Nuovi materiali funzionali
La storia dell’umanità è scandita dalla capacità di manipolare e produrre sostanze, materiali e tecnologie. Tra i materiali, basti pensare ai prodotti dello sviluppo della metallurgia, all’introduzione della carta, alla produzione della porcellana o all’uso del cemento nelle costruzioni per apprezzare l’importanza che questi hanno avuto nel corso dell’affermazione della società moderna. Il 19° sec. è stato dominato dagli avanzamenti in settori cruciali come la siderurgia, mentre il 20° è stato caratterizzato dagli sviluppi sorprendenti e rapidissimi dei semiconduttori, che hanno portato alla nascita del transistore e dei moderni computer, e alla società dell’informazione come oggi la conosciamo. Il secolo scorso ha visto anche l’avvento delle materie plastiche, che hanno radicalmente mutato lo stile di vita degli esseri umani. È chiaro quindi che la scoperta e l’introduzione nell’uso quotidiano di nuovi materiali segna profondamente l’evoluzione delle società industriali.
I materiali vengono in genere classificati a seconda del loro uso, in due grandi categorie, materiali strutturali e materiali funzionali. I primi si caratterizzano per le particolari proprietà di resistenza, robustezza ed elasticità che li rendono adatti a costruire oggetti, manufatti e strutture stabili. Esempi di materiali strutturali sono gli acciai, la gomma, i tessuti, il legno, le fibre di carbonio o la vetroresina; ma anche una lega d’oro o una porcellana per otturazioni in odontoiatria rientrano in questa categoria. I materiali funzionali, invece, devono essere in grado di svolgere un compito, una funzione, di produrre un segnale in risposta a uno stimolo esterno (una variazione di temperatura, l’applicazione di un campo elettrico o di una pressione, la presenza di sostanze nell’aria, l’irraggiamento con un fascio di luce ecc.). Spesso questi materiali sono combinati tra loro a formare un dispositivo più complesso, ma sempre in grado di svolgere un compito ben preciso: per compiere una funzione particolare, il moderno transistore combina un materiale semiconduttore come il silicio con un sottile strato di un ossido isolante (SiO2) e un elettrodo metallico. Sottoposto a una piccolissima differenza di potenziale, il transistore assume uno stato carico o scarico, il che permette di codificare ed elaborare rapidamente l’informazione nel codice binario. Un altro esempio di materiali funzionali, già ampiamente in uso, è quello dei sensori di gas. Alcune sostanze, in particolare gli ossidi semiconduttori, forniscono una risposta elettrica che cambia a seconda di quali molecole sono presenti nell’ambiente. Le molecole, depositandosi sulla superficie del materiale e interagendo chimicamente con esso, modificano il segnale elettrico generato dal sensore, permettendo in tal modo di rilevare la presenza di sostanze anche in piccolissime quantità. Tra i materiali funzionali si annoverano, inoltre, un ossido con proprietà ferroelettriche come il titanato di bario (BaTiO3), un sensore di onde acustiche come il niobato di litio (LiNbO3), segnalatori di luce come il solfuro e il telluluro di cadmio (CdS e CdTe), i superconduttori ad alta temperatura critica.
Negli ultimi anni, anche grazie allo sviluppo di nanotecnologie in grado di manipolare la materia su scala molecolare e di generare sistemi e dispositivi, con dimensioni dell’ordine del nanometro (1 nm=10−9 m), sono stati sviluppati nuovi materiali con funzioni sorprendenti. Questi materiali sono alla base di una vera e propria rivoluzione e sono destinati a incidere profondamente sul nostro modo di vivere nei prossimi decenni. Alcuni si caratterizzano per le loro proprietà strutturali, ma la maggior parte attira l’interesse sia dei ricercatori sia del mercato per la capacità di svolgere nuove e più complesse funzioni.
Spesso tali materiali funzionali avanzati sono chiamati intelligenti (smart materials) a indicare una loro capacità di svolgere funzioni di tipo superiore (Addington, Schodek 2005; Intelligent materials, 2008).
Oggi poi si guarda con particolare interesse a materiali in grado di svolgere contemporaneamente più funzioni, come una vernice che al tempo stesso protegge un manufatto dalla corrosione e contribuisce a ridurre inquinanti ambientali, o un tessuto idrorepellente che mentre protegge dall’umidità è anche capace di generare elettricità se esposto alla luce, per es. una batteria fotovoltaica. Questi materiali sono definiti multifunzionali e su di essi si concentra una parte importante della ricerca nella moderna scienza dei materiali.
Le applicazioni e i compiti che possono essere svolti dai materiali intelligenti sono moltissimi, e il più delle volte molteplici, per cui una loro classificazione è necessariamente arbitraria. Potrebbe esserne proposta una basata sulla natura chimica del materiale: materiali organici o polimerici, ossidi inorganici allo stato solido, metalli, semiconduttori. Spesso, però, nella fabbricazione di materiali intelligenti i risultati migliori si raggiungono combinando materiali diversi, per es. di tipo organico e inorganico (i cosiddetti materiali ibridi), per ottenere funzioni completamente nuove rispetto a quelle di un singolo componente. È possibile dunque che una classificazione soltanto secondo la natura chimica ed elettronica dei materiali si presti a confusioni. Un altro metodo di classificazione potrebbe basarsi su come tali materiali vengono preparati: tramite vari processi di sintesi chimica per via umida o da fase gassosa, per combinazione diretta di materiali già esistenti, o grazie a nuovi metodi preparativi come l’autoassemblaggio (Ashby, Shercliff, Cebon 20102). È chiaro che una classificazione di questo tipo risulterebbe interessante solo per lo specialista, e peraltro non presenta effettivi vantaggi. Questo non vuol dire che l’aspetto preparatorio di un dato materiale non sia importante, al contrario. Oggi la sostenibilità e l’interesse commerciale di un nuovo prodotto si fondano non soltanto sulle proprietà che esso offre, ma anche su una serie di considerazioni riguardanti il suo impatto ambientale, la reperibilità delle materie prime, i costi di produzione. Per via delle loro proprietà non comuni, i materiali funzionali e i relativi dispositivi possono avere applicazioni in settori di mercato dove il costo non rappresenta un grave problema e la funzione diventa l’obiettivo principale. Un esempio è quello delle celle a combustibile. I processi basati su tali dispositivi non sono ancora economicamente interessanti per una loro applicazione su larga scala. D’altra parte, la messa a punto di celle a combustibile che siano in grado di funzionare per tempi molto lunghi potrebbe risultare di grande interesse nell’elettronica di consumo (per es., computer portatili, telefoni cellulari ecc.) e trovare un mercato nonostante i costi sostenuti.
La suddivisione adottata in questo saggio fa riferimento alle applicazioni principali dei materiali funzionali o intelligenti, tenendo presente che l’aspetto della multifunzionalità è comunque un valore aggiunto e che in teoria un materiale in grado allo stesso tempo di generare elettricità e di proteggere dall’inquinamento andrebbe classificato sotto le categorie sia dei materiali per energia sia di quelli per ambiente. Ciò che segue non è, e non potrebbe essere, un elenco completo ed esauriente. L’intenzione è piuttosto quella di analizzare, senza approfondirle, le potenzialità di tali sistemi, a volte già espresse, a volte ancora nascoste e oggetto di ricerca. La classificazione fa quindi riferimento ad alcuni grandi temi e problemi che la società contemporanea si trova ad affrontare.
Ambiente ed energia
Materiali per energia fotovoltaica
La soluzione del problema energetico passa necessariamente per la messa a punto di nuove tecnologie. Tra queste, la trasformazione di energia solare in energia elettrica per effetto fotovoltaico è uno dei processi di maggiore interesse. Il suo impiego, tuttavia, è ancora limitato dai costi elevati e dai bassi rendimenti. La ricerca di nuovi materiali in grado di ridurre i costi di produzione e di aumentare l’efficienza è di cruciale importanza per la soluzione del problema.
La produzione di energia fotovoltaica è basata sull’uso di materiali semiconduttori. Assorbendo fotoni di energia luminosa, gli elettroni saltano dagli stati pieni (banda di valenza) a quelli vuoti (banda di conduzione), superando il gap di energia che li separa. Se si mettono a contatto due semiconduttori opportunamente drogati con atomi di altri elementi come boro e fosforo, sotto effetto della luce si genera una differenza di potenziale elettrico che può essere utilizzata per produrre lavoro. Il fenomeno è noto dagli anni Cinquanta del 20° sec., e ha dato luogo allo sviluppo delle celle solari. In commercio esistono diversi tipi di celle solari, per es. in silicio cristallino e in silicio amorfo, basate su semiconduttori III-V come l’arseniuro di gallio (GaAs) per applicazioni spaziali e termofotovoltaiche. In realtà, una classificazione più adeguata si basa sulle diverse generazioni di celle solari. Quelle di prima generazione fanno uso di wafer di silicio monocristallino molto puro e hanno costi elevati per via dei complessi processi di produzione di tale materiale. Le celle di seconda generazione si avvalgono, invece, di tecnologie a film sottile prodotte con semiconduttori di tipo amorfo o policristallino. Pur utilizzando materiali di scarsa qualità, con un’efficienza di conversione più bassa, queste celle dovrebbero garantire un costo a unità di potenza sensibilmente più contenuto rispetto a quelle di prima generazione. Le celle di terza generazione, infine, si basano su materiali diversi, con prestazioni più o meno promettenti a seconda dei casi, ma tutti sviluppati con lo specifico intento di migliorare nettamente il rapporto esistente tra costo di produzione ed energia prodotta. Tra questi materiali, o le loro combinazioni, almeno tre meritano di essere menzionati.
Combinando nello stesso dispositivo due o più celle di materiali diversi, in grado di sfruttare differenti regioni dello spettro solare, sono state prodotte celle a giunzione multipla che hanno ottenuto rendimenti molto elevati (30% e oltre) e sono state utilizzate in satelliti per telecomunicazioni. Queste celle si basano sulla combinazione di GaAs, fosfuri di indio e gallio (InP e GaP) o germanio (Ge). Le applicazioni terrestri di tali sistemi non sono previste in tempi brevi, per via dei costi elevati. Negli ultimi anni si è inoltre assistito a uno sforzo di ricerca molto intenso nel campo delle celle organiche, che prevedono l’utilizzo di semiconduttori molecolari. Queste hanno il vantaggio che il materiale organico di partenza è poco costoso e facile da produrre, non richiedendo ambienti puliti come accade per la produzione di silicio cristallino. Inoltre, i semiconduttori organici sono materiali flessibili e semitrasparenti che si possono anche stampare su superfici varie, inclusi tessuti per abbigliamento. Tuttavia, per il momento hanno un’efficienza molto bassa, inferiore al 5%, e sono caratterizzati da scarsa stabilità e tendenza a degradarsi.
Il terzo tipo di celle di nuova generazione è quello fotoelettrochimico; sono anche note come celle di Grätzel, dal nome del ricercatore svizzero che per primo le ha introdotte all’inizio degli anni Novanta. Queste celle sono basate su un materiale inorganico poco costoso, il biossido di titanio (TiO2). Anche questo ossido semiconduttore è in grado di catturare radiazione elettromagnetica eccitando elettroni dalla banda di valenza a quella di conduzione, e generando così portatori di carica, elettroni o lacune, che possono trasportare corrente elettrica. Il TiO2 assorbe, tuttavia, soltanto la radiazione ultravioletta e una parte ridottissima della radiazione visibile. L’efficienza può pertanto essere migliorata legando alla superficie delle particelle di TiO2 molecole organiche colorate, capaci di assorbire fortemente la luce visibile. Tali molecole si comportano dunque come antenne che catturano l’energia luminosa e la trasmettono al biossido di titanio, generando elettroni liberi e lacune che producono una differenza di potenziale elettrico. Oggi le celle di Grätzel sono basate su film spessi 10 μm di particelle di TiO2, ciascuna delle quali con diametro di circa 20 nanometri, intercalate da cavità in cui sono assorbite le molecole di colorante organico. Anche queste celle hanno un’efficienza limitata (7-8%), e quindi non sono ancora competitive sul mercato del fotovoltaico; tuttavia si spera nei prossimi anni di aumentarne l’efficienza sino al 15%.
Materiali funzionalizzati per catalisi
Un catalizzatore è una sostanza in grado di accelerare una reazione chimica riducendone la barriera di attivazione, senza peraltro essere consumata nel corso del processo. In questo senso, la catalisi è una delle attività principali sotto il profilo del risparmio energetico. La maggior parte dei catalizzatori è costituita da metalli che hanno la funzione di allentare i legami delle molecole che dovranno reagire, facilitandone la rottura. La ricerca di nuovi materiali per processi di catalisi eterogenea, in cui il catalizzatore è un solido mentre le sostanze da trasformare sono liquidi o gas, è di fondamentale importanza sia sul fronte della riduzione dei consumi energetici sia nel miglioramento della qualità dell’aria. Gli esempi in questo campo sono moltissimi, e anche una veloce panoramica è impossibile. In questo contesto ci si limita pertanto a fornire qualche esempio di funzionalizzazione di materiali per applicazioni catalitiche.
Gran parte dei processi catalitici avvengono su materiali a elevata porosità: alcuni di questi, come le zeoliti sintetiche, posseggono una rete ben definita di canali e cavità regolari all’interno della quale far avvenire le reazioni chimiche. Grazie all’elevatissima area superficiale, tali materiali sono in grado di adsorbire grandi quantità di sostanze. Inoltre, la possibilità di modificare per via chimica le pareti interne dei micro- e nanopori permette di modificare a piacimento le proprietà del materiale. Per es., la presenza di metalli di transizione conferisce proprietà ossidoriduttive: l’inserzione di metalli alcalino terrosi aumenta le proprietà basiche; l’inclusione invece di lantanidi risulta in proprietà acide e in fenomeni di luminescenza. Oggi i materiali porosi sono largamente utilizzati in catalisi da processi petrolchimici, come assorbitori di gas, o come supporti di nanoparticelle metalliche, ma sono in continua evoluzione, nel tentativo di migliorare l’attività e la selettività dei processi catalitici.
Fotocatalisi
La fotocatalisi è un processo che combina alcuni aspetti tipici della generazione di energia per assorbimento di fotoni di luce visibile, con quelli caratteristici delle reazioni chimiche di tipo catalitico. Un fotocatalizzatore usa l’energia della radiazione solare per eccitare elettroni di un materiale dalla banda di valenza a quella di conduzione, generando al tempo stesso lacune. La novità rispetto a un processo fotovoltaico per generazione di energia è che in un fotocatalizzatore gli elettroni e le corrispondenti lacune migrano alla superficie della particella, dove interagiscono chimicamente con le molecole gassose assorbite (inquinanti atmosferici come idrocarburi o ossidi di azoto). Alcune sostanze interagiscono con gli elettroni riducendosi, altre con le lacune, ossidandosi, e vengono pertanto demolite e rimosse in modo efficace sfruttando esclusivamente la radiazione solare come fonte di energia. Tra i materiali capaci di svolgere questa funzione vi sono alcuni ossidi semiconduttori e, in particolare, il TiO2, materiale di basso costo e biocompatibile. Esistono già in commercio vernici o cementi addizionati di particelle di TiO2, che fungono proprio da fotocatalizzatori autopulenti, in grado di rimuovere parte degli inquinanti che si depositano su di essi. Il problema di questi sistemi è che il TiO2 possiede un gap tra banda di valenza e banda di conduzione di circa 3 eV: è pertanto trasparente e incapace di assorbire la radiazione visibile. L’efficienza del processo aumenta nettamente quando il materiale è sottoposto a radiazione ultravioletta. In questo caso i fotoni ultravioletti posseggono abbastanza energia da eccitare gli elettroni dalla banda di valenza a quella di conduzione, rendendo possibile una loro migrazione alla superficie della particella dove hanno luogo i processi chimici di pertinenza.
Poiché la maggior parte dell’energia radiante proveniente dal Sole attraversa le particelle di TiO2 senza essere catturata, sono stati sviluppati, e sono tuttora allo studio, diversi metodi per modificare le proprietà di assorbimento di queste particelle, così da aumentarne la porzione assorbita di spettro di radiazione. Un modo è quello di drogare il materiale introducendo atomi diversi, tracce di azoto, carbonio o di altri elementi che, alterando la posizione dei livelli energetici, riducono l’energia necessaria agli elettroni per saltare dagli stati pieni di valenza a quelli vuoti di conduzione. Un altro sistema è quello di agire in modo controllato sulla dimensione delle particelle stesse, dato che il gap di banda si può modificare quando esse assumono dimensioni di pochi nanometri. In maniera alternativa per modificare questi materiali è possibile combinarli con altre sostanze in grado di catturare la luce molto più efficientemente, dando così origine a materiali compositi avanzati.
Celle a combustibile
Nelle celle a combustibile l’energia elettrica è prodotta per via elettrochimica, mediante reazione controllata di idrogeno e ossigeno con la formazione di acqua. Si tratta di un processo pulito, che però richiede idrogeno come combustibile e che con le attuali tecnologie produce energia a costi molto più elevati rispetto ai metodi tradizionali. Il miglioramento costante dei vari componenti delle celle, dagli elettrodi alle membrane, agli elettroliti, passa invariabilmente per l’uso di nuovi materiali, spesso nanostrutturati. Per es., una cella a combustibile a membrana a scambio protonico è composta da due sottili elettrodi porosi separati da un elettrolita a membrana a polimero solido che lascia passare solo protoni (ioni H+). Il lato di ogni elettrodo è rivestito da catalizzatori al platino che hanno la funzione di separare il combustibile idrogeno, H2 gassoso, in atomi di idrogeno e quindi in protoni (H+) ed elettroni (e−). Gli elettroni si muovono su un circuito esterno che alimenta un motore elettrico, mentre i protoni migrano verso il catodo attraverso la membrana polimerica. Il catalizzatore presente su questo elettrodo facilita la ricombinazione degli elettroni di ritorno dal circuito con i protoni e l’ossigeno dell’aria per produrre acqua. Il ruolo delle membrane e del catalizzatore è fondamentale per l’efficienza del processo e la durata della cella. Lo sviluppo di materiali polimerici ad alta conducibilità in grado di promuovere la migrazione dei protoni e quindi la produzione di energia, e di catalizzatori di eguale efficienza ma di minor costo del platino, sono due dei punti su cui si concentra la ricerca per migliorare il rendimento e aumentare l’economicità delle celle a combustibile.
Materiali per stoccaggio di idrogeno
Uno dei problemi rilevanti nell’utilizzo dell’idrogeno come combustibile è il suo stoccaggio in condizioni di sicurezza. L’idrogeno è un gas, dunque può essere liquefatto e trasportato in bombole. Tuttavia, è assai reattivo e se si combina con l’ossigeno, a causa di una scintilla o di un aumento di temperatura, reagisce in modo esplosivo, motivo per cui richiede particolari accorgimenti e protezioni. Inoltre, i contenitori per idrogeno liquido sono ingombranti e pesanti. Per questa ragione sono allo studio materiali capaci di immagazzinare l’idrogeno al loro interno, per poi rilasciarlo mediante un debole riscaldamento. Vi sono due tipi principali di materiali allo studio per questo scopo: materiali nanoporosi, ossia ricchi di minuscole cavità dove l’idrogeno gassoso può essere assorbito (Nanoporous materials, 2004), oppure leghe metalliche in grado di disciogliere l’idrogeno grazie a vere e proprie reazioni chimiche che lo incorporano in modo reversibile all’interno della struttura. Tra gli assorbitori di gas vi sono i materiali porosi come le già citate zeoliti, che in quanto silicati sono però piuttosto pesanti rispetto alla quantità di idrogeno che riescono a immagazzinare (circa l’1% in peso). Per essere efficace ed economico, un solido deve poter inglobare almeno il 6% in peso di idrogeno. Tra i materiali con struttura nanoporosa allo studio vi sono i MOF (Metal-Organic Frameworks), costituiti da materiali compositi ibridi organico-inorganici che formano al proprio interno cavità regolari di dimensioni nanometriche. Essendo intrinsecamente più leggeri (il carbonio pesa meno del silicio), i MOF offrono prestazioni migliori rispetto alle zeoliti in termini di rapporto tra volume di idrogeno immagazzinato e peso complessivo.
L’altra soluzione allo studio per trasportare idrogeno in forma solida prevede l’uso di idruri metallici (LiAlH4, NaBH4, Mg2NiH4). L’idrogeno si adsorbe sulla superficie di alcune leghe metalliche e gli atomi diffondono all’interno, dove vengono trattenuti nei siti interstiziali del solido cristallino. Da una lega metallica si passa a un idruro metallico con caratteristiche chimiche e fisiche differenti. Per rilasciare l’idrogeno è necessario che il processo si inverta, richiedendo temperature tra i 150 e i 300 °C. Uno dei problemi di questo metodo è legato alla possibilità di ripetere il ciclo di adsorbimento e desorbimento per migliaia di volte, quanti sono i rifornimenti di carburante nella vita media di un autoveicolo. I continui cicli di trasformazione tendono a degradare le proprietà del materiale, riducendone nel tempo l’efficacia.
Batterie al litio
Le batterie, dispositivi in cui l’energia chimica è trasformata in energia elettrica, stanno assumendo un ruolo sempre più importante per alimentare apparati elettronici portatili e telefonia mobile. Tra i vari tipi di batterie, grandi progressi nella durata sono stati ottenuti con quelle ricaricabili in cui ioni litio migrano tra l’anodo e il catodo durante la scarica e in senso opposto durante la fase di carica. Le batterie a ioni litio hanno un utilizzo molto ampio nell’elettronica di consumo grazie al loro peso contenuto rispetto alla quantità di energia immagazzinata e a una lenta perdita di carica quando non sono utilizzate. Il loro uso si sta estendendo anche alle applicazioni aerospaziali e per autotrazione. I componenti principali delle batterie a ioni litio sono l’anodo, il catodo e l’elettrolita, e si sperimentano sempre nuovi materiali in grado di migliorarne l’efficienza. Gli anodi possono essere di disolfuro di titanio (TiS2) o più spesso di grafite, mentre per il catodo esistono numerosi sistemi differenti, quali ossido di cobalto, LiCoO2, ossidi di manganese con struttura di spinello e altri più complessi. Come elettrolita liquido si usano sali di litio, per es. LiPF6 in un solvente organico come l’etere. A seconda del materiale usato per l’anodo, il catodo e l’elettrolita, proprietà quali il voltaggio, la durata, la capacità e la sicurezza possono variare considerevolmente. Le batterie a ioni litio non vanno confuse con le normali pile al litio, in cui l’anodo è costituito da litio metallico e il catodo da biossido di manganese, MnO2, con un sale di litio sciolto in un solvente organico. Queste ultime hanno lunga durata e sono utilizzate per alimentare sistemi di allarme, dispositivi elettromedicali impiantabili, orologi, calcolatrici tascabili. A differenza delle batterie a ioni litio, non sono ricaricabili.
Sensori chimici
La sempre maggiore richiesta di sicurezza in campo ambientale, in quello lavorativo, e anche nella prevenzione di atti terroristici, richiede la messa a punto di sistemi di analisi rapidi, affidabili e con costi contenuti. Lo sviluppo di sensori chimici è di grande interesse e in continua crescita, grazie all’introduzione di materiali sempre più sofisticati (Gründler 2007). Un sensore chimico è un dispositivo in grado di tradurre una modificazione chimica in un segnale misurabile, per es. elettrico. Questo si verifica quando la sostanza che si vuole monitorare, in genere un gas, si deposita alla superficie del materiale. Esistono sensori chimici costituiti da una membrana (nella maggior parte dei casi un ossido semiconduttore) sensibile a una particolare specie chimica o a una classe di specie chimiche. Il dispositivo è completato da un supporto che può essere allumina o silicio, e da un apparato elettronico di controllo. Negli ultimi anni si è assistito a una continua miniaturizzazione dei sensori chimici, che ormai hanno raggiunto dimensioni nanometriche, grazie alla possibilità di utilizzare le tecnologie sempre più avanzate dell’industria microelettronica. Alla temperatura di lavoro del sensore, in genere attorno ai 300 °C, avvengono specifiche reazioni superficiali tra l’ossigeno dell’aria e l’ossido. In presenza di sostanze gassose riducenti oppure ossidanti, si possono misurare delle variazioni di potenziale elettrico tra i due elettrodi in cui è inserito il sensore. Il cambiamento di resistività del film risulta proporzionale alla concentrazione del gas, per cui modulando la scelta dell’ossido, la morfologia del film, la presenza di droganti si può rendere il dispositivo sensibile a un particolare tipo di gas, e solo a quello. I materiali sensibili ai diversi gas cambiano di caso in caso e sono in continua evoluzione: l’ossido di stagno (SnO2) è utilizzato come sensore di anidride carbonica; l’ossido di titanio (TiO2) è sensibile all’etilene; metalli come il palladio (Pd) vengono impiegati per il rilevamento dell’idrogeno, e polimeri come il polifenileacetilene per il vapor d’acqua.
Un’applicazione recente e di grande interesse è quella dei cosiddetti nasi elettronici, costituiti da una matrice di sensori, da un sistema di campionamento e da un software di elaborazione dei segnali. Obiettivo di questi sensori è imitare il senso dell’olfatto umano e fornire indicazioni e dati su miscele di sostanze.
Superconduttori
I materiali superconduttori sono noti dal 1911, quando il fisico nederlandese Kamerlingh Onnes scoprì il fenomeno della superconduttività studiando il comportamento elettrico di alcuni metalli alla temperatura di 4 K di liquefazione dell’elio. La superconduttività è un fenomeno fisico per cui in determinate condizioni alcuni materiali non oppongono resistenza al passaggio di corrente elettrica. Questo è alla base poi di altri fenomeni come, per es., l’effetto Meissner, che si realizza quando un superconduttore immerso in un campo magnetico manifesta un diamagnetismo perfetto ed espelle il campo magnetico dal suo interno. La conseguenza è che i magneti superconduttori possono produrre campi magnetici molto grandi, con applicazioni di laboratorio per apparati quali la risonanza magnetica, rilevatori di debolissimi campi magnetici come quelli del cervello umano, o treni a levitazione magnetica.
Nei primi settant’anni dalla scoperta di Onnes, gli unici sistemi in grado di mostrare il fenomeno della superconduttivà sono stati alcuni metalli o loro leghe; la temperatura critica di questi sistemi, oltre la quale il fenomeno della superconduttività scompare, non sembra poter superare i 20 K. Nel 1986 un’importante scoperta portò a una rapida e tumultuosa evoluzione del settore. Alex Müller e Georg Bednorz osservarono infatti per la prima volta il fenomeno della superconduttività in un materiale ceramico, in particolare un ossido misto di rame, bario e lantanio (La2BaCuO4; Ford, Saunders 2005). Da allora sono stati sintetizzati centinaia di ossidi simili in grado di mostrare l’effetto superconduttivo sino alla temperatura di 130 K, una temperatura molto superiore a quella del punto di liquefazione dell’azoto, aprendo grandi speranze nella prospettiva di un’applicazione su vasta scala di questi materiali per il trasporto di energia. Tali speranze sono andate, però, in gran parte deluse a causa di alcune difficoltà tecniche. Per poter essere utilizzati praticamente, i superconduttori ceramici vanno prodotti sotto forma di film o fili con un elevato controllo nella qualità e nella purezza. I vari grani che compongono il filo policristallino devono essere allineati gli uni agli altri affinché il filo sia utilizzabile a fini pratici. Inoltre il materiale, per risultare utile, deve essere in grado di mantenere la superconduttività anche quando sta trasportando una intensa corrente elettrica e in presenza di un campo magnetico. I superconduttori ceramici hanno mostrato in queste condizioni limiti di stabilità che ne hanno pesantemente limitato l’utilizzo. Nel 2001, tuttavia, la scoperta, avvenuta in Giappone, di un nuovo materiale superconduttore, diverso dai precedenti, ha riacceso le speranze. Si tratta del diboruro di magnesio, MgB2, che diventa superconduttore a circa 40 K. Opportunamente drogato con altri elementi, il MgB2 sembra reggere bene elevate intensità di corrente, e può essere prodotto in forma di fili più facilmente dei superconduttori a base di ossido di rame. Le potenziali applicazioni del MgB2 comprendono magneti superconduttori, rivelatori di campi magnetici e persino linee elettriche di potenza.
Tecnologie della comunicazione e dell’informazione
Optoelettronica
La moderna microelettronica è basata sull’uso di materiali semiconduttori (in particolare il silicio) in grado di svolgere funzioni logiche grazie al controllo sulla disponibilità di elettroni e lacune, che si formano rispettivamente in banda di conduzione e in banda di valenza del materiale. La funzione dei semiconduttori è quindi legata alla presenza di un gap di banda elettronica le cui proprietà dipendono direttamente dal tipo di materiale, dalla sua struttura cristallina e dalla presenza di atomi droganti. L’elaborato complesso costituito dal flusso di elettroni e dalle conseguenti correnti elettriche è alla base delle moderne tecnologie informatiche. Il segnale elettrico (elettroni) per essere trasmesso a grande velocità deve essere trasformato in un segnale ottico (fotoni) in grado di viaggiare all’interno di speciali sistemi guidanti, le fibre ottiche in silice pura (SiO2), ed essere trasportato a distanza. La conversione di segnali elettrici in segnali ottici, e viceversa, complica la tecnologia necessaria e rallenta i processi. La possibilità di integrare la generazione di segnali ottici ed elettrici nello stesso dispositivo è di grande interesse, ed è alla base dell’optoelettronica. Il successo dell’optoelettronica passa per la messa a punto di nuovi materiali: un esempio è rappresentato dal sistema attivo che genera il segnale ottico, un flusso di fotoni coerenti e monocromatici prodotto da un laser. I materiali comunemente usati a questo scopo sono il GaAs e il InP, mentre il silicio utilizzato per i chip dei computer non ha la proprietà di emettere luce laser. Recentemente, utilizzando tecniche di confinamento quantistico basate su nanocristalli di silicio in matrici vetrose o materiali a multistrati, si è riusciti a generare laser al silicio. Questo è un tipico esempio di come la nanostrutturazione e la combinazione di materiali differenti possano portare a nuove proprietà funzionali.
Di particolare importanza nell’ambito dell’optoelettronica sono i materiali a banda fotonica o cristalli fotonici. In questi materiali esiste un intervallo vietato per specifiche lunghezze d’onda, rendendoli di fatto dei semiconduttori di luce. Un tipico esempio è costituito da elementi di vetro speciale con all’interno una schiera di fori cilindrici a impacchettamento stretto, ciascuno del diametro di 400 nm. La luce che incide sui cristalli fotonici dà luogo a complessi fenomeni di rifrazione, riflessione e interferenza, con il risultato che in particolari e ristretti intervalli di lunghezza d’onda la luce non può propagarsi nel cristallo. Tali materiali sono oggi utilizzati per laser ottici, circuiti integrati fotonici, diodi a emissione di luce e persino pigmenti ultrabianchi.
Materiali magnetici
La rivoluzione nelle tecnologie delle comunicazioni è stata resa possibile, oltre che dal transistore e dai semiconduttori, dagli straordinari sviluppi dei supporti magnetici. Nella seconda metà del 20° sec. i materiali magnetici sono stati determinanti per la realizzazione di tali supporti su cui registrare e immagazzinare informazione. Negli anni Cinquanta sono comparsi i primi dischi magnetici per computer, cui hanno fatto seguito, negli anni Sessanta, i nastri magnetici per registrazione di suoni, le prime carte magnetiche, i floppy disk. Tutti questi sistemi sono basati sull’uso di ossidi di metalli di transizione (CrO2, Fe3O4 ecc.) con proprietà magnetiche intrinseche, legate alla presenza nel reticolo cristallino di ioni metallici con elettroni spaiati.
Negli ultimi anni si è assistito a uno sviluppo vertiginoso di nuovi sistemi che prevedono la combinazione di materiali diversi, con proprietà legate al comportamento magnetico complessivo. Alla base di questi sistemi è la magnetoresistenza, un fenomeno fisico per cui la resistenza elettrica di un metallo o di un semiconduttore aumenta in risposta a un campo magnetico esterno. Scoperta nel 1857 dall’inglese William Thomson (Lord Kelvin), la magnetoresistenza è trascurabile nei metalli e minima nei semiconduttori. Una variante di questo fenomeno, individuata verso la fine degli anni Ottanta del 20° sec., è stata chiamata magnetoresistenza gigante (GRM, Giant Magneto-Resistance) ed è valsa nel 2007 il premio Nobel per la fisica ai due scopritori, il francese Albert Fert e il tedesco Peter Grünberg. Il fenomeno si presenta quando due strati di materiali magnetici come cobalto (Co) e ferro (Fe) racchiudono uno strato di un materiale non magnetico. I due strati di cobalto e ferro possono essere magnetizzati con orientazioni diverse, in cui i momenti magnetici sono paralleli (in questo caso la corrente è massima) o antiparalleli (dove la corrente è minima). Sistemi di questo tipo risultano sensibilissimi a un campo magnetico esterno, dato che piccole variazioni si traducono immediatamente in una variazione di resistenza al passaggio di corrente. Questi materiali hanno aperto la porta a un radicale miglioramento della sensibilità delle testine magnetiche, i sensori che registrano il tipo di magnetizzazione presente nelle piccole zone (domini) del supporto magnetico su cui sono scritti i dati. Il primo dispositivo commerciale basato su questo principio è stato introdotto alla fine degli anni Novanta, e attualmente tutte le testine magnetiche utilizzano l’effetto GMR. La capacità di scrivere dati è cresciuta di pari passo, e il costo dei supporti magnetici è diminuito in eguale misura. Nella prima metà degli anni Novanta erano apparsi i primi dischi da 1 gigabyte (1 GB≃230 binary byte) e, pochi anni più tardi, i dischi da 50 GB erano dotazione standard dei computer. Le moderne testine sono basate su nanostrutture costituite da film sovrapposti spessi alcune centinaia di nanometri e risultano in grado di leggere domini di 30×200 nm2.
Una nuova generazione di testine prevede poi l’applicazione dell’effetto tunnel magnetoresistivo (TMR, Tunnel Magneto-Resistance): qui, in luogo di un materiale che separa i due strati magnetici, si usa un isolante come l’ossido di magnesio, MgO. Grazie allo spessore estremamente basso degli strati sovrapposti, gli elettroni possono passare per effetto tunnel quantistico da uno strato di materiale magnetico all’altro, attraversando uno strato di ossido isolante spesso pochi nanometri; questo consente di aumentare ulteriormente la sensibilità delle testine. I dischi magnetici di prossima generazione basati sull’effetto TMR avranno capacità dell’ordine del terabyte (1 TB≃240 binary byte). Dai tempi dei primi dischi rigidi, la densità di scrittura dei dati è aumentata di oltre un milione di volte, grazie all’utilizzo di nuovi materiali che ha consentito una continua riduzione della dimensione dei domini magnetici così come una maggiore sensibilità delle testine.
L’impiego dei sensori basati sulla magnetoresistenza non si limita all’uso nell’immagazzinamento dei dati. Tra le applicazioni industriali vi sono gli strumenti per il monitoraggio di processo, i robot in grado di rilevare la posizione nelle linee di produzione o la velocità degli ingranaggi. Nell’ambito degli autoveicoli vi sono i freni antibloccaggio (il sistema ABS, Anti-lock Braking System) e gli ammortizzatori intelligenti. Nel mondo della microelettronica i materiali utilizzati per generare l’effetto TMR potrebbero venire impiegati per produrre memorie non volatili. Nei computer attuali i dati sono scritti sulle RAM (Random-Access Memory), dispositivi basati su microscopici condensatori che registrano il bit di informazione 1 o 0 a seconda che siano carichi o scarichi. La carica del condensatore deve però essere rigenerata migliaia di volte al secondo; ciò richiede energia e significa anche che le RAM sono volatili, cioè perdono l’informazione quando si spegne l’alimentazione elettrica. Grazie all’effetto TMR si possono produrre le MRAM, o RAM magnetiche. Per immagazzinare i dati esse non utilizzano lo stato di carica di un condensatore, ma la magnetizzazione di un dispositivo a multistrato che, una volta magnetizzato, rimane tale in permanenza; si consuma energia soltanto quando si vuole invertire la direzione della magnetizzazione, per modificare i dati memorizzati. Con le MRAM perciò le batterie sono destinate a durare più a lungo, e i dati potranno essere conservati in memoria anche a macchina spenta.
LED organici e polimerici
Da tempo siamo abituati all’utilizzo di piccole sorgenti luminose che segnalano lo stato di un certo apparecchio elettrico: sono i LED (Light Emitting Diodes), piccoli dispositivi a semiconduttore inorganico (GaAs, CdS, InP, GaN) che, per effetto dell’applicazione di una differenza di potenziale elettrico, emettono radiazione luminosa di vari colori. Il fenomeno dell’elettroluminescenza è completamente diverso da quello dell’incandescenza che viene usata nelle comuni lampadine e genera calore. Si tratta di un processo molto più efficace per convertire direttamente energia dalla forma di corrente elettrica in radiazione luminosa. Oggi si affaccia nel campo dell’elettronica di consumo una nuova categoria di LED basata su materiali organici che, grazie alla maggiore luminosità, ai consumi energetici più bassi e alla più facile produzione e quindi alla maggiore economicità, stanno modificando profondamente molti dei sistemi attivi di produzione di immagini, come schermi televisivi o di computer, sostituendo i comuni schermi a cristalli liquidi. Questi dispositivi sono noti come OLED (Organic LED), o PLED (Polymer LED) quando il materiale utilizzato è un polimero (Organic light-emitting materials and devices, 2007). Tra i polimeri luminescenti vi sono i polialchilfluoreni, il poliparafenilene, e la poli/p-piridina. Gli OLED e i PLED offrono numerosi vantaggi rispetto ai LED a semiconduttore tradizionali: non devono essere necessariamente cristallini, sono applicati in strati sottili e quindi di minor spessore, e forniscono immagini ad alta risoluzione grazie al fatto che materiali differenti (che emettono colori diversi) possono essere disposti su un substrato che può essere vetro, plastica, metallo. L’unico inconveniente rispetto ai LED tradizionali è la durata: quelli a semiconduttore inorganico hanno una vita praticamente infinita, mentre gli OLED sono più soggetti a degradarsi. La flessibilità dei materiali organici rende gli OLED e i PLED di grande interesse anche per la produzione di display avvolgibili, che potrebbero quindi essere integrati in capi di vestiario o utilizzati per il rivestimento di pareti o soffitti, modificando radicalmente il modo di illuminare edifici e abitazioni. Mentre gli OLED sono ormai sul mercato per quanto riguarda gli schermi di medie e grandi dimensioni, le applicazioni in abbigliamento o per rivestimenti in edilizia sono a livello di prototipo e si prevede che saranno sul mercato soltanto tra alcuni anni.
Elettronica molecolare
La seconda metà del 20° sec. è stata dominata dalla rivoluzione microelettronica. L’introduzione nel 1947 del primo transitore a semiconduttore basato su germanio e la comparsa, intorno al 1960, dei primi circuiti integrati su silicio cristallino sono stati alla base dello sviluppo rapidissimo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione che oggi conosciamo (Orton 2004). Il progresso costante nell’aumento della capacità di elaborazione dei dati è legato al miglioramento continuo nei processi di miniaturizzazione che, grazie alle tecniche fotolitografiche, hanno permesso di ricavare sempre più transistori sullo stesso wafer di silicio, riducendo allo stesso tempo il costo per transistore di circa un milione di volte in trent’anni. Questo ha portato gli attuali transistori basati sulla tecnologia MOS (Metal-Oxide Semiconductor) a dimensioni di poche decine di nanometri. Un’ulteriore riduzione delle dimensioni è possibile, ma richiede la sostituzione di alcune componenti, come il sottile strato di SiO2 con altri isolanti a più elevata costante dielettrica. I costi degli impianti di produzione crescono in modo esponenziale, e comunque nel giro di 10-15 anni si raggiungeranno limiti fisici al di sotto dei quali non sarà possibile andare. In realtà, la capacità di ricavare sempre più transistori per unità di superficie è già diminuita negli ultimi anni, e si impone il passaggio a tecnologie completamente diverse per produrre transistori di nuova generazione.
In questo ambito hanno un ruolo rilevante i materiali molecolari organici (de Mello, Halls 2005). L’idea è quella di sfruttare le dimensioni nanometriche delle molecole per sostituirle ai normali transistori. I vantaggi però vanno oltre il semplice aspetto dimensionale. I sistemi molecolari consentono di confinare gli elettroni in modo più sicuro e si può pensare di costruire tutti gli elementi tipici di un transistore utilizzando molecole progettate appositamente. Per costruire un cavo, per es., si potrà usare una lunga molecola in cui gli elettroni possano facilmente fluire da un capo all’altro. Ma un dispositivo come un transistore deve fare qualcosa di più che lasciare semplicemente scorrere gli elettroni: deve essere in grado di controllarne il flusso. L’obiettivo diventa quindi quello di progettare molecole i cui livelli energetici siano tali da permettere o impedire a comando il flusso di elettroni. Se la struttura della molecola è modificata, per es. ruotandone una parte, si può ridurre o eliminare del tutto la capacità della molecola di condurre l’elettricità. Quindi nell’elettronica molecolare si può ottenere un interruttore modificando la forma della molecola con l’applicazione di un debole potenziale elettrico. Dato il grande numero di molecole organiche conosciute, le potenzialità sono molto elevate. Non è sufficiente però costruire un singolo transistore molecolare, occorre metterne insieme miliardi. La vera sfida è quella di perfezionare i processi per cui le molecole destinate a svolgere le varie funzioni nel circuito elettronico (interruttore, cavo di connessione ecc.) si dispongano spontaneamente nel modo desiderato e autorganizzato, secondo un progetto ben preciso. È questo il concetto di autoassemblaggio, di essenziale importanza in molti aspetti della preparazione di materiali funzionali e di molti processi nanotecnologici. Per produrre un dispositivo elettronico molecolare, occorre quindi ancorare le molecole organiche a un supporto inerte, funzionalizzando opportunamente la molecola organica così che sia in grado di legarsi saldamente al supporto. La messa a punto di questi nuovi sistemi e lo sviluppo di nuovi materiali e processi saranno di enorme importanza per capire il futuro dell’elettronica molecolare.
Nanotubi di carbonio
Un particolare tipo di materiali con potenziali utilizzi in elettronica molecolare è rappresentato dai nanotubi di carbonio. Questi sistemi, scoperti nel 1991, sono fogli di grafite (carbonio puro) avvolti su sé stessi a formare una struttura cilindrica, di solito chiusa alle estremità da una calotta semisferica. I primi nanotubi, costituiti da vari strati concentrici di atomi di carbonio gli uni dentro gli altri, avevano diametro e lunghezza rispettivamente di circa 1 nm e parecchi nanometri. Successivamente sono stati ottenuti nanotubi con una singola parete, vuoti all’interno e adatti quindi a funzionare come serbatoi molecolari. Grazie alle loro elevate proprietà meccaniche, i nanotubi sono già utilizzati come fibre di rinforzo nei materiali compositi ad alte prestazioni, in sostituzione delle normali fibre di carbonio o delle fibre di vetro. Per via della loro altissima conducibilità elettrica, i nanotubi di carbonio sono oggi tra i materiali funzionali più promettenti: infatti sono conduttori mille volte migliori del rame e dissipano pochissima energia sotto forma di calore. Oltre all’utilizzo come componenti nell’elettronica molecolare, i nanotubi di carbonio sono i materiali migliori per dispositivi a emissione di campo come schermi piatti, possono essere usati come additivi di conducibilità nella produzione di materiali di confezionamento antistatici, rendono conduttive le plastiche e ne migliorano la rigidità e la resistenza, sono stati proposti come elettrodi in batterie e celle a combustibile. Molte di queste applicazioni sono attualmente limitate dai costi di produzione, di cui peraltro è prevista una forte riduzione nei prossimi anni, in coincidenza con l’aumento della capacità degli impianti.
Applicazioni industriali avanzate
Leghe a memoria di forma
Le leghe a memoria di forma rappresentano una classe relativamente nuova di materiali metallici e mostrano proprietà meccaniche, quindi strutturali, molto particolari. La possibilità di utilizzare queste proprietà per scopi vari rende le leghe a memoria di forma di grande interesse anche per applicazioni funzionali. In genere, con questa denominazione si intende un materiale in grado di recuperare una forma macroscopica precedente per semplice effetto di una variazione di temperatura o di altre sollecitazioni esterne capaci di stimolare una trasformazione cristallografica particolare, di tipo reversibile. In questi materiali è presente una trasformazione di fase a stato solido (cioè in cui sia la fase di partenza sia quella di arrivo sono strutture solide, anche se con arrangiamenti cristallografici differenti), che prende il nome di trasformazione martensitica termoelastica. Tra le proprietà di questa trasformazione quella più interessante è legata alla struttura cristallina della fase martensitica, che consiste in una fitta disposizione di piani cristallini disposti specularmente l’uno rispetto all’altro e dotati di un’elevatissima mobilità relativa. Quando il materiale viene deformato da una forza esterna, invece di rompere legami cristallografici e danneggiare la struttura, i piani reticolari scorrono uno rispetto all’altro accomodando in questo modo la deformazione complessiva senza che avvengano spostamenti atomici significativi. Poiché i singoli atomi si sono spostati molto poco rispetto alle loro posizioni originali, per effetto di un riscaldamento questi tornano facilmente nelle posizioni che avevano prima della deformazione, e il materiale recupera la forma macroscopica di partenza. Oltre alla caratteristica della reversibilità della deformazione, da cui l’espressione memoria di forma, questi materiali presentano anche altre caratteristiche, come il comportamento superelastico, per cui alcune leghe possono subire deformazioni molto pronunciate ma recuperare immediatamente la forma iniziale grazie a piccole sollecitazioni esterne.
Le leghe a memoria di forma stanno trovando applicazione in campi sempre più vasti, che vanno dal settore industriale a quello medico: per la produzione di indicatori di temperatura usati nell’industria alimentare, rivelatori di incendio o di surriscaldamento di freni; sono utilizzati nell’industria automobilistica per ridurre vibrazioni e rumore o come regolatori di entrata di acqua oppure lubrificanti; nell’industria elettromeccanica, come interruttori e commutatori di circuiti; nell’industria spaziale, per l’apertura di antenne regolata termicamente; in medicina, come perni per fratture ossee e attrezzi di allenamento per le articolazioni. Tra le leghe con le prestazioni migliori si possono ricordare NiTi, CuZnAl, e CuAlNi.
Sensori, attuatori e muscoli artificiali
Per costruire dispositivi miniaturizzati capaci di effettuare movimenti i congegni meccanici sono del tutto inadatti. Queste applicazioni richiedono lo studio di materiali intelligenti in grado di adattarsi e di rispondere a una sollecitazione esterna. In genere questi materiali si deformano, seppur di poco, se opportunamente stimolati, e creano forze in dispositivi piccolissimi, detti attuatori, nei quali leve e martinetti idraulici sarebbero troppo ingombranti nonché troppo difficili da montare. Tra i materiali alla base di queste applicazioni vi sono le leghe a memoria di forma, i materiali ceramici piezoelettrici e piroelettrici, i materiali magnetostrittivi, i polimeri elettroattivi e altri. I ceramici piezoelettrici (PbZr1−xTixO3, BaTiO3, PbTiO3, PbNb2O6) sono impiegati per pilotare la testina di lettura di un disco rigido o per la messa a punto di apparecchi fotografici, e si deformano facilmente se esposti a un debole campo elettrico. La deformazione massima è dell’ordine dell’1%, comunque sufficiente a generare delle forze significative. I sensori e gli attuatori magnetostrittivi mostrano un cambio di forma in risposta all’applicazione di un campo magnetico, e sono utilizzati in un gran numero di applicazioni. Il materiale maggiormente utilizzato in questo contesto è il terfenolo-D, un composto intermetallico di terbio e ferro, TbFe2, con tracce di una terra rara come il disprosio.
I materiali polimerici elettroattivi sopportano grandi deformazioni e sono molto robusti. Hanno il pregio di deformarsi rapidamente e di essere malleabili, tanto da essere considerati gli elementi più promettenti per la costruzione di attuatori miniaturizzati. I loro meccanismi di funzionamento ricordano da vicino quelli dei muscoli, e infatti per questi sistemi è stata coniata l’espressione muscoli artificiali. Anche se suggestiva, tale definizione è impropria, in quanto lo scopo non è quello di sostituire i muscoli nell’organismo umano ma di svolgere movimenti precisi, riproducibili e miniaturizzati con bassissimi consumi energetici. Il meccanismo fondamentale alla base dei muscoli artificiali è abbastanza semplice. Quando vengono esposti a campi elettrici, gli elastomeri dielettrici si contraggono nella direzione delle linee del campo elettrico e si espandono perpendicolarmente a esse. I dispositivi basati su questi materiali consistono di due piastre parallele elettricamente cariche, che racchiudono a sandwich un materiale isolante. Applicando il campo elettrico cariche di segno opposto si generano sulle facce delle due piastre che si attraggono, provocando la compressione dell’isolante polimerico, il quale a sua volta risponde espandendosi in superficie. Questi materiali non solo vengono studiati per la produzione di attuatori, ma possono risultare utili per modificare la tessitura di una superficie, un evento di grande interesse nella riproduzione di fenomeni naturali quali il mimetismo. L’espansione-compressione del materiale polimerico stimolato dal campo elettrico può risultare in increspature superficiali in grado di alterare la riflettanza della superficie e il suo aspetto.
Materiali elettrocromici
Quando un materiale elettrocromico è attraversato da una corrente, le sue proprietà ottiche si modificano, così da provocare un netto cambiamento di aspetto (colore, riflettanza o trasparenza). Il meccanismo si basa su reazioni elettrochimiche che coinvolgono il trasferimento di elettroni e ioni tra gli elettrodi e il materiale elettrocromico. Questo fenomeno si presenta in numerosi ossidi di metalli di transizione. Per es., l’ossido di tungsteno (WO3) passa da trasparente a blu; l’ossido di vanadio (V2O5) può cambiare da rosso a blu; l’ossido di nichel drogato con litio (LixNi1−xO) passa da trasparente a verde. Di recente lo studio è stato esteso a materiali organici e polimerici, come la polianilina o la polifenilalanina. Le utilizzazioni dei materiali elettrocromici sono numerose, ma l’applicazione principale riguarda la produzione di finestre intelligenti, in grado di ridurre la trasmissione della luce almeno del 60-70% in meno di un minuto per applicazione di un campo elettrico; oppure di lenti per occhiali da sole capaci di modificare a piacere il livello di assorbimento della luce.
Salute e medicina
Biomateriali per ingegneria di tessuti e impianti
Si definiscono biomateriali i materiali progettati per interfacciarsi con i sistemi biologici al fine di dare supporto o sostituire tessuti, organi o funzioni del corpo umano che abbiano perso parte della operatività o che siano stati danneggiati da traumi o eventi patologici. Il numero delle loro applicazioni è cresciuto notevolmente in questi anni. I biomateriali possono essere utilizzati sia in modo da essere riassorbiti una volta messi a contatto con i tessuti biologici sia in impianti permanenti o protesi definitive (Biomaterials science, 20042). Le prestazioni dei materiali impiegati in campo medico sono valutate in base alla loro biofunzionalità e biocompatibilità. La biofunzionalità si riferisce alle proprietà che un dispositivo deve avere per riprodurre una determinata funzione dal punto di vista fisico e meccanico; la biocompatibilità, alla capacità del dispositivo di continuare a svolgere quella determinata funzione durante tutta la vita utile dell’impianto. La biocompatibilità è connessa alle interazioni di tipo chimico tra i biomateriali e i tessuti con cui vengono a contatto. Essa quindi non è funzione solo delle caratteristiche e delle proprietà del materiale (stabilità chimica, rugosità, carica superficiale, natura dei prodotti di degradazione ecc.) e dei dispositivi impiantati (dimensioni, forma, flessibilità ecc.), ma anche delle condizioni dell’organismo ospite (tipo di tessuto, luogo di impianto, età, sesso, condizioni generali di salute). L’utilizzo di materiali inerti, tali cioè da non provocare né stimolare in linea di principio reazioni di rifiuto o di riconoscimento da parte dell’organismo ospite, non sempre produce risultati soddisfacenti. Pertanto l’attenzione si è spostata sull’applicazione di materiali bioattivi in grado di reagire positivamente con l’ambiente fisiologico circostante. Molti di questi materiali trovano utilizzazioni con fini strutturali, per es. in protesi ossee o nella sostituzione parziale o totale di un’articolazione, ma non ne mancano di tipo funzionale, come la risposta a stimoli elettrici per dispositivi medici impiantabili che ripristinano o sostituiscono funzioni tipiche del sistema nervoso, o per dispositivi elettroacustici che si interfacciano con il sistema nervoso per la correzione della funzione uditiva. Molto importante, infine, la rigenerazione guidata dei tessuti, un fenomeno molto complesso che implica il controllo di numerosi processi metabolici.
I biomateriali sono di diverso tipo, da materiali ceramici (impianti ossei, rivestimenti di protesi, biovetri) a metalli e leghe (protesi dell’anca), a materiali polimerici. Questi ultimi si segnalano per le loro specifiche funzionalità come membrane atte alla somministrazione di farmaci, rivestimenti per sensori e dispositivi elettronici impiantabili, rigenerazione tessutale, riempimento di cavità, valvole cardiache, protesi vascolari, organi bioartificiali (dispositivi medici in cui si ha combinazione di materiali sintetici e di cellule o tessuti viventi).
Biomateriali come dispensatori di farmaci
Un settore su cui vengono concentrati grandi sforzi da parte della ricerca è quello dei materiali dispensatori mirati di farmaci. L’obiettivo è far sì che un determinato agente chimico interagisca di preferenza con tessuti o cellule malate senza danneggiare o essere assorbito da quelle sane. I farmaci possono essere trasportati all’interno di particolari vescicole e rilasciati solo al momento in cui avviene uno specifico riconoscimento. Per tali scopi si utilizzano già liposomi, particelle naturali costituite da colesterolo e fosfolipidi. Questi ultimi sono molecole presenti nella membrana cellulare, formate da una parte insolubile in acqua ma solubile in solventi organici e da un gruppo fosfato. I fosfolipidi messi in acqua formano spontaneamente microsfere: le molecole orientano il loro lato polare, solubile in acqua, verso l’esterno, lasciando all’interno la terminazione non polare, che è insolubile. Si crea così una calotta con l’acqua all’interno e un involucro a doppio strato di lipidi a formare un guscio sferico all’esterno. I liposomi possono dissolvere e inglobare sia farmaci idrosolubili sia farmaci liposolubili, vale a dire solubili nei grassi. Inoltre la superficie del liposoma può essere funzionalizzata, ossia modificata per scopi precisi; per es., vi si possono agganciare molecole o gruppi tali da favorire l’ancoraggio del liposoma a uno specifico recettore.
Un secondo tipo di nanoparticelle utilizzabili come vettori di farmaci è costituito da nanoaggregati solidi di polimeri biodegradabili. Questi offrono alcuni vantaggi rispetto ai liposomi: variando la composizione dei polimeri e la morfologia della particella si possono controllare le caratteristiche di rilascio del farmaco nell’organismo, programmando in questo modo una cessione lenta e graduale del principio attivo anche per periodi prolungati. Infine, esistono i dendrimeri, grosse molecole sferiche costituite da polimeri reticolati. Un tipico dendrimero (più o meno 3 nm) ha una grande area superficiale e funge da spugna molecolare. Risultano essere ottimi vettori per il trasporto dei farmaci e li si può utilizzare per la cura di malattie derivanti da difetti genetici, trasportando molecole di DNA (DeoxyriboNucleic Acid) all’interno delle cellule, e per i processi diagnostici, identificando selettivamente le cellule malate. In tutti i casi il problema principale che si pone è il riconoscimento delle zone dell’organismo in cui rilasciare il farmaco.
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