Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le reazioni intellettuali ai massicci cambiamenti (economici, politici, demografici ecc) che si verificano nella società europea della seconda metà del Settecento e nel corso del secolo successivo sono molteplici e di vario genere. Alcune appartengono alla tradizione filosofica, altre sono più storicamente orientate. Dal punto di vista politico-ideologico costituiscono uno spettro assai ampio: dal marxismo al darwinismo sociale di Spencer, dall’approccio positivistico di Comte a quelli dello storicismo e dell’ermeneutica. Tutte queste linee di pensiero sfoceranno poi nella costituzione della sociologia come disciplina autonoma. Dal punto di vista teorico, si va dal rifiuto di quei cambiamenti nel nome della continuità con il passato, all’approvazione entusiastica del loro apporto allo sviluppo della civiltà, fino a posizioni critiche che rimproverano a quei cambiamenti un’insufficiente radicalità.
Si potrebbe suggerire che la sociologia abbia origine come un insieme di risposte, a volte concordi a volte discordi, a una stessa domanda – che cosa è veramente successo in Europa tra il 1750 e il 1850? Un modo non molto diverso, ma più noto e dignitoso, di caratterizzare la disciplina, quanto meno in statu nascendi, vede in essa una complessa reazione intellettuale alle cosiddette “due rivoluzioni”. Nella sfera economica, la rivoluzione industriale aveva trasformato o stava trasformando i processi di produzione e distribuzione della ricchezza, con effetti particolarmente esemplari in Inghilterra. Nella sfera politica, la Rivoluzione francese aveva rapidamente e radicalmente trasformato i rapporti di autorità propri dell’ancien régime, con effetti a loro volta esemplari per la gestione dei pubblici affari in altri Paesi.
Bisognerebbe però aggiungere a queste due rivoluzioni una “rivoluzione demografica”, rivelata da cambiamenti sia nelle dimensioni delle popolazioni europee che nella loro distribuzione (soprattutto tra città e campagna); e una “rivoluzione scientifica” antecedente a tutte le altre. Quest’ultima aveva prodotto risorse conoscitive di tipo nuovo, capaci di indurre studiosi diversi a condividerle in base a dati empiricamente (e talora sperimentalmente) accertati e al rigore (talora matematico) del relativo discorso; capaci inoltre di venire applicate nella soluzione di problemi pratici dei generi più diversi, con effetti a loro volta, appunto, rivoluzionari.
La rivoluzione scientifica aveva avuto come tema i fenomeni naturali (da quelli astronomici a quelli biologici). Si trattava ora di riprodurla con riferimento a fenomeni assai diversi – gli accadimenti umani, la varietà delle istituzioni che disciplinano i rapporti sociali, gli eventi storici, i cambiamenti che avevano prodotto le prime due rivoluzioni, prodotti a loro volta. Chi si impegnava in questo compito era erede dell’aspirazione illuministica a comprendere scientificamente quei fenomeni, contestando però il peso eccessivo che l’Illuminismo settecentesco aveva accordato al mero discorso critico sui fatti sociali e politici, invece della loro rilevazione obiettiva e analisi sistematica.
Anche quella che si potrebbe chiamare protosociologia, prodotta agli inizi dell’Ottocento specie in Francia, reca decisa l’impronta di valutazioni forti e contrastanti su fenomeni sociali recenti e correnti. In particolare il pensatore socialista Claude Saint-Simon annunzia la nascita e afferma la superiorità della “società industriale” su quelle d’ ancien régime. Qui la posizione dominante spettava automaticamente a individui che godevano di antichi privilegi, specie di natura politica. Nella società industriale si affermano sempre più gruppi dirigenti di tipo nuovo – capitani d’industria, scienziati, tecnici di vario genere – impegnati a competere per la propria affermazione mettendo a punto e gestendo modi nuovi di produrre ricchezza.
Per contro, due protagonisti di quello che viene chiamato il pensiero della Restaurazione, Joseph De Maistre e Louis de Bonald accusano la Rivoluzione francese– soprattutto il regicidio e l’attacco ai privilegi della Chiesa, ma anche alcuni provvedimenti napoleonici – di aver sovvertito gli stessi fondamenti della civiltà, dando inizio a un’era contrassegnata da generale disordine. Questo è come asserire che manca affatto di maniere chi abbia invece maniere diverse dalle nostre.
Non molto tempo dopo il fallimento della Restaurazione, Alexis de Tocqueville intraprende un viaggio in America per approfondire e provare la propria intuizione secondo cui è invece possibile, e può funzionare, un ordine sociale democratico radicalmente diverso da quello aristocratico che ha per secoli regnato in Europa. Il suo Democrazia in America argomenta che il disordine denunziato da De Maistre e Bonald è un aspetto della transizione alla democrazia non connaturato alla sua natura. Lo dimostrano gli Stati Uniti, dove la democrazia non deve le origini alla sovversione di un ordine radicato in un lungo passato, ma dove è chiara la sua vocazione di costituire un ordine privo di precedenti storici.
I sociologi concedono a Tocqueville meno attenzione di quanta ne meriti, mentre i suoi scritti hanno grande successo presso un pubblico assai più vasto. Forse questo si deve al fatto che l’autore non concepisce il suo Democrazia in America come “titolo” che gli assicuri una carriera accademica. Questa è invece un’aspirazione condivisa – anche se talora frustrata – da molti altri pensatori della prima metà dell’Ottocento. Alcuni di essi si ispirano a quella che chiamiamo “rivoluzione scientifica”, in cui studiosi di professione svolgevano e stavano svolgendo un ruolo sempre più significativo.
Ma ci sono modi molto diversi di trasporre questa rivoluzione, come abbiamo detto, dall’ambito della natura a quello della società e della storia. In effetti, molti negano, in vista delle radicali differenze tra i due ambiti di realtà, che tra lo studio del primo e quello dell’altro possa esistere molto più che un’analogia generica, la quale consiste nell’intenzione comune di fondare quello studio sul confronto esplicito e spassionato dello studioso coi dati di uno o dell’altro ambito, seguito dalla comunicazione dei suoi risultati entro la cerchia dei rispettivi studiosi per ottenerne l’assenso. Inoltre, qualcuno pensa che un serio studio dei fenomeni sociali sia possibile entro tradizioni accademiche già stabilite, riaffermando la validità delle loro pratiche. In particolare si danno vari tentativi di mettere a fuoco sui fenomeni storici un discorso di tipo filosofico, come hanno già fatto Hobbes o Rousseau.
Nella prima metà dell’Ottocento tedesco, esempio spettacolare di uno sforzo intellettuale di questo genere che riafferma l’egemonia della riflessione filosofica anche sul discorso intorno ai fatti sociali, è la filosofia della storia di Hegel, in cui la speculazione su enti e processi di natura metafisica – come “lo Spirito” e i suoi processi – trova un nuovo oggetto appunto negli accadimenti storici. Si è detto di quella filosofia che rappresenta una risposta allo smarrimento intellettuale e morale causato dal venir meno dell’idea di provvidenza divina come arbitro e misura di quegli accadimenti. In ogni caso, si possono segnalare qui almeno due contributi di Hegel a tematiche sociologiche: il posto che assegna alle istituzioni come prodotti dello svolgimento dello “spirito obiettivo”; e un’intuizione che avrebbe direttamente o indirettamente ispirato la problematica della cosiddetta alienazione. Eccola: “L’agire umano può generare prodotti che si estraniano dal loro stesso autore e, in quanto tali, diventano oggetto potenziale di fruizione da parte di soggetti diversi, servendo loro come premesse e strumenti”. Questo contribuisce a spiegare la diversità dei fenomeni storici, sempre rinnovata dall’incontro tra i soggetti di un nuovo agire con quelle premesse e strumenti. Ma soggetti diversi dagli autori di certi prodotti possono spossessarli, anzi, servirsi contro di loro del proprio controllo su quegli stessi prodotti.
Nello stesso contesto intellettuale si afferma un effetto assai diverso dell’impatto della rivoluzione scientifica sullo studio dei fenomeni umani. Il grande storico Leopold Ranke crede fermamente nell’impossibilità di studiarli altrimenti che nella loro intrinseca storicità, rinunziando quindi a cercare di formulare generalizzazioni su cause ed effetti di intere classi di essi. Nella sua opera la ricerca di (per così dire) scientificità, si esprime nell’attenzione al tempo, al luogo, alla specifica modalità del verificarsi di eventi storici, con l’obiettivo di cogliere e comunicare, dice Ranke, proprio com’era stato.
Per fare questo, la ricerca storica deve impegnarsi in primo luogo nella raccolta e messa a punto editoriale del maggior possibile numero di fonti (preferibilmente documenti di prima mano relativi a un determinato evento o individuo). In Germania – c’erano dei precedenti italiani, soprattutto ad opera del Muratori –il prodotto più imponente di questa concezione, ad opera di molteplici studiosi della generazione di Ranke e successive, è la collezione Monumenta Germaniae Historica. In base a una documentazione di questo genere Ranke e alcuni suoi studenti esaminano con risultati illuminanti una varietà di eventi storici, molti tra questi relativi ai mutevoli rapporti tra poteri europei.
Altri studiosi tedeschi dell’Ottocento, sempre nell’intento – diremmo – di qualificare come scientifiche in senso lato forme diverse di ricerca su fenomeni umani, teorizzano e praticano un approccio che va sotto il nome di ermeneutica, la cui posizione fondamentale, formulata inizialmente dal teologo Schleiermacher e successivamente, tra gli altri, dal filosofo Dilthey è la seguente: l’azione umana richiede di essere compresa dallo studioso tramite un processo di interpretazione che consideri varie forme di attività umana come testi. Per sottrarre quel processo all’arbitrio della mera soggettività dello studioso, lo si deve condurre alla luce delle pratiche e i canoni di tre antiche e gloriose discipline: la teologia, che interpreta le Scritture e le dottrine religiose; il diritto, che interpreta oggetti diversi quanto leggi o statuti da un lato, contratti e testamenti dall’altro; l’analisi di prodotti artistici, dai poemi omerici agli affreschi medievali alle tragedie e altre forme letterarie.
Anche se queste prospettive di ricerca sono meglio rappresentate rispettivamente da Hegel, Ranke e Schleiermacher, non sono proposte o fatte esclusivamente da studiosi tedeschi. Il loro particolare prestigio intellettuale deriva dal fatto che nelle università tedesche dell’Ottocento si pratica non solo l’insegnamento ma anche la ricerca, e le opere prodotte da questa hanno, per così dire, un’intensità intellettuale non comune. In ogni caso le posizioni in questione considerano i successi delle scienze naturali anche come una sfida a cui rispondere senza concedere troppo alla controparte, invece che come un modello da imitare senza riserve.
Quest’ultima “forte” accezione dell’esemplarità delle scienze naturali per quelle umane viene teorizzata dal francese Auguste Comte, che si riferisce a essa proclamando l’avvento, nella propria opera, dello stadio terzo e supremo, quello “positivo”, dello sviluppo del pensiero umano, in cui l’hanno preceduto gli stadi “teologico” e “metafisico”. Secondo Comte è giunto il momento di aggiungere ai grandi successi delle scienze naturali quelli di una nuova scienza, che chiama sociologia, collocandola al vertice della gerarchia delle scienze nel loro insieme, in quanto le spetta individuare “le leggi dell’organizzazione sociale”, cioè dell’ordine di realtà più complesso che esista.
Per riuscire in questo, Comte s’impegna per anni in un massiccio programma di collazione, classificazione e spiegazione dei fatti sociali, e ne espone i risultati in scritti che nell’Ottocento, non soltanto nei Paesi europei, hanno grande successo tra gli intellettuali, accademici e non. Ma gli esiti del programma comtiano – a cominciare dalla stessa “legge dei tre stadi” non corrispondono alle smisurate ambizioni del suo autore. Si possono constatare tali analogie tra il suo pensiero e la filosofia della storia di Hegel da far pensare che lo stesso Comte restasse fermo proprio all’atteggiamento “metafisico” che avrebbe dovuto lasciarsi dietro una volta per tutte quello “positivo”. Anzi, gli ultimi sviluppi del suo pensiero rivelano ambizioni di natura addirittura “teologica”.
Malgrado l’insuccesso del positivismo sociologico così come viene teorizzato da Comte, per tutto il resto dell’Ottocento e oltre ne sopravvive e prospera una versione più modesta, impegnata non in operazioni intellettuali di grande portata, ma in un’imitazione di minor respiro del modus operandi delle scienze naturali – la pratica assidua di un’attenta e sistematica osservazione, sul terreno, dei fatti sociali contemporanei. Tra questi, i più meritevoli d’essere studiati, più facili da trattare rilevandone in primo luogo gli aspetti quantitativi, vengono prodotti giorno per giorno da quella che abbiamo chiamato “rivoluzione demografica”, e soprattutto da processi vasti e accelerati di urbanizzazione, causati a loro volta dalla “rivoluzione industriale”.
Nel loro insieme questi fenomeni costituiscono per molteplici studiosi, membri di gruppi dirigenti, organi di opinione, quella che viene chiamata la “questione sociale”. Vari aspetti di questa suscitano vive preoccupazioni per il loro impatto sulle condizioni materiali e morali dell’esistenza dei nuovi strati urbani, quindi sulla direzione politica della loro mobilitazione (attuale o potenziale) in nuove forme di agitazione, protesta e ribellione.
Le preoccupazioni a cui si è accennato motivano scopertamente le ricerche del cattolico francese Le Play (1806-1882), che esplora e deplora particolarmente il dissesto, entro la popolazione operaia contemporanea, delle istituzioni (in particolare la famiglia e la religione) che per secoli avevano ordinato l’esistenza dei gruppi subalterni nel contesto rurale. Condivide il suo senso di indignazione Friedrich Engels, che agli inizi della sua lunga collaborazione intellettuale con Karl Marx pubblica la significativa monografia La condizione della classe lavoratrice in Inghilterra (1845).
Una massiccia e varia tradizione di ricerca sociologica sul contesto urbano dell’esistenza di una crescente massa della popolazione si impianta in questo periodo (e vive tuttora) sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti. In questi ultimi, numerosi aspetti della questione sociale sono intensificati dall’immigrazione di massa, che produce la crescente eterogeneità etnica, linguistica, religiosa delle popolazioni urbane e con questo la maggiore frequenza di tensioni e conflitti sociali.
Alcune significative linee di pensiero perseguono, oltre a quello di descrivere e spiegare accadimenti contemporanei, un obiettivo ulteriore. Si tratta qui di alzare il livello d’astrazione del discorso studiando, oltre alla società moderna, anche la società stessa in quanto tale, e individuando processi che diversificano nel tempo e nello spazio i lineamenti di società diverse. Nella seconda metà dell’Ottocento questo comune intento viene perseguito in maniera radicalmente diversa rispettivamente nell’opera di Marx e Engels e in quella dell’inglese Herbert Spencer.
La prima rappresenta il prodotto di uno sforzo intellettuale incomparabilmente più creativo, intenso e complesso dell’altra; inoltre nel corso di due secoli esercita (per il bene o per il male) una fortissima influenza su affari politici, economici e sociali, non soltanto intellettuali, dell’intero pianeta. Per questo di Marx-Engels, e del marxismo nelle sue molteplici forme, discute un’altra voce di questo stesso volume. Qui si dirà brevemente, invece, dell’apporto di Spencer.
Il pensiero sociologico di Spencer viene spesso chiamato “darwinismo sociale” in quanto estende oltre i fenomeni biologici le teorie del grande biologo Charles Darwin; argomenta cioè che ogni progresso, sia nel mondo della natura che in quello umano, è il prodotto non intenzionale della lotta tra molteplici unità, ciascuna orientata esclusivamente al proseguimento e miglioramento della propria esistenza. Data la condizione ineliminabile – in entrambi quei mondi – della scarsità delle risorse, la lotta produce inesorabilmente la “sopravvivenza del più adatto”, a cui spetta il privilegio di potersi anche riprodurre. Ne consegue quindi l’evoluzione, cioè lo sviluppo spontaneo di unità collettive (specie biologiche o società umane) sempre più in grado di controllare e modificare l’ambiente a proprio vantaggio.
Nel caso delle società umane, sostiene Spencer, questo processo è tanto più sicuro, rapido e benefico quanto meno è inficiato da istituzioni che limitino artificialmente la lotta concorrenziale.
In quelle società si afferma quindi un principio sempre valido, ma precedentemente misconosciuto e limitato nella sua applicazione: l’intero processo sociale deve essere affidato all’iniziativa di singoli individui, capaci di scegliere razionalmente con chi trattare, a quale scopo, a quali condizioni. In altre parole, le società più moderne rappresentano il frutto più maturo dell’evoluzione sociale perché in esse il contratto costituisce il rapporto sociale fondamentale.
Spencer considera quindi sempre meno giustificata la persistenza nelle società contemporanee di autorità politiche che pretendono di regolare l’attività contrattuale degli individui e altrimenti interferiscono con la loro libertà, invece di limitarsi a proteggerli. In questi termini la sociologia di Spencer fornisce un supporto scientifico all’ideologia del liberalismo ottocentesco.