numero
Il numero è la categoria grammaticale che serve a codificare la quantità dei referenti di diversi elementi linguistici. Le principali definizioni di numero presenti nelle grammatiche e nei dizionari tuttavia tracciano spesso un quadro parziale delle manifestazioni del numero, incentrandosi sulla sola distinzione tra singolare e ➔ plurale (che, come si vedrà, non copre l’intera gamma dei valori del numero) e limitandosi al nome e al pronome. La categoria del numero è invece piuttosto pervasiva nelle lingue, dato che coinvolge anche altre parti del discorso (aggettivi; ➔ quantificatori; ➔ verbi; ➔ articolo).
In italiano la categoria del numero si manifesta nell’opposizione tra singolare e plurale, senza valori intermedi che, invece, sono attestati in altre lingue (e sui quali si tornerà più sotto). Sul piano dell’espressione, la codifica di questi valori avviene con mezzi morfologici, in particolare mediante ➔ suffissi.
Per quanto concerne il nome (➔ nomi), l’assegnazione di singolare e plurale è, nella quasi totalità dei casi, semanticamente trasparente: se un’entità è presente in un solo esemplare, è codificata col singolare (vedo un cane); se il numero degli esemplari dell’entità in questione è maggiore o uguale a due, si ricorre al plurale (vedo diversi cani).
L’espressione dei valori del numero in italiano coincide con quella dei valori della categoria del ➔ genere. In questo quadro, le tre classi produttive dell’italiano possono essere schematizzate come segue:
desinenza genere esempi
sing. plur. (prevalente)
-a -e femminile scarpa, donna, maestra, penna
-o -i maschile libro, cavallo, ragazzo, telo
femminile volpe, madre, vergine
-e -i maschile fiore, padre, balcone
Esistono in italiano almeno altre due classi che, però, non hanno alcuna produttività e quindi sono poco diffuse. Sono i nomi, sia maschili che femminili, terminanti in -a al singolare e in -i al plurale (come il maschile papa, papi e il femminile arma, armi) e i nomi maschili al singolare, terminanti in -o, e femminili al plurale, terminanti in -a (come uovo, uova).
Ci sono casi in cui la manifestazione formale della categoria del numero pare in qualche misura eccezionale. È il caso, ad es., dei cosiddetti nomi sovrabbondanti, che hanno due forme di plurale (1), o dei pluralia tantum, che designano un referente singolo ma hanno forma plurale (2):
(1) braccio → braccia / bracci; ginocchio → ginocchia / ginocchi
(2) nozze, forbici, mutande, pantaloni, redini, condoglianze, occhiali
In alcuni di questi casi (per es., occhiali, forbici) il plurale si spiega con il fatto che il referente è costituito da più elementi, che, quindi, vengono percepiti nel complesso. Soprattutto in varietà substandard, esistono forme di singolare che rivelano una regolarizzazione analogica di casi di questo tipo: la forbice, la mutanda, l’occhiale, il pantalone.
Accanto ai nomi che hanno solo il plurale, vi è una classe di nomi che, invece, hanno solo il singolare, in quanto designano degli unica, vale a dire entità presenti, nel mondo reale, in un solo esemplare: sole, luna, ecc. In questo caso il plurale è ammissibile solo come effetto di una più o meno estesa rilettura metaforica del nome: per es., tornerò tra due lune con mio padre.
Vanno menzionati, infine, i nomi invariabili, che cioè hanno la medesima forma al singolare e al plurale: in questo caso, l’identificazione dei valori del numero (al pari del genere) è resa possibile dall’articolo o da altri modificatori. In questa classe confluiscono prestiti non adattati (3 a.; ➔ adattamento) e nomi (talora prestiti adattati) che non rientrano nelle cinque classi menzionate (3 b.):
(3) a. sing.: (il) bar, (lo) sport, (il) garage, (lo) abat-jour
plur.: (i) bar, (gli) sport, (i) garage, (gli) abat-jour
b. sing. (la) città, (la) crisi, (il) puma, (il) gorilla
plur. (le) città, (le) crisi, (i) puma, (i) gorilla
Ci sono però, accanto a questi, nomi per i quali la codifica della distinzione tra singolare e plurale pare scarsamente accettabile:
(4) (la) timidezza → ?(le) timidezze; (la) felicità → ?(le) felicità; (la) bontà → ?(le) bontà
Si tratta, nella quasi totalità dei casi, di nomi astratti (➔ astratti, nomi), designanti, cioè, entità non numerabili e per le quali, di conseguenza, la distinzione di numero non ha fondamento. In taluni casi, una sorta di plurale di questi nomi si può avere con l’aiuto dei cosiddetti nomi supporto, semanticamente quasi vuoti, che operano solo entro determinate costruzioni e hanno l’effetto di pluralizzare gli astratti. Tra questi sono gesto, atto, colpo, accesso, ecc. (Simone & Masini 2009; ➔ nomi):
(5) bontà → gesti di bontà
(6) eroismo → atti di eroismo
Va inoltre segnalato che in italiano (al pari che in latino) si ha anche un impiego del numero che non ha nulla a che fare con la quantificazione. Il singolare può essere usato infatti per designare non un individuo di una classe ma tutta la classe in generale:
(7) la balena è il più grande mammifero vivente [= le balene sono i più grandi mammiferi viventi]
(8) il bambino ha bisogno di affetto [= i bambini hanno bisogno di affetto]
In tal modo, il singolare e il plurale hanno lo stesso valore di quantificatori universali generici.
L’opposizione tra singolare e plurale risulta perciò rilevante per alcune classi di referenti e irrilevante per altri. Il rapporto tra le diverse classi di referenti e quindi la possibile estensione della realizzazione formale del numero sono stati formalizzati sotto forma di una gerarchia, che prende il nome di gerarchia di animatezza (per un inquadramento generale, cfr. Corbett 2000). Questa si rappresenta come segue (parlante e interlocutore indicano rispettivamente i pronomi personali di prima e seconda persona):
parlante > interlocutore > terza persona > parente > umano > animato > inanimato
In altri termini, le distinzioni di numero possono realizzarsi su una delle classi di referenti della gerarchia solo se si realizzano anche su quella che si colloca al livello superiore. L’italiano copre la quasi totalità della gerarchia, realizzando sistematicamente l’opposizione tra singolare e plurale per i pronomi di prima, seconda e terza persona, per i nomi di parentela, per i nomi che indicano referenti umani, per i nomi che designano referenti animati e per una buona percentuale dei nomi inanimati.
L’italiano, si è detto, si limita alla distinzione tra singolare e plurale, distinzione che, però, offre un quadro riduttivo dei valori che il numero può assumere in un’ampia prospettiva di comparazione tra lingue.
Si consideri, ad es., la situazione di due lingue tipologicamente e geneticamente assai distanti dall’italiano: il sursurunga e il larike-wakasihu, appartenenti alla famiglia austronesiana (ramo malayo-polinesiano). La loro situazione, a confronto con quella dell’italiano, può essere schematizzata come segue (x indica un qualunque referente numerabile):
x = 1 x = 2 x = 3 x > 3
italiano singolare plurale plurale plurale
sursurunga singolare duale plurale plurale
larike singolare duale triale plurale
In italiano, il plurale indica che un’entità è presente in un numero maggiore o uguale a due. In sursurunga, invece, a seguito della presenza del duale, il ricorso al plurale caratterizza un’entità presente in un numero maggiore o uguale a tre esponenti. In larike il plurale può indicare solo che gli esemplari di una entità sono presenti in un numero maggiore di tre. In lingue come il baiso (o bayso, appartenente alla famiglia afro-asiatica, ramo cuscitico), tra singolare e plurale si interpone il paucale, che designa una entità presente in un numero di esemplari variabile dai due ai sei. Il valore paucale, in italiano, può essere espresso analiticamente dalla formula un po’ (simile all’inglese a few) o da quantificatori come alcuni.
Il plurale si associa quindi ad entità moltiplicabili, cioè con limiti inerenti: può caratterizzare «ogni categoria concettuale che ammetta la individuazione» (Jackendoff 1990: 29).
La distinzione di numero, dunque, non pare riferibile a entità prive di limiti inerenti, codificate di norma dai cosiddetti nomi di massa (➔ massa, nomi di), che Jackendoff (1989, 1990, 1991) distingue in sostanze e aggregati: le prime sono prive di struttura interna (latte, acqua, farina, ecc.), i secondi invece sono costituiti da elementi discreti, cioè singolarmente individuabili e delimitati (erba, sabbia, ecc.). Il significato di un termine come sabbia può essere descritto come la moltiplicazione per n volte di un granello di sabbia, come il significato di case può essere parafrasato come moltiplicazione per n volte di una singola casa. In questo caso, il singolo elemento che ne compone la struttura può essere espresso dal cosiddetto singolativo, cioè da un nome specifico «la cui funzione è quella di caratterizzare e identificare nella sua individualità un elemento all’interno di un gruppo qualitativamente omogeneo di elementi» (Cuzzolin 1995: 125). Così in russo:
(9) pesók «sabbia» → pesčínka «granello di sabbia»; travá «erba» → travínka «filo d’erba»
In italiano, come appare dalle glosse in (9), il singolativo è espresso con forme perifrastiche (filo di …, pezzetto di …). I nomi che designano sostanze, invece, non consentono il singolativo, in quanto in esse non è individuabile alcuna struttura interna e l’unità di riferimento può essere perciò stabilita solo convenzionalmente. In questo caso, le strategie dell’italiano sono sia sintetiche, con il ricorso principalmente a forme del diminutivo (zuccherino), sia perifrastiche (bicchiere di acqua). I nomi di massa, indicanti sostanze e aggregati, sono pluralizzabili solo a seguito di una rilettura (spesso metaforica) che di fatto li renda numerabili (dati dal corpus Coris):
(10) a. l’Italia è il primo produttore mondiale di acque minerali
b. una diatriba feroce sul metodo usato per giudicare i vini
c. tra i prodotti della macinazione invariate le farine di tenero, rivalutate le semole, in ribasso i cruscami
d. unite la scorza del limone a strisce sottili e le erbe tagliuzzate
I nomi collettivi (folla, bestiame, ecc.; ➔ collettivi, nomi) indicano concetti parafrasabili con «un gruppo, un insieme di X». Essi, al pari dei nomi di massa del tipo degli aggregati, hanno una struttura interna e possono consentire la formazione del singolativo nelle lingue che dispongono di mezzi morfologici appositi: l’italiano, anche in questo caso, ricorre a formazioni perifrastiche (capo di bestiame). A differenza degli aggregati, tuttavia, i nomi collettivi accettano il plurale, anche senza una reinterpretazione metaforica, acquisendo il significato di «gruppi / insiemi di X» (dal corpus Coris):
(12) a. aveva scatenato l’applauso delle folle
b. possiedono terreni in tutta l’Italia centrale, greggi e pescherie.
Il numero è, in italiano, una categoria non limitata ai nomi. Distinzioni di numero, infatti, appaiono su tutte le principali parti del discorso, di solito come effetto di ➔ accordo.
Distinguono tra singolare e plurale, ad es., tutti i modificatori del nome. Gli aggettivi si collocano nelle tre classi flessive produttive dell’italiano, schematizzate sopra: bello / belli / bella / belle, o veloce / veloci (➔ flessione). I quantificatori e gli specificatori, invece, appartengono solo alle prime due classi: questo / questi / questa / queste, alcuno / alcuni / alcuna / alcune, tutto / tutti / tutta / tutte.
Nei ➔ pronomi le forme del singolare e del plurale non appaiono reciprocamente legate in sincronia, ma piuttosto paiono configurare una relazione di tipo suppletivo (➔ suppletivismo), come nel seguente caso di pronomi personali soggetto (➔ personali, pronomi):
persona genere singolare plurale
I masch. io noi
femm.
II masch. tu voi
femm.
III masch. lui, egli, esso essi, loro
femm. lei, ella, essa esse, loro
Per quanto concerne il verbo, tutte le forme finite e i participi distinguono tra singolare e plurale e la distinzione di numero è determinata dall’accordo con il soggetto. La questione non è però solo grammaticale: il numero del verbo interviene in modo rilevante nel regolare il rapporto tra gli interlocutori. Gli allocutivi (➔ allocutivi, pronomi) distinguono infatti crucialmente tra singolare e plurale, e in particolare il ➔ plurale maiestatis serve a segnalare uno statuto specifico del parlante.
Il fatto che il numero operi in tutte le principali parti del discorso non significa che abbia sempre il medesimo statuto. Mentre il numero di un aggettivo è determinato solo dal suo contesto (se il nome testa è plurale, l’aggettivo è necessariamente plurale), come effetto di un meccanismo di accordo, il numero di un nome è scelto dal parlante senza il vincolo del contesto, ma per via di proprietà del referente. Come l’aggettivo si comportano l’articolo e i quantificatori usati con funzione aggettivale, oltre al verbo. Invece, i pronomi possono essere equiparati al nome.
Coris: http://corpora.dslo.unibo.it/CORISCorpQuery.html.
Corbett, Greville (2000), Number, Cambridge, Cambridge University Press.
Cuzzolin, Pierluigi (1995), Sull’origine del singolativo in celtico, con particolare riferimento al medio gallese, «Archivio glottologico italiano» 2, pp. 121-149.
Jackendoff, Ray (1989), Semantica e cognizione, Bologna, il Mulino (ed. orig. Semantics and cognition, Cambridge, Mass. - London, The MIT Press, 1983).
Jackendoff, Ray (1990), Semantic structures, Cambridge (Mass.) - London, The MIT Press.
Jackendoff, Ray (1991), Parts and boundaries, in Lexical and conceptual semantics, edited by B. Levin & S. Pinker, «Cognition» 41, pp. 9-45.
Simone, Raffaele & Masini, Francesca (2009), Support nouns and verbal features. A case study from Italian, «Verbum» 29, pp. 140-172.