Nuovi diritti e globalizzazione
La nozione di nuovi diritti
L’espressione nuovi diritti o nuovi diritti umani è di uso recente. Denota, sia pure al di fuori di una tassonomia rigorosa, i diritti soggettivi e i diritti collettivi che nel corso degli ultimi decenni del Novecento sono stati socialmente e politicamente rivendicati e hanno ottenuto, in forme diverse, riconoscimento pubblico nell’ambito delle strutture politiche occidentali. È comunque da sottolineare che alcuni nuovi diritti sono ormai strumenti normativi largamente accettati e riconosciuti anche oltre i confini del mondo occidentale. Il diritto a un ambiente non inquinato, per es., viene enunciato e praticato, seppure con effettività talora molto limitata, anche presso culture politico-giuridiche non particolarmente evolute e complesse. Altri nuovi diritti – è il caso del diritto collettivo a usare la propria lingua madre o a praticare la propria fede religiosa o a utilizzare le risorse idriche della propria terra – presentano invece lo status di aspettative normative espresse da particolari gruppi sociali o da minoranze politiche o culturali. Esse reclamano il riconoscimento di propri interessi specifici o della propria identità e libertà collettiva – si pensi, per es., al popolo palestinese – ma non hanno per ora ottenuto un riconoscimento formale delle loro richieste e un’adeguata effettività. Si tratta in ogni caso di fenomeni evolutivi che contraddicono l’idea che i diritti umani siano un complesso normativo compiuto, statico e universale.
Norberto Bobbio (L’età dei diritti, 1990, pp. XIII-XV), pur non usando una terminologia rigorosa e costante, ha posto in evidenza per primo, come vedremo, la categoria dei nuovi diritti chiamandoli diritti della terza generazione, distinguendoli così dai diritti della prima generazione (i diritti politici, di libertà, di proprietà privata) e dai diritti della seconda generazione, o diritti sociali, inclusivi dei diritti al lavoro, all’istruzione, alla salute, oltre alle varie prestazioni pubbliche di assistenza e previdenza sociale garantite in particolare dallo Stato sociale o welfare State.
Secondo Bobbio tutti i diritti umani hanno un’origine storica e conflittuale e sono strettamente intrecciati con gli standard di razionalità della cultura occidentale. E tuttavia egli ritiene che la teoria dei diritti umani manchi sia di fondamento filosofico sia di rigore analitico. Se la dottrina dei diritti umani presenta antinomie al proprio interno – osserva Bobbio – essa non può avere un fondamento assoluto: tale fondamento comporterebbe la pretesa di rendere un diritto e il suo opposto entrambi vincolanti, irreversibili e universali.
Da questa analisi Bobbio ha inferito un importante corollario pratico: ciò che è rilevante è che i diritti umani godano di un ampio consenso politico e che si diffonda il linguaggio dei diritti come espressione di aspettative e di rivendicazioni sociali, incluse le nuove aspettative e le nuove rivendicazioni che intendono assurgere al ruolo di nuovi diritti. Talora, con buone ragioni, esse tendono a prevalere sui diritti umani tradizionali, come è il caso, per es., della lotta per i diritti delle donne che in alcuni Paesi ha già sconfitto una millenaria tradizione patriarcale, e come è il caso dei nuovi diritti relativi alle relazioni sessuali, matrimoniali e riproduttive. Secondo Bobbio questo processo di evoluzione ed espansione dei diritti umani può essere considerato, nonostante i limiti e le difficoltà che incontra, uno dei principali indicatori del progresso storico dell’umanità.
La posizione di Bobbio è in sintonia con quella sostenuta nel secondo dopoguerra da autorevoli sociologi, giuristi e filosofi occidentali, da Thomas H. Marshall a Niklas Luhmann, a Richard Rorty, a Samuel Huntington, che non condividono la tesi dell’universalità dei diritti umani. La disputa riguarda la filosofia giusnaturalistica, che secondo un approccio etico-teologico è sottesa alla dottrina dei diritti umani e che un orientamento storicistico e realistico tende a rifiutare. E riguarda, d’altra parte, il rapporto fra la concezione individualistica e liberale che in Europa ha accompagnato la genesi dei diritti soggettivi e l’ampia gamma di civiltà e di culture i cui valori, prevalentemente ispirati a una prospettiva organicistica, sono molto lontani da quelli europei. Si pensi, in particolare, ai Paesi del Sud-Est e del Nord-Est asiatico, di prevalente cultura confuciana, all’Africa subsahariana e, ovviamente, al mondo islamico.
T.H. Marshall (Class, citizenship and social development, 1964; trad. it. Cittadinanza e classe sociale, 1976), come è ben noto, ha ricostruito a grandi linee la genesi storica dei diritti soggettivi in Gran Bretagna, classificandoli in tre categorie successive: i diritti civili, affermatisi nel Settecento, includenti il diritto alla vita, i diritti di libertà, i diritti patrimoniali e l’autonomia negoziale; i diritti politici, rivendicati nell’Ottocento dalle masse degli operai, dei disoccupati e dei contadini; i diritti sociali emersi nel Novecento, consistenti nella garanzia per tutti i cittadini e in particolare per i lavoratori dipendenti di un grado di educazione, di benessere e di sicurezza sociale commisurato agli standard prevalenti entro la comunità politica.
Nuovi diritti sono perciò, per il socialdemocratico Marshall, i diritti sociali, che a suo parere, a differenza dei diritti civili, hanno l’effetto di compensare le diseguaglianze prodotte dall’economia di mercato. I diritti sociali, riconosce Marshall, non sono in grado di sovvertire la logica antiegualitaria del mercato, perché i servizi pubblici, per quanto rilevanti, non possono avere come fine l’eguaglianza dei redditi fra titolari del capitale e lavoratori dipendenti. Ciò che è invece realistico attendersi è un arricchimento generale della qualità della vita civile: nel welfare State ci sarà una riduzione dei rischi e dell’insicurezza, e una tendenziale equiparazione fra i cittadini più fortunati e quelli meno fortunati dal punto di vista della salute, dell’occupazione, dell’età, delle situazioni familiari. Ciò che sopravviverà non sarà più una diseguaglianza di status, ma una semplice diseguaglianza di reddito (income) all’interno di alcuni settori del consumo privato. E questo inevitabile tipo di diseguaglianza sarà socialmente più sopportabile, in particolare entro i regimi socialdemocratici nei quali l’organizzazione sindacale sarà consentita e non ci saranno più privilegi ereditari.
Anche Michael Ignatieff (Ignatieff 2001; trad. it. 2003, pp. 37-48), fedele a un approccio pragmatistico e antiformalistico, ha sostenuto che la dottrina dei diritti umani, nonostante il suo successo, non dispone di un impianto epistemologico e deontologico unitario e immutabile che consenta di attribuire ai diritti soggettivi le prerogative della «indivisibilità e della universalità». Questa formula, coniata alla Conferenza delle Nazioni Unite sui diritti umani tenutasi a Vienna nel 1993, è stata da allora usata in Occidente – si pensi alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, varata a Nizza nel dicembre 2000 – in opposizione alle culture non occidentali, in particolare quelle islamica, induista e cinese-confuciana. Ignatieff si oppone risolutamente a questa formula ideologica che a suo parere fa della dottrina dei diritti umani una sorta di religione secolare. I diritti umani sono un fenomeno storico tipicamente occidentale e non si sono affermati grazie a un’ecumenica convergenza di filosofie irenistiche o a processi di sublimazione etica del conflitto politico e dello scontro fra gli interessi sociali. I diritti sono radicati nel particolarismo di singole aree culturali e sono quindi divisibili e passibili di evoluzione e rinnovamento.
Nuovi diritti versus cosmopolitismo normativo
Per gli autori di ispirazione storicistica e antiglobalistica i diritti soggettivi si affermano in circostanze storiche contrassegnate da lotte per la rivendicazione e il riconoscimento pubblico di determinate aspettative o per la difesa e la promozione di nuove libertà contro i vecchi poteri e le tradizionali stratificazioni politico-sociali. In questo senso si può affermare che in ogni fase di sviluppo della modernità – oggi più che mai – la dinamica evolutiva dei rapporti politici in ambito nazionale e internazionale comporta costantemente l’emergere di nuovi diritti.
La distinzione di successive generazioni di diritti comporta il riconoscimento dell’inevitabile affermazione storica di sempre nuovi diritti e l’esclusione di una dottrina dei diritti umani che li consideri diritti naturali o diritti fondamentali e inalienabili. Secondo un approccio realistico e storicistico tutti i diritti, compreso il diritto alla vita, mancano di un fondamento assoluto e universale, filosoficamente e normativamente inoppugnabile, come sostengono invece gli autori che si ispirano all’universalismo etico di origine kantiana, quali, fra i molti altri, Hans Kelsen, John Rawls, Ronald Dworkin, John M. Finnis, Luigi Ferrajoli e in particolare Jürgen Habermas (1995). Quest’ultimo autore, ispirandosi direttamente a Zum ewigen Frieden di Immanuel Kant, sottolinea l’esigenza di un «ordinamento giuridico globale» (ein globaler Rechtszustand) che unisca tutti i popoli sotto la giurisdizione di una corte mondiale permanente che giudichi e condanni i responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. La tutela dei diritti – sostiene Habermas – non può essere lasciata nelle mani degli Stati nazionali, ma deve essere affidata sempre più a organismi sovranazionali. Il diritto, anzitutto il diritto penale, dovrebbe assumere la forma di una legislazione universale – una sorta di lex mundialis valida erga omnes – sulla base di una graduale omologazione delle differenze politiche e culturali delle diverse civiltà, oltre che delle consuetudini e delle tradizioni normative nazionali.
La premessa filosofica generale di questo cosmopolitismo normativo è la credenza nell’unità etica e razionale del genere umano, oltre che nella qualità morale o dignità della persona. Si tratta di un universalismo etico-metafisico che risente della tradizione monoteistica dell’ebraismo e del cristianesimo: c’è un solo Dio, creatore del mondo e legislatore supremo. A questo monismo metafisico ed etico si accompagna la tesi della razionalità del processo storico di integrazione universale delle società umane in un’unica società mondiale. E si aggiunge la certezza – che assume talora accenti profetici e religiosi – che l’unificazione culturale, politica e giuridica del genere umano è un processo necessario e irreversibile, ormai a portata di mano. Lo è grazie all’imponente fenomeno che a partire dalla metà del secolo scorso viene chiamato globalizzazione e che coincide in larga parte con la deriva della modernizzazione e della occidentalizzazione del mondo.
L’esplosione dei diritti
Per altri autori le aspettative cosmopolitiche sono prive di conferme storiche e di fondamento teorico, oltre a essere esposte ai rischi del dogmatismo e del fondamentalismo, caratteristici di ogni filosofia dell’universalità dei valori, della certezza cognitiva e della verità assoluta. Contro il fondamentalismo universalistico e ‘monoteistico’ dei diritti umani, inclusi i nuovi diritti, si è sostenuto, usando il lessico sistemico di N. Luhmann, che la dottrina dei diritti sembra priva di criteri di autoregolazione e autoprogrammazione cognitiva. Essa non dispone di griglie concettuali capaci di una precisa individuazione, definizione e catalogazione dei diritti. Accade perciò che il catalogo dei diritti sia incline a espandersi cumulativamente, anche all’interno delle costituzioni scritte, per successive interpolazioni normative dipendenti da specifiche circostanze storiche o promosse da particolari ideologie o credenze religiose. Nell’ultimo ventennio non sono mancati filosofi, politici e giuristi occidentali che si sono spinti sino a esigere l’estensione dei diritti fondamentali – i diritti costituzionalmente riconosciuti e garantiti – anche agli embrioni umani, agli esseri viventi diversi dall’uomo (i primati antropomorfi) e persino a oggetti inanimati, come i monumenti di grande pregio artistico o storico.
Contro queste peculiari richieste di nuovi diritti è stato osservato che l’espansione anomica del repertorio dei diritti fondamentali rischia di sollevare una grave aporia: se tutto è fondamentale, niente è fondamentale. D’altra parte è intuitivo che i diritti umani non possono essere tutti uguali – di eguale peso normativo – tanto più quando si trovino in tensione gli uni con gli altri. Alain Laquièze (Laquièze 2002, pp. 308-11) ha lucidamente sostenuto che quanto più il predicato ‘fondamentale’ si estende includendo una quantità crescente di diritti soggettivi, tanto più aumentano i rischi di una collisione fra il carattere fondamentale dei nuovi diritti e la necessità di relativizzarli e condizionarli ad altri diritti concorrenti.
Altri autori hanno sostenuto che lo sviluppo impetuoso dei nuovi diritti è il segno dell’incalzante dinamica evolutiva delle relazioni politiche internazionali nell’era della globalizzazione. Ma è stato anche osservato che l’inflazione normativa può rendere problematica l’effettività dei nuovi diritti e l’individuazione dei soggetti istituzionali provvisti della competenza necessaria per farli valere a livello nazionale e internazionale. Il fenomeno si è fatto sempre più rilevante sull’onda del processo di internazionalizzazione dei diritti umani, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata a Nizza nel dicembre 2000. Quest’ultima è stata esaltata per aver incluso nel catalogo dei diritti soggettivi, accanto ai tradizionali diritti civili, politici ed economico-sociali, anche alcuni nuovi diritti in tema di bioetica e integrità del corpo umano, di divieto della clonazione riproduttiva, di salvaguardia dei dati personali, di tutela dell’ambiente e di protezione dei consumatori. Ma non è un mistero, come hanno sostenuto Dieter Grimm e Joseph Weiler (Zolo 2001, pp. 1026-30), che l’effettività di questi nuovi diritti è in Europa, non meno che in altri continenti, lungi dall’essere minimamente soddisfacente.
Secondo Maria Rosaria Ferrarese (Ferrarese 2002, pp. 65-134), l’esplosione dei diritti, nonostante alcuni suoi aspetti molto positivi, si è affermata in parallelo con due fenomeni altamente problematici, caratteristici del processo di globalizzazione economico-politica: l’indebolimento del potere legislativo degli Stati nazionali e l’espansione del potere dei giudici, sia all’interno degli Stati sia in ambito internazionale. Quello che è stato chiamato spazio giuridico globale si sta diffondendo in stretta connessione con l’ideologia del globalismo giuridico che è sostenuta dalle corporation multinazionali, dalle istituzioni per la regolazione finanziaria internazionale, dalle organizzazioni non governative in generale. E accanto ai trattati, alle convenzioni e alle consuetudini emergono nuove fonti del diritto nazionale e internazionale, come gli atti normativi delle autorità regionali, la giurisprudenza delle corti penali internazionali, i verdetti delle corti arbitrali e, con particolare rilievo, le elaborazioni normative delle transnational law firms, e cioè dei grandi studi associati di avvocati ed esperti legali che operano in particolare nei settori del diritto commerciale, del diritto fiscale e di quello finanziario. In un sistema internazionale fortemente condizionato dalle convenienze delle grandi agenzie economiche e finanziarie, il potere decisionale, dinamico e innovativo, delle forze dei mercati tende a prevalere sulla decrescente efficacia regolativa delle legislazioni statali e delle istituzioni politiche ed economiche internazionali, sino a condizionare in modo decisivo, come vedremo, l’efficacia dei nuovi diritti quali, fra i molti altri, la tutela dell’ambiente, la difesa dei consumatori, la lotta contro le malattie epidemiche, il diritto all’acqua e, non ultimo, il diritto alla pace.
È ormai del tutto sfocata, sostiene Ferrarese, l’immagine weberiana del diritto moderno come un ordinamento coercitivo, garantito dal monopolio della forza esercitato dallo Stato in un determinato territorio, e che deve la sua legittimità alla calcolabilità razionale e alla prevedibilità dei suoi atti. Sono cambiati i protagonisti del processo giuridico e le modalità di produzione e di applicazione delle regole giuridiche. Il diritto non assolve più alla funzione di rafforzamento delle aspettative degli attori giuridici: funziona come uno strumento composito e pragmatico di gestione dei rischi connessi a interazioni dominate dall’incertezza. Si sta affermando – sotto l’influenza del pragmatismo procedurale di matrice statunitense – un sistema giuridico delle possibilità, fondato sullo schema privatistico del contratto. Ai giuristi specialisti dello strumento giurisdizionale, ha sostenuto Pier Paolo Portinaro (Portinaro 2002, pp. 387-405), si vanno affiancando nelle pratiche della società civile mondiale gli specialisti del lobbying politico presso i grandi centri federali o nazionali del potere esecutivo e, accanto a essi, gli specialisti del contenzioso d’affari, i litigators. Sono queste due categorie di lawyers che stanno acquistando il peso maggiore nei fori della globalizzazione economica, politica e giuridica. All’etica dell’imparzialità questi giuristi-strateghi contrappongono un machiavellismo giuridico che li allontana dai fondamenti culturali dello Stato di diritto di matrice cristiano-occidentale e quindi da ogni sensibilità per il tema dei diritti umani e in particolare dei nuovi diritti soggettivi. Essi pongono le loro competenze al servizio di corporazioni transnazionali rispetto alle quali le istituzioni degli Stati nazionali sono sempre meno in grado di difendere i diritti degli individui e dei soggetti collettivi, e di proteggere in particolare i soggetti più deboli.
In parallelo a questi fenomeni si assiste a un processo evolutivo altrettanto rilevante: la funzione giudiziaria e il potere dei giudici tendono a espandersi sia a livello nazionale sia a livello internazionale, limitando il potere legislativo dei parlamenti ed erodendo ulteriormente la sovranità degli Stati. L’indice empirico più evidente del fenomeno è il moltiplicarsi delle corti internazionali. Oggi sono operanti a livello internazionale – senza contare i tribunali regionali come la Corte europea di giustizia – la Corte internazionale di giustizia, la Corte europea dei diritti dell’uomo, la cui competenza si estende anche alla Federazione Russa, il Tribunale penale internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia, il Tribunale penale internazionale di Arusha per il Ruanda, l’Organo per la risoluzione dei conflitti della WTO (World Trade Organization), il Tribunale internazionale per il diritto del mare, la Corte penale internazionale. In presenza di questi sviluppi ci sono autori che parlano sia di giudizializzazione del diritto a livello globale – usando espressioni come judicial globalization e global expansion of judicial power – sia di internazionalismo giudiziario, con riferimento all’espansione della giustizia penale internazionale (international criminal justice). Non c’è dubbio che la giustizia penale sia oggi chiamata a svolgere funzioni e a garantire valori e interessi la cui promozione un tempo veniva affidata ad altri soggetti sociali o ad altre istituzioni democratiche. L’effettività dei nuovi diritti è condizionata sempre più dalla sovranità interpretativa e applicativa dei giudici. Alessandro Pizzorno (Pizzorno 1998, pp. 11-63) ha lucidamente analizzato questo fenomeno da un punto di vista sociologico e ne ha segnalato la profonda novità anche sul terreno dei diritti umani all’interno degli ordinamenti nazionali e sul piano internazionale.
Ma l’espertocrazia giudiziaria trova sostegno anche in una serie di circostanze più propriamente giuridiche. Alla base c’è, nelle democrazie occidentali, la crisi della legge come norma generale e astratta, e il prevalere di una produzione legislativa caotica e alluvionale, fatta di atti formalmente legislativi, ma il cui contenuto è in realtà di carattere amministrativo. Si calcola, per es., che in Italia sono oggi in vigore non meno di 150.000 leggi, il cui numero esatto nessuno è in grado di accertare. E si tratta di provvedimenti diretti molto spesso a tutelare o promuovere interessi particolari, secondo una diffusa distorsione corporativo-clientelare della legiferazione parlamentare. Oppure si tratta di norme di emergenza, emanate sotto l’incalzare del tempo e in vista di situazioni contingenti, destinate a durare molto meno delle disposizioni che le riguardano. E accade quindi che questa produzione legislativa sia di scadente qualità tecnica, di difficile interpretazione e applicazione, anche perché irretita in una serie di rinvii ad altre norme provenienti da fonti disparate – gli enti locali, le regioni, lo Stato, le autorità comunitarie, le istituzioni sovranazionali – anch’esse di problematica interpretazione.
È chiaro che l’ipertrofia normativa, in particolare nel settore penale, aumenta a dismisura il potere degli interpreti e in particolare dei giudici, sino a configurare un vero e proprio potere normativo delle corti civili e penali. Luhmann ha non solo sostenuto che nelle società complesse, anche se democratiche, l’ignorantia legis è ormai diffusissima, non essendo più il cittadino in grado di sapere quali sono le leggi esistenti e in ogni caso di coglierne la portata normativa, ma è arrivato ad affermare che la tacita e deliberata ignoranza della legge è una pratica inevitabile anche presso le corti giudiziarie. Secondo Luhmann ignorare in tutto o in parte le leggi sembra ormai divenuta una condizione necessaria per emettere sentenze. E questo sembra valere sia per i giudici ordinari sia per le corti costituzionali, il cui potere di intervento normativo tende a espandersi in tutti i Paesi occidentali, in un implicito processo di imitazione del modello costituzionale statunitense. Anche le Corti costituzionali europee tendono a profilarsi come fonti supreme del diritto, accantonando i parlamenti e sostituendosi alla sovranità popolare ormai dispersa e senza rappresentanza. Sembra dunque avverarsi la celebre massima formulata da Carl Schmitt (Der Begriff des Politischen, 1932; trad. it. Le categorie del ‘politico’: saggi di teoria politica, 1972, pp. 265-75), secondo la quale sovrano non è colui che ha il potere di fare le leggi o di proclamare i diritti, ma è colui che ha il potere di interpretare e applicare le norme. E tutto questo influisce negativamente sulla possibile effettività dei nuovi diritti, anche nei casi in cui vengano riconosciuti come diritti fondamentali in testi costituzionali o in trattati internazionali.
Globalizzazione e new legal pluralism
L’internazionalizzazione della dottrina dei diritti umani e l’esplosione dei diritti sono in stretta sintonia con la deriva planetaria della globalizzazione nei suoi aspetti economici, politico-giuridici, comunicativi e, non ultimi, militari. Questo processo, lungi dal favorire il cosiddetto globalismo giuridico, e cioè la stabilizzazione di un codice universale del diritto e dei diritti umani come propone Habermas, stimola il particolarismo e il pluralismo delle rivendicazioni di nuovi diritti, in particolare da parte delle masse emarginate entro i Paesi ricchi, delle minoranze indigene e dei Paesi deboli e poveri, ossia dell’umanità più dolorosamente esposta alla paura, all’insicurezza, alla miseria, alla fame, alle malattie epidemiche, alla morte precoce. Tipica e altamente simbolica in questo senso è stata la Dichiarazione dei diritti delle popolazioni indigene, adottata dalle Nazioni Unite nel 2007, cui è seguito, nel giugno del 2008, il primo summit internazionale delle popolazioni indigene nell’isola giapponese di Hokkaido.
Secondo autorevoli antropologi e sociologi del diritto – fra cui John Griffiths e Boaventura de Sousa Santos – l’esplosione dei nuovi diritti oggi in corso fa parte di un fenomeno che è stato chiamato new legal pluralism. All’ideologia giuspositivista e normativista, ancora legata al modello kelseniano di un ordinamento giuridico unitario, coerente e completo, è necessario opporre la molteplicità delle tradizioni normative e degli ordinamenti giuridici oggi in vigore a livello planetario, e sottolineare il loro prevalente carattere trans-nazionale e trans-statale. Nel farlo, questi autori si richiamano a ricerche classiche di antropologia del diritto, come quelle di Leopold Pospisil e Sally Falk Moore. Santos (Toward a new common sense. Law, science and politics in the paradigmatic transition, 1995), per es., ha parlato di interlegality, indicando con questo termine l’esistenza di reti di legalità parallele – sovrapposte, complementari o antagoniste – che obbligano a costanti transazioni e trasgressioni e che non sono riconducibili ad alcun unitario paradigma normativo preesistente agli accordi contrattuali o alle controversie. Le norme sono in costante elaborazione e le controversie sono risolte da chi ha il potere di decidere qual è la norma da applicare al caso concreto in un contesto conflittuale che può essere chiamato the politics of definition of law. Il pluralismo giuridico è una conseguenza del pluralismo sociologico e nessuna società – tanto meno la pretesa ‘società civile mondiale’ – è omogenea.
Il pluralismo giuridico è dunque provato empiricamente dalla pluralità dei codici normativi che coesistono entro società culturalmente, etnicamente, religiosamente segmentate e dalla crescente molteplicità di rivendicazioni di diritti sempre nuovi. La complessità è tanto maggiore se si considera la dimensione globale: il cosiddetto spazio giuridico globale è una sorta di galassia giuridica nella quale il diritto statale non svolge alcuna funzione egemone e i diritti soggettivi – vecchi o nuovi – sono in balia di poteri privatizzati. Basti pensare al ruolo normativo delle law firms nei settori del diritto commerciale, fiscale e del lavoro, e all’emergere a livello globale di una nuova lex mercatoria le cui fonti normative non sono né gli ordinamenti statali né il diritto internazionale, ma quelli che Yves Dezalay (Marchands de droit. La restructuration de l’ordre juridique international par les multinationales du droit, 1992; trad. it. 1997) ha chiamato i marchands de droit, ovvero le multinazionali del diritto.
Oggi non si può trascurare – sostengono gli antiglobalisti – che il monismo giuridico è contraddetto nei fatti. Non solo le minoranze etniche rivendicano e applicano di fatto e, sempre più, loro diritti particolari, ma lo stesso diritto positivo degli Stati moltiplica le possibili opzioni concernenti la singola situazione giuridica: regimi patrimoniali fra coniugi, pluralità delle cause del divorzio, pluralità dei regimi fiscali in sede europea, e così via. Il pluralismo giuridico si esprime attraverso dispositivi normativi diversi che, all’interno dello stesso ordinamento, si applicano a situazioni giuridiche identiche. In questo quadro è di grande rilievo l’interazione fra i modelli normativi forti (occidentali) e le tradizioni normative autoctone che tentano di far valere i diritti delle popolazioni native. Questo fenomeno è stato studiato in alcune aree continentali che hanno lungamente conosciuto la presenza coloniale, in particolare nel mondo latino-americano e in un certo numero di Paesi islamici del Mediterraneo e dell’Asia centro-meridionale.
In Argentina, in Brasile, in Messico, in Perù, il diritto statale di derivazione occidentale confligge sia con le rivendicazioni normative dei movimenti politici più radicali, sia con le tradizioni giuridiche delle minoranze aborigene: basti pensare al movimento dei Sem Terra in Brasile, che rivendica il nuovo diritto alla terra dei contadini e dei braccianti che si trovano in condizioni di estrema povertà, a quello zapatista in Messico, alla rivolta degli indios andini in Perù, e così via. In Asia, in particolare in Paesi come il Pakistan e l’India, il diritto statale imposto dall’esperienza coloniale viene sfidato dalla pressione verso il recupero delle tradizioni normative precoloniali nella forma di nuovi diritti ereditati da consuetudini millenarie. Altrettanto vale in Paesi come l’Egitto, dove, come ha scritto Ṭāriq al-Bišrī (al-Bišrī 2002, pp. 667-79), il recupero fondamentalista della šarī῾a (legge) islamica e del fiqh (giurisprudenza coranica) oppone all’ordinamento statale di netta impronta occidentale nuovi diritti: nuovi rispetto all’ordinamento giuridico ereditato dal dominio politico, economico e militare degli invasori coloniali.
In questo contesto pluralista e globale i nuovi diritti come espressione di nuove aspettative e di nuove rivendicazioni sociali, ha sostenuto Ignatieff, trovano un crescente consenso all’interno di tutte le culture e di tutte le civiltà, non solo in Occidente. Ma il consenso, è stato obiettato, è un dato puramente empirico e storicamente contingente, oltre che difficilmente accertabile in termini rigorosi: esso non giustifica, come Ignatieff invece ritiene, alcuna pretesa universalistica, né alcuna intrusività politica, militare o missionaria da parte dei fautori occidentali del globalismo giuridico. Meno che mai giustifica l’uso diretto della forza, come è già più volte accaduto, in particolare nei Balcani, in Medio Oriente, nell’Asia centrale. E occorre inoltre riconoscere, soprattutto nel contesto dei processi di globalizzazione, che alla rivendicazione e alla proclamazione di nuovi diritti e alla moltiplicazione dei bills of rights non corrisponde, se non molto parzialmente e ambiguamente, l’attuazione concreta dei diritti, persino all’interno dei Paesi occidentali. Una cosa è la rivendicazione o la proclamazione dei diritti, ha ammonito Bobbio, altra cosa è la loro effettiva tutela.
Tre categorie di nuovi diritti
Per quanto riguarda i diritti di terza generazione (o nuovi diritti), Bobbio ha sostenuto che si tratta di una categoria eterogenea e vaga, nella quale vari autori inseriscono confusamente rivendicazioni, aspettative e speranze diverse, come i diritti di solidarietà, il diritto alla pace internazionale, il diritto allo sviluppo economico e alla qualità della vita, il diritto a un ambiente protetto, il diritto alla libertà informatica, i diritti dei consumatori. Nonostante questa crescente e incoerente inflazione normativa, Bobbio ha riconosciuto che numerose rivendicazioni meritano, per il loro rilievo e il loro relativo successo, di essere prese in considerazione e valutate come il nucleo generatore di nuovi diritti. Fra questi ha incluso in particolare due nuovi diritti: il diritto a vivere in un ambiente non inquinato e il diritto all’integrità del proprio patrimonio genetico, in relazione agli effetti sempre più rilevanti e invasivi della ricerca biologica. La scienza sembra rendere ormai possibile la manipolazione dell’identità genetica di ogni singolo individuo umano, così come già si fa con gli animali superiori e molto probabilmente si potrà fare in futuro prossimo su ogni forma di organismo vivente. Dati i prevedibili, amplissimi sviluppi di queste ricerche biologiche e dei loro effetti sui diritti individuali, Bobbio accenna alla possibilità che in futuro i nuovi diritti pertinenti vengano chiamati diritti di quarta generazione.
Pur tenendo presente la prudente avvertenza di Bobbio circa il carattere eterogeneo e instabile della terza generazione dei diritti, forse vale la pena tentare una loro catalogazione, sia pure senza la minima pretesa di completezza e di compilazione rigorosa. Può essere utile prendere in considerazione, secondo l’approccio giusrealistico di Alf Ross (On law and justice, 1958; trad. it. 1990) il diverso grado di effettività raggiunta dai diritti rivendicati o proclamati, e cioè la loro capacità di incidere sui rapporti sociali e politici, inducendo in particolare avvocati, giudici e amministratori a tenerne conto. Proveremo a distinguere da questo punto di vista tre categorie di nuovi diritti, senza differenziare i diritti soggettivi in senso proprio dai diritti collettivi, rivendicati da gruppi etnici o culturali in nome della propria identità collettiva anche nell’interesse dei propri membri individuali. Naturalmente non sarà possibile illustrare nel dettaglio la vicenda storico-politica e i contenuti normativi di ciascuna rivendicazione di nuovi diritti. Ci soffermeremo perciò analiticamente solo su alcuni casi che si possono ritenere esemplari per le loro caratteristiche formali e soprattutto per il rilievo che essi presentano nel panorama giuridico, politico ed economico dei processi di globalizzazione.
Distingueremo fra: a) i nuovi diritti che sono stati esplicitamente enunciati in recenti testi costituzionali o trattati internazionali e che godono di una effettività in qualche modo scontata, non opponendosi a interessi o ideologie prevalenti nel mondo occidentale e non minacciando gli interessi vitali delle grandi potenze politiche ed economiche; b) i nuovi diritti che pur enunciati formalmente in documenti nazionali o internazionali godono di fatto di una effettività molto limitata; infine, c) i nuovi diritti che stanno emergendo, ma che non sono stati per ora formalmente enunciati in testi normativi o in trattati a causa delle notevoli resistenze che ne hanno impedito il riconoscimento giuridico, oltre che una minima effettività.
Nuovi diritti dichiarati ed effettivi
Una categoria di nuovi diritti formalmente dichiarati e in larga misura effettivi nel mondo occidentale sono tipicamente alcuni fra quelli presenti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (o Carta di Nizza): l’integrità genetica del corpo umano, il divieto della clonazione riproduttiva, la salvaguardia dei dati personali e in generale della privacy individuale e familiare. Si tratta di riconoscimenti normativi importanti, ma piuttosto scontati – salvo ovviamente le limitazioni della privacy imposte dalla cosiddetta war on terrorism – come del resto sono scontate in larga parte le prescrizioni decise dalla Convenzione, l’organismo composto da rappresentanti dei parlamenti e dei governi europei, oltre che del Parlamento e della Commissione europea. In tema di nuovi diritti, in particolare, la Convenzione ha tenuto un atteggiamento estremamente cauto, che ha preso in considerazione solo alcune nuove aspettative sociali – quelle meno controverse e delicate –, mentre ha ignorato altre pressanti questioni, come, per es., quelle riguardanti la famiglia omosessuale e la libertà sessuale in generale, l’aborto, l’eutanasia, il testamento biologico, la manipolazione genetica degli alimenti. È noto, del resto, che la Carta dei diritti dei cittadini europei è stata il frutto di un esercizio di trascrizione transattiva del law in books dei trattati e delle costituzioni degli Stati europei. Nel migliore dei casi, come ha sostenuto Joseph Weiler, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ha lasciato inalterato il livello di tutela dei diritti umani già in atto nelle sedi nazionali e in ambito comunitario. C’è chi ha sostenuto che la Carta di Nizza si è rivelata l’opposto di un approccio realistico ai diritti e alle istituzioni comunitarie, poiché non ha dato alcun rilievo agli strumenti di concreta implementation dei diritti da parte dei governi, delle magistrature nonché delle polizie europee.
Nuovi diritti enunciati, ma non effettivi
Per quanto riguarda la seconda categoria di nuovi diritti – quelli formalmente enunciati negli ultimi decenni in documenti nazionali o internazionali, ma sostanzialmente privi di effettività – se ne possono indicare senza esitazione almeno i seguenti: il diritto alla vita; i diritti dei cittadini sottoposti a misure di limitazione della libertà nelle camere di sicurezza dei commissariati di polizia, nelle prigioni e negli ospedali psichiatrici giudiziari; i diritti dei consumatori. Lasciando da parte quest’ultimo diritto – richiamato anche dall’art. 38 della Carta di Nizza, che richiederebbe una trattazione molto tecnica e altrettanto ampia – è importante mostrare, anzitutto, come il diritto alla vita, enunciato in una serie di documenti nazionali e internazionali del secondo dopoguerra, sia in realtà un diritto di scarsissima effettività.
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, votata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948, è in assoluto il primo documento internazionale che proclami (all’art. 3) il diritto alla vita di ogni individuo. Si tratta tuttavia, come è noto, di un documento privo di cogenza giuridica. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 riconosce il diritto alla vita di tutti gli individui, ma esclude, con palese incoerenza, che tale diritto comporti l’abolizione della pena di morte. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, sicuramente vincolante per i numerosi Stati che lo hanno ratificato, stabilisce al primo comma dell’art. 6 che «il diritto alla vita è inerente alla persona umana. Questo diritto deve essere protetto dalla legge. Nessuno può essere arbitrariamente privato della vita». Nei commi successivi dell’art. 6 viene tuttavia dedicato ampio spazio a prescrizioni che regolano e in qualche misura limitano la pena di morte, senza minimamente vietarla, poiché la si ritiene un omicidio non arbitrario. In Europa sono stati compiuti recentemente alcuni passi avanti, almeno sul piano normativo, con l’approvazione del Sesto e soprattutto del Tredicesimo protocollo aggiuntivo della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che è entrato in vigore nel 2003. L’art. 1 stabilisce con chiarezza che «la pena di morte è abolita. Nessuno sarà condannato a tale pena o sottoposto a esecuzione capitale». Ma, come è noto, in un elevato numero di Paesi, compresi gli Stati Uniti d’America, la Cina, l’Iran e l’Arabia Saudita, la pena di morte è tuttora in vigore e produce ogni anno più di seimila vittime.
Occorre aggiungere che non esiste alcun trattato o documento internazionale che, nell’affermare il diritto alla vita, abbia mai incluso entro la nozione di diritto alla vita anche il diritto soggettivo a non essere uccisi – e il dovere di risparmiare la vita non solo dei civili, ma anche dei militari – nel corso di una guerra di aggressione. E tale è stata incontestabilmente, fra le molte altre dell’ultimo ventennio, la guerra scatenata dalle armate anglo-americane contro l’Irāq nel 2003: una guerra che ha fatto strage di centinaia di migliaia di persone innocenti. Per le vittime di questi crimini e per le loro famiglie il diritto internazionale non prevede alcun risarcimento.
Per quanto riguarda i diritti fondamentali dei cittadini (e degli stranieri) reclusi nei penitenziari o in altri stabilimenti di detenzione, la loro tutela è formalmente garantita, sia pure in termini non limpidi ed esaustivi, dalle norme internazionali – in particolare dalla Convenzione internazionale contro la tortura, varata dalle Nazioni Unite nel 1984 ed entrata in vigore nel giugno 1987 – che vietano la tortura e i trattamenti e le pene disumani e degradanti. In questo senso alcuni Stati europei, inclusa l’Italia, si sono distinti, anche se con scarsa efficacia, per l’elaborazione di politiche criminali e penitenziarie innovative, orientate alla rieducazione o ‘risocializzazione’ dei detenuti secondo una concezione correzionale e dissuasiva e non retributiva e puramente afflittiva della pena e della detenzione. Le Nazioni Unite e l’Unione Europea hanno finanziato progetti e istituzioni internazionali per analizzare le condizioni della vita carceraria nel mondo e altrettanto hanno fatto organizzazioni non governative come Amnesty international, Human rights watch e Penal reform international. Nel 1987, in particolare, il Consiglio d’Europa ha dato vita al Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT). Gli ispettori del Comitato hanno il potere di visitare gli istituti di reclusione situati in Europa e di inviare rapporti confidenziali ai governi competenti. In molti casi i rapporti sono stati resi pubblici per iniziativa spontanea dei governi interessati, che però hanno normalmente ignorato le raccomandazioni in essi contenute.
I rapporti dei commissari del Comitato per la prevenzione della tortura, inclusi quelli inviati ai governi italiani, documentano la sistematica violazione dei più elementari diritti dei cittadini reclusi: fra gli altri il diritto alla privacy, totalmente impedita dal sovraffollamento degli stabilimenti, il diritto al lavoro, il diritto all’esperienza affettiva e sessuale, il diritto alla salute e all’integrità fisica, il diritto alla comunicazione sociale. Cruciale è il tema della tortura: essa non viene più esercitata con le apparecchiature sanguinarie di un tempo, che lasciavano ampie tracce. Antonio Cassese, che è stato per anni presidente del Comitato per la prevenzione della tortura, ha dedicato un intero capitolo del suo libro Umano-disumano (Cassese 1994, pp. 71-103), alla documentazione delle nuove forme di tortura praticate in quasi tutti i Paesi europei. Per non lasciare tracce, la tortura si è fatta casalinga e dimessa, ma non per questo meno crudele, umiliante e dolorosa.
Sempre nel 1987, il Consiglio d’Europa ha varato le importanti European prison rules, che intendono rendere meno spietate le condizioni di vita dei detenuti nelle carceri europee. Le prison rules non mettono tuttavia in discussione la pena dell’ergastolo che, in molti Paesi europei, in particolare in Italia, è oggetto di un’esasperata richiesta di abolizione da parte di centinaia di ergastolani che fanno appello a norme costituzionali e internazionali per dare credito al nuovo diritto che rivendicano. A parte l’ergastolo, le condizioni carcerarie, in quanto tali, non sono lontane da una vera e propria tortura, come prova l’elevato e crescente tasso del suicidio carcerario, che qualcuno ha definito pena di morte extragiudiziaria. Nelle carceri italiane è in costante aumento la frequenza dei suicidi: negli ultimi dieci anni si sono uccise in carcere da un minimo di 42 a un massimo di 72 persone all’anno. Si tratta di numeri elevati, soprattutto se confrontati con la percentuale di suicidi registrata fra le persone libere. Nel 2002 i suicidi in carcere sono stati in proporzione 15,5 volte di più di quelli registrati nella popolazione italiana.
Nuovi diritti inascoltati
Una terza e ultima categoria di nuovi diritti può essere individuata nelle rivendicazioni politiche o nelle proclamazioni sociali di diritti soggettivi (o collettivi) che si sono imbattute in particolari resistenze da parte di poteri economici, politici o militari e non sono riuscite finora a raggiungere una ragionevole capacità di incidere sui rapporti sociali e a ottenere un riconoscimento giuridico formale. Fra questi potenziali nuovi diritti può essere opportuno esaminare qui almeno quattro casi: i diritti umani dei migranti, il diritto all’ambiente, il diritto all’acqua, il diritto a quella che è stata chiamata autonomia cognitiva, intendendo con questa espressione la capacità degli individui di resistere alla pressione subliminale dei grandi mezzi di comunicazione di massa, anzitutto della televisione.
Tipica e molto grave è la condizione dei milioni di migranti che abbandonano i loro Paesi – senza sviluppo, con un elevato tasso demografico, infestati dalle malattie epidemiche, devastati dalle guerre e dalla povertà estrema – in cerca di una vita migliore nelle aree più ricche del mondo, in particolare nell’Unione Europea e negli Stati Uniti. Il fenomeno è tanto più allarmante per l’antagonismo che si scatena fra le popolazioni autoctone dei Paesi occidentali e le masse crescenti dei migranti. Si tratta di soggetti molto deboli ma che, spesso a rischio della vita, esercitano una forte pressione per l’ingresso e l’accettazione nei Paesi occidentali e per l’eguaglianza di trattamento, inclusa l’attribuzione, a certe condizioni, della cittadinanza del Paese ospitante. La replica da parte delle popolazioni autoctone minacciate da questa pressione cosmopolitica si esprime in termini sia di rigetto o di espulsione violenta degli immigrati, sia di negazione pratica della loro qualità di soggetti civili sia, infine, di discriminazione giuridica e politica nei confronti dei ‘barbari invasori’. Questo conflitto sta scrivendo, e sembra destinato a scrivere nei prossimi decenni, alcune delle pagine più luttuose della storia civile e politica dei Paesi occidentali, l’Italia compresa. Il governo italiano, per fare solo un esempio, ha proposto al Parlamento di sanzionare come un crimine l’ingresso irregolare degli stranieri extracomunitari nel territorio dello Stato, di rinchiuderli a lungo nei famigerati centri di permanenza temporanea, di registrare le impronte digitali dei bambini rom.
Il fenomeno migratorio è una sfida radicale in tema di sicurezza, perché la stessa dialettica di cittadino e straniero viene alterata dall’imponenza dei fenomeni migratori e dalla loro oggettiva incontrollabilità e irreversibilità. Ed è una sfida dirompente che tende a far esplodere sia gli elementi della costituzione prepolitica della cittadinanza, sia i processi sociologici di formazione delle identità collettive, sia, infine, le stesse strutture dello Stato di diritto. A queste strutture viene rivolta la pressante, legittima richiesta di un riconoscimento multietnico non solo di una serie di diritti individuali dei cittadini immigrati, ma delle stesse identità etniche di minoranze caratterizzate da una notevole distanza culturale rispetto alle cittadinanze ospitanti. Questo scenario di crescente instabilità e turbolenza delle relazioni politiche interne e internazionali è allarmante soprattutto perché mostra l’assenza di un’opinione pubblica internazionale indipendente dagli interessi e dalle strategie delle grandi potenze e adeguata al livello di complessità e interdipendenza dei problemi politici e giuridici da affrontare. È dunque altamente improbabile che i migranti extracomunitari vedano formalmente riconosciuti i diritti collettivi che rivendicano in quanto persone e in quanto lavoratori.
Per quanto riguarda il diritto all’ambiente e, più in generale, la questione ambientalistica ed ecologica, la letteratura è molto ampia e si affianca a quella propriamente scientifica, dall’astrofisica alla meteorologia, alla geopolitica, alla teoria politica in senso stretto, all’economia, alla filosofia, al dibattito sulla global environmental governance. È diffusa la convinzione che il destino dell’umanità dipenda essenzialmente dalla soluzione a livello planetario del problema ecologico-ambientale. Non c’è perciò un singolo individuo che non reclami un suo diritto all’ambiente, intendendolo anzitutto come un nuovo diritto a vivere in un ambiente – quello cittadino-metropolitano, in particolare – non inquinato dal punto di vista chimico, acustico e luminoso. In secondo luogo, è diffusa l’aspettativa a essere liberati dall’insicurezza generata dalla costante minaccia di fenomeni tellurici e meteorologici gravemente distruttivi, se non prossimi alla devastazione di interi continenti. Nessuno si nasconde che questi fenomeni si sono fatti più frequenti e più gravi a causa dell’alterazione degli equilibri ecologici planetari di cui sono responsabili le attività umane, anzitutto quelle tecnologico-industriali.
Come è emerso dai summit di Stoccolma (1972), di Rio de Janeiro (1992) e di Johannesburg (2002), oltre che dal protocollo di Kyoto del 1997, la responsabilità di questi fenomeni è imputabile alla crescente accelerazione dello sviluppo scientifico-tecnico-industriale della civiltà umana o, che è lo stesso, al processo di sempre più rapida occidentalizzazione del mondo. Questo significa non solo che i maggiori responsabili del dissesto ecologico globale sono oggi le potenze industriali, a cominciare dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, ma che la responsabilità si allarga a macchia d’olio via via che il modello di produzione e di consumo occidentale si estende ai Paesi un tempo classificati come Terzo mondo. Basti pensare al fatto che la Cina, da sola, aggiunge ogni anno circa un milione e mezzo di automobili al suo parco macchine e che nei prossimi anni questo fenomeno subirà una vistosa accelerazione sia in Cina sia in altre aree economicamente emergenti. Le conseguenze sono incalcolabili, non solo in termini di produzione di anidride carbonica e di emissione di sostanze cancerogene. Gli indicatori empirici sono oltre una dozzina e riguardano l’effetto serra, la distruzione della fascia di ozono, l’inquinamento chimico dell’aria, l’alterazione chimica degli oceani, la desertificazione, l’acidificazione dei terreni e delle acque, l’eutrofizzazione dei fiumi, dei laghi e dei mari costieri, la perdita della diversità biologica, l’eccessivo utilizzo di risorse rinnovabili e non rinnovabili, l’inquinamento delle acque di falda, lo smog estivo, la moria dei boschi, l’accumulo delle emissioni tossiche e dei rifiuti, il collasso della qualità della vita nelle città.
Anche i cittadini dei Paesi più industrializzati pagano i costi di un orientamento unilaterale della politica e dell’economia verso la crescita in termini di PIL e la costante accelerazione dei ritmi vitali imposta dalla globalizzazione dei mercati. Questi costi sono la diffusione di nuove malattie, la perdita di orientamento rispetto ai valori, la frammentazione sociale, la scarsità del lavoro, l’aumento della devianza e della violenza, la depressione. L’incremento del volume totale dei beni prodotti, la diffusione di mezzi di trasporto sempre più veloci, a cominciare dalle automobili e dai motocicli, l’espansione dei tempi di lavoro per fini di lucro producono, al di là di una certa soglia, effetti gravemente negativi sulla qualità della vita urbana, in primis la diffusione di un senso profondo di precarietà e insicurezza.
Ma, sebbene questo scenario allarmante non sia negato da alcun osservatore responsabile, è assai poco diffusa la consapevolezza che la riconversione necessaria per salvare il pianeta richiederebbe anzitutto l’abbandono dell’ottimismo consumistico che esalta la liberalizzazione dei mercati globali come la hidden hand che garantisce lo sviluppo, l’equa distribuzione delle risorse e l’armonia universale. Al suo posto sarebbe necessaria una politica globale capace di impostare programmi, di definire regole, di attribuire diritti e di imporre sanzioni. Ma se questa regolazione politica globale dovesse essere diversa da una sorta di dittatura ecologica imposta, in funzione dei loro interessi vitali, dalle grandi potenze industriali – è lo spettro della global environmental governance e della cosiddetta modernizzazione ecologica – essa dovrebbe passare attraverso una riconversione consapevole degli stili di vita dei cittadini-consumatori. Dovrebbe toccare quindi anche le forme della produzione e del commercio mondiale e incidere persino sulle comunicazioni di massa, a cominciare dalla comunicazione pubblicitaria. Questo compito non potrebbe essere affidato, senza altissimi rischi, a un’istituzione ecologica mondiale o a un tribunale penale internazionale, come politici e giuristi occidentali hanno proposto in varie sedi, in particolare alla Conferenza di Parigi del febbraio 2007, che si è conclusa con un appello per la governance ecologica mondiale.
Sono dunque chiare le ragioni per cui oggi l’orizzonte ecologico del pianeta è tutt’altro che roseo, come mostrano da anni i rapporti del Wuppertal Institut: la logica della stabilità egemonica entro il sistema degli equilibri politici ed economici mondiali si oppone a qualsiasi serio progetto, anche molto graduale e moderato, di riconversione ecologica del pianeta e di riconoscimento di nuovi diritti soggettivi e collettivi alle vittime della devastazione ambientale ed ecologica. La riconversione richiederebbe, infatti, qualcosa di molto simile a una rivoluzione nei rapporti economico-politici fra gli Stati, e fra gli Stati e i loro cittadini, tale da avviare una profonda redistribuzione del potere politico nazionale e internazionale. E questa ‘rivoluzione’ dovrebbe prendere avvio e trovare consenso proprio all’interno dei Paesi più ricchi e potenti.
Di incalzante attualità è oggi il diritto all’acqua che, a giudizio di molti autori, in particolare di Vandana Shiva (Shiva 2002; trad. it. 2003, pp. 65-112), sembra destinato a divenire una delle maggiori cause di conflitto sia all’interno degli Stati sia nei rapporti internazionali. Numerosi movimenti sociali hanno rivendicato con forza il diritto all’acqua in ambito nazionale e transnazionale, promuovendo in particolare, come vedremo, il Water manifesto. La richiesta principale è stata il riconoscimento della natura pubblica del servizio idrico, ma in molti casi si è arrivati a proclamare l’accesso all’acqua potabile come un diritto umano universale, inalienabile e inviolabile. Si è inoltre sostenuto che il diritto all’acqua deve essere inteso anche come un diritto collettivo. Se il rapporto sociale con l’acqua – e con il cibo – è rispettato e protetto nelle sue forme consolidate nel tempo, il diritto all’acqua assume un’importante valenza simbolica che appartiene al gruppo come tale e non semplicemente ai suoi singoli membri. Grande rilievo può assumere il rapporto fra i corsi d’acqua e la qualità dell’ambiente e, più in generale, fra l’umidità del terreno e i tipi di colture, di abbigliamento e di costumi alimentari, per non parlare dei miti identitari collegati ai grandi fiumi, dal Nilo al Gange, al Rio de la Plata, al Mississippi, al Tigri, all’Eufrate, al Giordano. Occorre anzitutto sottolineare che non esiste nei testi costituzionali occidentali e nel diritto internazionale vigente una formulazione normativa del diritto soggettivo all’acqua e neppure un’esplicita qualificazione dell’acqua potabile come possibile oggetto di un diritto collettivo. Per ora soltanto l’Uruguay, grazie alle pressioni del movimento Agua y vida, nell’ottobre del 2004 ha inserito il diritto all’acqua nella sua Costituzione. La prima iniziativa internazionale che ha tematizzato il diritto all’acqua è stata la Conferenza delle Nazioni Unite sull’acqua, che si è tenuta a Mar de la Plata, in Argentina, nel 1977. Nella dichiarazione finale si sosteneva che «tutti hanno diritto di accedere all’acqua potabile in quantità e qualità corrispondenti ai propri bisogni fondamentali». Successivamente, nel settembre del 1990, le Nazioni Unite hanno promosso a Nuova Delhi la Conferenza finale del Decennio internazionale dell’acqua potabile e nel gennaio 1992 si è svolta a Dublino la Conferenza delle Nazioni Unite su acqua e ambiente, che ha sottoscritto la Dichiarazione finale di Dublino. Questa prima fase di iniziative internazionali si è conclusa con la Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo, tenutasi a Rio de Janeiro nel giugno del 1992, alla quale sono più tardi seguiti i due forum mondiali per l’acqua di Marrakesh (1997) e dell’Aja (2000). Nel frattempo si sono espressi in termini particolarmente energici il Gruppo di Lisbona e la Fondazione Mario Soares, che nel settembre del 1998 hanno promosso il celebre Manifesto dell’acqua (The water manifesto). Quattro sono le idee-chiave del documento: a) l’acqua è fonte insostituibile di vita e un bene vitale che appartiene a tutti gli abitanti della Terra in comune; b) l’acqua è un patrimonio dell’umanità e per questo è una risorsa che, diversamente da ogni altra, non può essere oggetto di proprietà privata; c) la società umana come tale, ai diversi livelli della sua organizzazione, deve garantire a tutti anche in termini economici il diritto di accesso all’acqua, senza alcuna discriminazione; d) la gestione dell’acqua richiede istituzioni democratiche, di democrazia partecipativa e rappresentativa. Per questo è urgente organizzare, a livello globale, un Network of parliaments for water, lanciare campagne di informazione internazionale e istituire un World observatory for water rights.
Nella scia di questo documento sono state avanzate molte altre proposte – soprattutto da parte di movimenti transnazionali di carattere sociale o ecologico, come i forum sociali mondiali di Porto Alegre (2000), i forum alternativi mondiali dell’acqua di Firenze (2003) e di Ginevra (2005), i fautori del Contratto mondiale dell’acqua, l’Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie e per l’aiuto ai cittadini, ecc. – che si battono per l’idea dell’acqua come bene comune universale. Come tale l’acqua non può divenire oggetto di un diritto patrimoniale da parte di soggetti privati e tanto meno mercificato. Essendo un dono della natura e non un prodotto dell’invenzione umana – si sostiene – l’acqua può essere oggetto soltanto di un diritto naturale del quale sono titolari tutti i membri dell’umanità. Si tratta di una sorta di giusnaturalismo idrologico che talora assume i connotati di un’etica globale con accenti religiosi molto suggestivi. Per la tutela di questo diritto naturale si propone l’istituzione di organismi di carattere internazionale come il World water parliament, l’istituzione di un fondo internazionale per l’acqua e di corti internazionali ad hoc.
Queste posizioni, caratterizzate come sono da una forte ispirazione umanitaria ed ecologistica, godono di un largo consenso. Da un punto di vista realistico, tuttavia, è stato osservato che oggi l’acqua potabile – a differenza dell’acqua marina, dell’aria, della luce solare o dello spazio extraterrestre – non è un bene naturale e tanto meno un bene universale che possa essere attribuito a tutti gli uomini come un diritto naturale, qualsiasi significato normativo si intenda attribuire a questo termine. In realtà, ciò di cui oggi gli uomini hanno un bisogno vitale – l’acqua per uso alimentare, sanitario e agricolo, che non supera in quantità l’1% dell’acqua totale naturale presente sul pianeta – è un prodotto dell’intervento umano sempre più scarso, conteso e vulnerabile. Il problema centrale è per un verso la garanzia dell’accesso all’acqua di milioni di persone che per ragioni politiche, economiche ed ecologiche non sono in grado di disporne, così come non dispongono di cibo sufficiente e di farmaci a prezzi accessibili. Per un altro verso, cruciale è la protezione del diritto all’uso delle fonti idriche da parte di comunità politiche deboli, povere o oppresse, che si vedono confiscare il loro diritto all’acqua da Paesi ricchi e potenti e da altrettanto ricche e potenti corporation internazionali, come, per es., le francesi Ondeo (ex Suez Lyonnaise des Eaux) e Veolia (ex Vivendi), la tedesca Rwe e la statunitense American water works. Queste imprese sono fra l’altro sostenute nella loro mercificazione dell’acqua da istituzioni internazionali come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e la WTO.
Nonostante la serie di importanti iniziative cui si è fatto riferimento, le norme internazionali, come del resto quelle nazionali, non offrono oggi una risposta minimamente adeguata ai rischi politici e ai problemi ambientali dovuti alla crescente domanda di acqua e ai conflitti che ne derivano. La domanda globale di acqua cresce rapidamente a causa dell’espansione demografica della specie umana e del diffondersi del modello tecnologico-industriale, tipico della modernità occidentale. Simultaneamente decresce la quantità di acqua potabile a disposizione delle popolazioni a causa delle turbolenze climatiche, dell’inquinamento sempre più diffuso e dei fenomeni di salinizzazione delle acque dolci. Quasi un miliardo e mezzo di esseri umani oggi non dispone in quantità sufficienti di acqua potabile e si prevede che questa cifra si raddoppierà entro il 2020.
Nell’ampia fascia dei Paesi poveri e deboli muoiono ogni anno oltre 2 milioni di bambini per mancanza d’acqua o a causa dell’acqua insalubre, quest’ultima essendo responsabile dell’80% delle malattie epidemiche. La mancanza di acqua si traduce inoltre in una drastica diminuzione della produzione alimentare e in un aumento della fame e delle malattie legate alla denutrizione. Alcune aree del mondo sono particolarmente colpite dal fenomeno, in particolare l’America Latina, l’Africa subsahariana, l’Africa del Nord e il Medio Oriente. Complessivamente si deve ritenere che siamo in presenza di una sostanziale anomia (e anarchia) internazionale, sia per quanto riguarda la proclamazione e la tutela del diritto all’acqua e del dovere di cooperazione nell’uso delle risorse idriche internazionali, sia per quanto riguarda l’apprestamento di strumenti di garanzia per la protezione di questi interessi e valori.
Un ultimo nuovo diritto che merita di essere discusso è quello che è stato chiamato habeas mentem o, meno evocativamente, autonomia cognitiva. Con questa espressione si intende la capacità del soggetto di controllare, filtrare e interpretare razionalmente le comunicazioni che riceve, in particolare le comunicazioni elettroniche. Entro società informatizzate, si sostiene, la garanzia giuridica dei diritti di libertà e dei diritti politici rischia di essere un guscio vuoto se non include l’autonomia cognitiva: se questa manca, è impensabile che si formi un’opinione pubblica indipendente rispetto ai processi di autolegittimazione promossi dalle élites politiche ed economiche al potere. In presenza di una crescente efficacia persuasiva dei mezzi di comunicazione di massa, il destino della democrazia in Occidente sembra dipendere dall’esito della battaglia a favore di questo nuovo, fondamentale diritto umano. Bobbio ha affermato molto esplicitamente che nelle democrazie occidentali è in atto una inversione del rapporto fra «controllori e controllati, poiché attraverso l’uso spregiudicato dei mezzi di comunicazione di massa ormai gli eletti controllano gli elettori» (N. Bobbio, L’età dei diritti, 1990, p. XV). In poche parole, secondo Bobbio lo strapotere dei mezzi di comunicazione di massa e la loro gestione monopolistica stanno uccidendo la democrazia e la stanno trasformando in una tirannia videocratica. È il supremo valore della libertà che viene intaccato nella sua sfera più delicata, quella della autonomia intellettuale dei cittadini.
Come è noto, i più recenti sviluppi della tecnologia informatica vengono esaltati, non solo nel mondo del business multimediale, come l’avvento della comunicazione interattiva. È ormai alle porte, si sostiene, la seconda rivoluzione informatica che porterà nelle case di tutti efficientissime Stazioni multimediali domestiche (SMD) e avvolgerà il pianeta in una rete di interconnessioni globale e capillarmente diffusa. Una delle conseguenze positive, si assicura, sarà l’accrescimento della cultura e della competenza politica e, soprattutto, l’affermarsi di nuove forme di partecipazione. Grazie all’uso di sofisticate apparecchiature elettroniche – teleconferencing, opinion-polling systems, automated feedback programmes, two-way cable television ecc. – i cittadini saranno finalmente in grado di impegnarsi in un quotidiano bricolage politico. L’agorà elettronica uscirà dal mito e si incarnerà nelle forme di una instant referendum democracy.
Molti autori usano ormai correntemente l’espressione cultura globale e ne raccomandano il concetto. Ma naturalmente, anche per quanto riguarda il bilancio degli effetti positivi e di quelli negativi della globalizzazione informatica – televisiva e telematica –, ci sono opinioni molto differenziate fra gli esperti di mass media e fra i sociologi della globalizzazione. Si può dire, schematizzando, che per quanto riguarda il mezzo televisivo l’opinione prevalente è che la sua diffusione planetaria promuove un notevole incremento della competenza linguistica, dell’informazione e della cultura generale. E questo andrebbe a vantaggio soprattutto delle minoranze culturali in varie forme emarginate e dei popoli geograficamente periferici. La cultura globale – una cultura cosmopolita, ricca e complessa – prevarrebbe sui localismi e tribalismi tradizionali e sarebbe perciò la premessa per il formarsi di una global civil society. E questa sarebbe a sua volta la premessa per una unificazione anche politica del pianeta nella direzione della tolleranza, del pluralismo, della democrazia e della pace. Sarebbe, insomma, soprattutto il mezzo televisivo l’artefice della trasformazione che ha fatto del mondo anarchico degli Stati sovrani il ‘villaggio globale’ profetizzato da Marshall McLuhan, nel quale è ormai stabilmente presente una ‘opinione pubblica mondiale’. Secondo Habermas la diffusione globale dei mass media elettronici ha sviluppato rapporti di intimità civile fra tutti gli uomini, realizzando una sfera pubblica planetaria e aprendo la strada alla società mondiale (Weltgesellschaft) e alla cittadinanza universale.
Ovviamente, sarebbe miope non riconoscere che grazie alla televisione e agli altri strumenti di comunicazione elettronica l’orizzonte culturale e il ventaglio delle possibili esperienze umane si sono grandemente dilatati. Non c’è dubbio che per molti in Occidente, anche grazie alla televisione, l’esperienza culturale è divenuta più ricca e più complessa. E tuttavia l’eccessiva pressione simbolica alla quale le persone sono sottoposte rende difficile selezionare razionalmente i contenuti della comunicazione. Per nessuno, neppure per lo specialista più esperto, è facile controllare i significati e l’attendibilità dei messaggi che riceve, né stabilire una relazione interattiva con la fonte emittente. E si prevede che la comunicazione politica, dominata dal codice televisivo del successo, della spettacolarità e della personalizzazione, tenderà a svuotarsi ancora di più dei suoi contenuti argomentativi e razionali e ad alimentare nuove forme di delega plebiscitaria. Secondo alcuni analisti, questa potrebbe essere una delle ragioni del declino della partecipazione politica e del senso di appartenenza che oggi caratterizza società intensamente informatizzate come quella nordamericana.
D’altra parte sembra che la capacità di attenzione dei soggetti, anziché accrescersi, tenendo il passo con l’aumento della complessità sociale, tenda a ridursi sempre di più. Si riduce proprio perché cresce la quantità, la varietà e l’intensità degli stimoli che riescono a catturare, anche solo per un attimo, l’attenzione degli ascoltatori. Probabilmente per queste ragioni, come aveva già intuito Joseph Schumpeter settant’anni fa, le strategie della comunicazione multimediale puntano sempre più consapevolmente su forme di persuasione subliminale, a cominciare dalla pubblicità commerciale, dai sondaggi di opinione e dalla propaganda politica. Anziché fare appello all’attenzione consapevole del pubblico, queste tecniche comunicative tendono ad aggirarla, puntando su stimolazioni cognitive ed emotive segretamente associate ai contenuti o ai modi della comunicazione. Ne derivano delicati problemi di costituzione delle identità personali, di autonomia dei soggetti, di formazione dell’opinione pubblica e, in definitiva, di funzionamento dei meccanismi decisionali di uno Stato democratico. Cambiano il senso e i contenuti della libertà politica e cambia, in profondità, il rapporto fra l’opinione pubblica, la cultura politica diffusa e i vertici del sistema politico.
La comunicazione pubblicitaria diffonde messaggi simbolici fortemente suggestivi che esaltano il consumo, lo spettacolo, la competizione, il successo, la seduzione femminile e stimolano, in generale, le pulsioni acquisitive. Questi valori, nettamente caratterizzati in senso individualistico, contraddicono l’idea stessa di una sfera pubblica. Si è sostenuto, per es., che la comunicazione televisiva non solo non produce l’intimità civile e la fiducia politica che è alla base dei rapporti organici di un villaggio, ma è all’origine dell’atomizzazione sociale delle metropoli contemporanee, dove le persone vivono l’una accanto all’altra senza conoscersi e senza alcuna sensibilità empatica: è lo spazio di debole o debolissima solidarietà della società tecnotronica.
Se per democrazia si intende, in un’accezione prudente e minimale, un regime nel quale la maggioranza dei cittadini è in grado di conoscere e di controllare i meccanismi della decisione politica e di esercitare direttamente o indirettamente una qualche influenza sui processi decisionali, allora ci sono molti dubbi che le tecnologie telematiche possano contribuire a una diffusione dei valori e delle istituzioni democratiche. La possibilità di prendere decisioni politiche pertinenti dipende assai meno dalla disponibilità di tecniche di comunicazione rapida che non dalla capacità degli attori sociali di controllare e selezionare criticamente le proprie fonti cognitive, in un contesto di generale trasparenza sia dei meccanismi di emissione sia dei processi decisionali. Un decision-making democratico richiede, più che elevate competenze e abilità informatiche da parte dei cittadini, un’efficace tutela del pluralismo delle emittenze, della libertà degli informatori e della autonomia degli informati. Jacques Derrida ha sostenuto che senza una lotta contro la concentrazione e l’accumulazione comunicativa la democrazia è destinata a divenire una pura finzione procedurale all’interno degli stessi ambiti nazionali, prima ancora che essa possa essere esportata – come molti in Occidente pretendono – grazie alla proiezione planetaria delle tecnologie elettroniche.
C’è chi, non del tutto impropriamente, ha usato l’espressione digital apartheid per indicare la barriera elettronica che in ambito nazionale e internazionale separa le minoranze dotate di autonomia cognitiva dalle grandi maggioranze che ne sono prive e che, sia pure in forme ancora molto incerte e fragili, ne rivendicano il diritto.
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