Nuove disposizioni in materia fallimentare
Le soluzioni concordate delle crisi di impresa mancavano di un presidio penale a tutela della correttezza del metodo utilizzato e della fedeltà dei dati. Il legislatore lo ha fornito, con il d.l. 22.6.2012, n. 83, introducendo, fra le disposizioni penali della legge fallimentare, il reato di «Falso in attestazioni e relazioni» (art. 236 bis). La nuova norma, pur presentando aspetti discutibili, ha l’indubbio merito di avere reso effettiva la possibilità, offerta al debitore dall’art. 217 bis della stessa legge fallimentare, di non rispondere, in caso di insuccesso del piano ed in relazione alle operazioni ed ai pagamenti posti in essere in esecuzione del medesimo, dei reati di bancarotta preferenziale e di bancarotta semplice.
L’art. 33, co. 1, lett. l), del d.l. 22.6.2012, n. 83 («Misure urgenti per la crescita del Paese»), convertito, senza modificazioni sul punto, dalla l. 7.8.2012, n. 134, ha introdotto, tra le disposizioni penali della legge fallimentare (r.d. 16.3.1942, n. 267), l’art. 236 bis.
La nuova disposizione, con la rubrica «Falso in attestazioni e relazioni», incrimina «il professionista che, nelle relazioni o attestazioni di cui agli artt. 67, co. 3, lett. d), 161, co. 3, 182 bis, co. 1 e 7, 18 quinquies, co. 1 e 4, e 186 bis, co. 2, lett. b), 3 e 4, lett. a), «espone informazioni false ovvero omette di riferire informazioni rilevanti».
La pena edittale è della reclusione da due a cinque anni e della multa da 50.000 a 100.000 euro.
Sono previste due circostanze aggravanti: una prima (co. 2), ad effetto ordinario (aumento fino ad un terzo secondo la disposizione generale di cui all’art. 64 c.p.), per il caso in cui il fatto sia commesso dal professionista al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri; una seconda (co. 3), ad effetto speciale (aumento fino alla metà), per il caso in cui dal fatto consegua un danno per i creditori.
La nuova disposizione, in vigore dal 12.8.2012, si applica, a norma dell’artt. 33, co. 3, del d.l. n. 83/2012, ai procedimenti di concordato preventivo e per l’omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti introdotti dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della menzionata legge di conversione (26.8.2012), vale a dire dal 25.9.2012, nonché ai piani di cui al citato art. 67, co. 3, lett. d), elaborati successivamente al predetto termine.
La riforma fallimentare, pur avendo attribuito un ruolo centrale alla disciplina delle soluzioni concordate della crisi d’impresa, in particolare al concordato preventivo, all’accordo di ristrutturazione dei debiti e al piano di risanamento della esposizione debitoria dell’impresa di cui al già menzionato art. 67, co. 3, non aveva tuttavia messo mano al tema della tutela della correttezza delle informazioni sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria del debitore.
Non si erano in particolare previsti specifici presidi penali per il caso di informazioni non veritiere o comunque infedeli.
L’originario disegno riformatore prevedeva per la verità un contemporaneo intervento anche sulle disposizioni penali, ma il travagliato esito dei lavori della cd. Commissione Trevisanato aveva determinato una separazione dei percorsi normativi. L’emendamento riguardante la parte penale era stato stralciato, mentre era proseguito l’iter parlamentare per il resto.
Così la riforma delle procedure concorsuali era rimasta orfana della “nuova” parte penale, che prevedeva fattispecie punitive sia per le false informazioni sia per le condotte di fraudolenta slealtà nel corso della procedura.
Le ricadute negative di questa inopportuna “separazione” erano state subito rilevate dalla dottrina1, che aveva sottolineato l’inadeguatezza delle norme esistenti a fronteggiare il rischio penale dell’infedeltà delle informazioni. Il professionista chiamato ad intervenire nelle soluzioni concordate delle crisi d’impresa era concepito come soggetto chiamato a svolgere un’attività di impronta privatistica2. Esclusa, pertanto, l’applicabilità dello statuto penale delle falsità in atti pubblici, non restava che la possibilità di un concorso del professionista con il debitore nel reato di cui all’art. 236, co. 1, l. fall.3, riguardante peraltro soltanto il concordato preventivo e non anche le altre forme di soluzione concordata della crisi d’impresa4.
Se si considera, poi, che soggetto attivo del reato anzidetto è il solo imprenditore individuale (non possono, in altre parole, essere chiamati a risponderne gli organi delle società commerciali, anche se legittimati a chiedere l’ammissione al concordato preventivo5), ne deriva che il professionista avrebbe potuto essere chiamato a rispondere, a titolo di concorso, di questo reato solo nel caso in cui la sua infedele relazione avesse accompagnato la domanda di ammissione al concordato preventivo presentata dall’imprenditore individuale.
Non servono altre considerazioni (e ce ne sarebbero) per rendersi conto di quanto fosse necessario un intervento legislativo idoneo ad offrire un’adeguata risposta penale a chi esponesse false informazioni od omettesse di fornire informazioni rilevanti al fine di essere ammesso alle procedure di soluzione concordata della crisi.
Nel frattempo era, tra l’altro, entrata in vigore la l. 27.1.2012, n. 3, che ha dettato la disciplina della composizione della crisi del debitore non assoggettabile a fallimento e concordato preventivo, presidiando il procedimento con sanzioni penali, applicabili ai fatti commessi a far tempo dal 29.2.2012.
Ebbene il legislatore aveva, con tale provvedimento, manifestato una netta inversione di tendenza, prevedendo che informazioni e valutazioni del professionista, del notaio o del diverso soggetto compositore della crisi fossero presidiate, per il caso di infedeltà, dalla sanzione penale.
E, infatti, come si legge nella relazione illustrativa al d.l. n. 83/2012, l’introduzione del nuovo art. 236 bis si imponeva anche «per evitare asimmetrie irragionevoli, in ottica costituzionale, rispetto alla rilevanza penale della condotta dell’organismo di composizione della crisi da sovraindebitamento del debitore non fallibile che ‘rende false attestazioni in ordine alla veridicità dei dati contenuti nella proposta o nei documenti ad essa allegati ovvero in ordine alla fattibilità del piano di ristrutturazione dei debiti proposto dal debitore’, a norma dell’articolo 19, secondo comma, della legge n. 3 del 2012», oltre che «per saldare i meccanismi di tutela e bilanciare adeguatamente il ruolo centrale riconosciuto al professionista attestatore nell’intero intervento normativo»6.
Si può ora procedere all’esame degli elementi costitutivi della nuova fattispecie. Si seguirà il tradizionale sistema di analisi del reato.
2.1 Bene giuridico
Il bene giuridico tutelato dalla nuova disposizione incriminatrice va identificato nell’affidamento di cui devono godere le relazioni ed attestazioni del professionista con riguardo al loro contenuto ed in funzione del certo e sollecito svolgimento delle procedure paraconcorsuali cui accedono.
Il profitto dell’autore del reato o di terzi e l’eventuale pregiudizio arrecato al patrimonio dei creditori restano sullo sfondo, come elementi accessori rispetto alla struttura principale.
Il rilievo ha portato alcuni commentatori ad affermare, seppur con considerazioni difformi, la natura plurioffensiva del reato7.
2.2 Soggetto attivo del reato e oggetto materiale delle condotte
Soggetto attivo è il «professionista» tenuto a redigere le relazioni e le attestazioni di cui agli artt. 67, co. 3, lett. d), 161, co. 3, 182 bis, co. 1 e 7, 182 quinquies, co. 1 e 4, e 186 bis, co. 2, lett. b), 3 e 4, lett. a), l. fall.
Dette disposizioni, oltre a disvelare le caratteristiche del «professionista», mutate rispetto all’impianto originario della riforma, elencano le relazioni e le attestazioni integranti l’oggetto materiale delle condotte incriminate.
In particolare:
a) art. 67, co. 3, lett. d), modificato dal d.l. n. 83/2012:
- piano (che la prassi ha definito “attestato” e “privato”, perché immune da interventi giudiziari) «idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria»;
- professionista «indipendente designato dal debitore, iscritto nel registro dei revisori legali» ed in possesso dei requisiti previsti dall’art. 28, lett. a) e b) (in sostanza, avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e ragionieri commercialisti): un professionista, dunque, che non sia legato al debitore da rapporti personali o di lavoro e, più in generale, non nutra alcun interesse all’operazione di risanamento (quindi autonomo anche rispetto ai creditori);
- attestazione della «veridicità dei dati aziendali e fattibilità del piano»;
b) art. 161, co. 3, modificato dal d.l. n. 83/2012:
- domanda per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo con aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa e piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta;
- relazione di un professionista, designato dal debitore ed in possesso dei requisiti sopra menzionati (analoga relazione deve essere presentata nel caso di modifiche sostanziali della proposta o del piano) con attestazione della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità del piano medesimo;
c) art. 182 bis, co. 1, modificato dal d.l. n. 83/2012:
- domanda per l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti, con la documentazione di cui al sopracitato art. 161;
- relazione redatta da un professionista, designato dal debitore, in possesso dei requisiti già visti, sulla veridicità dei dati aziendali e sull’attuabilità dell’accordo stesso con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori ... »;
d) art. 182 bis, co. 7:
- proposta di accordo con richiesta di divieto di iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive;
- dichiarazione del professionista circa la idoneità della proposta, se accettata, ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare;
e) art. 182 quinquies, co. 1:
- domanda, anche ai sensi dell’art. 161, co. 6, di ammissione al concordato preventivo o domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’art. 182 bis, co. 1, o proposta di accordo ai sensi dell’art. 182 bis, co. 6, con richiesta di autorizzazione a contrarre finanziamenti, prededucibili ai sensi dell’art. 111;
- attestazione di professionista, previa verifica del complessivo fabbisogno finanziario dell’impresa sino all’omologazione, della funzionalità di tali finanziamenti alla migliore soddisfazione dei creditori;
f) art. 182 quinquies, co. 4:
- domanda di ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale, anche ai sensi dell’art. 161, co. 6, con richiesta di autorizzazione a pagare crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi;
- attestazione del professionista che tali prestazioni sono essenziali per la prosecuzione della attività di impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori (l’attestazione non è necessaria per pagamenti effettuati fino a concorrenza dell’ammontare di nuove risorse finanziarie che vengano apportate al debitore senza obbligo di restituzione o con obbligo di restituzione postergato alla soddisfazione dei creditori);
g) art. 186 bis, co. 2, lett. b):
- analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura nel piano di cui all’art. 161, co. 2, lett. e) (concordato con continuità aziendale);
- relazione del professionista attestante che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato é funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori;
h) art. 186 bis, co. 3:
- continuazione di contratti pubblici in caso di ammissione al concordato preventivo;
- attestazione, da parte del professionista, della conformità al piano e della ragionevole capacità di adempimento;
i) art. 186 bis, co. 4, lett. a):
- partecipazione a procedure di assegnazione di contratti pubblici in caso di ammissione al concordato;
- relazione di un professionista che attesta la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento del contratto.
2.3 Condotte
La disposizione incrimina falsità ideologiche in atti.
La condotta consiste nell’esposizione di informazioni false (falsità in committendo) o nell’omissione di informazioni rilevanti (falsità in omittendo).
Si tratta di espressione che il legislatore è solito utilizzare per reprimere le falsità ideologiche in atti privati (si pensi, ad es., ai bilanci e alle comunicazioni sociali di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c.).
Desta perplessità l’uso dell’attributo «rilevanti» in relazione alle informazioni vere di cui è punita l’omissione, attributo non previsto con riguardo alle informazioni false di cui è incriminata l’esposizione.
L’asimmetria tra le condotte è evidente e potrebbe portare ad affermare che qualsiasi falsità commissiva, ancorché avente ad oggetto informazioni irrilevanti, integri il reato di nuovo conio8.
La distonia con la restrittiva modulazione delle falsità omissive non sembra facilmente giustificabile e potrebbe suggerire interpretazioni intese ad estendere il requisito di rilevanza anche alle condotte commissive.
Resta in ogni caso la genericità di tale requisito.
Il principio di legalità non gradisce aggettivi quantitativi non numerici, ma il vulnus potrebbe essere attenuato se si ipotizza che il legislatore abbia inteso considerare “rilevante” ogni scostamento che risulti comunque idoneo a falsare, nel complesso e in maniera significativa, la relazione/attestazione.
In altre parole, la via d’uscita è forse quella di attribuire al requisito di rilevanza delle falsità la funzione di selezionare soltanto quelle condotte in grado di rendere concreto il pericolo di offesa del bene giuridico tutelato.
Anche se, essendo il bene giuridico tutelato identificabile – come si è detto – nella fede pubblica, l’innalzamento del coefficiente di offensività è forse più apparente che reale. Ed il presunto incremento di determinatezza della fattispecie appare minimo e non consente di fugare i timori di discrepanze nell’applicazione della norma.
Ad ogni buon conto, delle due condotte alternativamente descritte dal legislatore, la prima, cioè quella di esposizione, ha natura intrinsecamente commissiva; non può prescindere dunque da un comportamento attivo del soggetto qualificato, che consiste nel riferire informazioni non vere.
Parafrasando massime giurisprudenziali, il reato sussiste in quanto vi è discordanza tra la realtà e la sua rappresentazione da parte del professionista.
L’omissione o – come anche si dice – il nascondimento ha, invece, carattere omissivo, nella forma del silenzio e della reticenza antidoverosi.
Le varie attestazioni sono – come si è visto – essenzialmente finalizzate a rassicurare in ordine alla funzionalità di finanziamenti, prestazioni, attività alla migliore soddisfazione dei creditori e, soprattutto, in ordine alla veridicità dei dati aziendali ed alla fattibilità del piano (attuabilità dell’accordo con riguardo all’art. 182 bis).
Ebbene, in relazioni a dette attestazioni, struttura e ratio della norma suggeriscono di ritenere che sia penalmente rilevante la falsità dei dati quand’anche essa non abbia incidenza sulla fattibilità del piano (attuabilità dell’accordo).
Per converso potrà esistere una falsa attestazione di fattibilità/attuabilità sulla base di dati fedeli e veritieri qualora il professionista utilizzi criteri e metodi di valutazione che la scienza aziendale ritenga inadeguati o non pertinenti.
Il legislatore conferma in ogni caso che anche i giudizi di valore, qual è il giudizio di fattibilità/attuabilità, possono essere non veritieri9.
2.4 Elemento soggettivo del reato
In ordine all’elemento soggettivo del reato è sufficiente osservare che le fattispecie sono dolose e il dolo è quello generico di cui all’art. 43 c.p., integrato dalla volontà di porre in essere la condotta commissiva od omissiva nella consapevolezza della falsità dei dati esposti o della rappresentazione della realtà offerta mediante l’amputazione di quelli veri occultati.
Per la sussistenza dell’ipotesi aggravata disciplinata dal secondo comma il dolo si arricchisce invece del fine specifico di profitto.
Si tratta ora di verificare se la nuova disposizione fin qui esaminata possa esercitare positiva influenza sulla concreta applicazione di altra importante disposizione della legge fallimentare di conio recente, quella contenuta nell’art. 217 bis.
La verifica impone alcune considerazioni sull’origine di quest’ultima disposizione, nonché sulla ratio e sulla portata della medesima.
3.1 Ratio dell’art. 217 bis e natura della “esenzione” dai reati di bancarotta
L’art. 217 bis, introdotto dall’art. 48 del d.l. 31.5.2010, n. 78, modificato in sede di conversione dalla l. 30.7.2010, n. 122, successivamente modificato dal citato d.l. n. 83/2012 e poi ancora dal d.l. 18.10.2012, n. 179, conv., con modificazioni, dalla l. 17.12.2012, n. 221, individua, sotto la rubrica «Esenzione dai reati di bancarotta», i pagamenti e le operazioni «esentati» dall’applicazione delle disposizioni incriminatrici della bancarotta preferenziale (art. 216, co. 3) e della bancarotta semplice (art. 217).
Si tratta essenzialmente dei pagamenti e delle operazioni compiuti in esecuzione di un concordato preventivo «di cui all’articolo 160», di un accordo di ristrutturazione dei debiti «omologato ai sensi dell’articolo 182 bis» o di un piano ex art. 67, co. 3, lett. d) (nonché delle operazioni autorizzate dal giudice a norma dell’art. 182 quinquies, caso quest’ultimo aggiunto dalla menzionata l. n. 134/2012).
I medesimi «pagamenti» e «operazioni» erano stati (e lo sono tuttora) – come si è detto – già presi in considerazione dal menzionato art. 67, co. 3, frutto degli interventi riformatori degli anni 2005-2007, che li accomunava come «non soggetti all’azione revocatoria».
Siffatti pagamenti e operazioni, dunque, nel caso in cui al piano segua il fallimento, non soffrono il rischio penale rappresentato dalla bancarotta preferenziale e della bancarotta semplice.
L’art. 217 bis è il frutto del dibattito sviluppatosi, all’indomani della menzionata riforma, sui rapporti tra le nuove disposizioni dettate in materia di azione revocatoria e l’omesso intervento sulla parte penale della legge fallimentare10.
Il legislatore aveva, invero, mostrato di ignorare – e autorevole dottrina lo aveva immediatamente rilevato11 – che ogni mutamento della disciplina della azione revocatoria «interessa immediatamente la figura della bancarotta preferenziale, la cui esilità strutturale favorisce riempimenti presuntivi che fioriscono nella prassi».
La disciplina degli istituti era nata, invero, da una coeva ideazione normativa e la disposizione penale era stata modellata in maniera compatibile e sovente complementare a quella concorsuale.
Con il proprio silenzio sulle disposizioni penali della legge fallimentare il legislatore della riforma aveva, di riflesso, interrotto la continuità tra l’azione revocatoria e la bancarotta preferenziale.
Come si è accennato, il terzo comma dell’art. 67 ha introdotto una serie di pagamenti, atti, garanzie (non soltanto quelli sopra citati) in cui è, senza limitazione alcuna, esclusa la assoggettabilità all’azione revocatoria. Condotte di conseguenza escluse – si era da molti subito ipotizzato – dall’area dell’illiceità penale.
In altre parole, descrivendo il terzo comma dell’art. 67 situazioni di liceità, accomunate da “interessi” considerati prevalenti rispetto a quelli perseguiti con la revocatoria, era inevitabile dedurne trattarsi di disposizioni destinate ad escludere in radice la rilevanza penale, a titolo di bancarotta preferenziale, del pagamento e, in genere, dell’operazione.
Soprattutto i piani di risanamento erano frequentemente portati all’attenzione del giudice penale, anche prima della riforma, dalla persona accusata di bancarotta preferenziale, con l’evidente scopo di dimostrare l’insussistenza del dolo specifico caratterizzante il reato; tuttavia, solo se si accertava, in concreto, l’esclusiva finalità di risanamento e non sussistevano dubbi sulla sua praticabilità ex ante, l’accusa cadeva per mancanza dell’elemento psicologico.
Con le nuove disposizioni il risanamento si proponeva invece, secondo i primi commentatori, perentoriamente sul piano oggettivo.
La riduzione oggettiva del campo delle revocatorie costituiva un segnale – come si era puntualmente rilevato12 – destinato a valere anche per l’interprete delle norme penali, di congedo dalla demonizzazione presuntiva dei tentati salvataggi (fermo restando che l’affidamento “imprudente” allontana di per sé dalla bancarotta preferenziale, che è reato a tessitura esclusivamente dolosa).
Si era, dunque, ritenuto ragionevole concludere che la esclusione (e non la semplice riduzione) del rimedio concorsuale si traducesse – in relazione a quelle tipizzate ipotesi solutorie – nell’annullamento di ogni possibile profilo di antigiuridicità delle stesse13.
Naturalmente – si era detto – l’esenzione deve restare nei confini della lettera dell’art. 67, senza possibilità di interpretazione estensiva o analogica, nel rigido rispetto delle priorità esplicitamente statuite dal legislatore.
Orbene, con l’art. 217 bis il legislatore ha recepito dette considerazioni, che riguardavano la sola bancarotta preferenziale, estendendole ai menzionati fatti di bancarotta semplice.
L’obiettivo di agevolare la soluzione concordata delle crisi d’impresa è stato, dunque, perseguito attraverso l’introduzione di limiti esegetici delle fattispecie o, come anche può dirsi, di cause di delimitazione del fatto tipico della bancarotta preferenziale e della bancarotta semplice14.
In altri termini: il legislatore è intervenuto a ridurre dette norme penali, a delimitarne l’ampiezza, ad escludere la rilevanza penale di una parte del tipo introducendo nuovi elementi descrittivi che ne delimitano la portata.
Non dunque cause di esclusione della antigiuridicità del fatto, come si era affermato nel vigore del solo art. 67, prima cioè dell’introduzione dell’art. 217 bis.
3.2 Ambito applicativo dell’art. 217 bis
Come si è visto, l’esenzione è riferita alle «disposizioni di cui all’articolo 216, terzo comma, e 217», quindi alle disposizioni dedicate alla bancarotta “propria”, preferenziale e semplice.
Il richiamo a dette disposizioni impone alcune precisazioni.
La bancarotta preferenziale consiste nel fatto dell’imprenditore che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluni di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.
I «pagamenti» e le «operazioni» esentati non possono, dunque, integrare pagamenti preferenziali. Quanto, invece, alla simulazione di titoli di prelazione si è affermato15 che detta condotta non sarebbe strutturalmente riconducibile all’ambito di operatività dell’art. 217 bis. non potendo in alcun modo, proprio per la sua natura simulatoria, essere compresa fra le operazioni poste in essere in esecuzione di una delle procedure finalizzate alla soluzione della crisi d’impresa.
Se ciò è vero, non può, tuttavia, trascurarsi che la giurisprudenza di legittimità ha affermato la riconducibilità al paradigma della bancarotta preferenziale anche dei titoli di prelazione (in particolare delle ipoteche) che siano stati effettivamente costituiti a favore del creditore in tempi sospetti (di regola in tempi di insolvenza) al fine di trasformare un credito chirografario in privilegiato16.
Quanto invece alla bancarotta semplice, il generale richiamo all’art. 217 non deve far perdere di vista che alcuni dei fatti in esso contemplati sono del tutto eccentrici rispetto alle finalità di soluzione della crisi d’impresa e, pertanto, ai pagamenti e alle operazioni che possono rientrare nell’operatività dell’art. 217 bis.
Si pensi, oltre ai fatti di bancarotta documentale di cui al co. 2, ai comportamenti elencati ai n. 1 («spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla condizione economica») e 5 (inadempimento delle «obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare») dell’art. 217.
Rientrano, invece, nell’area di operatività dell’art. 217 bis le condotte di cui ai n. 3 e 4 del co. 1 dell’art. 217, se poste in essere nel quadro di una delle procedure in discorso, vale a dire le «operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento» e le «condotte gravemente colpose aggravatrici del dissesto».
Più delicata questione – si è osservato17 – riguarda il dettato del n. 2 del co. 1 dell’art. 217, che contempla le operazioni manifestamente imprudenti di consumazione di «una notevole parte del patrimonio».
In linea teorica anche condotte di tal genere potrebbero rientrare nella previsione dell’art. 217 bis; si fa notare peraltro, in dottrina (ove si conclude nel senso che l’art. 217 bis.non troverebbe applicazione nel caso di comportamenti riportabili alla citata previsione), che ben difficilmente comportamenti erosivi della consistenza patrimoniale connotati dalla mera sorte o dalla manifesta avventatezza potrebbero essere ritenuti coerenti con un piano o con un accordo mirati al superamento della crisi d’impresa
Si noti infine che, sebbene l’art. 217 bis.nulla dica in proposito, il richiamo alle disposizioni incriminatrici deve intendersi esteso anche alle corrispondenti figure della cd. bancarotta societaria di cui agli artt. 223, co. 1, e 224, co. 1, n. 1; dette disposizioni, d’altra parte, richiamano espressamente i “fatti” di bancarotta preferenziale o semplice.
Resta ferma, naturalmente, la possibilità che i pagamenti e le operazioni in esame diano vita a reati fallimentari diversi da quelli “esclusi”. Pertanto l’esclusione non riguarda ad esempio, le fattispecie di causazione del fallimento con dolo o con operazioni dolose (art. 223, co. 2, n. 2), di causazione colposa del dissesto (art. 224, co. 1, , n. 2) e il ricorso abusivo al credito (art. 218), che prescinde oggi dalla pronuncia di una sentenza dichiarativa di fallimento.
Con riguardo a quest’ultima fattispecie si è, tuttavia, osservato18, che il contesto in cui il piano di cui all’ 67, co. 3, lett. d), o l’accordo di ristrutturazione previsto dall’art. 182 bis, sono destinati ad essere progettati ed eseguiti rende particolarmente ardua la possibilità di dissimulare il dissesto o lo stato d’insolvenza, di porre cioè in essere una condotta strumentale finalizzata quanto meno a nascondere, ai soggetti che nella prospettiva dell’incriminazione dovrebbero erogare il credito in forza della dissimulazione, il reale stato delle condizioni economiche, finanziarie e patrimoniali.
Deve, infine, osservarsi che l’art. 236, che esplicitamente prevede che i reati di bancarotta – compresi, nel silenzio della legge, quelli cui fa rinvio l’art. 217 bis.– siano integrati anche in presenza del solo decreto di ammissione al concordato preventivo, deve essere interpretato alla luce della nuova norma, nel senso che le norme incriminatrici richiamate dall’art. 236 (limitatamente, beninteso, a quelle cui fa riferimento l’art. 217 bis) non possono trovare applicazione.
3.3 Configurabilità della “esenzione”
L’art. 217 bis ha – come si è detto – contratto l’area di tipicità delle norme incriminatici di cui agli artt. 216, co. 3, e 217.
La norma non chiarisce, tuttavia, per il caso di insuccesso della soluzione concordata e conseguente pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, entro quali confini debba svolgersi la cognizione del giudice penale sulla sussistenza dei presupposti che escludono la rilevanza delle condotte contemplate nella disposizione, quantomeno con riguardo a quelle procedure in cui è previsto, nelle sedi proprie, un controllo giudiziale degli accordi.
Occorre, in particolare, chiedersi se il giudice penale debba limitarsi a prendere atto dell’intervenuta omologazione degli accordi intervenuti tra debitore e creditori, provvedendo a verificare esclusivamente che operazioni e pagamenti di cui é invocata l’irrilevanza penale siano effettivamente stati posti in essere in esecuzione di tali accordi, ovvero se gli sia attribuito anche il potere di testare – con valutazione ex ante – l’originaria efficienza economica dell’accordo, al fine di escludere la possibilità che questo sia stato concluso al solo fine di evitare la concorsualità di alcuni crediti e di sottrarre il loro soddisfacimento al rischio della bancarotta.
Si può cominciare a ragionare dall’ipotesi apparentemente meno complicata, quella dei pagamenti e delle operazioni compiuti in esecuzione del piano di cui all’art. 67, co. 3, lett. d). Per dire anzitutto che, affinché pagamenti ed operazioni non entrino nella rischiosa orbita della bancarotta preferenziale e della bancarotta semplice, è necessario che siano stati posti in essere proprio in esecuzione di quel piano di cui parla la disposizione citata, cioè di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria e la cui ragionevolezza sia “attestata” dal professionista di cui sopra si è detto.
E, naturalmente, la verifica, in caso di fallimento dell’impresa (quando il piano non ha, dunque, conseguito il risultato che si proponeva), vale a dire il giudizio sulla «idoneità» del piano e sulla «ragionevolezza», da apprezzarsi ex ante, avvalendosi del noto criterio della prognosi postuma, compete al giudice penale.
In altri termini non è sufficiente a integrare la clausola che limita l’operatività delle figure incriminatrici oggi richiamate dall’art. 217 bis.la semplice esistenza ed esecuzione del piano (non vi è, dunque, alcun automatismo tra piano ed esenzione), ma è necessario che il piano sia – dopo il fallimento – ritenuto dal giudice penale come idoneo ex ante a superare lo stato di crisi nel quale versava l’impresa; è necessaria cioè la sussistenza dei menzionati requisiti di idoneità e ragionevolezza.
Come bene sottolineato19, il legislatore ha caratterizzato in modo pregnante i requisiti del piano (e lo stesso vale per l’accordo ex art. 182 bis di cui tra breve si dirà) in termini contenutistici, segnalandone – con formule linguistiche sostanzialmente sovrapponibili – come tratto tipico l’idoneità a superare in modo razionale lo stato di crisi in cui versa l’impresa; sicché, in difetto di tali caratteristiche (la sussistenza delle quali va apprezzata ex ante), non potrà parlarsi di piano (o di accordo) nel senso tipizzato dalla legge.
A questo si aggiunga che il piano di cui si discute è totalmente “privato” (è cioè lasciato all’autonomia privata e non subisce alcuno tipo di controllo da parte dell’autorità giudiziaria) sicché la “esenzione” non può certo dipendere (e comunque la lettera della norma non va in tale direzione) da un’incontrollata scelta lasciata alla privata autonomia privata.
La “esenzione” riguarda – come si è visto – anche pagamenti ed operazioni posti in essere «in esecuzione del concordato preventivo e dell’accordo omologato ai sensi dell’articolo 182 bis».
L’art. 217 bis richiama esplicitamente l’art. 182 bis, che impone all’imprenditore in stato di crisi che domandi l’omologazione di depositare una relazione redatta dal citato professionista sulla attuabilità dell’accordo, con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei.
É inevitabile, dunque, chiedersi se detta “attuabilità” costituisca materia di verifica per il giudice penale, per modo che questi, qualora con valutazione ex ante, ne accerti l’insussistenza, dovrebbe escludere la “esenzione” (perché i pagamenti e le operazioni non potrebbero dirsi posti in essere in esecuzione di un accordo avente le connotazioni imposte dall’art. 182 bis).
La risposta non può che essere affermativa.
Nessuna norma, tantomeno quella in esame, impedisce al giudice penale di compiere detto accertamento. E l’art. 2, co. 1, c.p.p. attribuisce al giudice penale il potere-dovere di risolvere ogni questione da cui dipenda la sua decisione, salvo che sia diversamente stabilito.
Non sembrano, dunque, ipotizzabili forme di esclusione del sindacato del giudice penale, quand’anche si ritenesse che il giudice civile (l’ambito dei poteri del tribunale non è adeguatamente disciplinato né con riguardo all’istituto in esame, né – come si vedrà – in relazione al concordato preventivo) sia tenuto a compiere, al fine di omologare, verifiche che vadano oltre la mera ratifica dell’accordo fra debitore e creditori, oltre cioè un controllo esclusivamente formale dei requisiti di esistenza dell’accordo stesso e delle percentuali richieste.
Non può ritenersi ipotizzabile, in altre parole, una sorta di modulazione dei contenuti (dell’an e del quomodo) del potere-dovere di valutazione del giudice penale a seconda dell’attività di controllo in concreto esercitata, ai fini dell’omologa, dal giudice civile.
Quand’anche il tribunale avesse fatto precedere il decreto di omologazione da una pregnante valutazione di completezza, coerenza, ragionevolezza sull’attuabilità e idoneità dell’accordo e della relazione dell’esperto o, addirittura, da un’attività di controllo della veridicità dei dati sui quali l’accordo e la relazione si basano, nulla potrebbe impedire al giudice di procedere ad autonoma valutazione (anche se magari nella prassi si accontenterà dei risultati degli accertamenti compiuti dal giudice civile).
Considerazioni analoghe a quelle fin qui sviluppate possono essere svolte anche in relazione al concordato preventivo che implica un piano di soluzione dello stato di crisi, da prospettarsi con la domanda che va comunicata al pubblico ministero, la cui “fattibilità” esige di essere valutata (cfr. art. 161, co. 3). Piano e documentazione devono essere accompagnati dalla relazione del professionista che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo.
É indubbio che il controllo del tribunale in sede di ammissione alla procedura è più pregnante, ma in ogni caso, quanto all’attestazione del professionista circa la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, il giudice si deve limitare al riscontro degli elementi necessari a far sì che la relazione possa corrispondere alla funzione, che le è propria, di fornire elementi di valutazione per i creditori, dovendo il giudice astenersi da un’indagine di merito.
È pur vero che detta indagine è comunque riservata ai poteri di cui è investito lo stesso tribunale, nella fase dell’omologazione, in presenza di un’opposizione, alle condizioni di cui all’art. 180, ma non si vede, comunque, come possa ipotizzarsi che l’omologazione determini preclusioni o limitazioni all’apprezzamento del giudice penale.
3.4 Nuova figura di falso ed “esenzione” ex art. 217 bis
Vi è da chiedersi ora se, dopo l’introduzione dell’art. 236 bis, la vista “esenzione” possa trovare più agevole applicazione nei confronti dell’imprenditore che abbia effettuato operazioni e pagamenti in esecuzione di uno dei piani presi in considerazione dall’art. 217 bis.
La risposta dovrebbe essere affermativa.
Il giudizio positivo fornito da un professionista “indipendente” e tecnicamente qualificato può sempre valere – anche in presenza di un piano oggettivamente azzardato – a escludere, in capo all’imprenditore in buona fede, il dolo della bancarotta preferenziale e, tranne casi particolari, la colpa della bancarotta semplice.
Si è visto che proprio l’art. 217 bis indica che il “normale” rischio penale dell’imprenditore in crisi che intraprenda la strada del risanamento aziendale assume essenzialmente i volti della bancarotta preferenziale e della bancarotta semplice.
La prima, che consiste – come è noto – nel fatto dell’imprenditore «che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluni di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione», è tuttavia reato doloso e ciò comporta che le condotte caratterizzate da imperizia o da mera imprudenza allontanano dal rischio penale “preferenziale”.
Con riguardo alla bancarotta semplice va poi chiarito che il “rischio” penale di cui si parla è limitato soltanto ad alcuni fatti di bancarotta semplice patrimoniale, in particolare alla fattispecie dolosa consistente nel compimento di «operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento» (art. 217, co. 1, n. 3), alla fattispecie colposa costituita dalla realizzazione di «condotte gravemente colpose aggravatrici del dissesto» (art. 217, co. 1, n. 4) ed alla fattispecie colposa integrata da «operazioni manifestamente imprudenti di consumazione di una notevole parte del patrimonio» (art. 217, co. 1, n. 2)20.
Ebbene, l’art. 236 bis.ha un peso rilevante nel sistema delle operazioni di ristrutturazione.
Il professionista/attestatore è dal legislatore voluto come garante della correttezza delle procedure dianzi indicate; un professionista, qualificato, capace, designato dal debitore ma indipendente, equidistante.
A lui il legislatore affida il compito più delicato, e mostra di non tollerarne eventuali infedeltà. Nel restructuring, infatti, la tematica della veridicità e dell’adeguatezza delle informazioni è centrale. Perché mai, d’altra parte, il professionista dovrebbe volutamente confezionare relazioni/attestazioni false? La risposta sembra obbligata: perché è complice del debitore. Solo una fantasia illimitata potrebbe ipotizzare un attestatore che, mirando ad acquisire benemerenze nei confronti del debitore, falsifichi a sua insaputa.
Se il professionista è complice del debitore, è giusto che anche il suo “rischio penale” sia elevato.
L’insuccesso del piano, il fallimento del debitore, le ipotesi di bancarotta travolgeranno anche il professionista complice.
Se questa correità, però, non c’è, se il professionista svolge la propria attività con l’indipendenza e l’imparzialità richieste, anche l’imprenditore può affrontare con una certa tranquillità la nuova strada, contando sulle esenzioni previste dall’art. 217 bis.e comunque, in caso di insuccesso del piano, sul fatto che, per aver dato corso ad operazioni e pagamenti in esecuzione del piano sulla base delle relazioni/attestazioni di un professionista indipendente e imparziale, non potrà essere chiamato a rispondere di fatti di bancarotta preferenziale o di bancarotta semplice, sempre che naturalmente gli errori di verifica e valutazione compiuti dal professionista non siano stati determinati dal suo inganno.
Il giudizio positivo fornito da un professionista “indipendente” e tecnicamente qualificato può sempre valere – anche in presenza di un piano oggettivamente azzardato – a escludere, in capo all’imprenditore in buona fede, la responsabilità per bancarotta preferenziale.
L’errore del professionista è tra le possibili evenienze, ma, quand’anche fosse dovuto all’imperizia del medesimo, le falsità dolose in committendo o in omittendo di cui si è detto non potrebbero essergli fondatamente contestate.
Come non potrebbero essere contestate, né al professionista, né all’imprenditore, le sopra indicate fattispecie dolose di bancarotta.
Residuerebbe, in altre parole, soltanto il rischio della bancarotta semplice colposa, rappresentato dall’avvenuta realizzazione di «condotte gravemente colpose aggravatrici del dissesto».
Rischio a carico del professionista se il suo grave errore colposo abbia aggravato il dissesto; rischio per l’imprenditore nel caso in cui il piano, poi attestato, già contenesse scelte strategiche gravemente imprudenti che abbiano aggravato il dissesto.
1 V. ad es. Bricchetti, R.-Mucciarelli, F.-Sandrelli, G., Le responsabilità penali, in Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative a cinque anni dalla riforma, a cura di A. Jorio-M. Fabiani, Bologna, 2010, 1269; Bricchetti, R., Profili penali, in Le nuove procedure concorsuali, a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2010, 639.
2 Si veda ad es. Mucciarelli, F., Stato di crisi, piano attestato, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo e fattispecie penali, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2009, 832. Il tema dello statuto penale del professionista prima dell’introduzione dell’art. 236 bis è ampiamente trattato da V. Spinosa, Il c.d. decreto sviluppo nel sistema della legge fallimentare: i rapporti tra nuove procedure concorsuali e profili di responsabilità penale, in Dir. pen. contemp., n. 2/2013, 107. Ritengono invece che il professionista sia persona esercente un servizio di pubblica necessità (art. 359 c.p.) Schiavano, G., Il professionista “attestatore” nelle soluzioni concordate delle crisi d’impresa: la sua qualifica penalistica, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2010, 279; Guerini, T., La responsabilità del professionista attentatore nell’ambito delle soluzioni concordate per le crisi d’impresa, in Dir. pen. contemp., n. 2/2013, 80.
3 Così anche D’Alessandro, F., Il nuovo art. 217-bis l. fall., in Le società, 2011, 204.
4 Detta disposizione punisce con la reclusione da uno a cinque anni, l’imprenditore che, al solo scopo di essere ammesso alla procedura di concordato preventivo, si sia attribuito attività inesistenti oppure che, al fine di influire sulla formazione delle maggioranze, abbia simulato crediti in tutto o in parte inesistenti.
5 Assolutamente non condivisibile, perché in palese violazione del principio di legalità, è Cass. pen., 26.1.2000, n. 3736, che ha ritenuto applicabile la norma anche agli organi societari.
6 Il menzionato art. 19, co. 2, è diventato, con testo inalterato, l’art. 16, co. 2, della legge a seguito delle modifiche volute dal d.l. 18.10.2012, n. 179, conv., con modificazioni, dalla l. 17.12.2012, n. 221.
7 De Marchi Albengo, P., La fattispecie incriminatrice di cui al nuovo articolo 236-bis della legge fall.: la responsabilità penale dell’attestatore, pubblicato il 10.11.2012 sul sito www.ilcaso.it; Borsari, R., Il nuovo reato di falso in attestazioni e relazioni del professionista nell’ambito delle soluzioni concordate alle crisi d’impresa. Una primissima lettura, in Dir. pen. contemp., n. 1/2013, 91; Guerini, T., op. cit., 81.
8 Lo esclude in modo categorico, Mucciarelli, F, Il ruolo dell’attestatore e la nuova fattispecie penale di “Falso in attestazioni e relazioni”, in www.ilfallimentarista.it.
9 Il tema è ampiamente trattato da V. Spinosa, op. cit., 112. Sul punto v. altresì Guerini, T., op. cit., 84.
10 In argomento v. Bricchetti, R.-Mucciarelli, F.-Sandrelli, G., op. cit., 1292; Sandrelli, G., La riforma della legge fallimentare: i riflessi penali, in Cass. pen., 2006, 1300.
11 Alessandri, A., Profili penalistici in tema di soluzioni concordate delle crisi di impresa, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 115.
12 Alessandri, A., op. cit., 129.
13 Hanno parlato di cause di esclusione dell’antigiuridicità o comunque di situazioni di liceità Giunta, F., Revocatoria e concordato preventivo: tutela penale, in Dir. prat. fall., n. 1/2006, 34; Bricchetti, R.-Mucciarelli, F.-Sandrelli, G., op. cit. In senso difforme Insolera, G., Riflessi penalistici della nuova disciplina del concordato preventivo e delle composizioni extragiudiziali della crisi della impresa, in Giur. comm., 2006, I, 468.
14 Nello stesso senso Mucciarelli, F., L’esenzione dai reati di bancarotta, in Dir. pen. e processo, 2010, 1475; D’Alessandro, F., op. cit., 202.
15 Mucciarelli, F., op. ult. cit., 1477.
16 Cass. pen., 2.3.2004, n. 16688. Alessandri, A., op. cit., 128, ha parlato in proposito di «interpretazioni estremiste, alla ricerca di un in sé penalistico, che non sarebbe più la simulazione civilistica, espressiva di una divergenza tra il manifestato ed il voluto nella sfera dell'autonomia privata, ma qualcosa di più ampio, indefinibile».
17 Mucciarelli, F., op. ult. cit., 1478.
18 Mucciarelli, F., op. ult. cit., 1481.
19 Mucciarelli, F., op. ult. cit., 1482.
20 Anche se si è fatto argutamente notare in dottrina che ben difficilmente comportamenti erosivi della consistenza patrimoniale connotati dalla mera sorte o dalla manifesta avventatezza potrebbero essere ritenuti coerenti con un piano o con un accordo mirati al superamento della crisi d’impresa: Mucciarelli, F., op. ult. cit., 1478.