Nuove tendenze e orientamenti delle teologie cristiane
Il panorama teologico del 20° sec. è stato dominato, sul versante cattolico, dalla neoscolastica e dalle in-novazioni teologiche legate ai nomi della nouvelle théologie – fra i quali Henri-Marie De Lubac, Marie-Dominique Chenu, Yves Congar – e a personaggi come Karl Rahner o Hans Urs von Balthasar. Sul versante evangelico spiccano, fra gli altri, i lavori di Karl Barth, di Rudolf Bultmann e di Jürgen Moltmann. Nell’ambito della teologia ortodossa si può ricordare Sergej Bulgakov. All’inizio del 21° sec., la teologia cristiana presenta un volto mutato. Quali ne sono i motivi? E quali gli effetti?
Cambiamenti e persistente identitàdella teologia
Uno spazio nuovo
Lo spazio in cui la teologia agisce è cambiato. Le grandi opere teologiche del 20° sec. erano nate tutte nel territorio d’origine della teologia, e cioè la Chiesa cattolica e ortodossa o le tradizioni delle Chiese della Riforma; esse erano costruite assumendo in pieno i dati della tradizione, che venivano approfonditi e rielaborati con gli strumenti concettuali e i principi ermeneutici moderni. In questo senso, il campo d’azione di quei teologi era principalmente l’area dell’opinione pubblica delle rispettive Chiese. Solo nella seconda metà del 20° sec., con la nascita del dialogo ecumenico, si assistette al formarsi di una teologia operante nell’orizzonte più ampio delle Chiese.
In ultima analisi, la teologia non è in sostanza altro che l’elaborazione della ratio fidei, cioè l’esposizione e la comunicazione pubblica della fede. Ora, rispetto alla situazione del 20° sec., lo spazio in cui la teologia rende conto della fede si è trasformato. Nell’opinione pubblica, che si alimenta soprattutto di messaggi trasmessi attraverso i mezzi di comunicazione così come sono oggi intesi, si può distinguere, in primo luogo, l’opinione pubblica della società, in cui si raccolgono e interagiscono le culture, gli Stati e le società civili; in secondo luogo, il mondo delle religioni e delle Chiese, e insieme quello costituito da visioni diverse come i vari laicismi e ateismi, che consente la compresenza di tante concezioni di vita e interpretazioni della storia pur con tendenze fra loro antagoniste; e infine, l’universo delle scienze. In questi differenti spazi, che si compenetrano fra loro ma interpretano – ciascuno a proprio modo – la realtà, si collocano le singole religioni e Chiese.
Questa nuova opinione pubblica, che comunica soprattutto per via mediatica e che nella sua diffusione globale porta l’impronta della moderna tecnologia della comunicazione, ha modellato – insieme con la società – gli uomini d’oggi. Li ha proiettati in quanto persone in una dimensione comunicativa a raggio mondiale, ha messo a disposizione nuove forme di espressione e comunicazione e ha aperto all’individuo nuovi ambiti di possibilità decisionali. Di conseguenza si sono modificate anche le relazioni del soggetto. In particolare, è cambiata profondamente la posizione dell’uomo rispetto alla tradizione: egli non è più immerso come prima in una tradizione accettata in maniera indiscussa, ma si muove dentro orizzonti problematici notevolmente più vasti rispetto alle generazioni precedenti. Da ciò risultano fondamentalmente due pericoli: da una parte, la ricerca affannosa di una bussola per la storia e la vita nel solco della tradizione, una ricerca che sfocia facilmente in una qualche forma di tradizionalismo; dall’altra, un orientamento infotainement, diffuso dai media e sempre gravato dagli interessi economici, con l’annessa preoccupazione dell’apparire a ogni costo, fortemente legato all’attimo fuggente. La teologia deve prendere atto seriamente di queste nuove relazioni del soggetto.
La nuova forma del dare conto della fede
Tuttavia non è cambiato solo lo spazio – ora di portata mondiale – in cui la teologia deve dar conto della fede. È cambiata anche la forma del dare conto, che si è modificata a seguito dell’accresciuta complessità metodologica delle scienze moderne. Negli ultimi decenni del 20° sec. non si è solo sviluppato e articolato in varie branche specialistiche lo strumentario metodologico delle filologie, delle scienze storiche e culturali, ma si sono anche ristrutturate le metodologie delle scienze della comunicazione e dell’azione, nonché delle scienze cognitive. A questi processi corrispondono – in vario modo – nuovi approcci metodologici nel campo della biologia, delle scienze della vita in genere, e della medicina, e lo sviluppo di altri metodi di ricerca nelle scienze naturali. Infine, un’accresciuta complessità di metodi si riscontra anche nel lavoro filosofico. Il fare filosofia oggi conosce certe formazioni scolastiche tradizionali, ma insieme si è diversificato in tanti tipi di ricerca filosofica, con un elevato grado di specializzazione: si hanno così la filosofia del linguaggio e la fenomenologia, l’ermeneutica e la filosofia analitica, impostazioni di pensiero trascendentali e modi di pensare postmoderni – per citarne solo alcuni.
Di fronte a un’impostazione in qualche modo a due dimensioni – teoria e prassi – della teologia neoscolastica e al riferimento unilineare alla filosofia tomistica spicca una razionalità filosofica che si può chiamare pluridimensionale, alla cui sfida la teologia non può sottrarsi nel suo sforzo di elaborazione della ratio fidei. Entrambi gli aspetti sopra ricordati conferiscono alla teologia una nuova impronta, articolata in scienze bibliche, storia della Chiesa o storia del cristianesimo, teologia sistematica, teologia morale ed etica sociale, nonché teologia pastorale, scienza liturgica e diritto canonico. Questa nuova impronta è caratterizzata dai due elementi di seguito specificati.
a) Con il mutamento dello spazio dell’opinione pubblica e con la complessità degli approcci metodologici alla realtà, la teologia ha ricevuto nuovi punti di riferimento. I nuovi spazi o campi d’azione di cui si è parlato propongono alla teologia di rendere conto dei punti di riferimento della fede, punti prima inesistenti. Fintanto che la teologia era concepita essenzialmente in funzione della propria Chiesa, le altre religioni e Chiese o i non credenti erano percepiti semplicemente in chiave apologetica ed erano quindi estromessi, non costituivano positive istanze di riferimento. Nel momento in cui la teologia deve rendere conto della fede nell’ambito della società, nel mondo delle religioni, delle Chiese e di altre concezioni del mondo, e nell’universo delle scienze, essa può sviluppare il proprio specifico soltanto se include tematicamente la questione del rapporto della fede e della comunità di fede con la società, con le altre religioni e Chiese, con il mondo delle scienze, con le culture e così via. La teologia è oggi tenuta a riflettere contemporaneamente, in tutte le singole questioni, sui nuovi rapporti, che sono divenuti per essa costitutivi a causa della mutata opinione pubblica. Ciò significa che, per es., la teologia sistematica, nel momento in cui propone l’immagine cristiana dell’uomo, non può prescindere dai risultati delle ricerche delle scienze biologiche. E in temi centrali come la cristologia, non può prescindere dalla visione e interpretazione ebraica o musulmana di Cristo. Se facesse ciò, si chiuderebbe in un ghetto e tradirebbe il proprio compito di rendere conto pubblico della fede.
b) I nuovi approcci metodologici alla realtà fanno emergere visioni più complesse dei contenuti teologici. Le realtà estetiche, per es., si manifestano all’interprete odierno in una pluralità di dimensioni. Corrispondentemente la liturgia, in quanto problema teologico, dev’essere vista in maniera più complessa di quanto non fosse ai tempi della protomodernità o del Medioevo. Un’opera letteraria viene percepita, analizzata e valutata – sulla base delle questioni metodologiche che l’attuale scienza letteraria solleva – in modo sostanzialmente diverso da come era vista nella prima età moderna. Un’opera letteraria, dunque, riveste in sé stessa una forma complessa che è nuova. E questo vale anche per gli scritti del Vecchio e del Nuovo Testamento. In sintesi: la storia biblica non appare più come un semplice flusso narrativo, ma appare strutturata in maniera ricca e variegata come un ‘tappeto artistico’. Questa novità dei contenuti teologici emerge tanto per induzione ‘dall’esterno’ quanto per ‘approfondimento dall’interno’, cioè grazie alla percezione dei contenuti di fede attestati. Il Concilio Vaticano II formula così tale esperienza: «Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo; cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse [...]» (Dei Verbum, Constitutio dogmatica de divina revelatione, 8, 1965).
Identità permanente e unità della teologia
Se i punti di riferimento della teologia, i suoi metodi e i suoi contenuti si sono modificati, sia per induzione dall’esterno sia per comprensione dall’interno, sorge allora inevitabilmente la domanda circa la permanente identità della teologia. In questa ottica, infatti, la teologia non diventa forse semplicemente un epifenomeno della cultura? La teologia espone la ratio fidei, rende conto pubblico della fede. Questo è un punto che rimane fermo anche per le nuove tendenze che si profilano in essa: su ciò bisogna riflettere. Il credente crede qualcosa: Dio, creatore e conservatore dell’universo ha scelto Israele come suo popolo; la sua Parola eterna è diventata carne in Gesù di Nazaret e ha redento il mondo; il suo Spirito costruisce la comunità dei credenti, la Chiesa. La fede significa contenuti. È ciò che si indica tradizionalmente in teologia con l’espressione fides quae creditur, ciò che il credente crede ed è racchiuso nella confessione di fede. Da tale concezione della fede va distinta la fede come atteggiamento, come atto dell’uomo: fides qua creditur. L’atteggiamento di fede e l’atto di fede sono orientati da ciò che viene creduto: Dio, il suo creare, rivelare, salvare, redimere.
Nella misura in cui la teologia deve dare conto pubblico della fede, essa si riferisce in toto a Dio, sia dal punto di vista dei contenuti sia nella sua organizzazione formale. Questo costituisce il nocciolo, l’elemento di identità e permanenza della teologia nella storia. Da qui la teologia riceve la sua unità e identità duratura nella storia.
Presupposto per la possibilità della teologia cristiana in quanto ‘fare’ scientifico, cioè razionale e in ricerca, è il fatto che Dio non sta all’esterno di fronte al mondo, all’uomo, alla storia, ma attraverso la creazione e la storia della salvezza si è donato: Egli incontra l’umanità nella storia di Israele, nella parola e nell’opera di Gesù, nella sua passione e crocifissione, nella Chiesa. A questa affermazione corrisponde l’altra: Dio si è immischiato nelle storie reali, profane. Le due proposizioni tematizzano la medesima realtà, ma secondo una diversa prospettiva, esse parlano dell’autorivelazione di Dio. La prima proposizione esprime l’assunzione della realtà del creato nell’identità di Dio; la seconda, l’assunzione della realtà divina nella identità del creato. E qui resta implicito che nella realizzazione delle rispettive identità la differenza fra Dio e il creato rimane e si dispiega in maniera nuova.
Questa descrizione astratto-concettuale dell’autorivelazione di Dio non è altro che una formulazione strutturale delle affermazioni neotestamentarie sul presente e sulle relazioni del Padre, del Figlio e dello Spirito nell’accadere della salvezza (si pensi, per es., a espressioni come «Io e il Padre siamo una cosa sola», Gv. 10, 30; o a designazioni di Gesù come «Figlio di Dio», «Cristo» nel Nuovo Testamento). Tommaso d’Aquino ha cercato di articolare concettualmente questo accadere parlando di Dio come prima veritas, la prima verità. Dio come «prima verità» è per Tommaso radicalmente distinto da tutte le verità categoriali. Egli è la «prima verità» in quanto «è la verità stessa, che può manifestarsi o brillare (manifestabilis) e rende tutto manifesto (manifestativa omnium)» (Evangelium Johannis i, lectio 2,1). In queste parole è riassunto il doppio modo di identificazione e la differenza che continuamente si dispiega fra Dio e il creato in Cristo, e nei credenti. Bonaventura si è avvicinato a questa automanifestazione nel creato e nella storia con il suo concetto di ars aeterna (Collationes in Hexaemeron). Niccolò Cusano ha parlato di Dio come non aliud (De non aliud). Nel suo cantico (B 14), Giovanni della Croce dice lapidariamente: «Dios es Dios y las creaturas», esprimendo insieme identità e differenza.
In tutte queste affermazioni Dio viene indicato come colui che è «avanti a tutto», «più grande di quanto possa essere pensato» (Anselmo, Proslogion, C, XV). Egli rende tutto possibile e tutto sostiene, è «intimior intimo meo; in me – supra me» (Agostino, Confessiones). Allo stesso tempo, egli è colui che può passare nell’Altro da sé, darsi in dono, senza diventare possesso delle creature, senza entrare nella loro disponibilità. Questa visione è stata sviluppata in modo particolare da von Balthasar (1905-1988) e dalla sua riflessione fondamentale su Dio a partire dall’idea di libertà e amore.
L’elemento di novità, rispetto alle forme tradizionali appena ricordate, è che nella teologia odierna la questione di Dio viene ricondotta principalmente alla problematica della rivelazione e della prassi. Ciò è dovuto, non da ultimo, al fatto che nella filosofia moderna hanno acquistato particolare importanza il problema della storicità e la conoscenza delle modalità in cui la realtà viene tradotta nel linguaggio e nell’azione. Così pure il dibattito con gli attuali studiosi atei o con coloro che rifiutano il monoteismo biblico non si concentra tanto sulla discussione dei singoli argomenti delle prove di Dio come accadeva ancora all’epoca di Immanuel Kant (1724-1804). Più importanti sono dei ragionamenti globali in termini scientifici e filosofici, che mettono in discussione la fede biblica (v. J. Assmann, Moses, der Ägypter, 1998; trad. it. 2000).
Da quanto fin qui detto, si comprende che il lavoro della teologia è fortemente segnato dalla questione metodologica, tanto nelle singole discipline quanto nella teologia nel suo complesso, anche in conseguenza del fatto che le scienze umane contestano spesso il carattere scientifico della teologia. A questo proposito, è opportuna una considerazione: ciò che differenzia la teologia dalle scienze dello spirito non è il fatto che essa non usa con uguale rigore le metodologie delle varie scienze, bensì la prospettiva formale adottata dalle discipline teologiche, in base alla quale esse cercano di leggere tutta la realtà a partire da Dio e in riferimento a lui. Tale prospettiva formale non è scientificamente dimostrabile né falsificabile e non esclude la discussione scientifica della realtà. Da questa prospettiva formale, inoltre, derivano diversi comportamenti umani e specifici modi di accesso alla realtà.
Nel prosieguo verranno messe in evidenza dapprima le modificazioni importanti che si registrano nelle discipline centrali della teologia, in cui più evidenti appaiono i cambiamenti per la teologia del 21° secolo. Nella parte conclusiva si ritornerà su alcuni problemi trasversali, che toccano le discipline teologiche nel loro insieme.
Nuovo orientamento dell’esegesidel Vecchio e del Nuovo Testamento
Fino all’ultimo decennio del 20° sec. la scienza biblica fu segnata dal programma di lavoro dettato dal metodo ‘storico-critico’. L’interesse era centrato sulla scoperta dei primi strati dei vari gruppi di testi e sulla questione dell’origine di ogni porzione di testo. I risultati conseguiti furono notevoli: fu possibile riconoscere diversi strati testuali e definire gli ambienti in cui ebbero origine. Furono individuate le differenze che si annidavano nei testi. In questo lavoro d’indagine, passò spesso in secondo piano la questione del contenuto e del significato dei testi stessi. In molti casi, c’era al fondo la convinzione che il testo più antico o lo strato testuale più originario esprimesse il vero senso del gruppo testuale in questione, mentre le formulazioni successive ne attestavano la successiva ricezione, ed erano quindi secondarie, influenzate da altri contesti, da difficoltà di comprensione ecc. (per il Nuovo Testamento, H. Küng ha esposto e rappresentato in forma estrema questa concezione in Christ sein, 1974, pp. 137-57; trad. it. 1976).
Senza ignorare le differenze messe in luce dal metodo storico-critico, a partire dagli Stati Uniti si è affermato ora un nuovo tipo di ricerca biblica. L’esegesi è intesa sempre più come scienza del testo: essa considera il testo da interpretare tanto sul piano della sua origine quanto sul piano dei lettori. Per la moderna scienza biblica, la Bibbia non è semplicemente uno strumento per la trasmissione di informazione; essa manifesta invece, nel suo uso, una serie di relazioni, e solo così rivela il suo senso. E qui assume una rilevanza tutta particolare il tema del canone degli scritti biblici: alla base del costituirsi del canone non ci fu solo l’individuazione e la stabilizzazione dei testi nella loro forma scritta. La formazione del canone presuppone invece Israele o la Chiesa come comunità di tradizione e determina allo stesso tempo l’uso appropriato dei testi prescelti: segnala le istruzioni per il futuro trasmesse dalla tradizione, include i lettori nella stessa comunità di tradizione e li orienta. Questo processo abbraccia i singoli lettori e la comunità di tradizione con le sue autorità quali si presentano nel concreto momento attuale. Qual è allora il compito dell’esegesi in questo contesto? L’esegesi deve scoprire la storia dell’origine del testo nella sua struttura complessa, e spiegare il testo stesso, che costituisce un’entità a sé stante. L’esegesi deve mettere in luce la relazione del testo con il lettore, una relazione che si dispiega proprio nella storia dell’azione da esso svolta e della sua ricezione. Questo è in sé un lavoro critico: e perciò, per es., la storia dell’origine dev’essere messa al riparo da strozzature fondamentalistiche e da posizioni dogmatiche; il testo va salvaguardato dai fraintendimenti che possono essere prodotti da annotazioni incongrue o da estrapolazioni dal contesto; nell’illuminare la storia della ricezione, bisogna che il testo sia tutelato da fissazioni unilaterali; dev’essere garantita l’inclusione specifica dei lettori e della rispettiva comunità di comunicazione. Con questa nuova visione degli scritti biblici, l’esegesi teologica è diventata più faticosa. Essa si trova, in pratica, all’inizio di un nuovo cammino di spiegazione del Vecchio e del Nuovo Testamento (ci sono già alcuni pregevoli esempi, come lo Herders theologischer Kommentar zum Alten Testament a cura di Erich Zenger, edito a partire dal 1999).
Da questo nuovo approccio nell’esegesi derivano naturalmente una serie di questioni specifiche, che non riguardano solo il metodo, ma toccano in modo nuovo problemi di contenuto, per es. la cristologia o l’Eucaristia, ma anche temi vetero-testamentari, come la teologia del patto.
Storia della Chiesa
All’inizio del 19° sec., nell’ambito della Scuola cattolica di Tubinga, fu coniato il motto secondo cui la teologia doveva guardare fondamentalmente con due occhi, l’occhio storico e l’occhio sistematico. Il che significava all’epoca l’introduzione nella teologia dei criteri e metodi moderni che andavano affermandosi nelle scienze storiche e la riformulazione del pensiero sistematico, passando da un astratto dedurre scolastico a una riflessione sistematica aperta alla storia. Nel campo della storia della Chiesa come disciplina teologica ciò portò durante il 19° e il 20° sec. a una serie di opere rappresentative, a cominciare dalla storia dei concili di Hefele, alle grandi ricerche nel campo della storia dei dogmi e alle opere globali di storia della Chiesa fino agli studi complessivi sull’archivio della Congregazione della fede, un progetto di Hubert Wolf.
Quali sono le nuove tendenze e prospettive all’inizio del 21° secolo? I nuovi metodi della ricerca di storia sociale e culturale, di storia della mentalità, di storia contemporanea hanno portato, nell’ambito della storia della Chiesa, a indagini focalizzate sulla storia della devozione, quali prima non esistevano in questa forma. Tale sviluppo ha aperto gli occhi anche sullo studio dell’ambiente cattolico: accanto a una storia della Chiesa orientata decisamente verso le strutture istituzionali, le autorità e le singole personalità carismatiche, e insieme attenta all’influenza reciproca con lo Stato e la politica, diventa ora centrale l’interesse per il cristianesimo – al di là dei confini della Chiesa confessionale – nella sua ricca fioritura di forme di vita e tendenze. Sull’onda di questa evoluzione sono emersi elementi per una prima formulazione della storia della Chiesa contemporanea, la cui importanza appare evidente, per es., nella discussione sulla storia del Concilio Vaticano II.
Con l’adozione delle metodologie della storia sociale e culturale divengono anche interessanti e rilevanti in modo nuovo fenomeni quali le Chiese orientali, gli sviluppi della pastorale, ma anche le realizzazioni delle discipline teologiche, ottenute con l’innesto in esse della storia culturale contemporanea. Essi non solo offrono un’immagine sostanzialmente più dettagliata della storia, ma insieme consentono anche una migliore contestualizzazione di importanti pronunciamenti del magistero della Chiesa o di interpretazioni teologiche e della nascita di istituzioni che marcano il corso della storia della Chiesa.
Queste ricerche e aperture sono di particolare importanza in considerazione della riforma della istruzione superiore (nata nel 1999), che va sotto il nome di processo di Bologna e riguarda anche la teologia. Un importante elemento di tale riforma degli studi consiste nell’articolazione in moduli dei contenuti dei corsi, attraverso la quale si cerca di inserire con maggior forza i temi teologici nel loro contesto di vita. Ciò significa che essi devono essere inquadrati nelle loro implicazioni ecclesiastiche, di storia delle devozioni e culturali. L’articolazione in moduli è resa possibile soprattutto dalle mutate metodologie storiche, e sotto la sua spinta si rivela la necessità che anche gli studiosi delle altre discipline teologiche comincino a dare più spazio, nella riflessione sulle loro tematiche, alla dimensione storica.
Teologia fondamentale
Fino a un passato molto recente la teologia fondamentale era considerata come una disciplina teologica cattolica, senza alcuna corrispondenza nel campo della teologia evangelica. Le problematiche classiche della teologia fondamentale cattolica – la demonstratio religiosa (dimostrazione razionale fededegna dell’esistenza di Dio), la demonstratio christiana (dimostrazione che Dio si è rivelato in Gesù Cristo e, in via preliminare, nel Vecchio Testamento), la demonstratio catholica (dimostrazione che la Chiesa è il risultato di questo processo di rivelazione ed è quindi degna di fede) – si scontravano con grandi riserve, quando non con un totale rifiuto, da parte della teologia protestante, poiché la teologia fondamentale cattolica era vista in stretto collegamento con il Concilio Vaticano I. Solo con teologi come Gerhard Ebeling (1970), Wilfried Joest (Fundamentaltheologie. Theologische Grundlagen und Methodenprobleme, 1974,19812), Wolfhart Pannenberg (1973), si è arrivati a un riavvicinamento. In tempi più recenti si assiste all’elaborazione di problematiche e riflessioni comuni.
Fra le problematiche che possono essere affrontate grazie a una simile cooperazione, vi sono quella della rivelazione di Dio e quella della verità nel contesto attuale. Decisivo, a questo riguardo, è determinare che cosa significhi la rivelazione di fronte al modo moderno di intendere la ragione, che deriva sostanzialmente dalla concezione dell’uomo come soggetto. Se la ragione non è intesa soltanto come forza sintetica dell’uomo, ma come istanza autonoma del porre e del costruire, allora la razionalità si presenta essenzialmente come un processo infinito di approssimazione, portato avanti tramite successive falsificazioni. Ma a questo punto a diventare criteri di ‘validità’ sono i valori d’uso e di funzionalità. Di conseguenza, la fondamentale pretesa avanzata dalla rivelazione – di essere cioè la verità dell’uomo e del mondo – viene respinta nel regno delle favole. La questione è, al fondo, quella dell’immanente riferimento della ragione al dato storico, e quindi anche la questione della storicità del pensiero e della struttura dell’essere.
Strettamente connessa è la problematica del comprendere: dell’autocomprensione degli uomini, della comprensione del mondo, degli interessi guida, dell’orizzonte di vita e di esperienza, che è sostanzialmente anche un orizzonte di attesa. Le regole ermeneutiche comunemente accettate, valide per tutti i fenomeni del comprendere e del parlare, permettono in generale un discorso sulla rivelazione di Dio? Come, con questa concezione della ragione e dell’ermeneutica, possono essere pensati plausibilmente l’evento e le testimonianze della rivelazione? Queste domande diventano ancora più pungenti quando si guardi al senso della prassi umana e alla sua importanza per la comprensione e l’esperienza della realtà. La spinta decisiva a porre con particolare incisività questi interrogativi è stata impressa dalla filosofia postmoderna.
Di fronte a tematiche pubbliche come queste tanto la teologia cattolica quanto quella evangelica sono sfidate a recepirle nell’ambito della teologia fondamentale. Le risposte a cui si lavora, cercano di rendere plausibile la rivelazione prendendo atto della soggettività di ogni uso della ragione, della storicità dell’ermeneutica e dei problemi connessi. Cercando così di reagire, la teologia si assume il compito di difendere l’unità della realtà, e insieme la distinzione essenziale fra verità e non verità nel pensiero come nella lingua. È questo orientamento della teologia fondamentale che, nel corso del 20° sec., ha portato alla formazione delle cosiddette teologie aggettivate: teologia politica (Johannes Baptist Metz), teologia femminista, teologia della liberazione, teologie dell’inculturazione africana e asiatica, teologia delle religioni. Questa linea di sviluppo sicuramente si approfondirà nel corso del nuovo secolo.
Nuovi indirizzi e compitidella teologia dogmatica
I nuovi indirizzi che si profilano nell’ambito della teologia dogmatica sembrano a prima vista andare in direzioni opposte. C’è da una parte la tendenza a intendere la dogmatica o teologia sistematica – come viene designata correntemente nella teologia evangelica – come un’autoillustrazione introversa della Chiesa e del cristianesimo con l’occhio attento al mondo in rapida trasformazione. In questo senso, alla dogmatica viene assegnato un compito puramente funzionale: servirebbe all’adattamento e alla sopravvivenza della Chiesa. Così l’aveva già caratterizzata Niklas Luhmann (1927-1998; Funktion der Religion, 1977, in partic. pp. 174-81; trad. it. 1991). Tale concezione funzionale trova espressione in varie opzioni, come nell’affermazione dell’incondizionato primato della ‘ortoprassia’ rispetto alla ‘ortodossia’, nella drastica affermazione per cui i dogmi avrebbero una valenza puramente pragmatica come formule di consenso per la conservazione di un’identità storica e sociale. La dogmatica non sarebbe altro, in pratica, che ‘teologia della cultura’. Ma la caratteristica funzionale appare riconoscibile anche laddove, assumendo un’astratta theologia negativa che si richiama a una ‘verità di Dio’ essenzialmente non afferrabile, la dogmatica viene snaturata in una quantità di immagini e rappresentazioni umane a impronta etica. In tal modo viene a mancare ciò che rende la dogmatica un dato tipico della fede cristiana, che non esiste nell’islam o nel buddhismo: l’automanifestazione di Dio in Gesù Cristo, attestata nella Sacra Scrittura, richiede alla comunità dei credenti unicamente che rifletta e renda comunicabile la forma storica della rivelazione, cioè la formuli concettualmente e la definisca tenendo conto dei nuovi contesti contemporanei. I dogmi, le proposizioni dogmatiche, pertanto, non fanno altro che dichiarare e articolare in parole la verità della rivelazione, senza scioglierla nel relativo concetto. Il presupposto di tutto questo è l’idea dell’autorivelazione di Dio di cui si è già parlato. Solo in questo modo la Chiesa può rimanere comunità di confessione e comunità evangelizzante attraverso i tempi.
La tendenza che va in direzione opposta, invece, mira a proteggere la rivelazione di Dio da ogni relativizzazione e livellamento. Per questo, spoglia i più importanti insegnamenti dogmatici del loro carattere storico. In tal modo, i pronunciamenti dogmatici dei concili vengono semplicemente equiparati alle affermazioni della Scrittura, ignorando il fatto che essi esprimono in parole, certo, lo stesso mistero, ma in una differente ‘forma di pensiero’. La ‘forma di pensiero’ della rivelazione quale è formulata dai concili va conservata nella memoria perché consente di affermare che il consenso di fede della Chiesa, in un determinato tempo, è identico a quello delle origini apostoliche. Le forme di pensiero della rivelazione rimangono ‘valide’ per la Chiesa peregrinante anche in tempi successivi, perché in esse è testimoniata l’unica fede della Chiesa. Al contempo, l’originaria ‘forma’ apostolica della testimonianza di fede resta diversa dagli insegnamenti dogmatici successivi.
Le difficoltà per la dogmatica, che qui si evidenziano e che richiedono un’approfondita riflessione, sono dovute fondamentalmente al fatto che essa ha operato finora nell’ambito di una storia intellettuale dominata dal ‘pensiero metafisico’, cioè da un modo di pensare, tipico di una certa epoca, in cui era data per scontata la possibilità di sistematizzazione di principio delle conoscenze e pretese di verità. In passato, nella sua elaborazione concettuale della rivelazione, la dogmatica ha potuto richiamarsi a un simile apparato di concetti condivisi, ma nella filosofia contemporanea questo presupposto non è più universalmente accettato. Se oggi si parla di filosofia ‘postmetafisica’, ciò non vuol dire necessariamente che si rifiuti la possibilità che il pensiero ponga domande al di là dei confini del pensiero stesso. Semplicemente si dichiara impossibile ottenere risposte vincolanti a tali domande. Ci sono filosofi che, stante l’impossibilità di raggiungere delle risposte, considerano inammissibili le stesse domande. Ma ci sono anche filosofi che, nei problemi che si impongono alla mente, vedono delle indicazioni, quasi degli ammonimenti, a riflettere su di essi, anche se non si può arrivare a delle risposte: la dogmatica si orienterà verso le riflessioni filosofiche di quest’ultimo tipo. Essa comunque non presuppone Dio come principio ‘metafisico’, cioè come principio di costruzione di una sistematizzazione intellettuale della realtà. Per la teologia Dio non è solo id quo maius cogitari nequit (ciò di cui non si può pensare nulla di più grande), ma maius quam cogitari potest (qualcosa che è più grande di tutto ciò che posso pensare). È questa indisponibilità per il pensiero, che è implicata nei tradizionali concetti di Dio sopra ricordati (veritas prima, non aliud ecc.). Bernhard Welte (1906-1983) e Klaus Hemmerle (1929-1994) hanno descritto il pensiero che medita in questo modo sulle indicazioni e gli ammonimenti imposti dai problemi, come un pensiero ‘che lascia’, un pensiero che non ‘afferra’, che non vuole cogliere, un pensiero che sperimenta sé stesso come accordato, concesso. Essi parlano di una ‘conversione’ del pensare.
Vista così, la dogmatica funge nel complesso da avvocato dell’unità e significanza della realtà, e cioè del mistero di Dio: è un’unità e significanza che si manifesta al pensiero nella fede, nella speranza e nell’amore e brilla davanti al pensiero come degna di fede. Di qui il compito di far muovere verso un cammino comune le dogmatiche nate nelle tante grandi aree culturali, segnate dalle relative tradizioni di pensiero, in modo che le verità fondamentali della fede si manifestino nella convergenza delle forme di pensiero teologiche.
È questa la sfida principale per la dogmatica del 21° secolo. A tale sfida si aggiunge anche il compito di integrare nel lavoro teologico la pluralità degli accessi alla realtà e la complessità dei metodi, così da poter formulare appropriate dottrine dogmatiche che spazzino via i possibili fraintendimenti e le strozzature derivanti da un impiego non illuminato e acritico delle tradizionali proposizioni di fede. Questo risultato potrà essere ottenuto solo se la dogmatica prenderà sul serio le sopra menzionate grandi aree culturali con le rispettive tradizioni storiche e introdurrà i loro apporti in processi di traduzione per altri spazi vitali culturalmente e storicamente diversi.
Teologia morale ed etica sociale
La problematica davanti alla quale si trovano la teologia morale e l’etica sociale cristiana all’inizio del 21° sec. è enorme. La globalizzazione dell’economia, della tecnica, dei mezzi di informazione, e l’imprevista crescita delle possibilità di controllo sulle basi biologiche della vita hanno come conseguenza che le posizioni o le decisioni amministrative, tecniche, politiche dispiegano effetti anche nei più vari aspetti della vita, e spesso a raggio mondiale. Non è un caso che in molti Paesi siano state istituite commissioni etiche con funzione consultiva in vista delle decisioni politiche. In esse si cerca di valutare le conseguenze della tecnica e della scienza e di giudicarle dal punto di vista etico.
Allo stesso tempo, il nostro presente è segnato dal fatto che l’ethos vissuto nelle differenti culture e nei diversi continenti si presenta come molto diversificato. Le questioni relative alla fondazione filosofica dei principi etici vengono giudicate in modo divergente. Norme etiche universali o globali, come, per es., i diritti umani, si affermano solo a poco a poco. A complicare la situazione si aggiunge il fatto che con l’avanzamento della scienza, della ricerca e della tecnica si creano ambiti che richiedono un ethos altamente specializzato in tutti quelli che in essi lavorano o vivono.
Di qui la necessità di ripensare e chiarire le questioni fondamentali della teologia morale e dell’etica sociale. Vale la pena rilevare a questo riguardo che si trovano nella tradizione vari punti che, grazie alle loro convergenze, possono essere recuperati al fine di elaborare l’attuale ratio boni. Così, il concetto di diritto naturale ha acquisito una nuova valenza, o comunque si presenta in una versione modificata, che si distingue criticamente dal concetto stoico-medievale di natura, quale è usato, per es., da Tommaso d’Aquino: l’idea di diritto naturale viene oggi proposta in una forma che si ispira a Kant. Così pure, la dottrina della virtù riceve oggi nuova attenzione. Grazie a essa sarà forse possibile avviare un processo di convergenza di diverse forme vissute di ethos. Altri elementi sono offerti, per es., dalle teorie della giustizia, come quella di John Rawls (1921-2002); dall’etica del discorso, come quella proposta da Jürgen Habermas (n. 1929); o dalla riflessione sugli approcci ermeneutici, come quella sviluppata da Paul Ricoeur (1913-1925), primi passi di un’etica narrativa. La pluralità degli approcci per la fondazione della normatività corrisponde alla situazione sopra descritta, definita come postmoderna, ‘postmetafisica’. In essa si riflette l’impossibilità di una sistematizzazione teologico-morale ed etica per così dire unilineare, che può reggere logicamente solo se si parte da un principio unico. Dalla irrevocabile pluralità degli approcci si dipartono alcune linee di convergenza, che fanno della teologia morale e dell’etica un insegnamento sapienziale; di questo appunto deve occuparsi la teologia morale, cioè di individuare le linee di convergenza e integrarle in orientamenti sapienziali, umanitari. Una simile ottica sapienziale comprende, per la teologia morale e l’etica sociale cristiana, norme di principio assolutamente univoche riguardo a fondamentali problemi etici, che nell’attuale situazione sociale attendono soluzione.
Anche per la teologia morale e per l’etica sociale cristiana vale quanto detto sopra, e cioè che si è creato un gran numero di aree di lavoro, che rendono necessaria una specializzazione dei singoli teologi morali o etici. Non a caso ne è derivata una nuova organizzazione della ricerca e degli studi: in tempi recenti sono stati avviati una serie di progetti di ampio respiro, che uniscono le competenze di gruppi di ricercatori: così, per es., un progetto sul complesso dell’etica degli affari o uno sulla solidarietà globale. Questi progetti si occupano di problemi che spaziano dalla bioetica all’etica dell’economia. La caratteristica di tali forme di elaborazione è la loro interdisciplinarità: i teologi e gli studiosi di etica possono pervenire ai loro risultati soltanto in stretta collaborazione con gli studiosi di altre discipline. Inoltre, un ruolo di primo piano assumono le riviste e i periodici che informano regolarmente e immettono nel circuito generale di tutti gli specialisti i risultati di lavoro dovunque conseguiti.
Teologia pratica
Per teologia pratica si intende qui in senso ampio quelle discipline teologiche che si occupano della missione della Chiesa nei confronti degli uomini: ne fa parte in primo luogo la teologia pastorale, e poi la catechetica e la pedagogia della religione, la formazione degli adulti, l’omiletica, ma anche la teologia della missione e la scienza liturgica. Tutte queste discipline studiate in facoltà specifiche sono strettamente connesse e si trovano tutte di fronte agli stessi problemi per quanto riguarda i loro fondamenti.
La teologia pratica è entrata nelle facoltà teologiche di tutto il mondo soprattutto con il Concilio Vaticano II, che si presentò appunto come un concilio pastorale. Nelle facoltà di lingua tedesca la ‘teologia pastorale’ esisteva dal 18°-19° sec.; nelle scuole teologiche di lingua francese si affermò in particolare con lo sviluppo dell’Azione cattolica. Nelle facoltà teologiche romane fu introdotta solo dopo il Concilio Vaticano II. E lo stesso accadde per numerose facoltà teologiche dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina.
Di fronte alla crisi mondiale dell’evangelizzazione e della crescita della Chiesa cattolica le ricerche teologiche attuali appaiono un po’ abbandonate a sé stesse. Finora non si intravede alcuna stretta collaborazione e preoccupazione comune di cercare una visione globale dei fondamenti fra i responsabili della pastorale – il papa, i vescovi, le conferenze episcopali e i teologi pastorali. Mentre ci sono intensi scambi e iniziative di cooperazione fra economia e scienze economiche, fra politica e scienze politiche, niente di simile sembra esserci fra i responsabili della cura delle anime e quelli che si occupano della teologia pratica.
Un punto di partenza potrebbe averlo segnato il sinodo dei vescovi latino-americani di Aparecida (Brasile) del 2007, che ha incentrato le sue riflessioni sul tema della missione della Chiesa nella società moderna e ha preso in considerazione globalmente sia i compiti dei singoli, delle famiglie, delle comunità, sia i compiti pastorali dei vari servizi ecclesiali. Ma finora non ci sono segnali che questa iniziativa, che di per sé indicava una strada, abbia avuto un’eco importante nella teologia pastorale. D’altronde i vescovi non hanno chiesto ai teologi pratici un’elaborazione critica e corrispondenti indagini di dettaglio. Sarebbe urgente per la Chiesa una formulazione scientifica teologica dei fondamenti e l’elaborazione di strategie globali.
Sfide trasversali e tendenzenella teologia cristiana
Per sfide trasversali della teologia si intendono problemi di contenuto che interessano trasversalmente tutte le discipline teologiche e vanno trattati con i molteplici metodi di cui si è parlato all’inizio. In questo avvio del 21° sec., parecchi problemi trasversali si impongono all’attenzione.
La nuova problematica dell’ecumene
A partire dalla Prima guerra mondiale, la questione ecumenica ha avuto un ruolo sempre più importante nella teologia cristiana. Il lavoro ecumenico – in sostanza l’incontro fra la Chiesa cattolica romana, le Chiese ortodosse e le Chiese della Riforma – fu portato avanti soprattutto in Europa e nell’America Settentrionale. La fondazione del Consiglio ecumenico delle chiese dopo la Seconda guerra mondiale e il Concilio Vaticano II, che segnò l’adesione esplicita della Chiesa cattolica all’ecumene (v. Unitatis redintegratio, decreto 21 nov. 1964), aprirono una fase in cui si inaugurarono frequenti e significativi dialoghi fra i grandi corpi ecclesiastici organizzati: si impegnarono maggiormente le grandi Chiese con più solida struttura. Esse presentavano di norma un certo inquadramento nei moderni Stati nazionali. L’autocefalia delle Chiese ortodosse fu ricalcata perlopiù sui confini nazionali. Anche se in forma diversa, molte Chiese nate dalla Riforma erano organizzate a livello nazionale. Certo, in molte costituzioni era prescritta la separazione fra Chiesa e Stato, e tuttavia queste Chiese erano nella sostanza saldamente ancorate alle società nazionali. Qualcosa di simile valeva anche per la Chiesa cattolica, in quanto, attraverso una serie di concordati, aveva una posizione stabile all’interno del rispettivo ordinamento pubblico nazionale. Con l’arretramento degli ordinamenti statali nazionali a favore di un più forte peso delle società civili, si è avuto un certo cambiamento di situazione.
Parallelamente, all’interno delle formazioni ecclesiastiche cristiane si verifica un nuovo fenomeno. Nel 1900 si contavano un milione di cristiani appartenenti a gruppi carismatici o pentecostali; nel 1950 questo numero era arivato a dieci milioni. Nel 2000 si contavano già più di mezzo miliardo di aderenti a Chiese pentecostali e Chiese autoctone, queste ultime soprattutto in Africa e in Asia. Questo velocissimo sviluppo ha conosciuto un’ulteriore accelerazione negli ultimi anni (cfr. D.B. Barrett, T.M. Johnson, World christian trends a.D. 30 – a.D. 2200, 2001, p. 317). La curva di crescita per i primi anni del 21 sec. si presenta impennata verso l’alto come nell’ultimo decennio del secolo scorso. Ciò modifica il volto complessivo della cristianità nell’opinione pubblica mondiale. Si tratta di chiese e comunità ecclesiastiche che presentano una struttura sociale ben diversa dalle Chiese cristiane e comunità ecclesiastiche esistenti in precedenza, nell’antichità e nel Medioevo o nell’età moderna, tutte perlopiù estese e strutturate uniformemente. Queste comunità ecclesiastiche non hanno il grado di organizzazione e il conseguente livello culturale che caratterizzavano i grandi corpi sociali quali le Chiese erano finora. Sono Chiese che non elaborano proprie teologie. Di qui, una grande quantità di nuovi compiti, prima sconosciuti, per la teologia: se compito della teologia è dare conto della ratio fidei nella società contemporanea, essa deve ora rivolgersi a queste comunità cristiane, per preservare l’annuncio della fede cristiana dal rischio di sprofondare in forme di superstizione. Nel far questo essa deve guardarsi bene dall’insinuare l’idea che in queste forme di evangelizzazione e di edificazione di comunità cristiane non vi siano, per es., impulsi di provenienza evangelica. Questo lavoro non potrà essere realizzato senza la costruzione di nuove reti e forme di dialogo ecumenico. Benché siano già chiaramente visibili alcuni retroeffetti dello sviluppo delle ‘piccole chiese’ indipendenti sulle grandi Chiese, la teologia non ha colto finora questa importante sfida del futuro.
Il dialogo interreligioso
Si è accennato – parlando della dogmatica – al dialogo interreligioso e alle tendenze e alle tematiche che si profilano per quella disciplina. Ma il dialogo interreligioso non riguarda solo la teologia fondamentale e la dogmatica; appare piuttosto come un problema trasversale della teologia. Ci si limita qui solo ad accennare a questo aspetto. Le religioni, in particolare le religioni alte, costituiscono in sé stesse orientamenti sapienziali complessivi per uomini e culture rispetto al senso della vita, agli interrogativi su ‘da dove veniamo’ e ‘dove andiamo’. Le religioni raccolgono in sé e propongono interpretazioni globali e simboliche della vita e del mondo, nonché fondamentali visioni intellettuali, idee guida della moralità e un’esperienza e una pratica di vita accumulate, purificate e trasmesse attraverso le generazioni. Come tali, esse rappresentano le tradizioni sapienziali dell’umanità. Non è un caso che in una situazione sociale in cui cresce enormemente il dominio tecnico-scientifico e la capacità di modellare lo spazio vitale dell’uomo e in cui comincia a prevalere di conseguenza una ragione strumentale dell’uomo, le religioni – in quanto nocciolo delle culture – ottengano una grande rilevanza.
La fede cristiana appare a prima vista come una religione fra le altre. Come le altre, essa possiede un ricco sistema di simboli, contiene in sé momenti filosofici, cioè sapienziali-speculativi, profonde concezioni etiche – provenienti soprattutto dalla tradizione stoica – impiantate in forme vitali di fede. Ma allo stesso tempo la fede cristiana è impegnata dalla sua stessa struttura a distinguere tra fede e forma di fede e a riflettere su questa forma di fede. Da questa peculiarità deriva per l’attuale teologia un compito speciale. A tutte le discipline teologiche è richiesto di comprendere le altre religioni, con le quali la teologia nel suo insieme si trova attualmente a confrontarsi. Ciò comporta non solo la conoscenza dei ‘principi’, dei ‘dogmi’ delle altre religioni, ma anche la conoscenza dei sistemi simbolici, l’elaborazione degli elementi filosofici sottesi, dei fondamenti morali e così via. D’altro canto la teologia è chiamata con tutte le sue discipline a riflettere sulla ‘forma religiosa’ propria della fede cristiana nella sua ampiezza e nei suoi limiti; ha il compito di completare questa ‘forma religiosa’ e svilupparla ulteriormente, e proprio grazie alla conoscenza delle altre religioni. E tutto questo perché la fede nel «Dio e Padre di Gesù Cristo» non può oggi essere spiegata con un linguaggio e una concettualizzazione che prescindono completamente dal linguaggio e dalla concettualizzazione dell’islam o del buddhismo.
Questa esigenza riguarda la scienza del diritto canonico così come la pedagogia della religione o qualsiasi altra disciplina teologica. Perché? Perché anche il diritto canonico – al pari delle altre specializzazioni teologiche – non regge senza una riflessione sui fondamenti e sul modo in cui debba servire, nel senso della fede, ai membri della Chiesa e in generale agli uomini che entrano in contatto con essa. Le specializzazioni teologiche hanno una fondamentale dimensione sapienziale. E a questo punto si innesta inevitabilmente il dialogo interreligioso. Nella teologia cominciano a manifestarsi i primi tentativi di allestire gli strumenti concettuali che permettano di concepire le religioni come forme sapienziali globali dell’orientamento di vita, e di metterle in relazione fra loro. Fra le problematiche di contenuto specifiche del dialogo interreligioso vanno ricordate le non meno importanti elaborazioni storiche nel campo della ricca storia dei conflitti fra le religioni, nonché le questioni riguardanti in particolare la teologia pratica relativa alle forme di vita religiosa in società miste per cultura e religione. Per quanto riguarda il dialogo cristiano-ebraico, a partire dal Concilio Vaticano II si sono registrati notevoli avvicinamenti anche di tipo teologico. Riguardo al dialogo islamico-cristiano invece si è alle prime prese di contatto. Lo stesso vale per le religioni dell’Est asiatico.
Il laicismo sociale
Una terza tematica trasversale è quella del laicismo sociale sostenuto dalla scienza. A questo proposito va fatta prima di tutto una distinzione: il termine laicismo non è usato qui nel senso del laicismo storico, quale si formò nella Francia del 19° sec. e che celebrò il suo trionfo nella legislazione francese del 1905. Questo tipo di laicismo ha lasciato il posto a una laicità variamente interpretata, cioè a una separazione fra Stato e Chiesa, fra Stato e religioni, in cui comunque alla Chiesa, o in generale alle chiese e alle religioni, viene assicurato anche un riconoscimento sociale. Con laicismo sociale si intende invece una tendenza attualmente osservabile, che caratterizza le società civili europee e si traduce in una notevole distanza della religione e della Chiesa dai giovani e giovanissimi, che è molto presente nei media e che si esprime anche in interpretazioni ateistiche del mondo e in corrispondenti pubblicazioni. Se si è qualificato questo nuovo tipo di laicismo sociale come sostenuto dalla scienza, è perché nelle discussioni si fa molto spesso ricorso alle immagini scientifiche del mondo che non sono più in sintonia con i tradizionali ‘mondi rappresentativi religiosi’. Questa tendenza si accompagna alla fioritura di nuovi miti e mondi simbolici mitologici che si contrappongono soprattutto al monoteismo cristiano e alla teologia come ratio fidei. Ci sono segnali nella teologia di qualche iniziale tentativo di sviluppare le strutture di plausibilità della fede a questo riguardo, e qui la comunicazione pubblica – nell’attuale società dei media – richiede particolari forme di esposizione.
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