (art. 128, co. 1-2, c.c.); con riferimento alle disposizioni relative alla trascrizione delle domande dirette a far dichiarare la nullità di atti soggetti a trascrizione, le quali prevedono che se la domanda è trascritta dopo cinque anni dalla trascrizione dell’atto impugnato la sentenza di accoglimento non pregiudica i diritti acquisiti a qualunque titolo da terzi in buona fede in base ad atto trascritto o inscritto anteriormente alla domanda (artt. 2652, n. 6 e 2690, n. 3, c.c.).
Il contratto nullo può, invece, produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità (art. 1424 c.c.). È questa l’ipotesi della conversione sostanziale, che quanto a presupposti e modo di operare pone le stesse problematiche della nullità parziale. Diversamente dalla conversione sostanziale, quella formale non determina una modificazione degli effetti dell’atto, ma riguarda il documento che incorpora l’atto di autonomia: il testamento nullo come testamento segreto produce gli effetti del testamento olografo ove di questo possegga i requisiti (art. 607 c.c.). Va detto che lo spazio assai limitato che ha trovato sul piano pratico la conversione è destinato a ridursi ulteriormente rispetto alle nuove ipotesi di nullità destinate ad incidere sull’atto di autonomia attraverso modalità correttive o integrative alternativi al meccanismo della conversione.
Artt. da 1418 a 1424 c.c., nonché le altre disposizioni richiamate nel testo.
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