Nuove norme penali in materia di disciplina delle armi
Il d.lgs. 26.10.2010, n. 204 (entrato in vigore il 1.7.2011), recependo la direttiva 2008/51/CE, ha significativamente interpolato la normativa in materia di armi, modificando soprattutto alcune delle disposizioni che concorrono a definire il profilo dei reati previsti dalla legislazione speciale anche attraverso l’introduzione di inedite norme definitorie.
Il d.lgs. 26.10.2010, n. 204 ha dato esecuzione alla delega conferita dall’art. 36 l. 7.7.2009, n. 88 (cd. legge comunitaria 2008) per l’attuazione della direttiva 2008/51/CE in materia di armi. Il decreto è direttamente intervenuto in maniera marginale sulle norme penali in materia di armi, ma ha invece apportato significative modifiche a numerose disposizioni amministrative che concorrono a definire i precetti penali, in alcuni casi mutando profondamente l’effettivo profilo delle incriminazioni. La menzionata direttiva ha provveduto a sua volta alla modifica e all’integrazione della direttiva 91/477/CEE, che costituisce il testo normativo comunitario fondamentale in materia di armi. L’aggiornamento di tale direttiva era divenuto necessario a causa della persistente disomogeneità delle legislazioni dei Paesi membri, ma altresì in ragione dell’intervenuta adesione, nel frattempo, della Comunità europea al Protocollo contro la fabbricazione e il traffico illeciti di armi da fuoco, loro parti e componenti e munizioni, allegato alla Convenzione delle Nazioni unite contro la criminalità transnazionale organizzata del 15.11.2000. Alla direttiva in questione venne data attuazione attraverso il d.lgs. 30.11.1992, n. 527, il quale, peraltro, concentrò la sua disciplina sulla Carta europea delle armi da fuoco, istituita nell’occasione dalla normativa sovranazionale, avendo per il resto il legislatore nazionale ritenuto la generale compatibilità della normativa interna in materia di armi con i principi fissati da quello comunitario. Come detto, la direttiva del 2008 ha provveduto a rivedere e ad espandere i contenuti di quella del 1991 e il d.lgs. n. 204/2010 ha a sua volta provveduto all’adeguamento dell’ordinamento nazionale, senza peraltro procedere al più generale riordino della farraginosa legislazione in materia di armi, cui pure il Governo era autorizzato sulla base della disposizione contenuta nell’art. 5 della legge delega citata in precedenza.
La novella, in sintonia con il contenuto delle disposizioni comunitarie che ha inteso recepire, ha confezionato innanzi tutto inedite norme definitorie, tra l’altro, delle nozioni di arma da fuoco, di parte d’arma e di munizione, tutte collocate nel già citato d.lgs. n. 527/1992. Inoltre ha provveduto a modificare le norme del t.u.p.s. (R.d. 18.6.1931, n. 773) aventi ad oggetto le licenze relative alle attività di fabbricazione, importazione ed esportazione di armi, cui ha assimilato l’inedita attività di assemblaggio. Un’ulteriore e fondamentale modifica apportata al t.u.l.p.s. dal legislatore riguarda la disciplina della denunzia della detenzione di armi comuni, la cui violazione integra il più comune tra gli illeciti penali previsti dalla legislazione vigente in questa materia. Nondimeno, la novella ha significativamente rimodulato anche lo statuto delle cd. «armi giocattolo» ed ha inserito gli storditori elettrici tra le armi proprie non da sparo, il cui porto al di fuori dell’abitazione integra la contravvenzione di cui all’art. 4 l. 18.4.1975, n.110. Attraverso, il d.lgs. n. 204/2010 è stata poi per la prima volta dettata una specifica disciplina delle attività di disattivazione e demilitarizzazione delle armi da fuoco, mentre la novella ha provveduto altresì ad innalzare i minimi edittali delle pene pecuniarie previste per i delitti contemplati dalla l. 1.10.1967, n. 895 e l’intero apparato sanzionatorio della contravvenzione di cui all’art. 4 l. n. 110/1975, nonché a modificare la disciplina della marcatura delle armi da fuoco prevista dall’art. 11 della stessa legge. Infine, va ricordato come l’art. 8 della novella abbia differito l’entrata in vigore delle nuove disposizioni al 1.7.2011. Nondimeno, l’art. 6, co. 4, della stessa ha stabilito che anche oltre tale data continuino ad applicarsi le norme previgenti fino all’emanazione dei regolamenti previsti da numerose disposizioni del decreto per l’attuazione delle modifiche apportate alle medesime. Ciò, in particolare, rileva ai fini dell’applicazione delle nuove disposizioni in materia di certificazione medica per il rilascio del nulla osta all’acquisto di armi, ovvero per la loro detenzione, e in materia di armi giocattolo.
I profili problematici, con riferimento alle nuove norme penali in materia di disciplina delle armi, attengono ai profili definitori (armi da fuoco, armi inutilizzabili e parti d’arma), alla denunzia delle armi comuni e agli storditori elettrici ed armi giocattolo.
3.1 Le norme definitorie: armi da fuoco e armi inutilizzabili
Come accennato, la novella fornisce per la prima volta – riprendendole dalla direttiva comunitaria – le definizioni di «arma da fuoco», di «parte d’arma» e di «munizione», tutte nozioni ampiamente richiamate dalle norme incriminatrici in materia di armi. L’ambito applicativo di tali definizioni è formalmente delimitato alle disposizioni del d.lgs. n. 527/1992 in cui sono state inserite all’art. 1, ma in realtà le stesse vengono espressamente richiamate da altre disposizioni introdotte dalla novella e, più in generale, sembra non potersi prescindere dalle stesse anche nell’interpretazione delle norme che non le evocano, attesa la volontà espressa dal legislatore di recepire la direttiva che originariamente le ha configurate. Quanto alla definizione di «arma da fuoco» («qualsiasi arma portatile a canna che espelle, è progettata per espellere o può essere trasformata al fine di espellere un colpo, una pallottola o un proiettile mediante l’azione di un combustibile propellente»), va sottolineato come la stessa non si sovrappone a quella di arma da sparo tradizionalmente ricavata da parte della giurisprudenza dall’art. 2 l. 18.4.1975, n. 1101. In tal senso, va infatti ricordato che quella delle armi da fuoco è stata costantemente ritenuta come una species del genus armi da sparo in senso lato, caratterizzata dal particolare tipo di propellente utilizzato per il lancio del proiettile (la polvere da sparo) e dalla peculiare dinamica di innesco del lancio (deflagrazione conseguente alla combustione del propellente): definizione che, per l’appunto, si riflette ora in quella introdotta dal d.lgs. n. 204/2010. La definizione accolta dalla novella esclude dalla nozione di arma da fuoco gli oggetti che, pur risultando normotipo, corrispondono a quelli elencati al punto III dell’allegato I della direttiva 1991/477/CEE e cioè: a) le armi che sono state rese definitivamente inutilizzabili in modo da rendere tutte le loro parti essenziali inservibili e impossibili da asportare, sostituire o modificare nell’ottica dell’eventuale riattivazione dell’arma; b) gli oggetti concepiti per allarme, segnalazione, salvataggio, macellazione, pesca all’arpione oppure sono destinati a impieghi industriali o tecnici, purché possano venire utilizzati unicamente per tali scopi specifici; c) le armi antiche o le loro riproduzioni, purché già non rientrino nelle categorie precedentemente illustrate e siano oggetto di disciplina da parte delle legislazioni degli Stati membri. Tralasciando le due ultime categorie elencate (da sempre catalogate negli artt. 2 e 10 della citata l. n. 110/1975 in modo non incompatibile con quanto disposto dalla direttiva), sul punto va evidenziato che, in accordo con la normativa comunitaria, l’arma inutilizzabile non è solo quella resa inservibile mediante la formale procedura di disattivazione, ma altresì quella divenuta definitivamente incapace di svolgere la propria funzione attraverso un procedimento non reversibile di trasformazione delle sue componenti e ciò a prescindere dalle modalità seguite per produrre tale risultato. Pertanto, a tale nozione sembra riconducibile ora anche l’arma divenuta inefficiente per motivi accidentali, purché effettivamente ed irreversibilmente inutilizzabile come tale. Tale nozione – che, come si è detto, è stata ora direttamente recepita dalla norma interna, attraverso il rinvio all’allegato della direttiva – non introduce in realtà profili di effettiva novità, atteso che l’inefficienza all’uso proprio in senso sostanziale e l’irreversibilità della trasformazione sono i requisiti tradizionalmente posti dalla giurisprudenza alla base della valutazione negativa sull’identificabilità di una entità fisica apparentemente qualificabile come arma con l’oggetto materiale tipico descritto nelle norme incriminatrici in materia di armi e ciò sulla scorta di quanto previsto dagli artt. 1, 2 e 7 l. n. 895/1967, per cui la detenzione e il porto illegali di armi da guerra, tipo guerra e comuni da sparo e delle relative parti sono puniti soltanto se le stesse sono «atte all’impiego»2.
3.2 Le parti d’arma
Più complessa è l’interpretazione della definizione di «parte» d’arma («qualsiasi componente o elemento di ricambio specificamente progettato per un’arma da fuoco indispensabile al suo funzionamento, in particolare la canna, il fusto o la carcassa, il carrello o il tamburo, l’otturatore o il blocco di culatta, nonché ogni dispositivo progettato o adattato per attenuare il rumore causato da uno sparo di arma da fuoco»). La nozione di parte d’arma è da sempre richiamata in numerose norme incriminatici e riferita sia alle parti d’arma da guerra e tipo guerra, che a quelle delle armi comuni da sparo. L’assenza di una definizione legale ha tendenzialmente portato finora a classificare le parti d’arma come le parti in cui può essere scomposta l’entità fisica identificabile come arma da guerra, tipo guerra o comune da sparo. Siffatta impostazione interpretativa è stata peraltro progressivamente corretta, ritenendosi comunque necessario introdurre un criterio qualitativo di selezione in grado di evitare l’indistinta equiparazione tra tutte le componenti dell’arma, apparendo inaccettabile che l’estensione alle stesse del severo statuto penale dettato per le armi potesse riguardare, ad esempio, anche la minuteria metallica (molle, viti ecc.) utilizzata nel loro assemblaggio. In tal senso, la consolidata giurisprudenza di legittimità ritiene dunque che non qualsiasi elemento costitutivo dell’arma possa essere qualificata come sua «parte», ma solo quelle componenti che, singolarmente considerate, assumano una rilevante importanza strutturale ed un’effettiva autonomia funzionale. E ciò in quanto la ratio dell’estensione delle norme incriminatrici alle parti d’arma andrebbe ricercata innanzi tutto nell’esigenza di impedire che, attraverso la scomposizione programmata dell’arma completa, sia possibile eludere le disposizioni che la riguardano; conseguentemente, tale estensione andrebbe riferita solo a quelle parti che consentono la rapida costituzione di un’arma funzionale all’uso che le è proprio3. In tal senso, la stessa giurisprudenza ha sostanzialmente elaborato una sorta di distinzione tra «parti» ed «accessori» dell’arma (rifiutando invece costantemente quella tra «parti essenziali» e «parti accessorie»), al fine di circoscrivere la portata delle norme incriminatici di cui si è detto solo alle prime, ma nella prima categoria ha tendenzialmente ricompreso anche quelle componenti non strettamente necessarie a rendere un’arma idonea all’uso e tuttavia in grado di incrementarne la potenzialità offensiva ovvero di renderne più agevole o funzionale l’utilizzo, mentre alla seconda ha ricondotto solo le componenti di mera rifinitura o di ornamento che non abbiano alcun riflesso, diretto o indiretto, sul funzionamento o sulla pericolosità dell’arma stessa4. La novella, riprendendo sul punto ancora una volta alla lettera la direttiva, ha introdotto ora le definizioni di «parti» e di «parti essenziali» dell’arma. La prima definizione precisa che le «parti» di un’arma da fuoco sono sostanzialmente quelle indispensabili al suo funzionamento, fornendone altresì un elenco che deve peraltro ritenersi – atteso il tenore letterale della disposizione – non esaustivo, nel senso che le componenti elencate devono intendersi comunque parti di un’arma da fuoco, ancorché non ritenute eventualmente indispensabili al suo funzionamento, ma ciò non esclude che tali possano essere considerati anche altri elementi costituitivi dell’arma che corrispondano però al canone di indispensabilità. La seconda definizione isola invece quelle componenti già menzionate in precedenza a fini meramente classificatori nell’allegato I della direttiva del 1991 (meccanismo di chiusura, camera e canna), ribadendo esclusivamente che la loro catalogazione dipende da quella dell’arma cui sono destinate. La distinzione tra «parti» e «parti essenziali» operata dal legislatore comunitario nel 2008 sembrerebbe trovare la sua spiegazione nella configurazione dell’obbligo di marcatura delle armi da fuoco, da effettuarsi, ai sensi del nuovo testo dell’art. 4 della direttiva 1991/477/CEE, per l’appunto sulle parti essenziali dell’arma. Peraltro, la stessa disposizione impone che la marcatura avvenga esclusivamente su quelle parti essenziali la cui distruzione renderebbe l’arma inutilizzabile, nozione che, come si è visto, va ricavata dal punto III dell’allegato I della stessa direttiva. Ed in questo senso la novella ha utilizzato la nozione di «parti essenziali» solo al fine di modificare la disciplina dell’immatricolazione delle armi comuni da sparo di cui all’art. 11 l. n. 110/1975 e per precisare che la marcatura deve essere apposta «in un’area delimitata del fusto, carcassa o castello o di una parte essenziale dell’arma, di cui all’art. 1 bis, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 527». Il legislatore, dunque, ha consentito la marcatura anche su parti diverse da quelle considerate «essenziali» ai sensi della direttiva europea e della stessa definizione recepita nel d.lgs. n. 527/1992, ma in tal senso ha delimitato il novero delle componenti sulle quali la stessa può essere effettuata, individuando delle parti che possono comunque ritenersi essenziali nel senso accolto dall’art. 4 della stessa direttiva e cioè delle componenti la cui distruzione comporterebbe l’inutilizzabilità dell’arma. In realtà, come accennato, la nozione di «parti essenziali» accolta nell’art. 1 della direttiva sembra non coincidere per difetto con quella ricavabile dal successivo art. 4, circostanza che può effettivamente determinare qualche confusione. Ciò non toglie, però, che né dalla direttiva, né dalle norme introdotte dal d.lgs. n. 204/2010 possono ricavarsi argomenti per sostenere che le norme incriminatici in materia di armi comuni da sparo abbiano oramai ad oggetto esclusivamente le parti essenziali delle medesime, giacché è evidente che ogni riferimento all’essenzialità di tali componenti – sia esso contenuto nella normativa comunitaria o in quella nazionale – è dettato al limitato fine di disciplinare l’attività di immatricolazione. Diversa è la questione posta invece dalla configurazione dell’altra definizione introdotta dalla novella, quella di «parti» di arma da fuoco. Tale definizione viene richiamata dalla novella esclusivamente nel nuovo testo dell’art. 38 t.u.p.s. – che, per l’appunto, il d.lgs. n. 204/2010 ha provveduto a modificare – disposizione che configura l’obbligo di denunzia delle armi, il cui inadempimento definisce il connotato di illegalità della detenzione punita dagli art. 2 e 7 l. n. 895/1967, se si tratta di armi comuni da sparo, e dall’art. 697 c.p. per le altre tipologie di armi. La stessa disposizione aveva finora omesso qualunque esplicito riferimento alle parti d’arma, ma, ciò nonostante, la giurisprudenza non ha mai dubitato dell’implicita estensione dell’obbligo di denunzia quantomeno alle parti di armi comuni da sparo, proprio in quanto le norme incriminatici che ne sanzionano l’illegale detenzione fanno espresso riferimento anche a queste ultime5. Nel riscrivere il primo comma del citato art. 38 t.u.p.s., la novella ha ora espressamente esteso l’obbligo di denunzia alle parti d’arma, identificate però attraverso il rinvio alla definizione contestualmente introdotta all’art.1, co. 1 bis, lett. b), d.lgs. n. 527/1992: definizione che concerne esclusivamente le parti d’arma da fuoco, dal che sembra potersi dedurre che le parti di armi comuni da sparo che non siano anche armi da fuoco rimangono escluse dall’obbligo di denuncia. Ciò detto, va ribadito che per la disposizione definitoria richiamata nell’art. 38 t.u.p.s. è «parte» dell’arma qualsiasi componente progettata per essa e «indispensabile al suo funzionamento». Formula questa che sembrerebbe lasciar intendere come a rilevare siano solo quelle componenti dell’arma senza le quali la stessa non sarebbe in grado di essere utilizzata in senso proprio. E, del resto, la maggior parte delle componenti elencate nella seconda parte della lett. b) della norma definitoria (canna, fusto o carcassa, carrello o tamburo, otturatore o blocco di culatta) sembrano confortare tale conclusione, trattandosi di elementi effettivamente imprescindibili per garantire il funzionamento di un’arma da fuoco. Peraltro, nel suddetto elenco, oltre alle componenti già ricordate, sono menzionati anche i silenziatori («ogni dispositivo progettato o adattato per attenuare il rumore causato da uno sparo di arma da fuoco»), che non possono certo considerarsi parti indispensabili per il funzionamento dell’arma (e che la giurisprudenza ha sempre considerato parti d’arma ai fini dell’applicazione delle norme penali)6. Il quadro normativo potrebbe apparire in qualche modo contraddittorio. Peraltro, qualora dovesse accogliersi un’interpretazione letterale della novella, è evidente che parti d’arma, ai fini dell’obbligo di denunzia della loro detenzione, sarebbero solo quelle effettivamente indispensabili al funzionamento della medesima (più i silenziatori) e dovrebbero dunque rivedersi alcuni degli orientamenti giurisprudenziali favorevoli a ricomprendere nella categoria anche componenti idonee esclusivamente ad aumentare la potenzialità offensiva dell’arma, senza impedirne, qualora mancanti, l’operatività propria. In alternativa, dovrebbe approdarsi ad una lettura «relativistica» del requisito di indispensabilità, da intendersi come riferita allo specifico utilizzo cui l’arma è stata dedicata dal suo utilizzatore; interpretazione che però è difficilmente praticabile, laddove oggetto di detenzione sia solo la «parte» e non anche l’arma a cui è destinata. Viene infine in conto la questione, già segnalata in precedenza, della determinazione dell’esatto ambito di applicazione della definizione introdotta nell’art. 1 bis l. n. 527/1992, atteso che la stessa, essendo richiamata, come detto, nell’art. 38 t.u.p.s., influisce sul concetto di parti d’arma evocato nella fattispecie di illegale detenzione di cui all’art. 2 l. n. 895/1967, ma potrebbe non necessariamente riguardare anche le parti d’arma descritte in quella di porto illegale di cui all’art. 4 della stessa legge.
3.3 La nuova disciplina della denunzia delle armi comuni
Una delle più importanti novità introdotte dal d.lgs. n. 204/2010 riguarda la modifica della disciplina della denunzia della detenzione delle armi comuni dettata nell’art. 38 t.u.p.s. Nella sua nuova formulazione il primo comma del citato articolo conserva innanzi tutto l’estensione dell’obbligo a tutte le armi comuni, siano esse armi da sparo o bianche; estensione questa non prevista dalla direttiva europea e che continua a distinguere la legislazione italiana in materia di armi rispetto a quella di altri Paesi dell’Unione europea. Del tutto nuova è invece la precisazione che l’obbligo di denunzia grava anche su chi detenga parti di armi, così come descritte nell’art. 1 bis, co. 1, lett. b), d.lgs. n. 527/1992 e cioè, come si è visto in precedenza, le parti indispensabili al funzionamento dell’arma e comunque la canna, il fusto o la carcassa, il carrello o il tamburo, l’otturatore o il blocco di culatta, nonché ogni dispositivo progettato o adattato per attenuare il rumore causato da uno sparo di arma da fuoco. La novella ha così allineato la norma amministrativa al profilo di quella penale di cui all’art. 2 l. n. 895/1967 – che, come già ricordato, punisce l’illecita detenzione anche delle parti d’arma – prevedendo specificamente l’obbligo di denunziare quest’ultime, ma ha contestualmente ristretto tale obbligo alle parti delle sole armi da fuoco, con esclusione, dunque, di quelle delle altre armi da sparo e delle armi proprie non da sparo. Sempre con riguardo alle cose per la cui detenzione insorge l’obbligo di denunzia, il nuovo testo dell’art. 38 t.u.p.s. menziona, come per il passato, le materie esplodenti e le munizioni. Quanto a queste ultime, la novella ha però precisato che l’obbligo di denunzia riguarda le munizioni «finite», senza peraltro precisare il significato di quest’ultimo termine. La norma non rinvia alla definizione di munizione mutuata dalla direttiva e inserita ora nel d.lgs. n. 527/1992 (e cioè «l’insieme della cartuccia o dei componenti, compresi i bossoli, gli inneschi, la polvere da sparo, le pallottole o i proiettili, utilizzati su di un’arma da fuoco»), ma sembra in qualche modo evocarla, atteso che la stessa identifica espressamente soltanto la munizione completa di tutti i suoi elementi. In tal senso, il legislatore sembra quindi aver voluto ribadire che non deve essere denunciata la detenzione di parti di munizioni per armi comuni (da fuoco) che non siano contemporaneamente anche materie esplodenti (la polvere da sparo): principio che sulla base dell’assetto normativo previgente era comunque già riconosciuto dalla giurisprudenza, la quale escludeva la configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 697 c.p. in riferimento alla detenzione non denunziata di bossoli per armi comuni da sparo, osservando come tale disposizione non sia riferita anche alle parti di munizione7. È stata poi significativamente modificata la disciplina della denunzia. Per il testo previgente dell’art. 38 t.u.p.s. essa doveva essere presentata «immediatamente» dopo l’inizio della detenzione dell’arma, delle munizioni o delle materie esplodenti. Il mancato rispetto della stringente tempistica tracciata dalla norma rendeva il detentore inadempiente all’obbligo di denuncia e conseguentemente illegale la detenzione ai fini dei citati artt. 2 e 7 l. n. 895/1967 e art. 697 c.p. In tale ottica, l’avverbio utilizzato dal legislatore è sempre apparso eccessivamente indeterminato per risultare in grado di svolgere, in sintonia con i principi costituzionali, la funzione di definire la soglia dei comportamenti penalmente rilevanti; indeterminatezza che la giurisprudenza ha cercato di riequilibrare attraverso un’interpretazione ragionevole della tempistica dettata dalla legge per adempiere all’obbligo di denunzia, precisando che presupposto perché quest’ultimo insorga è l’effettiva instaurazione di una relazione stabile con l’arma e riconoscendo al contempo l’esistenza di un tempo di tolleranza, inteso come intervallo intercorrente tra il momento dell’acquisto della stabile disponibilità dell’arma e il primo momento successivo utile per l’effettuazione della denunzia. La novella ha cercato ora di risolvere in maniera radicale l’insoddisfacente definizione della soglia temporale, fissando un termine preciso per la presentazione della denunzia, determinato nel nuovo testo della disposizione in commento in settantadue ore dall’acquisizione della materiale disponibilità delle armi, delle munizioni o delle materie esplodenti. Il termine in oggetto si rivela tendenzialmente superiore a quello di tolleranza mediamente riconosciuto finora dalla giurisprudenza, ma appare tutt’altro che irragionevole o tale da compromettere le esigenze di tutela che l’imposizione dell’obbligo di denunzia vuole soddisfare. Lo stesso restituisce poi le fattispecie penali aventi ad oggetto l’illegale detenzione ad una maggiore aderenza ai principi di tassatività e determinatezza. La formula utilizzata dal legislatore per determinare il momento da cui inizia a decorrere il termine per la denunzia (quello di acquisizione della «materiale disponibilità» delle armi, delle munizioni o delle materie esplodenti) fornisce inoltre una seppur parziale definizione del concetto di «detenzione»: definizione che riflette in larga parte quella elaborata nel tempo dalla giurisprudenza, ma che contiene un elemento di indubbia novità. Infatti, la novella ha precisato che non può esservi detenzione rilevante ai fini dell’obbligo di denunzia se non si è instaurato un rapporto «materiale» tra il detentore e l’arma. Ciò significa che se la detenzione può essere medio tempore anche solo «mediata» – nel senso che medio tempore l’arma può anche non essere nell’immediata disponibilità del detentore senza che questi cessi di essere considerato tale8 – è necessario che la stessa comunque trovi le sue radici nell’instaurazione di una relazione diretta con l’arma e le altre cose menzionate nell’art. 38 citato. Se tale relazione non si è mai instaurata, secondo la lettera della disposizione in commento, non inizia a decorrere il termine di settantadue ore per la presentazione della denuncia e dunque non può perfezionarsi la fattispecie tipica che caratterizza i reati in materia di detenzione illegale. La novella è intervenuta anche sulle modalità di effettuazione della denunzia, attribuendo all’obbligato – in alternativa a quelle tradizionalmente previste e riproposte anche nel nuovo testo della norma – la facoltà di provvedervi per via telematica mediante il sistema informatico GAE, istituito presso il Ministero dell’interno ai sensi dell’art. 3 d.lgs. 25.1.2010, n. 8. Infine, è stato aggiunto all’art. 38 t.u.p.s. un quinto comma che impone l’obbligo di ripetere la denunzia in caso di trasferimento dell’arma in luogo diverso da quello indicato in precedenza all’autorità di polizia, obbligo in realtà già previsto dall’art. 58, co. 3, del regolamento t.u.p.s. (R.d. 6.5.1940, n. 635) in relazione non solo al trasferimento delle armi, ma anche delle munizioni e delle materie esplodenti, norma che la novella non ha provveduto ad abrogare. Le ragioni dell’apparente duplicazione del precetto sembrano ricollegabili alle incertezze insorte in passato in ordine alla qualificazione giuridica della fattispecie di omessa ripetizione della denunzia in caso di trasferimento dell’arma. In proposito, infatti, si sono registrati nella giurisprudenza orientamenti divergenti, formatisi più che altro in relazione alle ipotesi del trasferimento dell’arma in luogo diverso da quello originariamente denunziato, ma appartenente alla circoscrizione del medesimo ufficio di pubblica sicurezza che aveva ricevuto l’originaria denunzia e a quelle di trasferimento dell’arma nel territorio del medesimo comune, ma nella circoscrizione di una diversa ripartizione dell’autorità di polizia. Peraltro, mentre per un più risalente indirizzo l’omessa ripetizione della denunzia integrerebbe in ogni caso la fattispecie di detenzione illegale di armi comuni, oramai il consolidato orientamento dei giudici di legittimità esclude che la stessa fattispecie possa essere iscritta nell’area di tipicità del delitto e ciò in quanto proprio il citato art. 58 del regolamento sarebbe norma speciale rispetto all’art. 38 t.u.p.s. e porrebbe un obbligo autonomo rispetto a quello previsto da quest’ultimo, la cui violazione integrerebbe la contravvenzione di cui all’art. 221 t.u.p.s.9. Il legislatore, inserendo ora nell’art. 38 la previsione dell’obbligo di ripetere la denunzia, sembra invece aver voluto ribadire che il suo inadempimento comporta comunque l’illegalità della detenzione e la conseguente configurabilità del delitto previsto dagli artt. 2 e 7 l. n. 895/1967. Qualora dovesse ritenersi che questa è la corretta interpretazione della modifica introdotta dalla novella, risulterebbe comunque indubitabile che l’aggravamento della qualificazione giuridica della fattispecie valga solo per le condotte consumate dopo la relativa entrata in vigore.
3.4 Storditori elettrici ed armi giocattolo
La novella, modificando il primo comma dell’art. 4 l. n. 110/1975, ha inoltre inserito nell’elenco delle armi proprie non da sparo di cui è vietato il porto fuori dalla propria abitazione senza autorizzazione – divieto la cui violazione integra la contravvenzione di cui all’art. 699 c.p. – anche gli «storditori elettrici» e gli altri apparecchi analoghi «in grado di erogare una elettrolocuzione ». Si tratta di quegli apparecchi di piccole dimensioni, funzionanti a batteria, in grado di erogare una scarica elettrica anche di alcune migliaia di volt (ma a bassissimo amperaggio), dolorosa e in alcuni casi invalidante. Progettati inizialmente come strumento destinato ad usi di polizia, la loro utilizzazione quale mezzo di difesa personale ha iniziato a diffondersi anche in Italia negli ultimi anni. Fin da subito, in assenza di un’espressa disciplina normativa, sono sorti dubbi sulla classificazione giuridica di tali oggetti e si sono registrate nella giurisprudenza oscillazioni circa la rilevanza penale del loro uso. Il d.lgs. n. 204/2010 è infine intervenuto sull’art. 5 l. n. 110/1975 per modificare la disciplina delle armi giocattolo. Innanzi tutto la novella ha provveduto a sostituire la dizione «giocattoli» con il più appropriato termine «strumenti», in grado di essere riferito tanto alle armi giocattolo in senso stretto, che ai cd. simulacri d’arma e cioè gli oggetti privi di attitudine offensiva che per forma, colore e dimensioni possono essere confusi con una vera arma da fuoco, ma che non sono destinati al giuoco infantile. Ed in tal modo il legislatore ha voluto in qualche misura anticipare anche l’attuazione della direttiva 2009/48/CE, la quale vieta di definire giocattoli le riproduzioni di armi da fuoco reali. In secondo luogo, nel quarto comma dell’articolo citato è stato sostituito il secondo periodo, nel quale sono specificate le condizioni di conformità dei suddetti strumenti. Mentre nel testo previgente era semplicemente previsto che l’estremità della canna dell’arma giocattolo dovesse essere parzialmente o integralmente occlusa da un visibile tappo rosso incorporato, il legislatore ha ora dettato una disciplina molto più dettagliata. In particolare, la novella ha stabilito che d’ora innanzi i suddetti strumenti, se realizzati in metallo, debbano avere la canna completamente ostruita in modo da non poter incamerare cartucce, nonché occlusa all’estremità da un tappo rosso inamovibile. In tal modo, dunque, sembra che il legislatore abbia voluto escludere dalla disciplina in commento i giocattoli veri e propri e cioè le riproduzioni di armi destinate al giuoco dei bambini realizzate normalmente in materiali diversi dal metallo; conclusione confermata dal fatto che nel nuovo testo della norma è stato anche introdotto l’obbligo di sottoporre a spese dell’interessato gli strumenti di cui si tratta a verifica di conformità accertata dal Banco nazionale di prova e riconosciuta con provvedimento del Ministero dell’interno, previsione che apparirebbe scarsamente comprensibile se riferita anche ai giocattoli costruiti in plastica o legno. È stato poi disposto che per gli strumenti da segnalazione acustica, destinati a produrre un rumore tramite l’accensione di una cartuccia a salve (ad esempio le pistole cd. «scacciacani»), l’occlusione della canna sia realizzata mediante un inserto di metallo e il posizionamento del consueto tappo rosso inamovibile alla sua estremità. Va infine ricordato che la novella ha altresì modificato il secondo comma dell’art. 4 l. n. 110/1975, inserendo nell’elenco degli oggetti atti ad offendere dei quali è vietato il porto fuori dall’abitazione senza giustificato motivo anche gli strumenti riproducenti armi di cui si è testé detto, nonché alcune tipologie di puntatori laser o di oggetti con funzione di puntatori laser.
1 Cass. pen., 9.7.1981, n. 120.
2 Si veda, ex multis, Cass. pen., 4.7.2008, n. 35648.
3 Si veda, ex multis, Cass. pen., 22.9.1989, n. 17105.
4 Si veda, ex multis, Cass. pen., 12.12.2007, n. 5329.
5 Si veda Cass. pen., 23.4.1990, n. 9817.
6 Si veda Cass. pen., 8.11.2007, n. 42291.
7 Si veda Cass. pen., 9.3.2001, n. 17275.
8 Si veda, ex multis, Cass. pen., 19.3.1993, n. 1169.
9 Si veda Cass. pen., S.U., 24.3.1984, n. 6176 e, da ultimo, Cass. pen., 2.4.2008, n. 17808.