Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Novecento è stato un secolo di vasti e profondi mutamenti, alcuni dei quali hanno avuto forti ripercussioni sulla ricerca etica, da un lato generando un ripensamento relativo a temi tradizionali oggetti dell’indagine morale – l’esistenza di Dio, il problema del Male, la guerra ecc. – dall’altro dando luogo a discipline completamente nuove, come nel caso della bioetica, dell’etica ambientale o dell’etica della comunicazione. I due discorsi, quello tradizionale e quello sui nuovi problemi, sono tuttavia strettamente intrecciati nella comune presa di coscienza che un vuoto di pensiero come quello che ha generato gli orrori e le guerre del XX secolo non debba più riprodursi.
Hans Jonas
Il principio di responsabilità
Ogni essere vivente è fine a se stesso e non ha bisogno di una giustificazione ulteriore: sotto questo aspetto l’uomo non è in nulla superiore agli altri esseri viventi, eccetto che per poter essere soltanto lui il responsabile anche per loro, ossia per la salvaguardia del loro essere fini a se stessi. Ma nella compartecipazione al destino umano i fini dei suoi simili, sia che egli li condivida oppure si limiti a riconoscerli negli altri, e il fine in sé della loro stessa esistenza, possono in maniera unica confluire nel suo proprio fine: l’archetipo di ogni responsabilità è quello dell’uomo per l’uomo. Questo primato della parentela soggetto-oggetto nel rapporto di responsabilità è insito inconfutabilmente nella natura della cosa. Esso significa tra l’altro che il rapporto, pur essendo unilaterale in se stesso e in ogni caso singolo, è tuttavia reversibile e include una potenziale reciprocità. Anzi, genericamente la reciprocità è sempre presente, in quanto io, responsabile di qualcuno, vivendo fra esseri umani sono sempre anche oggetto della responsabilità di qualcun altro. Questo deriva dalla non-autarchia dell’uomo: ciascuno ha sperimentato anzitutto su se stesso la responsabilità originaria delle cure parentali.
H. Jonas, Il principio di responsabilità, Torino, Einaudi, 1990
Hannah Arendt
Azione e discorso
La pluralità umana, condizione fondamentale sia del discorso sia dell’azione, ha il duplice carattere dell’eguaglianza e della distinzione. [...] Discorso e azione rivelano questa unicità nella distinzione. Mediante essi, gli uomini si distinguono anziché essere meramente distinti; discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto uomini.
H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1989
Si può ancora pensare filosoficamente dopo la Shoah? Qual è il concetto di Dio dopo Auschwitz? Queste domande, la prima di Theodor Wiesengrund Adorno, la seconda di Hans Jonas, riassumono bene cosa si intenda per ripensamento dei problemi etici tradizionali.
In generale, il Novecento pare configurare il tramonto dell’ideale ottocentesco, positivista del Progresso, per lo meno dell’identificazione tra evoluzione della tecnica e miglioramento della condizione umana. Su questo tema convergono le riflessioni di autori di diversa estrazione ideologica: la diffidenza quasi reazionaria verso la tecnica di Martin Heidegger ; il senso di alienazione in cui la vita si ritrova rispetto al mondo degli interessi capitalistici borghesi in Herbert Marcuse ; la desolante banalità del male contemporaneo che per Hannah Arendt assume le vesti grigie del burocrate efficiente o delle masse impolitiche pronte a immolarsi per un capo senza qualità.
La tecnica appare a questi pensatori quasi un Golem privo di controllo e di fronte a essa si manifestano tre tipologie di risposta: la disperazione di Heidegger che considera la tecnica in quanto estrema esemplificazione dell’“oblio dell’essere” nel quale nichilisticamente è sfociata la filosofia occidentale; lo slancio rivoluzionario di Marcuse, proteso a svelare la funzione della tecnica nella struttura del dominio del mercato sull’uomo; il ritorno alla praxis della Arendt, verso una dimensione della responsabilità comune nei confronti della sfera pubblica, colpevolmente abbandonata dalla filosofia in nome della speculazione astratta, dopo un’assenza che aveva spalancato le porte ai demoni della storia.
Sul modello, assunto a fini sintetici esplicativi, di queste tre risposte si articola il dibattito sulla tecnica, dalle implicazioni ora religiose, ora economiche, ora politiche.
Un altro tema tradizionale di estrema rilevanza è nel Novecento quello della guerra. Il fatto che il secolo sia stato insanguinato dai conflitti più sanguinosi della storia, aggravati dall’inusitata violenza nei confronti dei civili e dalla violazione sistematica della dignità umana, ha reso questo tema ineludibile dal punto di vista filosofico. La riflessione più innovativa e alta su questo argomento può essere considerata quella di Mohandas Karamchand “Mahatma” Gandhi (1869-1948). La sua dottrina del satyagraha , della “lotta (non violenta) per la verità” permette, infatti, di considerare sotto il medesimo aspetto sia la difesa dei diritti umani calpestati sia la soluzione creativa, non bellica dei conflitti. Si tratta, per Gandhi, di contrapporre alla forza degli strumenti ottusi e violenti del potere l’energia della ragione e della riflessione, trovando forme simboliche di resistenza e di manifestazione del dissenso che mettano in crisi la logica perversa della guerra, basata sull’interruzione del dialogo. Il fatto che Gandhi non possa essere iscritto all’interno del canone occidentale del modo di fare filosofia non toglie vigore alla sua opera in termini di riflessione etica. Nell’ambito occidentale, è Michel Foucault (1926-1984), con la sua riflessione sulla cosiddetta “microfisica del potere”, a denunciare la struttura intrinsecamente oppressiva della società moderna, dominata a ogni livello dalla logica del conflitto e della sopraffazione.
Senza il ripensamento sugli oggetti dell’etica tradizionale non si sarebbero sviluppate le cosiddette nuove etiche o etiche speciali, generatesi attorno a problemi del tutto nuovi, propri dell’epoca contemporanea. Principalmente, le nuove aree di indagine sono tre: le conseguenze delle ricerche scientifiche nel campo medico e genetico sono gli oggetti della bioetica; i problemi connessi ai comportamenti da assumere per evitare che l’industrializzazione distrugga il pianeta sono studiati dall’etica ambientale; la questione dell’uso dei mezzi di informazione di massa è di competenza dell’etica della comunicazione.
L’invadenza della medicina nei confronti di aspetti privati della vita umana, la pianificazione politica della tutela della salute, considerata anche in termini di efficienza economica, l’interferenza tra ricerca scientifica e religione nella disputa tra salvezza del corpo e dell’anima (e i riflessi di questa dialettica nelle decisioni assunte nella sfera pubblica e nella coscienza individuale), la sperimentazione di tecniche – su tutte la clonazione – che prospettano scenari per taluni affascinanti e per altri inquietanti rispetto al futuro della specie, sono i principali problemi di cui si occupa la bioetica.
Si potrebbe far risalire agli scritti raccolti ne Il medico nell’età della tecnica , composti tra il 1950 e il 1955 da Karl Jaspers , l’inizio della bioetica contemporanea. L’oggetto principale di Jaspers era in realtà l’analisi critica della psicanalisi, ma nei saggi si ritrova anche il motivo della necessità di saldare la ricerca medica con l’etica, perché “giunti ai confini della medicina scientifica, senza filosofia non si può dominare la stoltezza”. L’appello di Jaspers è stato raccolto e la bioetica tenta di affrontare questo compito. Di fatto, in ciò, nel lanciare un dibattito pubblico relativo ai problemi sopra citati, in maniera che non sia l’autorità politica o amministrativa o che non siano i laboratori di ricerca e le aziende farmaceutiche in perfetta solitudine a decidere cosa sia lecito o illecito, si riconosce il vero fattore su cui concordano i diversi autori che si sono accostati alla bioetica provenendo da tradizioni anche molto distanti ideologicamente, basti citare Ronald Dworkin , Jürgen Habermas e Hans Jonas. Un altro principio su cui la bioetica concorda è che non sia sufficiente l’approccio etico tradizionale, basato sul riconoscimento dei diritti nel presente, ma si debba fare riferimento anche a quelli delle generazioni future, che pure non possono istituire con noi un rapporto di reciprocità. Il principio di responsabilità, formulato nell’omonimo libro di Hans Jonas – Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979) –, vale a dire l’assunzione della consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni, costituisce il cardine non solo dell’etica ambientale, ma anche della bioetica. Chi possiede autorità politiche, amministrative, scientifiche per determinare il futuro deve agire con maturo senso di responsabilità per tutelare anche coloro che non sono ancora. Come dice Jonas “per lasciare che l’Essere sia”.
Su questi due punti, tuttavia, si esauriscono le convergenze dei vari interpreti della bioetica, i quali sostanzialmente si differenziano in base al proprio universo ideologico e di credenze nel declinare il principio del diritto alla vita. Appare, infatti, una netta contrapposizione tra l’interpretazione di questo principio in senso religioso, inteso come “sacralità della vita”, che non lascia spazio alla modifica di un concetto di “natura” assunto come modello immutabile, coincidente sostanzialmente col piano del progetto divino, e l’interpretazione del principio inteso come “qualità della vita”, che non esclude il riconoscimento del valore intrinseco della vita umana, ma afferma il diritto che siano gli individui, soggetti razionali e autocoscienti, a decidere quali diritti e doveri ne derivino, configurando un modello di “natura” assunto come parzialmente o interamente modificabile dall’uomo, pur sempre all’interno di un progetto responsabile.
Tra queste due posizioni le barriere sono molto nette e l’assolutizzazione delle posizioni impedisce un dialogo sereno su questioni importanti, decisive, relativamente alla vita degli individui e della comunità. Per questo è più facile trovare punti di convergenza su obiettivi minimi, come “evitare i danni”, piuttosto che su quelli massimi, come “realizzare il bene”, che implicano scelte di campo religiose e ideologiche con le relative difficoltà evidenziate. Tale approccio può ottenere maggiori risultati consolidando i punti acquisiti passo per passo e rinunciando all’imposizione per tutti gli individui di comportamenti dettati dalle convinzioni di pochi o di molti. Il principio di una corretta informazione, di una discussione pubblica matura tesa a favorire la creazione di opinioni proprie non preformate sono principi basilari dell’etica della comunicazione che qui risultano assolutamente indispensabili. È fondamentale, infatti, salvaguardare, accanto al principio di responsabilità, anche quello di autonomia, che considera ogni uomo o donna consapevole delle proprie azioni e in grado di scegliere, soprattutto in relazione all’autodeterminazione sul proprio corpo e al rapporto medico paziente.
Il principio di responsabilità (1979) di Hans Jonas è l’opera da cui si è dipanato il dibattito contemporaneo sul rapporto tra uomo e natura. Jonas giunge ad affrontare le problematiche estremamente moderne della salvaguardia dell’ambiente partendo da Il fenomeno vita (1966), un’opera di filosofia della natura di impianto quasi ottocentesco e, ancora più da lontano, dai suoi studi sullo gnosticismo degli anni Trenta e Cinquanta.
Secondo Jonas, l’età tecnologica impone un improrogabile mutamento etico. Hans Jonas recupera l’ontologia classica per collocare nella centralità dell’essere il cuore della nuova morale e individua nell’attualizzazione della legge morale kantiana la sua struttura formale. La morale tradizionale misurava i comportamenti in relazione all’interazione tra gli esseri umani; per Jonas, occorre invece comprendere oggi anche la natura tra gli oggetti dell’etica, poiché pregiudicare l’ambiente significa privare altri uomini, le generazioni future, di diritti di cui noi possiamo ancora godere. L’umanità sta dilapidando un patrimonio che non le appartiene, spendendo il futuro altrui. Gli imperativi dell’epoca tecnologica sono, pertanto, formulati prevedendo la necessità di rispettare la natura e la possibilità stessa dell’essere, minacciata dall’estinzione delle specie animali e vegetali causata dall’uomo. La tecnica, che aveva reso abitabile il mondo, liberando l’uomo dal terrore e dandogli signoria sulla natura, rischia altrimenti – come ha già cominciato a fare – di travolgere ogni cosa sulla sua strada: ciò che era lo strumento ai fini di un progetto di umanizzazione del mondo è diventato ora, secondo Jonas, proprio ciò che lo sta disumanizzando e snaturando.
Il problema sollevato da Jonas è ripreso anche da Everett Mendelsohn, che approfondisce l’analisi delle conseguenze indesiderate della tecnica in termini economici e lega la questione del rispetto per l’ambiente naturale all’affermazione di un’etica dello sviluppo, e dal filosofo giapponese Tomonubu Imamichi (1922 -), che introducendo il termine “ecoetica” si propone di passare da un’etica dell’ io a un’etica del noi e di cercare nuove virtù comuni, che permettano di integrare il pensiero occidentale con quello orientale, in nome della ricerca dell’armonia tra uomo e natura.
Un altro tratto innovativo della riflessione morale novecentesca è l’indagine sui problemi etici legati alla comunicazione. Il secolo dei mezzi di comunicazione di massa ha aperto la strada a una serie di processi di cui non si conosce la conclusione, ma che ha già suscitato inquietanti interrogativi. Le dittature totalitarie per prime hanno saputo sfruttare il potenziale propagandistico dei nuovi strumenti di persuasione e non a caso le prime trasmissioni televisive si svolsero nella Germania hitleriana. Gli strumenti si sono perfezionati e al cinema, alla radio, alla televisione si è aggiunta la rete mondiale internet. Si sono amplificate per gli individui le possibilità di ricevere informazioni e di comunicare, ma al tempo stesso sono aumentate le capacità di controllo che sulle loro vite possono avere governi, agenzie di informazione, aziende. Si avverte la necessità da un lato di garantire la privacy dei cittadini e dall’altra di salvaguardare proprio i cittadini nell’epoca della pirateria informatica, del terrorismo e di altri crimini non facilmente contrastabili con i convenzionali strumenti di protezione.
Due principali contributi alla riflessione sull’etica della comunicazione sono di Karl-Otto Apel e Jürgen Habermas, che hanno proposto i fondamenti di una teoria discorsiva della morale e della politica. Si tratta, per loro, di superare la crisi della democrazia ristabilendo le categorie del consenso e della società civile. Apel cerca di costruire un’etica che sia comunicativa essa stessa, in quanto una normatività morale sarebbe insita nello stesso uso del linguaggio, attraverso regole come quelle della giustizia (eguale diritto di ogni parlante a ricorrere ad atti linguistici utili ad articolare pretese di verità e ottenere consenso), della solidarietà (reciproco appoggio nel comune intento di trovare una soluzione argomentativa dei problemi) e della coresponsabilità (di tutti i parlanti nello sforzo solidale per articolare e risolvere i problemi). Per Apel il riconoscimento di questi principi del discorso insiti nella comunità illimitata della comunicazione può edificare un reale orizzonte di senso.
La teoria di Habermas si sviluppa, invece, sul piano della prassi, come teoria “dell’agire comunicativo” contrapposto a quello “dell’agire strumentale”, innervato dalla logica di dominio, e della manipolazione tecnica. L’agire comunicativo, al contrario, configurerebbe la possibilità di un’unione sociale non dominata dalla coercizione e sorretta da un atteggiamento chiaramente orientato alla ricerca dell’intesa. Anche Karl Popper (1902-1994) è intervenuto nel dibattito sulla comunicazione con uno dei suoi ultimi scritti, Cattiva maestra televisione (1993) che evidenzia come solo la responsabilità – in senso jonasiano – di chi detiene il potere di comunicare alle masse e il pluralismo delle voci rappresentate possa far sì che la televisione sia uno strumento a favore e non nemico della “società aperta”, tema caro al grande filosofo della scienza.