Nuove tendenze nelle teorie del cinema
Crisi della teoria?
Se è indubbio che il cinema sia stato, nel corso del Novecento, uno dei più potenti e originali dispositivi di creazione di immagini, capace di elaborare una molteplice e multiforme rappresentazione del mondo e di sollecitare a scrivere, parlare, teorizzare sulle sue realizzazioni e sulle sue possibilità generazioni e generazioni di studiosi, critici, appassionati, è altrettanto fuor di dubbio che mai, come negli ultimi anni del secolo appena trascorso, gli interrogativi relativi alla sua radicale crisi sono stati così presenti e pressanti. Il 21° sec. si è aperto – dal punto di vista del dibattito teorico internazionale – sotto il segno di una profonda trasformazione, i cui sintomi sono visibili sin dagli anni Novanta del secolo precedente. Nel 1999 è uscito in Italia il primo volume di un’opera ambiziosa e impegnativa: la Storia del cinema mondiale curata da Gian Piero Brunetta. Il progetto ha l’obiettivo dichiarato di voler riattraversare la storia del cinema in una prospettiva mondiale e la consapevolezza (anch’essa dichiarata) di voler porre le basi per una nuova storiografia cinematografica. Storiografia e non teoria perché, dichiara Brunetta nell’introduzione all’opera: «Negli ultimi anni, parallelamente allo scemare dell’interesse nei confronti della teoria [...] è cresciuto l’interesse per la storia, la filologia, la memoria» (1° vol., Europa. Miti, luoghi, divi, p. XXII). La distinzione implica una presa di posizione netta ma diversificata al suo interno, a seconda della corrente che la esprime, che negli ultimi anni del Novecento ha trovato spesso posto nel dibattito accademico e non solo, in Europa come oltreoceano. Si tratta dell’idea che la teoria del cinema stia dimostrando di avere ormai esaurito le proprie potenzialità. Posizione forte, ma che va indagata e analizzata, proprio per evidenziare come l’apertura del nuovo secolo abbia sì annunciato un grande mutamento del ruolo e delle forme di questa teoria, rilanciandone però l’importanza e la necessità.
La convinzione che il discorso teorico sul cinema e sull’immagine audiovisiva sia in difficoltà e che la riflessione su questo mezzo espressivo debba svilupparsi come studio di campo, filologico ed empirico, è il filo rosso che lega i saggi sullo stato delle teorie raccolti nell’opera curata da David Bordwell e Noël Carroll (Post-theory. Reconstructing film studies, 1996), uno dei testi più rappresentativi del dibattito della fine del secolo scorso. I saggi presenti in Post-theory mettono in evidenza l’impossibilità di un’unica e onnicomprensiva teoria, all’interno della quale troverebbero spiegazione i singoli eventi (i film). Gli orientamenti teorici sono, dicono gli autori, necessariamente molteplici, come molteplici sono gli approcci possibili a un oggetto la cui definizione diventa, anno dopo anno, sempre più problematica. Ma ipotizzare la necessità di rifondare questo discorso teorico secondo una prospettiva aperta o riconoscere la crisi di una teoria forte e complessiva non significa affermare la fine di tale tipo di riflessione. Al contrario, il 21° sec. si è aperto rivelando una situazione molto articolata e complessa. Da una parte, il mondo intellettuale ha da tempo superato l’atteggiamento di sospetto e di scarsa considerazione scientifica che in passato aveva spesso condannato la settima arte a una diffidenza generalizzata nei confronti del suo valore teorico. Gli studiosi di nuova generazione, anche se provenienti da diversi ambiti disciplinari, sono ormai più propensi a considerare il cinema uno strumento prezioso per le loro analisi; di conseguenza, il panorama degli studi teorici si è negli ultimi anni profondamente arricchito di contributi e strumenti provenienti da campi e saperi molteplici (pur dovendo operare le necessarie distinzioni tra interventi e posizioni effettivamente originali e altri decisamente più superficiali), determinando di fatto un ampliamento delle sue direzioni di ricerca. In secondo luogo, va invece riconosciuto il fatto che, forse proprio in virtù della consapevolezza che il cinema e i discorsi su di esso stanno vivendo una fase di radicale cambiamento, la riflessione teorica, come sottolinea Francesco Casetti (n. 1947), ha assunto un ruolo centrale all’interno di uno scenario aperto: al posto di un paradigma basato sull’applicazione al cinema di metodi e categorie elaborati in precedenza, si sostituisce un paradigma basato sulla compresenza di questioni aperte, in cui l’approccio metodico lascia il posto alla multidisciplinarità e il desiderio di analisi a una volontà di interpretazione.
Un panorama, questo, che Casetti ha definito delle «teorie di campo» (Teorie del cinema. 1945-1990, 1993, pp. 193 e sgg. e Teorie del cinema, in Enciclopedia del cinema, Istituto della Enciclopedia Italiana, 5° vol., 2004, p. 202). Teorie al plurale, appunto, approcci molteplici e compresenti che tentano, senza la pretesa di risolvere il problema in modo esaustivo, di affrontare la trasformazione sostanziale che l’immagine in movimento vive al suo interno. Infatti, alla base di una profonda e sentita consapevolezza della crisi del discorso teorico sta in realtà la convinzione che a essere in crisi è anzitutto il cinema stesso o, meglio, il ruolo e la funzione che esso ha svolto lungo tutto il secolo precedente. Le questioni teoriche sono dunque chiamate a interrogarsi lungo un orizzonte quanto mai complesso. Cosa è divenuto il cinema nella società contemporanea? Quale ruolo riveste nella formazione della soggettività, dell’identità individuale e collettiva? Quali forme assume oggi l’immagine audiovisiva? In che modo il cinema e le forme contemporanee dell’immagine entrano in rapporto con il pensiero? Domande che mettono in evidenza l’apertura radicale del discorso teorico sul cinema, il suo mutamento. È proprio nelle pieghe di questo cambio paradigmatico che occorre allora addentrarsi, per individuarne le linee di tendenza e di sviluppo, gli elementi di novità e le prospettive aperte.
Ripensare i concetti: i Cultural Studies
La sfida del ripensamento radicale del discorso teorico è stata raccolta in questi anni anzitutto dai Cultural Studies, la cui forza risiede proprio nella specificità di un approccio metodologico che tende a far saltare la separazione rigida tra il pensiero umanistico e la società contemporanea, caratterizzata dal continuo incontro e dalla mescolanza di codici appartenenti ad ambiti diversi. Proprio per questo, metodologicamente, gli studi culturali lavorano sull’interazione tra forme e luoghi tradizionalmente lontani dagli interessi degli studi umanistici, basandosi soprattutto sulla moltiplicazione dei punti di vista e delle possibilità di analisi, nonché sulla valorizzazione dei prodotti di consumo della cosiddetta cultura popolare. Alcuni testi usciti negli ultimi anni si pongono però una serie di problemi teorici nuovi e lavorano su nuove prospettive. È soprattutto in ambito anglosassone che la tendenza a riconsiderare i concetti classici della teoria del cinema ha comportato un decisivo mutamento. I lavori di Janet Harbord (n. 1967) sono, in questo senso, esemplari: in un testo come Film cultures, del 2002, la studiosa inglese esplora le numerose modalità attraverso cui un film non solo viene fruito, ma si trasforma ogni volta, in relazione al flusso di visioni e fruizioni in cui si inserisce (dal festival alla sala, dal DVD alla televisione, fino agli sviluppi recenti della tecnologia digitale). La sala non è più il luogo deputato al rito della visione cinematografica, ma la molteplicità delle visioni possibili (sia individuali sia collettive) di un film porta a una trasformazione del significato stesso dell’immagine cinematografica, del suo ruolo all’interno delle culture in cui viene fruita. In un certo qual modo il film, afferma Harbord, «fugge» dalla sala, dalla fruizione unica, moltiplicando le sue possibili vite a seconda delle modalità di visione (un film può essere visto in un taxi, in aeroporto, in treno, in ogni altro luogo e momento grazie a dispositivi portatili di visione come lettori DVD, personal computer, telefonini di nuova generazione). Così, ogni opera filmica appare caratterizzata da un supplemento potenziale di senso che si manifesta proprio grazie alla rottura del patto spettatoriale classico.
In un testo del 2007, The evolution of film. Rethinking film studies, Harbord affronta nuovamente il problema da un altro punto di vista: se le modalità di fruizione del film modificano fortemente il senso e la possibilità di «fare senso» del film stesso, allora sono le categorie tradizionali degli studi sul cinema a dover essere ripensate. Il film non è un elemento fisso e stabile ma una struttura mobile, in continua trasformazione, una «materia agente isomorficamente», vale a dire un oggetto che cambia il suo ruolo e il suo senso in quanto disperso trasversalmente all’interno dei diversi spazi di consumo delle numerose pratiche quotidiane in cui è inserito. Le categorie tradizionali della lettura del film non possono ovviamente tenere conto di questa dinamicità e necessitano di una revisione. L’idea del flusso e della mobilità dei processi di produzione del senso, infatti, mal si coniuga con un approccio che divide l’analisi del film all’interno di categorie spaziotemporali prefissate, come quelle di cinema nazionali, processi di rappresentazione e di identità, sistemi industriali e sistemi produttivi indipendenti e così via. Il ripensamento avviato da Harbord costituisce dunque un contributo importante all’interno di un campo come quello degli studi culturali, in cui il cinema è considerato luogo privilegiato attraverso il quale indagare le forme di rappresentazione e di autorappresentazione delle molteplici culture contemporanee. L’importanza della posizione di Harbord risiede, in primo luogo, nella considerazione del cinema (e del film in particolare) come un oggetto tutt’altro che definito e stabile. La dimensione fluttuante dell’opera filmica è strettamente legata, lo si è visto, al flusso nel quale è inserita, costituito anche dagli innumerevoli rituali e dalle dinamiche di fruizione che identificano le culture del film. Proprio per questo motivo – ossia l’insufficienza dei tradizionali metodi di individuazione del film all’interno delle categorie storiografiche e teoriche tradizionali – l’approccio di Harbord indica la necessità di individuare un nuovo quadro teorico e concettuale nell’ambito degli studi sul cinema, in cui al centro è posto non soltanto il film, inteso come oggetto mai determinato, sempre capace di entrare in nuove configurazioni di senso, ma anche le pratiche di fruizione e i contesti culturali a partire dai quali, di volta in volta, lo spettatore vive o rivive il film stesso.
Tra gli indirizzi di ricerca più importanti degli ultimi anni, sempre all’interno del filone degli studi culturali, va sicuramente sottolineato lo sviluppo dell’interesse per le «poetiche della cultura» o «poetiche culturali» (poetics of cultures), espressione coniata da uno dei massimi esponenti del New Historicism statunitense, Stephen J. Greenblatt (n. 1943). Proprio prendendo spunto dalle ricerche degli esponenti della nuova scuola storica, ma allontanandosi da essi per quel che riguarda gli obiettivi finali, alcuni studiosi hanno evidenziato come, per affrontare e analizzare fasi e momenti storici particolari, sia necessario costruire orizzonti aperti e indeterminati, all’interno dei quali far emergere la complessità e le contraddizioni delle diverse poetiche culturali che alimentano e attraversano tali fasi storiche. In questo senso appare esemplare un testo come Popular front Paris and the poetics of culture (2005) nel quale gli autori, Dudley Andrew (n. 1945) e Steven Ungar (n. 1945), affermano che gli studi culturali non devono limitarsi ad analizzare i film come riflesso o segno delle culture che li producono o li immettono nel circuito di produzione del senso, ma, al contrario, studiarli e individuarli come parti di un processo complesso e mai definito una volta per tutte. Per fare questo occorre mettere in atto una proposta metodologica nuova, in cui sperimentare un approccio problematico al rapporto tra le forme estetiche e i periodi storici in cui sono state realizzate o a cui fanno in qualche modo riferimento. Il cinema diventa, in questa prospettiva, una delle forme di elaborazione di una poetica culturale, creazione di una visione comunque aperta di un’epoca o di un momento storico.
Nel campo degli studi culturali, dunque, il discorso teorico si sviluppa in varie direzioni, accomunate dalla volontà di ripensare strategie e metodologie d’indagine, sia nella consapevolezza della molteplicità di flussi di senso che caratterizzano la vita ma anche la circolazione di un film (Harbord), sia nella volontà di mostrare il cinema come forma complessa (e mai determinata una volta per tutte) di riflessione sul proprio mondo e sul proprio tempo (Andrew, Ungar).
Filosofia e cinema: l’area anglosassone
Una delle tendenze che maggiormente ha segnato gli ultimi decenni del Novecento, e che continua a svilupparsi in modo fecondo anche nel nuovo secolo, è senz’altro determinata dal rapporto tra filosofia e cinema, un rapporto complesso e variegato che non può essere definito in modo unilaterale. La difficoltà sta anzitutto nelle differenti modalità in cui si è articolato nel corso del Novecento, scontrandosi, di volta in volta, con la necessità (o l’impossibilità) di determinare cosa fossero i due ‘oggetti’ in gioco: la filosofia e il cinema. Ogniqualvolta tale problema è stato posto, inevitabilmente una risposta, per quanto implicita, è stata data, dando luogo nel corso degli anni a due grandi linee di sviluppo. La legittimazione del rapporto ha avuto origine innanzi tutto dalla sovrapposizione della filosofia sul cinema, ossia dal fatto che la filosofia è stata chiamata a riflettere sul cinema, a esplicitarne i meccanismi profondi produttori di senso, la possibilità o meno che un’immagine sia rilevante per il pensiero. Una prima direzione è dunque quella che ipotizza il cinema come luogo in cui il discorso filosofico trova una sua ulteriore applicazione. I concetti filosofici – che nascono altrove – diventano strumenti attraverso i quali leggere questo mezzo artistico ed espressivo e le sue immagini, riflettendo su di esso. In questo senso, i due termini rimangono di fatto separati e l’incontro tra i due ambiti si traduce in un’analisi del cinema dal punto di vista filosofico, in un’esplorazione dell’immagine cinematografica come esempio di messa in gioco o di esemplificazione di problemi che hanno altrove la loro origine. In questa prima direzione si sono spinti negli ultimi anni filosofi come Julio Cabrera in Brasile o Umberto Curi in Italia.
Ma in nome di quale altra interpretazione dei due termini in gioco è possibile che la filosofia (qualunque cosa chiamiamo con questo nome) finisca per entrare in relazione con un territorio altro come quello del cinema (qualsiasi cosa chiamiamo con questo nome)? E qui che si apre la seconda direzione che invece ipotizza il cinema (o le forme di produzione contemporanee dell’immagine in movimento) come un luogo attraverso il quale (o a partire dal quale) pensare o ripensare i concetti filosofici, produrre pensiero. Questa impostazione ha indubbiamente il suo punto di partenza nella proposta filosofica di Gilles Deleuze (1925-1995). Gli ultimi anni del secolo scorso, infatti, sono stati determinati in gran parte dal dibattito successivo alla pubblicazione dei due testi di Deleuze dedicati al cinema (L’image-mouvement, 1983, trad. it. 1984; L’image-temps, 1985, trad. it. 1989). Ciò che ha caratterizzato l’originalità del percorso del filosofo francese è la radicalità della domanda teorica implicita nel suo discorso: interrogarsi sul rapporto cinema/filosofia significa riconoscerne la necessità come operazione di chiarimento ontologico della filosofia, chiamata, ancora una volta, a esplicitare il suo compito di pratica concettuale, di attività volta alla creazione e all’invenzione dei concetti. In altre parole, in tale declinazione la filosofia trova nel rapporto stesso la propria attività più specifica, quella di pratica dei concetti (così come il cinema si mostra come pratica delle immagini e dei segni).
La forza della proposta teorica di Deleuze ha permesso al dibattito di svilupparsi e ampliarsi nel corso degli ultimi anni, stimolando pensatori provenienti da settori filosofici diversi a confrontarsi criticamente con i concetti deleuziani, reinterpretandoli o proponendone letture nuove, alternative alla prospettiva aperta dal filosofo francese, costringendo in ogni caso la pratica filosofica a mettersi in gioco attraverso il (o grazie al) cinema. Ne sono un esempio gli studi anglosassoni che hanno sviluppato, negli ultimi anni, una serie di prospettive di ricerca tra loro diverse proprio a partire dalla posizione deleuziana: basti pensare alla lettura che del filosofo è stata fatta dalla Feminist Film Theory in un testo come The matrix of visual culture. Working with Deleuze in film theory (2003) di Patricia Pisters (n. 1965). Qui, infatti, i concetti cardine dei testi di Deleuze vengono riletti all’interno del dibattito teorico della Feminist Film Theory: in particolare, l’autrice rintraccia nel percorso del filosofo francese strumenti teorici applicabili alla trattazione di problematiche come quella della soggettività, dell’identità femminile, della politica e della violenza nel cinema contemporaneo. La prospettiva adottata si sviluppa a partire dalla consapevolezza che l’approccio deleuziano alla teoria del cinema si basa su un concetto di immagine completamente differente da quello della tradizionale teoria del cinema, per la quale: «l’apparato cinematografico (forse inteso come una forma ‘arcaica’ di coscienza cinematografica) concepisce l’immagine come rappresentazione che può funzionare come uno specchio (distorto o illusorio) per la costruzione di un’identità o di una soggettività» (p. 4). La novità dell’impostazione di Deleuze, afferma Pisters, sta nel fatto che egli abbandona l’idea dell’immagine come rappresentazione, e introduce il concetto di immagine come forma mobile, costituita da una rete di relazioni tra ciò che appare e ciò che nasconde, tra la sua «attualità» e la sua «virtualità». Questo riconoscimento dell’assoluta novità del quadro teorico del filosofo francese apre una prospettiva di ricerca inedita, in cui Deleuze non è più solo il punto di riferimento per un’analisi del rapporto cinema/filosofia, ma i suoi concetti diventano strumenti analitici attraverso cui ripensare il cinema e la sua teoria.
Una linea di pensiero volutamente lontana e alternativa rispetto a quella deleuziana è rappresentata dal percorso teorico di N. Carroll (n. 1947) che sottolinea la necessità di sottoporre a verifica il rapporto filosofia/cinema. Nel volume Philosophy of film and motion pictures (2006), da lui curato insieme a Jinhee Choi, attraverso una scelta antologica viene affrontato da un punto di vista radicale il tema del rapporto tra cinema e filosofia. Quello che è in gioco, e che traspare come un sottile filo rosso che corre lungo tutti i saggi presenti nel libro, è l’analisi puntuale dei termini stessi del rapporto. A partire dall’affermazione introduttiva di Carroll, per cui la filosofia è la «disciplina che si occupa principalmente della logica e della struttura concettuale delle nostre pratiche» (p. 1), l’analisi filosofica applicata al cinema avrà come scopo il chiarimento dei presupposti concettuali di tutte le pratiche cinematografiche, di tutte le forme mediante le quali esso diventa il territorio o il luogo di un processo di pensiero. Ancora una volta, la parola chiave della proposta teorica è ripensamento: i problemi classici della teoria del cinema vengono ripensati sin nel fondamento stesso, nei presupposti teorici che ne fondano la possibilità discorsiva. Dal riconoscimento del cinema come forma d’arte, al problema ontologico primario del cinema stesso (cos’è un film?); dal rapporto tra documentario e fiction all’analisi delle forme narrative; dal film come dispositivo in grado di suscitare emozioni alla struttura stessa del discorso critico e di analisi, fino al rapporto tra cinema e pensiero e cinema ed etica, tutti i temi portanti della tradizione teorica vengono sottoposti di nuovo a interrogazione, allo scopo di rifondarne, in un certo senso, la legittimità e la fecondità. Con una mossa teorica strettamente legata alla metodologia tipica dell’estetica e della filosofia analitica anglosassone, è il concetto stesso di teoria del cinema a essere posto al centro della riflessione, anche a costo di mettere tra parentesi, di sospendere, in una sorta di epochè epistemologica, tutto il bagaglio di elaborazioni che costituisce l’eredità della teoria del cinema del secolo scorso.
Lungo questa linea – che si pone di fatto in aperta contrapposizione al dibattito accademico interno ai Film Studies statunitensi e anglosassoni – si muove anche un autore come Carl R. Plantinga, principale rappresentante, insieme a David Bordwell, della Cognitive Film Theory. In Plantinga (Rhetoric and representation in nonfiction film, 1997), l’indagine ha come scopo quello di rintracciare nel cinema, e in particolare nelle modalità di fruizione del film, le forme di elaborazione del sapere e dell’emozione, a partire dai concetti base del cognitivismo. Ogni film diventa un territorio da esplorare per scoprire, nel rapporto di fruizione, le forme – sempre parziali e cangianti – attraverso cui lo spettatore elabora processi emozionali (o affettivi) e di conoscenza (o cognitivi). Sempre all’interno del dibattito filosofico statunitense si collocano i lavori di Richard Allen (n. 1959) e Malcolm Turvey (n. 1969) che, sulla scorta di un approccio legato alla riflessione wittgensteiniana e, in particolare, alla pratica filosofica intesa come analisi e chiarimento dei problemi di linguaggio, rileggono le teorie del cinema dal punto di vista della loro struttura logica e da quello dei loro presupposti e delle loro conseguenze filosofiche.
Per Turvey (2008), per es., la rilettura delle teorie di autori come Jean Epstein, Dziga Vertov, Béla Balázs e Siegfried Kracauer mostra una linea comune, quella di una teoria rivelazionista, vale a dire una concezione del cinema inteso come uno strumento più potente dello sguardo umano e capace di rivelare la vera natura del reale. In questo senso, la filosofia è chiamata a svolgere una funzione critica, a mostrare le contraddizioni logiche e le confusioni concettuali che animano questa potente linea teorica che ha influenzato profondamente, sottolinea Turvey, la teoria del cinema contemporanea. Ma allora, di fronte alla critica nei confronti della teoria tradizionale elaborata in ambito europeo nel corso del Novecento che, come si è visto, caratterizza l’approccio di molti studiosi di area analitica anglosassone, quale analisi alternativa viene proposta? Come appare evidente in uno dei testi che più ha influenzato il dibattito, incentrato proprio sull’applicazione del metodo wittgensteiniano alla teoria delle arti, Wittgenstein, theory, and the arts (2001, curato dagli stessi Allen e Turvey), sono il concetto e il ruolo stesso di teoria a essere posti in discussione. Sulla scia del Wittgenstein dei ‘giochi linguistici’, Allen, Turvey e gli altri autori del volume mettono in evidenza la necessità di svincolarsi da una nozione forte di teoria a favore di un utilizzo mobile e dinamico di strutture concettuali utili alla comprensione di oggetti parziali (come i film), ma prive della pretesa di assurgere a strutture teoriche onnicomprensive. La volontà di ripensare il discorso teorico diventa, come si è visto dagli esempi sin qui riportati, lo stimolo per una netta presa di distanza dalla tradizione, in cui non sono i film o la storia del cinema oggetto della discussione, ma la teoria stessa, le modalità attraverso cui il cinema è entrato a far parte di una pratica concettuale. Ciò che emerge con forza è quindi l’idea di teoria intesa come struttura mobile e cangiante, capace di ripensare totalmente sé stessa e di rimettersi in gioco a ogni analisi, a ogni incontro con un nuovo oggetto (che sia un film, un autore o un’immagine) capace di suscitare percorsi concettuali.
Ma è proprio la radicalità di questa impostazione ad animare il dibattito in ambito anglosassone e a far emergere posizioni contrastanti. Autori come Robert Stam (n. 1941) o Fredric Jameson (n. 1934), per es., pur partendo da orizzonti teorici diversi, si oppongono con forza all’idea di un declino o un tramonto della teoria. Stam (2000) sottolinea come lo scenario contemporaneo sia di fatto attraversato da una moltiplicazione iperbolica delle prospettive teoriche, ma senza negare il valore che la teoria assume di fronte alla necessità di una comprensione più ampia del cinema (e del suo ruolo culturale, intellettuale, emotivo e sociale) rispetto a quella di un’analisi parziale di alcuni meccanismi in singoli film. Per Stam dunque, ripensare la teoria del cinema significa ripensare il ruolo stesso del cinema come strumento di comprensione critica della realtà. Jameson, principale rappresentante del marxismo critico negli Stati Uniti, è sicuramente lo studioso che, pur non essendosi occupato recentemente di cinema, continua a rappresentare un approccio strettamente legato alla necessità politica ed estetica della ricerca teorica intesa come discorso forte e strutturalmente determinato. Il suo interesse per il cinema – concretizzatosi in testi come Signatures of the visible (1990; trad. it. 2003) e The geopolitical aesthetic. Cinema and space in the world system (1992) – muove infatti dal riconoscimento che troppo spesso la teoria del cinema ha privilegiato nel corso della sua storia l’aspetto visuale del film, facendo della vista l’unico senso deputato ad avere un rapporto con il film stesso. In realtà, afferma Jameson, il cinema ha un ruolo molto importante nella vita degli individui, nella formazione della loro soggettività, nel riconoscimento dei loro processi di pensiero, così come nella memoria e nell’esperienza individuale. Comprendere la presenza pervasiva della sfera del visuale nella realtà contemporanea significa, per lo studioso americano, analizzarne la genesi e lo sviluppo storico, individuare le modalità con cui il cinema e le forme contemporanee di produzione e circolazione delle immagini entrano di fatto nei processi di costituzione della memoria, dell’esperienza, del pensiero (in altre parole, nel processo di costruzione della soggettività) degli esseri umani. La teoria del cinema diventa quindi una chiave per comprendere la dialettica tra realismo, modernismo e postmodernismo che costituisce da sempre l’orizzonte problematico in cui si colloca la riflessione del filosofo statunitense.
Questa e altre posizioni evidenziano un comune sfondo nel quale la moltiplicazione delle prospettive di analisi, la critica radicale ai concetti tradizionali della teoria del cinema, la ricerca di un discorso teorico il più possibile aperto a nuovi stimoli e contributi sono il segno tangibile di una più generale attenzione al cinema come strumento (se non privilegiato, perlomeno importante) di comprensione critica del mondo, non svincolato ma parte integrante di una più generale teoria della contemporaneità.
Filosofia e cinema: l’Europa
Tornando al contesto europeo, il dibattito vi assume caratteristiche del tutto diverse. Il concetto che unifica di fatto proposte e riflessioni anche molto lontane tra loro, e che provengono soprattutto da studiosi francesi e italiani (per citare i due Paesi in cui emergono le tendenze più importanti in questo senso), è quello di apertura. Se il versante anglosassone si caratterizza per il tentativo di individuare nel cinema il luogo di sperimentazione di nuove teorie della percezione e della conoscenza, il rapporto filosofia/cinema in ambito europeo evidenzia una serie di approcci diversificati al loro interno. In questo contesto il cinema si pone come forma in grado di mettere alla prova il discorso filosofico e come pratica capace di costringerlo a superare i confini disciplinari consueti e ad accettare la sfida della contemporaneità.
Gli elementi che caratterizzano tale apertura sono numerosi. Anzitutto va sottolineato il ruolo assunto dal cinema in tali riflessioni. Se nelle prospettive di autori come Carroll, Allen o Turvey la filosofia è intesa come strumento critico di analisi della legittimità dei concetti della teoria del cinema (svolge cioè una funzione di controllo e di verifica), negli autori europei è il cinema stesso a costituire una sfida per il pensiero filosofico. È il doppio movimento, ben rappresentato da Deleuze, che compie una duplice operazione: quella di dare una legittimazione filosofica al cinema, ma anche quella di oltrepassare i limiti dell’orizzonte filosofico tradizionale. Il cinema, in questa prospettiva, rappresenta un ‘fuori campo’ della filosofia, contiene in sé, nelle sue forme e nelle sue procedure, un supplemento di senso che sollecita la filosofia stessa a trasformarsi e a mettere in discussione i propri concetti. Un altro elemento fondamentale che caratterizza questa apertura del discorso teorico è determinato dal fatto che la prospettiva aperta da Deleuze non viene seguita pedissequamente dagli autori più interessanti. Le posizioni di Jacques Rancière (n. 1940) e Alain Badiou (n. 1937) o le prospettive di analisi del cinema all’interno di ambiti di ricerca diversi (come la teoria dell’immagine e dell’arte o la teoria politica contemporanea, per es. in autori come Georges Didi-Huberman e Slavoj Žižek) evidenziano un approccio critico nei confronti dell’autore di L’image-mouvement e L’image-temps, pur accettandone la sfida di partenza, vale a dire quel doppio movimento di pensiero cui prima si faceva riferimento.
Nei due testi La fable cinématografique (2001; trad. it. 2006) e Le destin des images (2003; trad. it. 2007) Rancière affronta il problema dal punto di vista filosofico affermando che il regime delle immagini inaugurato dal cinema stimola una riflessione che coniuga insieme estetica e politica. Il cinema si muove – e si è sempre mosso – lungo un doppio regime che attraversa le sue immagini. Da una parte, tali immagini riproducono la tradizione del regime mimetico dell’arte, in cui, selezionate, elaborate, strutturate, montate, vengono sottoposte a una forma di controllo dei processi di significazione, e di conseguenza rese comprensibili e fruibili alla massa degli spettatori; dall’altra, esse si muovono, per la loro stessa natura, all’interno di un regime estetico in cui il visibile eccede la possibilità di controllo da parte del dicibile, vale a dire, in cui l’immagine non si riduce mai completamente a un significato che può essere «tradotto» in parole. Le immagini cinematografiche, infatti, e la loro concatenazione mediante il montaggio si presentano immediatamente come una forma di «scrittura automatica» sottratta alla possibilità di controllo (ideologico o soggettivo) e mostrano la possibilità di nuove e inedite «partizioni del sensibile», vale a dire nuove configurazioni del mondo che non sono già date, ma che appaiono grazie alla concatenazione delle immagini. In altre parole, in virtù della loro stessa natura, esse producono sempre un supplemento di senso che va al di là di ogni tentativo di controllo, di riduzione dell’immagine stessa a un unico senso, universalmente riconoscibile e comunicabile. È in questo modo che la riflessione estetica diventa etica e politica. Perché l’oscillazione tra visibile e dicibile, in cui l’immagine eccede sempre la sua traduzione in un significato compiuto e definitivo, permette al cinema di offrire allo spettatore nuove possibili riconfigurazioni del mondo sensibile più che una rappresentazione già stabilita a priori. Dunque quello del cinema si rivela come uno spazio di libertà che non può essere mai completamente controllato dagli apparati (ideologici oppure economici) all’interno dei quali esso si muove. Alla luce di tutto questo, nelle riflessioni di Rancière vibra una domanda che investe il senso e il ruolo della filosofia stessa. Il cinema e le sue immagini non sono il campo applicativo dei concetti filosofici ma un luogo dove si concretizza la possibilità attuale del discorso filosofico.
È lungo questa linea, pur all’interno di una prospettiva filosofica distinta, che si muove Badiou, filosofo, scrittore e autore teatrale francese che ha dedicato al cinema (e al teatro) una serie di interventi poi riuniti in un testo originariamente pubblicato in Argentina, Imágenes y palabras. Escritos sobre cine y teatro (2005). Per Badiou, come per Rancière, parlare di cinema (o a partire dal cinema) significa, di fatto, fare filosofia. La pratica attuale del discorso filosofico sta, infatti, nell’analisi delle sue condizioni reali. Ma che cosa si intende per condizione della filosofia? È una verità in divenire, risponde Badiou, che scorre attraverso i quattro generi di verità (extrafilosofici) di cui, a partire dai greci, conosciamo l’esistenza: il genere scientifico (più propriamente matematico), il genere artistico (più propriamente poetico), il genere politico (più propriamente l’emancipazione politica o la politica della libertà) e il genere amoroso. La filosofia si pone strategicamente tra le quattro condizioni di possibilità, senza risolversi mai in una di esse, ma mantenendo la propria autonomia operativa. La scienza, l’arte, la politica, l’amore non sono infatti pratiche filosofiche in sé, branche del sapere filosofico, ma «procedure di verità» autonome dalla filosofia, vale a dire modalità attraverso cui la verità viene ricercata e problematizzata. Il discorso filosofico (pena la sua trasformazione in discorso astratto, privo di connessioni con il mondo) deve continuamente entrare in contatto con tali procedure (che in questo senso sono le sue «condizioni reali»), ripensarle, problematizzarle, attingere a esse. La filosofia non fonda le proprie condizioni reali (che esistono a prescindere da ogni discorso) ma procede e si sviluppa grazie al continuo rapporto che instaura con esse.
È in questa idea di libertà di circolazione fra i saperi che si colloca, per Badiou, il rapporto tra filosofia e cinema. Si tratta ogni volta di analizzare le modalità attraverso cui l’idea circola, si manifesta nell’immagine cinematografica. La specificità del cinema, afferma Badiou, sta nella sua impurità. Il movimento dell’immagine cinematografica è propriamente quello di un passaggio continuo, che non può essere fermato pena la negazione del cinema stesso. L’idea si manifesta al cinema sotto la forma della visitazione, del passaggio e non si incarna nell’immagine, ma si manifesta nel modo peculiare del cinema, che è quello del movimento. L’immagine dinamizza l’idea, così come mette in movimento tutte le arti precedenti: «Il cinema è un’arte impura. È il più-una delle arti, parassitaria e incosciente, ma la sua forza di arte contemporanea consiste proprio nel generare l’idea dell’impurità di ogni idea, nel tempo di un passare» (Imágenes y palabras, p. 25). In questo senso, dunque, il cinema rivela la dinamica stessa della filosofia, caratterizzata dalla continua circolazione attraverso le forme e i saperi.
In Badiou come in Rancière, il discorso nasce a lato del dibattito teorico (potremmo dire ‘istituzionale’) sul cinema, ponendosi in una posizione volutamente esterna e fortemente legata alla tradizione filosofica ed estetica (ma in una prospettiva originale). Le domande non riguardano pertanto il problema del cinema come forma d’arte (la risposta è implicita e positiva per entrambi) o altri problemi classici della teoria del cinema (problemi che invece attraversano la riflessione anglosassone, come si è visto); né, d’altra parte, si interessano alle forme attuali del cinema, alle sue trasformazioni, al ruolo che ha assunto o sta assumendo nella realtà contemporanea. Di fatto, il cinema viene indagato per essere stato la forma estetica più originale e rappresentativa del secolo appena trascorso. Ed è proprio in questa autonomia che tali riflessioni rivelano la loro forza.
Proprio intorno a questa domanda – relativa alla grande trasformazione che il cinema vive nel passaggio al nuovo secolo – si muove F. Casetti (L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, 2005), il quale, attraverso un accurato recupero delle teorizzazioni anche apparentemente marginali che il cinema ha prodotto lungo il Novecento, analizza l’immagine cinematografica dal punto di vista della sua forza «negoziale». Ma cosa si intende per negoziazione in riferimento alla prassi stessa del dispositivo cinematografico? L’ipotesi di Casetti è che, di fronte alla gamma multiforme di stimoli ed esperienze possibili che costituiscono la modernità, il cinema abbia «elaborato il suo sguardo lavorando a fondo sulle spinte presenti nella modernità novecentesca. Se da un lato le ha puntualmente intercettate, dall’altro ne ha anche regolato le direzioni e l’intensità, le ha legate a certi motivi o a certe occorrenze, soprattutto ne ha provocato un confronto, fino a dar loro una specifica veste con la quale lo spettatore è stato a sua volta chiamato a confrontarsi. È così che esso ha letteralmente messo in forma il modo di vedere della sua epoca: negoziando e facendo negoziare» (p. 15). In questo senso, continua Casetti, il cinema ha attivato una circolarità di funzioni, ha funzionato come ausilio e come guida della nostra esplorazione e comprensione del mondo. Questa doppia valenza ha fatto sì che sia stato, nel Novecento, sia un luogo di pensiero – contribuendo alla creazione di categorie e schemi mentali con cui affrontare la realtà –, sia una disciplina, in quanto guida per l’occhio, strumento in grado di dirci come e dove guardare. Ma, se di disciplina si tratta, «essa non solo ha rinunciato a ogni forma apertamente coercitiva e repressiva (come il potere ‘disciplinare’ peraltro fa), ma ha anche cercato di includere in se stessa la presenza di un desiderio e l’idea di libertà. Dunque una libera disciplina» (p. 16). Nell’individuazione di questa doppia valenza, Casetti evidenzia dunque una duplice direzione nel movimento della riflessione teorica degli ultimi anni. Da una parte, il riconoscimento del cinema come luogo di pensiero (in cui si gioca, come si è visto, il complesso rapporto tra filosofia e cinema), dall’altro la sua funzione di guida e orientamento, riconoscimento del mondo.
Il dibattito, che, anche in questo caso, ha attraversato i confini disciplinari, è tuttora aperto e vede nell’ambito delle riviste un ulteriore terreno di confronto e di critica decisamente fecondo. Questo importante settore, pur attraversato da una crisi (soprattutto congiunturale ed economica), è uno dei luoghi dove si sviluppa e prende corpo un pensiero (molteplice) sul cinema. Numerose sono le riviste nate a cavallo del 21° sec. e caratterizzate da un progetto teorico teso all’individuazione di nuovi spazi di discussione. Dalla francese «L’art du cinéma», nata nel 1998 intorno all’idea e alla pratica dell’ibridazione dei linguaggi teorici, all’inglese «Film-Philosophy», rivista e sito Internet diventati in breve tempo una delle arene più importanti del dibattito teorico anglosassone (e non solo), fino all’italiana «Ágalma», rivista che ha come scopo quello di legare l’estetica al ricco e articolato filone degli studi culturali, il panorama che emerge è variegato e, soprattutto – come si è avuto modo di notare sinora –, caratterizzato anch’esso dalla necessità di aprire gli ambiti disciplinari e di ricercare nuovi strumenti di indagine sulla contemporaneità.
Proprio tale tipo di indagine è di fatto l’obiettivo dichiarato di una rivista italiana, «Fata Morgana», nata nel 2006, il cui approccio interdisciplinare si basa sull’individuazione di temi attuali, quali la biopolitica o il problema dell’esperienza, a partire dai quali poter ripensare una serie di nessi problematici mediante il cinema, le sue forme e i suoi linguaggi. Da questo punto di vista il cinema non si pone più semplicemente come oggetto d’analisi, ma diventa strumento interpretativo del reale, nella consapevolezza che è lungo questa linea che esso può ritrovare la sua centralità come sguardo sul mondo.
Dissoluzione del cinema?
L’urgenza di individuare una funzione e un senso che collochino il cinema in una posizione strategica all’interno dello scenario contemporaneo dei media attraversa molte delle ipotesi teoriche sin qui prese in considerazione. L’idea che il cinema sia – ormai da tempo – soggetto a una trasformazione strutturale spinge la riflessione verso nuovi ambiti e nuove domande teoriche, legate alla diffusione delle immagini cinematografiche in luoghi diversi, sempre più lontani dal mito e dai rituali della sala; ma legate anche alla continua ibridazione con gli altri media, nonché all’esplosione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione che hanno contribuito in modo determinante alla modifica dello statuto stesso dell’immagine cinematografica (di fronte a un’immagine di sintesi, totalmente creata con l’ausilio di tecnologie digitali, che ne è di quell’impronta del reale di baziniana memoria che determina lo statuto stesso del cinema?). Il problema dunque si concretizza intorno a una domanda fondamentale: se il discorso teorico debba abbandonare (o rimettere in discussione) il cinema come luogo centrale per l’analisi delle dinamiche sociali e culturali, individuando quindi nuovi oggetti d’indagine, oppure se sia legittimo continuare a considerare il cinema un luogo di interrogazione necessario per la comprensione del reale.
Tale interrogativo costituisce l’ultimo, grande sfondo problematico all’interno del quale si muove l’odierno dibattito sul cinema o, meglio, su quell’oggetto misterioso che è il cinema attualmente, i cui confini sono difficilmente ripercorribili con chiarezza, ma che costituisce la sfida più pressante del discorso teorico contemporaneo. Tale problema costituisce l’interrogativo conclusivo che Casetti si pone in L’occhio del Novecento. Lo studioso parte dal riconoscimento del fatto che lo scenario all’interno del quale il cinema ha costruito la sua forza negoziale è profondamente cambiato: «Il cinema non ritrova più, o almeno nella stessa maniera, le misure con cui ha così ben lavorato. Dunque non può più operare le stesse mediazioni che sembrano invece affidate ad altri media. Alla televisione, che lavora meglio di tutti nello spazio geopolitico [...]. Ad Internet, che costruisce reti di relazioni in cui si bilancia meglio il rapporto tra il sé e l’altro [...]. Al telefonino, che appare il medium più spinto nell’integrare un elemento di tecnologia del corpo umano [...]. Al palmare, che cala assai bene una memoria sempre a disposizione con un’azione che si sviluppa passo a passo» (p. 294). Ma se lo scenario cambia, anche il cinema subisce un’ampia e profonda trasformazione. La presenza sempre più massiccia dell’immagine digitale nelle produzioni cinematografiche, la perdita della centralità della sala e dei suoi rituali collettivi di fronte alla moltiplicazione di nuove forme sempre più individualizzate e frammentate di fruizione (dall’offerta televisiva ai nuovi supporti digitali, dal computer al telefonino), il delinearsi di un nuovo paesaggio mediale in cui tutti i media possono tendenzialmente connettersi e interagire tra loro: tutti questi elementi stanno contribuendo a trasformare il cinema sia nelle sue forme espressive sia nelle sue modalità di fruizione. Appare dunque nello scenario dei media quello che Casetti definisce un cinema due, nuovo rispetto a quello che ha attraversato da protagonista lo scenario novecentesco.
Una parte considerevole della ricerca odierna, che si sviluppa in Europa come oltreoceano con caratteristiche e aspetti di volta in volta specifici, è di fatto dedicata proprio a questo aspetto centrale del dibattito. Una prima direzione di indagine è rappresentata dall’analisi del cinema come grande dispositivo dell’immaginario, legato alle dinamiche culturali e soprattutto economiche della società. La rilettura di autori come Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, Guy Debord e Jean Baudrillard effettuata da Jonathan Beller (n. 1963) è in questo senso esemplare. Ponendo il cinema come una prima cristallizzazione del nuovo ordine dei media, Beller (2006) individua nella settima arte (a partire dalle sperimentazioni sul montaggio degli anni Venti fino al cinema hollywoodiano contemporaneo e alle forme attuali dei nuovi media) una modalità di costruzione e diffusione dell’immagine che si pone come un grande modello del sistema della produzione della merce nel sistema postcapitalistico contemporaneo.
Il cinema, dispositivo che ha prodotto immagini e corpi immateriali e li ha fatti circolare come oggetti del desiderio di generazioni e generazioni di spettatori, funziona, afferma Beller, in modo analogo al sistema capitalistico contemporaneo, in cui la merce non è più solo un oggetto materiale, ma diventa di fatto un’immagine. Il sistema postcapitalistico, infatti, produce merci sempre più slegate dal loro valore d’uso (in termini marxiani, al valore legato all’uso dell’oggetto nella nostra vita quotidiana), e sempre più avvolte da un’aura immateriale, che ne determina il successo e la diffusione presso il pubblico dei consumatori. In altre parole, l’oggetto inserito nel mercato globale è un oggetto desiderato, caratterizzato da un valore simbolico. In questa prospettiva, il sistema economico postcapitalistico è di fatto un sistema cinematico, nel senso che si afferma secondo le stesse modalità con cui il cinema si è sviluppato e ha acquistato un ruolo preponderante nella formazione dell’immaginario collettivo nel corso del 20° secolo.
In Beller, dunque, la trasformazione contemporanea del cinema nella molteplicità delle immagini digitali prodotte dai nuovi media si manifesta parallelamente alla trasformazione del sistema economico e politico mondiale. Ma, all’interno di questa direzione di ricerca, alcuni autori sottolineano l’elemento di discontinuità tra l’immagine cinematografica così come si è sviluppata nel corso del Novecento e le immagini odierne, diffuse e virtuali. Studiosi come Sean Cubitt (n. 1953) o Lev Manovich (n. 1960) basano le loro ricerche proprio sulla cesura esistente tra la forma cinematografica novecentesca e le nuove modalità di circolazione e di diffusione dell’immagine che, come sottolineato da Casetti, mettono in crisi la centralità del cinema nel panorama dei media contemporanei. Al tempo stesso in tali studi si evidenzia la centralità dell’analisi delle forme di produzione cinematografica come modello per la comprensione degli sviluppi attuali dei media (Cubitt 2004), o si concentra l’attenzione sulle caratteristiche di un cinema digitale che di fatto rappresenta un ritorno alle pratiche precinematografiche del 19° sec., quando le immagini erano dipinte a mano e animate artigianalmente (Manovich 2001). Pur nella consapevolezza di un mutato scenario, lo studio del cinema rimane nella prospettiva di questi autori centrale, perché è proprio l’enorme patrimonio di forme, linguaggi e teorie che esso ha prodotto nel corso della sua storia a costituire la base per una nuova teoria dei media.
Diversa è invece la posizione di quegli studiosi che affermano che la rete e le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con i propri linguaggi e le proprie pratiche, hanno ormai di fatto soppiantato il cinema come modello di una cultura dei media. Rappresentativa è in questo senso la posizione di Henry Jenkins (n. 1958) che individua nella convergenza l’aspetto più rivoluzionario e caratteristico dei nuovi media, o, per meglio dire, di quei media che sono ormai parte integrante della cultura popolare (intesa qui nel significato di popular culture, vale a dire di una cultura diffusa a più livelli, di massa, ma non per questo meno importante). Il termine convergenza indica la tendenza dei media contemporanei a non porsi come tecnologie tra loro separate, ma a svilupparsi nella direzione di una connessione continua e stratificata; in questo senso, un qualsiasi contenuto circola attualmente all’interno di molteplici media, il cui rapporto non è più determinato a priori: «Per ‘convergenza’ intendo il flusso dei contenuti su più piattaforme, la cooperazione tra più settori dell’industria dei media e il migrare del pubblico alla ricerca continua di nuove esperienze di intrattenimento» (Jenkins 2006; trad. it. 2007, p. XXV). Jenkins sottolinea l’apporto creativo e inventivo che i nuovi media richiedono al consumatore, non più visto come soggetto fruitore passivo di contenuti scelti e proposti da altri, ma come soggetto attivo, capace di manipolare e di ibridare i linguaggi e le forme.
Sulla linea di una cesura radicale nello sviluppo di una storia dell’immagine e di una riconsiderazione filosofica delle nuove tecnologie e del loro impatto nella vita stessa degli individui, si muove anche Pietro Montani (n. 1946), pur in una prospettiva totalmente diversa da Jenkins. In uno studio recente (2007) il filosofo italiano si interroga sul ruolo e la funzione che le nuove tecnologie dei media hanno sull’orizzonte della nostra esperienza e della nostra vita. In uno scenario dominato da un orizzonte ‘biopolitico’ (in cui per biopolitica si intende l’insieme di pratiche – anche tecnologiche – con le quali la rete dei poteri gestisce le discipline del corpo e le regole di comportamenti interni di una collettività), anche ciò che concerne l’ambito della nostra esperienza e della nostra sensibilità è sottoposto a un processo di radicale trasformazione. Le nuove tecnologie mediali, afferma Montani, pongono di fatto il problema di un’esperienza non più libera e originaria da parte dell’individuo, ma indotta e determinata da queste nuove pratiche. La realtà odierna presenta un soggetto che ha un’esperienza del mondo non più diretta, ma ‘mediata’ dai sistemi e dai dispositivi tecnologici, oramai parte integrante della nostra vita quotidiana. Ed essi, anziché costituire strumenti di ampliamento degli orizzonti degli individui, rappresentano dei limiti neutralizzando lo spazio della sensibilità. Contro tale ipotesi, che Montani chiama «bioestetica», si interroga sul ruolo e la funzione che le arti (tra cui il cinema) possono avere nello scenario contemporaneo, come strumenti che, rispetto alle nuove tecnologie ‘bioestetiche’, offrono invece la possibilità di avere un’esperienza aperta del mondo, di liberare lo spazio del sentire inteso come spazio fondamentale per la costruzione di un’identità libera e autonoma.
In questi approcci, naturalmente diversi tra loro per ampiezza, metodologie e obiettivi, si fa progressivamente strada l’idea che il film, inteso come oggetto in sé determinato, così come le categorie entro le quali il singolo oggetto-film viene di solito inserito (l’autorialità, il genere, la corrente o la scuola a cui appartiene, il periodo, la nazionalità ecc.) non debbano essere necessariamente il centro nevralgico dell’analisi. Sempre di più, infatti, il film è soltanto uno tra i momenti possibili della circuitazione delle immagini nella società contemporanea e sempre di più è l’immagine, nelle sue differenti forme di emergenza, nel suo aspetto visuale e non semplicemente visibile, ad attirare l’attenzione di studiosi e ricercatori.
Nati come una corrente specifica dei Cultural Studies, i Visual Studies, sviluppatisi nell’ambito delle università americane, lavorano – attraverso una continua ibridazione di strumenti e metodologie di indagine che provengono dalla sociologia e dall’antropologia culturale, dall’economia, dai Women Studies e dai Gender Studies, dal cinema e dalla fotografia, dalla storia dell’arte e dalla filosofia – intorno all’idea che il campo del ‘visuale’ (che riguarda il modo attraverso cui le culture organizzano, costruiscono e vivono le immagini ed è distinto da quello del ‘visibile’, che indica ciò che è appunto osservabile) sia il campo nel quale le culture contemporanee organizzano, vivono e sperimentano i propri orizzonti di senso. Nell’ambito dei Visual Studies, le immagini sono viste e studiate come modelli culturali, che cambiano e si modificano a seconda delle culture che le vivono e le producono. Nel corso del tempo, le stesse immagini possono assumere ruoli e significati diversi se inseriti in nuovi contesti culturali oppure se interpretati alla luce di nuove connessioni. Pur muovendo dal comune riconoscimento della pervasività e della centralità del mondo visuale nella realtà contemporanea, gli scritti degli autori che lavorano in questo settore sono caratterizzati da approcci differenti e da apparati teorici che appaiono tra loro distinti, dato il carattere profondamente interdisciplinare di una simile prospettiva.
Come afferma Nicholas Mirzoeff (n. 1962) in An introduction to visual culture (1999), uno dei testi teorici più importanti degli studi visuali: «La nostra vita ha luogo sullo schermo. La vita nei paesi industrializzati è sempre più vissuta sotto la costante sorveglianza di telecamere: dagli schermi sugli autobus a quelli negli shopping malls, da quelli sulle autostrade o sui ponti a quelli accanto ai bancomat. Sono sempre più le persone che tornano a guardare il passato affidando i propri ricordi a strumenti che vanno dalle tradizionali macchine fotografiche a videocamere e Webcam. Allo stesso tempo, lavoro e tempo libero sono sempre più imperniati sui media visivi, dai computer ai video-dischi digitali. L’esperienza umana è adesso più visuale e visualizzata di quanto lo sia mai stata nel passato: dalle immagini satellitari a quelle mediche delle sonde ecografiche che possono penetrare nel corpo umano. Nell’era degli schermi visuali il vostro punto di vista è cruciale» (trad. it. 2002, p. 26). L’immagine cinematografica perde (fino a un certo punto) la propria autonomia per diventare una delle forme possibili di elaborazione dell’immagine nel mondo contemporaneo, ma diventa al tempo stesso uno dei nodi centrali mediante il quale rintracciare le categorie e gli strumenti interpretativi del mondo trasformato in immagine.
Lo scenario dunque si apre sempre di più, fino a paventare, per alcuni autori, anche la dissoluzione del cinema come luogo centrale attorno al quale convergono gli sforzi analitici della teoria contemporanea. Da questo punto di vista sembra dunque trovare conferma l’ipotesi – esemplificata dalla posizione di Brunetta con cui abbiamo aperto questo saggio – secondo la quale il discorso teorico ha esaurito il proprio impulso creativo e lo studio del cinema deve di fatto concentrarsi sull’enorme patrimonio che la settima arte ha costruito nel corso del tempo, attraverso un ripensamento radicale della sua storia e della sua eredità. In realtà, com’è emerso nel percorso sviluppato lungo queste pagine, i primi anni del nuovo secolo dimostrano una notevole vitalità dal punto di vista della moltiplicazione delle proposte teoriche. La diffusione di nuovi approcci, di stili e scritture capaci di ibridare linguaggi e orizzonti di ricerca, di elaborare e mettere a confronto ipotesi spesso lontane tra loro ma ugualmente capaci di affrontare le sfide del presente, rivelano come il cinema continui a essere problema centrale e a stimolare la produzione di concetti, tesi non tanto e non soltanto ad affinare gli strumenti di analisi dei film, ma a indagare il senso che l’immagine in movimento assume nella vita e nell’esperienza di milioni di individui.
Bibliografia
R. Stam, Film theory. An introduction, Malden (Mass.) 2000 (trad. it. Roma 2005).
L. Manovich, The language of new media, Cambridge (Mass.)-London 2001 (trad. it. Milano 2002).
S. Cubitt, The cinema effect, Cambridge (Mass.)-London 2004.
J. Beller, The cinematic mode of production. Attention economy and the society of the spectacle, Hanover (N.H.) 2006.
H. Jenkins, Convergence culture. Where old and new media collide, New York 2006 (trad. it. Milano 2007).
P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Roma 2007.
M. Turvey, Doubting vision. Film and the revelationist tradition, Oxford-New York 2008.