NULLITÀ (XXV, p. 20)
Il cod. civ. del 1942 si è proposto di disciplinare distintamente e correttamente tutte le specie d'invalidità del negozio giuridico, che la dottrina era venuta isolando, e adotta una terminologia abbastanza precisa, evitando (salvo che in materia di matrimonio: art. 117 e segg.) la confusione tra nullità e annullabilità, in cui cadeva spesso il cod. del 1865. Tuttavia, per non avere delineato la nozione comprensiva di negozio giuridico, esso non formula norme generali relative al complesso dei negozî, bensì soltanto regole specifiche attinenti all'una o all'altra categoria, soprattutto alle disposizioni testamentarie e ai contratti.
La figura della nullità è definita in modo organico con riguardo ai soli contratti (articoli 1418-1424); ma da questa disciplina si possono dedurre principî applicabili in genere agli altri negozî. Quei principî, a loro volta, ricalcano il tradizionale insegnamento della dottrina, accettato dalla giurisprudenza pratica, intorno alle cause della nullità (mancanza di un requisito essenziale o contrasto con una nomia imperativa), al loro operare ipso iure (coi relativi corollarî della rilevabilità d'ufficio e del carattere dichiarativo e imprescrittibile dell'azione di nullità), all'inammissibilità di una sanatoria (salve le eccezioni degli articoli 590 e 799) e all'ammissibilità, viceversa, di una conversione (se si possa presumere che le parti, qualora avessero conosciuto la nullità, avrebbero voluto un altro negozio, di cui sussistano nella fattispecie i requisiti). Un'importante eccezione alla regola che la nullità è opponibile a qualsiasi terzo è introdotta dagli articoli 2652, n. 6 e 2690, n. 3 in tema di trascrizione; ma essa riguarda unicamente i contratti o, tutt'al più, i negozî unilaterali tra vivi, aventi contenuto patrimoniale (art. 1324)
L'annullabilità ha ancora il suo paradigma nella disciplina dei contratti (artt. 1425-1446), ma regole particolari sono dettate per altri negozî, come il matrimonio (artt. 117-129), il riconoscimento di figlio naturale (artt. 263-268), l'accettazione e la rinunzia di eredità (artt. 482-483, 526), le disposizioni testamentarie (artt. 591, 624), la divisione (artt. 761, 762, 768), la donazione (artt. 774-776, 787), ecc. In generale la disciplina non si discosta da quella del cod. del 1865; unica modificazione saliente è l'inopponibilità dell'annullamento dei contratti ai terzi acquirenti di buona fede a titolo oneroso (art. 1445), salve le regole della trascrizione (v. sopra).
Le altre specie d'invalidità in senso ampio rimangono circoscritte, anche nel cod. del 1942, a determinate categorie di negozî. Più estesa risulta la sfera della rescindibilità, che può riguardare, oltre la divisione (artt. 763, 764), i contratti non aleatorî (artt. 1447, 1448: v. contratto, in questa App.); meglio delineata quella della risolubilità (artt. 1453-1469), che è ricondotta sistematicamente a tre cause (inadempimento, impossibilità sopravvenuta, eccessiva onerosità), può colpire i contratti a prestazioni corrispettive (eventualmente in quanto non siano aleatorî), nonché il mutuo, e opera talvolta indipendentemente dalla pronuncia del giudice (artt. 1454, 1456, 1457). Non sono state apportate invece modificazioni rilevanti alla disciplina della revocabilità delle disposizioni testamentarie o delle donazioni (artt. 687, 800-809) e degli atti compiuti in frode ai creditori (artt. 2901-2904; artt. 64-71 r. decr. 16 marzo 1942, n. 267); e nemmeno alla riducibilità delle disposizioni testamentarie e delle donazioni lesive di legittima (artt. 553-564: v. successione, in questa App.).
Il codice di proc. civ. del 1942 contiene alcune disposizioni generali sulla nullità degli atti processuali, ispirate in parte a singole regole del cod. del 1865. Si ha nullità solo quando essa sia comminata dalla legge o quando l'atto manchi di un requisito indispensabile al raggiungimento dello scopo (art. 156, 1° e 2° comma); altrimenti si ha una semplice irregolarità, che dà luogo a rettifica o correzione. Del resto, anche in quelle due ipotesi la nullità non può essere pronunciata, "se l'atto ha raggiunto lo scopo, a cui è destinato" (art. 156, 3° comma). L'aspetto teleologico ha dunque importanza primaria nella valutazione degli atti processuali. Le norme riferite riguardano testualmente la sola inosservanza di forme, ma esse vengono estese per analogia agli altri possibili vizî dell'atto.
Il codice parla in modo generico di "nullità"; in realtà molti vizî rendono l'atto soltanto annullabile, giacché essi debbono venire opposti nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla notizia di esso dalla parte nel cui interesse il requisito non osservato è stabilito, e la nullità è oggetto di una "pronuncia" del giudice, mentre è prevista la convalida anche tacita (art. 157, 2° e 3° comma). La regola è anzi l'annullabilità, poiché solo se la legge lo dispone espressamente, la nullità deve essere rilevata d'ufficio e non è, di conseguenza, sanabile. I processualisti ad "annullabilità" preferiscono l'espressione, certo equivoca, "nullità relativa". Si ha nullità assoluta e insanabile (art. 158) quando i vizî riguardano la "costituzione del giudice" (ossia dell'ufficio) e l'intervento del P.M.; ma gli interpreti ritengono che uguale o anche maggiore rilevanza abbia il difetto di quei requisiti, senza i quali l'atto non può assolutamente raggiungere il suo scopo o è, come spesso si dice, giuridicamente inesistente.
Un importante limite all'estensione dell'invalidità deriva dall'applicazione della regola "utile per inutile non vitiatur", per cui la nullità di un atto o di una sua parte non si ripercuote sull'intero procedimento o sulla rimanente parte dell'atto, quando vi sia tra loro indipendenza, mentre il vizio che impedisce un determinato effetto non incide sugli altri possibili effetti dell'atto (art. 159). Basterà dunque rinnovare l'atto o la parte di atto colpiti da nullità. Un altro limite assai rilevante è che, riguardo alle sentenze, le cause di nullità si traducono in motivi d'impugnazione (art. 161, 1° comma): perciò, se l'impugnazione non sia possibile (per decorso dei te mini o difetto di presupposti), la nullità è sostanzialmente sanata e la sentenza produce i suoi effetti. Fanno eccezione il caso in cui manchi la sottoscrizione del giudice (art. 161, 2° comma) e, si ritiene, quelli in cui la sentenza si possa altrimenti considerare inesistente.
Altri atti possono essere affetti da invalidità, come le leggi e gli atti amministrativi (annullabili per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, revocabili per motivi di merito, nulli o inesistenti per mancanza di un elemento costitutivo), nonché gli atti privati non negoziali (ad es., le deliberazioni delle assemblee delle associazioni e delle società per azioni: artt. 23, 2377, 2379). In genere tutti gli atti che mirano alla produzione di un effetto giuridico possono essere invalidi, in quanto quella produzione è condizionata alla loro conformità allo schema astratto tracciato dal diritto. E lo sforzo della dottrina moderna, come tende ad assurgere a una teoria generale dell'atto giuridico, così si orienta verso l'individuazione dei principî comuni all'invalidità dei varî atti e verso la classificazione sistematica dei casi in cui l'atto non può produrre i suoi effetti.
Accanto alla nullità si configura l'inefficacia, quando l'atto è privo di effetti per la deficienza di un elemento estrinseco. Più discusso è se dalla nullità si possa inoltre distinguere l'inesistenza, intesa come inesistenza giuridica e non di fatto. Molti autori lo affermano soprattutto nell'ambito del diritto processuale e di quello amministrativo; e in effetti la pratica si vede talvolta costretta a ricorrere a questa figura per supplire all'insufficiente o scorretta previsione legislativa o per aggirare limiti posti alla rilevanza della nullità. Ma, se si tenta di elencare le cause onde deriverebbe l'inesistenza, si avverte che la differenza dalle ipotesi di nullità non può essere che empirica, riducendosi in sostanza alla contrapposizione tra vizî più evidenti o non seriamente contestabili e vizî che potrebbero richiedere un accertamento giudiziale. E si deve concludere che, dal punto di vista strettamente giuridico, l'inesistenza non è concepibile che come un diverso nome della nullità. Delle altre specie d'invalidità in senso ampio sono state proposte parecchie classificazioni: la più corretta, specie alla luce del diritto amministrativo, sembra quella che distingue i casi in cui gli effetti dell'atto vengono eliminati per vizî dei suoi requisiti legali (annullabilità) dalle ipotesi in cui l'eliminazione procede da ragioni di opportunità o di giustizia (rescindibilità, revocabilità, risolubilità, ecc.). Questa seconda categoria può essere raggruppata sotto il nome d'impugnabilità. Constatato che la nullità ha elementi comuni con l'annullabilità, la classificazione complessiva viene a imperniarsi su tre categorie, suscettibili, a loro volta, di ulteriore analisi: inefficacia, invalidità in senso stretto (che comprende nullità e annullabilità), impugnabilità.
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