Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Qual è la differenza fra l’opera dell’Ottocento e il teatro musicale della seconda metà del Novecento? Quali sono i caratteri tipici di quest’ultimo? Si cercherà di rispondere a queste domande citando alcuni dei principali protagonisti italiani, nei quali il “nuovo” è prevalente rispetto ai fattori di continuità.
Adriano Guarnieri
Medea
MEDEA 2 (in scena sola) ... Non ricordo più la vostra voce...
erba parlami, pietra parlami...
erba parlami, pietra parlami...
dove vi ritrovo?
guardo il sole e non lo conosco...
guardo la terra, guardo il sole, non li riconosco...
tocco la terra e non la riconosco...
che sventura...
(quartetto vocale in quattro punti diversi della sala)
MEDEA 1, 2, 3 ... o figli, figli miei...
voglio baciare i vostri volti, toccare i vostri corpi...
è ancora un sogno...
www.teatrolafenice.it
Definire “teatro musicale” un lavoro composto di parole e musica che viene realizzato su un palcoscenico di fronte a degli spettatori implica riferirsi a un evento artistico diverso da quello che si denominava “opera lirica”, benché formato dagli stessi ingredienti.
Questa diversità si configura come un proseguimento delle forme precedenti attuate con i mezzi oggi a disposizione o è una rottura, una discontinuità in cui il “nuovo” è prevalente rispetto alla continuità di una tradizione? Poiché nel Novecento entrambe le ipotesi vengono realizzate e accanto al “teatro musicale” si continuano a scrivere “opere”, in queste brevi note si prenderanno in esame le forme più innovative, anche se è arduo stabilire una netta divisione fra i due tipi di teatro. Difficile è anche stabilire una data o un fatto emblematico che segnali l’avvento del nuovo teatro musicale. Pierre Boulez sulla rivista “Musique en jeu” del 1974 afferma che in The Rake’s Progress di Stravinskij (1951, ossia già a metà del secolo) “[…] non c’è assolutamente niente di moderno [...] è soltanto un mosaico di pezzi da museo. Perciò non presenta, almeno per me, alcun interesse né sul piano teatrale né su quello musicale”. Di diversa opinione Philippe Albéra per il quale “sono i lavori teatrali di Stravinskij a giocare storicamente un ruolo essenziale nell’evoluzione verso un teatro musicale critico. Essi si collocano, significativamente, ai margini dei generi consacrati”. Entrambi gli autori però concordano sul fatto che già Wagner aveva sostituito il concetto di “dramma musicale” a quello di “opera” e che nel Parsifal (1882) il simbolismo timbrico di alcuni strumenti e la dialettica fra preciso e indistinto indicano una delle vie maestre del teatro musicale contemporaneo.
La lista delle citazioni contrastanti sulla data di nascita del “teatro musicale” potrebbe continuare, ma già da queste poche righe si può rilevare, in positivo, che: non è la data di composizione che decide la “modernità” del fatto artistico; in secondo luogo, non sono sufficienti le forme della musica – nemmeno quelle raffinate di Stravinskij – a definire senza possibilità di dubbio la modernità di una pièce. Cosa, dunque – viene da chiedersi – spinge i compositori lontano dall’“opera” e verso il “teatro musicale”?
Le motivazioni di Luciano Berio, colte attraverso scritti e interviste di circa trent’anni a partire dall’apparizione di Opera (1970, titolo che non sta per “opera lirica”, bensì è il plurale di opus) paiono essere sostanzialmente due: una di ordine etico e una di ordine compositivo. La prima si fonda sull’assunto che il compositore non debba fornire al suo pubblico immagini consolatorie (e quindi false) del reale, ma debba dargli qualcosa di utile per capire le forme del proprio inserimento nel mondo e, poiché il teatro ha possibilità comunicative più “popolari” del concerto, si motiva la sua massiccia presenza nel catalogo delle opere beriane e anche l’attitudine teatralizzante di molti brani primariamente nati per la sala da concerto (si ricordino pezzi come A-Ronne, Circles, e alcune delle Sequenze). Parallelamente a questa esigenza, per Berio nel contenitore scenico si esprime l’esigenza di misurarsi con elementi linguistici sempre più complessi, un’esigenza che si attua attraverso l’adozione di strumenti sempre più diversificati, assunti a immagine della complessità conoscitiva del mondo in cui viviamo.
Per Luigi Nono il teatro musicale sembra essere un bisogno per tutti, per chi lo fa come per chi lo frequenta. Nel saggio introduttivo all’opera Al gran sole carico d’amore (Teatro alla Scala, 1974) egli afferma: “È finita, sì, una particolare concezione, anzi via via successive concezioni si sono esaurite, ma non il teatro musicale nella continuità in sviluppo del suo rapporto con la storia e con la società. È tramontata sì un’epoca storica precisa, le cui esigenze si trovano anche nel linguaggio tecnico strutturale, nella forma, nel significato, nella funzione sociale dell’opera tradizionale. Ma per quale mistero il nostro tempo non dovrebbe contenere in sé urgenze, temi, proprietà linguistiche per una nostra espressione-testimonianza anche nel teatro musicale? ”
Dal punto di vista del fruitore, il teatro musicale contemporaneo si presenta come un fenomeno dalle mille facce: al posto dell’“Opera lirica in tre atti” di stampo ottocentesco, lo spettatore si trova di fronte a svariate combinazioni di mezzi scenico-musicali, variamente etichettati dai compositori stessi come: opera con o senza personaggi (ad esempio, Aldo Clementi, Es, 1981; Franco Donatoni, Atem, 1984), balletto con canto (numerosi pezzi del Bussotti opéra ballet), lirica in forma di spettacolo (Bruno Maderna, Hyperion, 1967), teatro invisibile (Salvatore Sciarrino, Lohengrin, 1984), teatro senza parole (Luciano Berio, Twice upon..., 1994), azione scenica (Luigi Nono, Intolleranza 1960). Queste, e altre, auto-definizioni indicano la tendenza comune a compositori fra loro molto diversi a rinunciare a una storia che si sviluppi linearmente, a narrazioni di fatti legati dal principio della causalità, del prima-dopo, della dinamica inizio-sviluppo-fine come ci aveva abituati il teatro dell’Ottocento. La complessità dell’oggi induce a rappresentazioni frammentate, imprevedibili, che costringono lo spettatore a costruire il proprio percorso narrativo sulla base di indizi nascosti nelle azioni o nei testi o nella musica. Il senso può venire da un’impressione immediata o da immagini ripetute e ossessive, da un fantasticare onirico o dal voluto appiattimento sulla quotidianità, con possibilità infinite di sovrapposizioni, mescolanze, interpolazioni. Questa ricerca di imprevedibili rappresentazioni del mondo contemporaneo e dell’Uomo nei suoi fondamenti eterni continua anche nel nuovo millennio. Basti pensare a Medea di Adriano Guarnieri, andata in scena al Palafenice di Venezia nell’autunno 2002 dopo una lunghissima gestazione. La tenebrosa figura della protagonista è qui interpretata da tre cantanti, ognuna delle quali sembra impersonare uno degli aspetti coi quali essa è tramandata da millenni di letteratura: la maga, la vittima, l’eroina; ma anche la Donna nell’eterno suo mistero. Immagini proiettate sul fondale traboccano in platea a lambire spettatori e strumentisti sparsi a gruppi. L’onda di immagini dal vivo e proiettate, insieme al flusso dei suoni anch’essi “naturali” e riprodotti da due consolles per il live electronics circonda lo spettatore incerto fra l’adesione, il dubbio e la paura. Forse una risposta al Prometeo di Luigi Nono, ovvero “la tragedia dell’ascolto”? Oppure un’immersione mitizzata nel mondo che ci frastorna il cervello penetrando attraverso gli orecchi e gli occhi?
Ma accanto alla ricerca che risponde, come insegna Berio, a un imperativo etico e a una tendenza artistica del linguaggio, a partire dagli anni Ottanta comincia a farsi strada un diverso modo di fare teatro. Si tratta di una svolta all’interno di quel fenomeno globale che abbiamo indicato come “teatro musicale contemporaneo”, non di un “ritorno all’antico”, nonostante alcuni dei protagonisti siano a volte indicati come neo-romantici. Anche in questo caso è difficile indicare una data di inizio o un evento emblematico del nuovo corso; e non sono nemmeno chiare le barriere fra coloro che continuano sulla via più ardua e coloro che si sforzano di trovare mezzi di comunicazione meno traumatici, anche se non banali. Probabilmente è stato il clima socio-politico a spegnere a poco a poco la rabbia di non poter cambiare il mondo attraverso le forme dell’arte e a spingere i compositori verso un teatro più disteso. Il fondamento teorico potrebbe essere individuato nel teatro illusorio che Ferruccio Busoni illustra nell’Abbozzo di una nuova estetica della musica (1907): “l’opera dovrebbe impadronirsi del soprannaturale e dell’innaturale come della sola regione di fenomeni che le convenga, e così creare un mondo di apparenze che rifletta la vita in uno specchio magico o in uno deformante: dovrebbe dover dare di proposito ciò che nella vita reale è irreperibile”. Certamente la nuova generazione di compositori non interpreta questo principio nel senso “stretto” dell’Arlecchino di Busoni stesso (avvicinabile forse soltanto al Gargantua di Azio Corghi, 1984), ma non si possono non vederne gli effetti, ad esempio, dietro al Faust di Luca Lombardi su testo di Edoardo Sanguineti (1990), dove non vi sono cedimenti né ammiccamenti sul piano del linguaggio, ma la cifra della “deformazione” conferisce alla narrazione bagliori illusionistici.