Nuovi modelli dell’abitare
Continuità e mutamento
Il 20° sec. ha pensato l’abitare riassumendolo nella figura sociologica dell’abitazione. Il modello della ‘casa’ come diritto sociale, come categoria progettuale, come dato economico, ha finito con il racchiudere questa esperienza naturale in una fitta rete di parametri ordinati secondo la logica del pensiero scientifico (tipologie, schemi funzionali, tassonomie di valori, gerarchie di comportamenti), fino a tradurla in un progetto spaziale e d’arredo ispirato al puro calcolo strutturale, ergonomico, industriale, cui hanno fatto da cornice più sfumate, ma non meno normative, rappresentazioni d’ordine etico e sociale. Perfino il suo risvolto estetico (l’immagine della ‘bella casa’) ha generalmente aderito a questa concezione, fondando il tema dell’abitazione di massa su protocolli formali elaborati alla luce dei medesimi criteri produttivi.
All’alba del 21° sec. questo modello mostra, però, evidenti segnali di crisi. Non si tratta del decadimento degli strumenti tecnici dei quali esso progressivamente si è dotato, bensì del venir meno dei suoi presupposti culturali, dell’ideologia che ne ha plasmato i lineamenti, del progetto sociale che ne ha disegnato il ruolo e la portata. Le inquietudini che hanno percorso l’architettura al tramonto del Novecento – concitato recupero dei concetti di luogo, di memoria, di tradizione; radicale ripensamento del rapporto dell’artefatto architettonico con la natura; ricerca di più equilibrate relazioni con la tecnologia; pressanti interrogativi sul destino degli spazi urbani – sono state i segnali di mutamenti più profondi che stanno infine portando alla luce verità elementari, sebbene ancora nebulose. Il passaggio dalla società di massa, dalla quale prese forma il concetto stesso di modernità, alla società globale, che reclama nuovi paradigmi metodologici e progettuali, impone un modello d’analisi in grado di individuare le basi fondative dei fenomeni, il perno sul quale misurare tutte le loro possibili oscillazioni. La questione dell’abitare appare così costretta, nella nuova prospettiva storica, a tornare alle sue origini, a ripercorrere a ritroso le tappe di una vicenda che il pensiero moderno ha rilanciato lungo l’asse di un progresso illusoriamente lineare, a rintracciare il punto di svolta dal quale riprendere il filo di un discorso mai davvero interrotto. In pratica, occorre superare non solo l’algida visione novecentesca dell’abitazione come diritto al benessere, ma anche le contemporanee insorgenze tardoromantiche che hanno fissato l’abitare nella sua dimensione mitica, poetica, se non addirittura mistica. Né l’una né le altre potranno mai essere azzerate, giacché, ciascuna a suo modo, sono entrambe portatrici di verità. Ciò che però bisogna fare, in via preliminare, è oltrepassarle, giacché in esse si possono scorgere concrezioni storicamente determinate: quel che invece occorre sullo sfondo del nuovo secolo è un pensiero anch’esso globale, nel quale i problemi settoriali possano essere colti nella vertiginosa dinamica della loro attuale trasformazione. In pratica, occorre passare dal funzionale concetto di ‘abitazione’ a quello culturale di ‘abitare’, mettendo quindi al centro dell’analisi la figura dell’‘abitante’, inteso nella sua corporeità, nei suoi modelli di comportamento, nel vivo della sua interazione sociale. È all’abitante, infatti, che spetta il progetto definitivo dell’abitare dal quale prenderà forma, di volta in volta, l’abitazione, cui il progetto architettonico può solo fornire gli strumenti di elaborazione, gli ambiti, la strumentazione di base da cui partire per avviarne lo sviluppo.
Invarianti antropologiche
Il tema dell’abitare mette in gioco, in prima istanza, la realtà dell’essere umano quale è apparsa alla riflessione filosofica, che l’ha fissata sull’incerto confine di un cogito oltre il quale si agita una naturalità fatta di istinti, pulsioni, sentimenti e comportamenti irriducibili agli schematici rigori della ragione. È stato soprattutto nel territorio dell’antropologia filosofica che questa riflessione ha trovato un ordinamento coerente, e si è impressa nel concetto di artificialità naturale proposto da Helmuth Plessner (Die Stufen des Organischen und der Mensch, 1928; trad. it. 2006), o in quello di umanità come progetto della natura, elaborato da Arnold Gehlen (Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, 1940; trad. it. 1983): l’idea che l’essere umano possa realizzarsi solo superando la sua struttura biologica, dalla quale non potrà mai distaccarsi, ma che con il suo agire egli trasforma in comportamento culturale, imponendosi quindi sulla stessa natura che lo produce e lo determina come soggetto, risulta qui basilare. Privo di un proprio habitat, l’essere umano ha fatto dell’intero mondo il suo ambiente, trasformandolo, attraverso il progetto e la tecnica, in una natura artificialmente ricomposta e posta al suo servizio; e in questa immagine dell’umanità racchiusa nell’inscindibile binomio ‘natura e artificio’, l’abitare si è costituito come figura emblematica che ne assorbe e ne chiarifica tutte le molteplici implicazioni. Esso si pone anzitutto come invariante antropologica, le cui modalità restano fissate nello spazio e nel tempo: da un lato è il corpo stesso a farsi misura e modello di un abitare che non sorge come conquista dell’intelligenza, ma come pura pulsione istintuale; dall’altro è l’incessante affinamento di una tecnica, destinata a supplire alle carenze difensive e operative tipicamente umane, a trasformare la cieca istintività in previsione progettuale e in strumentazione attuativa.
Lo spazio dell’abitare si istituisce quindi, nella sua forma primeva, sul corpo dell’abitante, e si definisce immediatamente come spazio del vissuto, fissandone la posizione e la configurazione rispetto all’apéiron (ossia lo sconfinato, l’indeterminato, l’immenso, l’infinito) che lo circonda. La spazialità dell’abitare si porrà dunque, secondo quanto le analisi più recenti hanno suggerito, come spazialità di posizione per il mondo, in quanto individuazione territoriale, riferimento percettivo, collocazione ambientale, e come spazialità di situazione nel mondo, in quanto realtà sviluppata nel tempo, identità, appartenenza.
A partire da questa prima ed elementare perimetrazione, l’abitare potrà costituirsi in abitazione, ovvero in spazio geometrico organizzato, in interno soggettivo, identitario, il cui disegno fluirà anch’esso direttamente dal corpo dell’abitante, ora però dettato dai suoi ritmi biologici, dalle sue cadenze temporali pronte a solidificarsi in abitudini, a incarnarsi nella scansione cadenzata dei comportamenti. Il ciclico alternarsi della veglia e del sonno, la reiterazione degli appetiti, il rito dell’igiene, l’insorgere del desiderio, il sistema degli affetti, l’impulso alla socialità o alla solitudine delineano nello spazio fisico dell’abitare diagrammi che rispecchiano il reticolo dei comportamenti individuali e di gruppo. Questi, in qualche modo, vi trovano la loro rappresentazione, vi restano fissati in immagini, in percorsi, fino a comporre una mappa ideale, una topografia simbolica. Così lo spazio dell’abitare viene ora percepito non in quanto ‘oggetto’ fisico né in quanto ‘concetto’ puro o a priori kantiano, bensì come espressione del sé dell’abitante, manifestazione del suo essere nell’hic et nunc del proprio vissuto. Più che percepito, esso è sentito: il sentimento della permanenza, del mutuo riconoscimento fra sé e il mondo, dell’affermazione di una individualità, vi trova la sua configurazione più immediata, che nasce dal pathos dell’abitare prima ancora che dall’ethos dell’abitazione, della residenza, dell’identità sociale e territoriale. In questo senso si può affermare che quella dell’abitare è un’esperienza intrinsecamente estetica: intesa non tanto nel significato che il filosofo statunitense John Dewey, vissuto fra il 19° e il 20° sec., attribuì a questa locuzione, facendone il terreno di una prassi tangente al versante dell’arte, quanto nel suo senso primario di riflessione sui fenomeni inafferrabili dal cogito cartesiano, già interno alla ‘logica poetica’ posta da Giambattista Vico a fondamento della comprensione del mondo, e sancito dalla scientia cognitionis sensitivae, basata su idee chiare ma non distinte, che il filosofo tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten, vissuto nel 18° sec., battezzò come aesthetica.
In questa fase, l’essere per sé dell’abitare si rovescia spontaneamente in un essere per gli altri, che si incarna nella concrezione sociale e culturale dell’abitazione. La sfera del privato, che inizialmente l’accolse in un interno segnato dalla soggettività, si moltiplica ora in un’individualità riprodotta e moltiplicata nella struttura della famiglia, per aprirsi infine a una dimensione pubblica, collettiva, di gruppo, a un esterno che ne stabilisce la collocazione, i ruoli, le classificazioni economiche o sociali. Lo spazio posizionale dell’abitare si articola così in un sistema di coordinate: l’abitazione è definita dal suo dislocarsi in una topografia fisica e civile nella quale l’identità dell’abitante è stabilita in prima istanza da quella del gruppo. Su questo rovesciamento del privato nel pubblico, dell’interno nell’esterno, dell’individuale nel collettivo, che ha alimentato una storia di dimensioni planetarie, la modernità occidentale ha eretto il proprio sistema culturale e politico; ha tradotto i principi della democrazia, del benessere di massa, del progresso illimitato in una progettazione degli spazi e degli oggetti destinati a modelli abitativi rigorosamente funzionali, nei quali si è infine rispecchiata la struttura economica e produttiva della società industriale.
La famiglia
Convertendo lo ‘statuto’ antropologico dell’abitare in un programma sociologico, la cultura moderna ne ha tradotto le modalità in un concetto di ‘domesticità’ che ha irretito la dimensione naturale del comportamento abitativo in un fitto sistema di ruoli e competenze, e vi ha posto al centro l’immagine di una famiglia ispirata al modello della società industriale. La gerarchia dispiegata all’interno della compagine familiare riflette quella sociale: secondo Max Horkheimer, la famiglia ha costituito la ‘cellula germinativa’ della cultura borghese, che vi ha trovato la sua sanzione e la sua continuità (Studien über Autorität und Familie, 1936; trad. it. 1974). L’abitare si è quindi organizzato intorno alla figura dell’unità familiare; e la nuova disposizione interna delle abitazioni, in cui Philippe Ariès ha visto l’affermarsi di una struttura parentale e sociale ridotta ai genitori e ai figli (L’enfant et la vie familiale sous l’ancien régime, 1960; trad. it. Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, 1968), ha dato vita alla tipologia urbana dell’appartamento, sulla quale la cultura architettonica del 20° sec. – affiancata da quella, sempre più pregnante, del disegno industriale – ha fondato la propria ideologia progettuale. Le invarianti antropologiche dell’abitare sono state così organizzate sulla base del concetto, ormai egemone, di funzione, e ridotte a una serie di prestazioni che, per un verso, hanno aderito agli schemi di relazione dominanti all’interno della famiglia tradizionale e, per un altro, hanno modificato l’esperienza abitativa introducendo una sempre maggiore efficienza nella dinamica delle operazioni domestiche, aggiornando incessantemente le risorse tecniche, delineando nuovi comportamenti, sovvertendo i gusti e le inclinazioni, e proponendo modelli di consumo radicalmente nuovi rispetto al passato.
Tuttavia, nei decenni tra la fine del 20° e il sorgere del 21° sec. il panorama domestico ha subito radicali trasformazioni, peraltro tuttora in atto. L’identificazione della ‘casa’ con la ‘famiglia’ si è dissolta, non tanto sul piano posizionale, visto che ancora l’abitazione costituisce per i più un punto di riferimento topografico e sociale, quanto su quello situazionale, con la tendenziale disaggregazione dell’unità familiare, la trasformazione dei rapporti fra interno ed esterno, il mutamento dei comportamenti domestici derivanti dall’introduzione di tecnologie sempre più sofisticate, le incertezze della cultura progettuale in bilico tra la conferma della pura funzionalità dell’abitazione e l’offerta di nuovi modelli abitativi.
Il concetto di famiglia, come cellula riproduttiva tanto della specie quanto dell’ordine sociale, ha perso validità nel momento in cui la giustificazione dell’unione di coppia non è più stata affidata in assoluto alla nascita dei figli; la struttura monogamica si è dilatata nella novità della cosiddetta monogamia seriale (il cambiamento del compagno o della compagna, con il conseguente sovvertimento del rapporto genitori/figli) e le relazioni fra gruppi parentali di età diversa si sono complicate con l’allungamento della vita media. In pratica, è in atto un processo di parcellizzazione dei rapporti familiari che si ramificano in nuovi schemi di convivenza e in nuove figure (il/la singolo/a, la coppia, la coppia con figli, le coppie separate, con figli e diversamente ricomposte, gli anziani, a loro volta soli o in coppia).
In ciò non è da vedere un evento traumatico: semplicemente, si assiste alla composizione di nuovi diagrammi affettivi, dal disegno ancora informe. Tuttavia, in tale prospettiva, l’immagine architettonica della ‘casa’ non trova più il proprio rispecchiamento in quella sociale della ‘famiglia’ tradizionale. Non si registra un radicale scardinamento degli schemi istituiti dalle invarianti antropologiche, ma si procede verso una loro progressiva frammentazione: l’abitare si trasforma così in esperienza suddivisa in microcomportamenti autonomi, tuttora organizzata nella distribuzione funzionale dei rispettivi spazi, ma in realtà disarticolata nei suoi rapporti situazionali, che presuppongono esperienze abitative di tipo diverso. Il vecchio modello di configurazione spaziale dei rapporti di convivenza risulta sottoposto a continui episodi di devianza, segnalati dalla differenza dei modi d’abitare a seconda del ruolo ricoperto all’interno del gruppo. Le modalità d’uso degli ambienti, degli arredi e delle attrezzature denunciano una disomogeneità che la logica del progetto moderno dell’abitazione non riesce ormai più a contenere e ad assecondare, e che è tuttavia indice di ricerca di una nuova fisionomia sociale e culturale dell’abitare.
La società
La cultura contemporanea ha incastonato la fine della modernità nella metafora della dissoluzione, del discioglimento, della liquefazione delle strutture novecentesche, facendo del nostro tempo un’epoca ‘liquida’ e fissandone il corso nell’immagine di una ‘fluidità’ nella quale l’esistenza quotidiana si è vividamente rispecchiata, a partire dalle sue manifestazioni più immediate. L’esperienza dell’abitare vi si è trovata subito immersa, riflettendo, nelle sue multiformi sfaccettature, il frenetico divenire di un mondo che sembra fondare in misura crescente la propria identità sulla mutazione; e, mentre la cultura progettuale moderna e quella postmoderna hanno continuato variamente a insistere sui medesimi schemi funzionali di base, la realtà dell’abitante e della sua sfera esistenziale ha disegnato un panorama domestico interamente nuovo, sul quale agiscono sollecitazioni diverse.
Il segnale più vistoso del mutamento è implicito nella coppia istitutiva dell’abitare, quella che fa in genere dell’interno e dell’esterno il recto e il verso di una medesima realtà antropologica e sociale. Tradizionalmente, l’abitazione si configura in prima istanza come la cellula identitaria dell’abitante, ma si propone via via come interfaccia rispetto al gruppo di appartenenza, limite della socialità, barriera difensiva nei confronti di un mondo ostile. Nella prospettiva presente, però, l’elemento di collegamento e, insieme, di separazione definito dalla soglia ha assunto caratteri nuovi. La chiusura nei confronti dell’esterno (barriere protettive, porte blindate, sorveglianza, rigide procedure d’accesso) fa parte di una strategia di difesa sempre più ossessiva, nella quale la soglia di casa marca una differenza difficilmente superabile tra lo spazio intra moenia e quello extra moenia: il primo rassicurante, riconoscibile, condiviso; il secondo minaccioso, incognito, antagonista.
Si tratta però, a ben vedere, di una chiusura porosa, la quale lascia che il mondo esterno si insinui nell’interiorità più profonda dell’abitazione attraverso infiltrazioni rese irresistibili dalla loro particolare evanescenza. Ciò è sempre avvenuto, ma nel presente si registra una variazione appariscente rispetto alla cultura dell’abitare ancora viva nel 20° secolo. L’immagine della ‘casa’ riflette ancora quella della cultura collettiva; ma, poiché questa è ora contrassegnata da una strutturale instabilità e da un mutamento indefinito e continuo dei ruoli, dei modelli, delle figure, la fisionomia dell’abitare che vi si rispecchia trasmette il senso di una deviazione costante rispetto a norme che si sanno comunque transitorie. Sul corpo ancora stabile dell’organizzazione funzionale degli spazi – i luoghi dell’igiene, del nutrimento, del riposo, della socialità – si innesta ormai una serie infinita di variazioni che corrispondono a quelle indotte dai modelli culturali al momento prevalenti, ma che sono anche frutto di correzioni individuali, di devianze soggettive, di una miriade di scelte personali.
Il terreno sul quale fioriscono queste variazioni è variegato, ma presenta alcune tendenze evidenti. Il ruolo della presenza femminile nella ‘casa’ è drasticamente mutato, con una marcata proiezione della donna all’esterno del perimetro domestico e la conseguente introduzione, all’interno, di criteri e comportamenti mutuati da una nuova rete di relazioni sociali e di competenze; il rapporto di coppia si è fatto meno squilibrato, e tende a incoraggiare una fruizione incrociata degli ambienti, un tempo separati dai rispettivi ruoli familiari e sociali; quello tra genitori e figli è non di rado segnato da fratture culturali e contrapposizioni conflittuali; l’allungamento della vita media ha restituito agli anziani una vitalità che consente di pensare all’abitazione non come uno spazio di memoria immobile e immutabile, ma come possibilità di rinnovamento e ulteriore godimento.
Ciò conferisce all’abitare contemporaneo una fisionomia ambigua. A prima vista, varcando la soglia di un’abitazione qualsiasi, esso sembra tuttora ancorato ai suoi schemi tradizionali. I valori antropologici di base restano comunque rispettati, a onta di alcune tendenze progettuali contrarie: la separazione dello spazio fra gli ambienti notturni, lunari, della zona notte, e quelli diurni, solari, della zona giorno, è rimasta più o meno invariata; l’intimità dei luoghi dell’igiene resiste alle proposte di una loro apertura su uno spazio indifferenziato; la funzione di rappresentanza e di affermazione identitaria rispetto al gruppo e alla comunità di appartenenza spetta ancora alla ‘sala’, che ha conservato il suo ruolo rappresentativo, teatrale, spazio di recita e di interpretazione, più o meno convinta, di un copione e di un personaggio. A mutare vistosamente, prima ancora che gli spazi e le cose, è però il sistema di relazioni interne fra gli spazi, le cose e gli abitanti.
Si coglie in primo luogo un diverso rapporto di valore tra il concetto di ordine e quello di disordine: poiché il primo non ha più un modello culturale e funzionale cui attenersi (l’organizzazione produttiva e di consumo della cucina, la puntigliosa e immobile scenografia della sala, il carattere sacrale della stanza da letto dei genitori, l’asettica funzionalità dei bagni), il secondo vede sfumare il suo ruolo di trasgressione, per ridursi a un semplice ventaglio di opzioni, tutte egualmente legittime. Così gli ambienti un tempo caratterizzati da una loro precisa funzione e da una fisionomia definita, vissuti secondo ritmiche scansioni temporali, con una minuziosa suddivisione delle competenze, divengono ora luoghi di transito e di fruizione indifferenziata; la disposizione dei mobili e degli oggetti, culturalmente legata a schemi spaziali convenzionali – l’antica cerimonialità borghese o l’efficiente lezione della moderna ergonomia –, obbedisce a logiche soggettive e flessibili; il controllo e il mantenimento degli assetti complessivi della casa cedono il posto a una gestione casuale, imposta dai tempi e ritmi del lavoro esterno, da una diversa attribuzione di valore agli oggetti, il consumo dei quali risulta sempre più accelerato, e dal dissolvimento della gerarchia degli spazi, che stabiliva minuziosi diagrammi di accessibilità e divieti.
Ciò non è privo di conseguenze sulla ritualità che istituisce l’abitare come insieme di eventi vissuti collettivamente e scanditi nel tempo e nello spazio. I ritmi temporali della nutrizione vanno gradualmente perdendo il loro imperativo valore di gruppo: il pranzo e la cena hanno rinunciato all’antico carattere sacrale che li organizzava in eloquenti geometrie gerarchiche, in figurazioni (come la tavola apparecchiata), in cui si riproducevano i contorni del sistema familiare; e la cerimonia dei pasti si è tendenzialmente disgregata in frettolosi episodi individuali, dettati dalla difformità dei tempi di lavoro o di studio, che ha dissolto le antiche cadenze di riunione della famiglia in alcuni luoghi conviviali dalle precise caratteristiche: la calda intimità della cucina o la formalità della sala da pranzo. La convivenza tra genitori e figli, che un tempo l’abitare comune rinsaldava attraverso una continuità spaziale in cui si rifletteva la stabilità (più o meno armonica o conflittuale) delle relazioni, appare ora interrotta da cesure culturali (diversità di linguaggio, preclusioni nella comunicazione), che fanno non di rado della giovanile ‘cameretta’ un ambiente gelosamente autonomo e isolato dal resto della casa. Anche la socialità dei convegni serali, estrema ed esile propaggine della convergenza familiare intorno al focolare, che il 20° sec. aveva artificiosamente prolungato nella novità dello spettacolo televisivo, si è dispersa nel moltiplicarsi delle opzioni individuali. Essa si ricompone saltuariamente negli incontri del gruppo dei pari, nei quali tuttavia le motivazioni fondate sul sentimento dell’amicizia o sull’affinità intellettuale confluiscono in più articolate strategie dei rapporti di lavoro o degli obiettivi professionali, duplicati dalle rispettive carriere di lui e di lei. In tal modo il risvolto comunitario dell’abitare sembra progressivamente perdere la sua funzione primaria di coesione di gruppo, per esaltare invece il suo ruolo puramente rappresentativo.
La tecnologia
Le variazioni di natura sociale dell’abitare non sono le sole destinate a modificare l’esperienza abitativa contemporanea. In effetti, l’esterno penetra nell’interno domestico tanto nel realismo degli oggetti e dei comportamenti, quanto nella versione spettrale e immateriale del messaggio digitale, della comunicazione elettronica, del collegamento telematico con un mondo che ci si presenta ormai come pura immagine. A questo aspetto della società contemporanea – il crescente dominio, nella domesticità quotidiana, della televisione, dei telefoni cellulari, della rete, della posta elettronica, oltre che dei nuovi apparati di controllo e produzione delle apparecchiature domestiche – si è attribuito in gran parte il carattere fluido, scorrevole, mutevole della nostra esperienza quotidiana. Ciò che però qui è necessario cogliere è la sua progressiva incidenza sui modelli abitativi, chiedendoci in quale modo l’‘esterno’ virtuale, prodotto e manipolato da una tecnologia sempre più sofisticata, vada condizionando l’articolazione degli schemi di base dell’abitare.
Nella seconda metà del 20° sec. l’irruzione della televisione nell’interno domestico aveva sovvertito l’organizzazione degli spazi della socialità, trasformando il ‘salotto’, la ‘sala’ o il ‘tinello’ in luoghi di confluenza, dapprima aperti all’ospitalità – vicini di casa, amici, parenti – e poi, con la rapida diffusione del mezzo e la natura sempre meno rituale dei programmi, circoscritti al nucleo familiare. Si era così introdotto, nell’organizzazione spaziale dell’interno domestico, un mutamento significativo: l’ambiente della socialità aveva perso la sua configurazione più o meno circolare, destinata a incoraggiare la conversazione, il confronto diretto, lo scambio, per assumerne invece una semicircolare, le cui tensioni visive convergevano tutte verso il punto focale dello schermo televisivo. Questa inedita topografia domestica (disposizione dei mobili, orientamento delle aperture e delle chiusure, strategie di vicinanza o lontananza) non era che il riflesso di un nuovo schema di relazioni sociali. I fascinosi effetti dello spettacolo televisivo domestico si rivelarono infatti duplici: esso rafforzò in qualche modo la coerenza e la vicinanza del gruppo (sociale e familiare), ma in pari tempo vi abolì ogni forma di comunicazione interpersonale, per sostituire alla conversazione tra individui il silenzio del pubblico, assorto nella contemplazione dell’evento mediatico. La sala divenne così una platea e la famiglia si ridusse al microscopico calco della nuova società di massa. Con il tempo, tuttavia, questa situazione appare ulteriormente mutata. Il proliferare degli apparecchi televisivi nelle abitazioni, la moltiplicata offerta di programmi, la diffusione capillare di strumentazioni tecniche sempre più individualizzate (console per videogiochi, lettori di musica digitale, telefoni cellulari multiuso, posta elettronica) hanno, per un verso, accresciuto a dismisura l’offerta di comunicazione, di relazione, di scambio, ma, per un altro, hanno racchiuso l’individuo in una sfera virtuale che ha finito con l’isolarlo dal contesto domestico, per proiettarlo nella vastità di una ‘rete’ nella quale i concetti spaziali di esterno e di interno si dissolvono fino ad azzerarsi. Il declino dell’apparecchio televisivo come attrattore sociale ha nuovamente plasmato lo spazio della sala o del salotto, restituendolo alla pura convivialità. Ma la trasformazione quantitativa si è accompagnata a un più radicale mutamento degli schemi di relazione familiari, che hanno ora assunto una configurazione puntiforme, nella misura in cui ogni individuo occupa uno spazio virtuale non coincidente più con quello tridimensionale dell’abitazione, né con quello culturale della sua posizione in seno al gruppo di famiglia. In pratica si assiste, nell’abitare contemporaneo, a una dislocazione continua dell’abitante rispetto al luogo e rispetto agli altri membri del gruppo, un essere qui e ora che coincide con un essere altrove, un permanere nella solida recinzione della casa che si rovescia in una ‘impermanenza’ – se non addirittura in una lontananza – indefinita e illimitata. Ogni punto dell’abitazione diviene così un interno, apribile in qualsiasi momento su un esterno destinato a trasferire il singolo abitante in un altro spazio; e, tuttavia, questo esterno multiforme e indifferenziato, che ciascuno può modulare a seconda delle proprie inclinazioni, viene di continuo fatto rifluire in un interno, che non è più garanzia di radicamento e di identità, ma solo di posizione in una topografia nebulosa o addirittura virtuale.
Questo è, tra i mutamenti introdotti dalla tecnologia contemporanea nell’esperienza quotidiana dell’abitare, soltanto il più vistoso. Altri se ne registrano, non altrettanto radicali, ma egualmente incisivi, dal momento che l’esterno tecnologico si presenta oggi, non solo come messaggio proveniente dal di fuori, ma anche nella concretezza del corpo tecnico degli utensili domestici; la presenza di questi nel nostro panorama casalingo si fa sempre più massiccia, nella stessa misura in cui la logica del loro funzionamento si fa sempre più enigmatica.
L’innovazione tecnica ha operato in modo significativo, nel corpo della casa, soprattutto su due ambienti: la cucina e il bagno. La cucina – spazio domestico ispirato, nella tradizione novecentesca, a una ‘scientificità’ che faceva leva su accurati schemi ergonomici e su modelli gestionali di matrice industriale, e arricchita, nell’ultimo decennio del 20° sec., da un opulento apparato scenografico che, in qualche caso, la rendeva monumentale – si presenta ormai come una sorta di theatrum sanitatis, in cui domina una efficienza tecnica che richiama l’idea del laboratorio. I mobili e gli utensili vi si presentano come sofisticati apparati tecnologici, che fanno dell’arte culinaria un’attività tecnica e produttiva, quasi che l’antico taylorismo vi si ripresenti non più come costrizione del corpo, ma come automatismo informatico che rende passiva la presenza umana. Non è un caso che proprio la cucina sia ormai il regno di quelli che sono stati definiti infodomestici, ovvero apparecchiature di servizio il cui funzionamento è assicurato da un sofisticato corpo tecnico che le rende del tutto autonome rispetto all’intervento umano. Un forno a microonde o una lavastoviglie non richiedono un’interazione paritaria con la persona: una volta premuto il tasto d’avvio essi agiscono secondo procedimenti occulti di cui si paleserà soltanto il risultato. La figura tradizionale della casalinga – di cui si è però affermata ormai anche la versione maschile – si trasforma così in quella di un’operatrice incaricata del perfetto coordinamento delle varie prestazioni assicurate dall’automazione delle apparecchiature, in grado di muoversi fra sensori, spie luminose, pulsanti, interruttori, segnali, schermi accesi e spenti dei quali si limita a interpretare il linguaggio per attivare o completare operazioni il cui processo rimane ermetico.
Considerata in tale prospettiva, la cucina tende così a presentarsi come uno spazio delle interfacce, nel quale il lavoro domestico si propone come gestione di un funzionamento controllabile solo attraverso i cruscotti dei piani di cottura, delle lavastoviglie oppure delle lavatrici, e la fatica fisica necessaria per compiere una determinata operazione è divenuta una ‘fatica’ mentale, tanto da superare i criteri dell’ergonomia fisica per far posto a una ergonomia ‘cognitiva’ che fa leva sulle modalità d’impiego degli utensili domestici. Cambiano così i tempi di permanenza nella cucina, si modificano la gestualità e il controllo dello spazio, il rapporto di identificazione con l’ambiente assume un carattere quasi algidamente manageriale.
Più limitata, ma anche più complessa, è la novità del bagno, che oggi si organizza sempre più come un microambiente dotato di apparati tecnologici – getti d’acqua modulabili, vasche per massaggi, apparecchi realizzati in materiali innovativi – destinati a coniugarsi con una marcata valenza estetica, fatta di colori, luci, forme che nell’insieme lo compongono in ‘immagine’. L’obiettivo è quello di restituire al corpo il suo ruolo di protagonista: anche qui si è in presenza non di uno spazio funzionale, ma di un laboratorio, nel quale il corpo viene progettato per essere offerto come veicolo di seduzione, di bellezza socialmente codificata, di un narcisismo che mira a farsi linguaggio.
Quel che va sottolineato, tuttavia, è il fatto che l’elemento cruciale di questi sviluppi non risiede solo nell’innovazione tecnologica, ma anche nel mutamento ambientale che essa comporta. Gli studi delle aziende e dei progettisti stanno infatti già elaborando prototipi di attrezzature per la cucina e il bagno che non solo ne modificano la strumentazione, ma ridisegnano in profondità lo spazio circostante rimettendo in discussione le modalità stesse dell’esperienza abitativa.
L’architettura dello spazio domestico
Lo spazio contemporaneo dell’abitare si presenta nella sua realtà esistenziale, vissuta come una intricata famiglia di spazi la cui topologia assume contorni tortuosi e cangianti che si intrecciano sull’onda di un flusso continuo di esperienze, sentimenti, comportamenti. Quella che l’architettura del Novecento configurò come topografia razionale e analitica dell’abitazione, appare ora come un universo magmatico, che solo la sintesi soggettiva dell’abitante riesce a fissare in un disegno leggibile, quantunque provvisorio. La sua geometria non è più quella euclidea tracciata dal pensiero progettuale moderno, ma ricorda piuttosto l’universo descritto da Italo Calvino nelle Cosmicomiche (raccolte ed edite per la prima volta nel 1965): uno spazio frastagliato, labirintico, trafitto da percorsi mobili e instabili, in cui ci si muove fluttuando sull’onda di esigenze continuamente rinnovate.
L’immagine letteraria non inganni: questa visione dell’abitare non è che quella primordiale, atavica, delle origini, che riaffiora nel 21° sec. liberandosi dai detriti del meccanicismo che il 20° ha lasciato dietro di sé. Né si tratta di un brusco ritorno alle origini: in realtà, siamo nel pieno di un nuovo sviluppo storico. Posta a confronto con un universo dell’abitare già di per sé complesso, ma ora immerso in una rapida trasformazione che ne trascolora e ne corregge di continuo i contorni, la cultura architettonica contemporanea è costretta a ripiegarsi su sé stessa per prefigurare nuovi protocolli progettuali. In pratica, deve tornare al punto di partenza della sua modernità, quello della radicale reinvenzione dello spazio domestico elaborata tra il 19° e il 20° sec. per dar vita a un nuovo processo evolutivo, orientato verso orizzonti del tutto diversi.
L’interrogativo che torna a farsi frequente riguarda il ruolo del progetto architettonico nell’esperienza dell’abitare. Se questa si sviluppa, come si è visto, lungo l’asse di una esperienza soggettiva e quotidiana, che infaticabilmente la rimodella e la plasma, che ne sarà dell’interno architettonico definito una volta per tutte nella sua fissità dimensionale, nei suoi valori quantitativi, nella sua costitutiva stabilità? Può il progetto dell’abitazione inglobare in partenza l’inesauribile possibilità di mutamento dell’abitare? I tentativi fin qui compiuti per prefigurare nel cuore della previsione progettuale un principio di flessibilità sono stati già effettuati dalla tarda cultura novecentesca, che ha scandagliato le possibilità offerte dagli open spaces, dal ridisegno dell’amorfa spazialità di strutture industriali dismesse, da alcune avanzate sperimentazioni sulla trasparenza e sulla variabilità consentita dai nuovi materiali. Si è però trattato di episodi isolati o di mode rapidamente usurate: al fondo di ogni proposta restava in effetti inalterato il peso dell’imposizione di un modello abitativo sull’esperienza di vita dell’abitante. Di recente, tuttavia, la riflessione si è fatta decisamente più attenta, sviluppandosi per lo più in due direzioni. La prima, variamente seguita da Bernard Cache, Herman Hertzberger o Bernard Leupen, parte dal presupposto che la vita media di un edificio copre almeno l’arco di un secolo, per cui all’architetto spetta il compito di dar forma a uno spazio destinato a mutare in un tempo imprecisabile. Ma, poiché questo spazio implica comunque una permanenza, una continuità temporale, una durata, il progetto architettonico dovrà creare una struttura che, nella sua inalterabilità, possa lasciarsi permeare dal potenziale mutamento, sviluppare in sé stessa le possibilità della variazione, accettare il cambiamento limitandosi a incanalarlo entro limiti non superabili.
La seconda direzione, sulla quale hanno riflettuto, tra gli altri, architetti come Makoto Sei Watanabe o Tadao Ando, si concentra invece maggiormente sulla viva realtà dell’abitare. Dal momento che ogni esperienza abitativa è immersa nel flusso continuo della trasformazione, l’architetto deve rinunciare in partenza all’idea di offrire un modello in sé compiuto. Tutto ciò che egli può fare è predisporre un programma abitativo o, come qualcuno ha suggerito, un hardware a partire dal quale l’abitante possa elaborare le proprie strategie di vita domestica.
Come è facile capire, questi due orientamenti non sono fra loro in contrapposizione e, anzi, in qualche modo si integrano a vicenda. I loro obiettivi restano però distinti. Se ci si concentra sulla struttura portante degli spazi abitativi, il compito del progettista sarà quello di ideare un corpo architettonico immutabile, ma in grado di assicurare la mutabilità che vi è presupposta come prevedibile futuro o destino. In questo caso, però, non si va molto oltre il concetto di spazio polivalente o flessibile, vale a dire uno spazio sostanzialmente neutro la cui identità sarà fissata in seguito dall’abitante, a partire dalle possibilità offerte dal progettista. Se, invece, il progetto architettonico si sviluppa intorno alla figura dell’abitante, e si concretizza in un sistema di opzioni calcolate in vista di esigenze precise, l’idea dell’abitazione tende a coincidere con l’esperienza abitativa, ma deve di necessità limitarsi a una sfera individuale, soggettiva, storicamente determinata, sulla quale di volta in volta si concentrerà tutta l’attenzione progettuale. Nel primo caso l’architettura potrà riscoprire, grazie alla funzionalità del progetto, la sua vocazione sociale, continuando però la tradizione novecentesca dell’omologazione degli spazi; nel secondo, essa raggiungerà il massimo equilibrio fra l’interno e l’esterno, l’ideazione architettonica e l’autoprogettazione dell’abitante, ma solo a patto di circoscrivere la propria prestazione all’evento individuale. In entrambi gli orientamenti l’intervento delle tecnologie più avanzate – tecniche costruttive, progettazione digitalizzata, nuovi materiali – rappresenta una condizione essenziale per garantire i migliori risultati.
Per il momento questi sviluppi sono solo tendenziali. In essi è tuttavia avvertibile uno scarto, non netto ma significativo rispetto alla corrente principale della cultura architettonica contemporanea. L’interesse tuttora prevalente dell’architettura per l’esterno, per l’involucro esteriore dell’abitazione, per il diretto confronto della sua forma complessiva con lo spazio urbano o l’ambiente naturale, sembra cedere lentamente il posto a una rinnovata attenzione per l’interno, l’abitabilità, l’esperienza abitativa realmente vissuta. Riaffiorano, con linguaggi diversi e prospettive d’innovazione, gli originari moniti della prima modernità, da Adolf Loos a Frank Lloyd Wright o a Bruno Zevi, per una progettazione capace di partire dall’interno per svilupparsi verso l’esterno. La riflessione sull’organizzazione spaziale dell’interno domestico fa ora sempre più perno sui concetti di trasparenza, continuità, sistema flessibile, nel tentativo di rendere malleabile l’antica distribuzione funzionale degli spazi, con le sue chiusure e la sua logica consequenziale. La sperimentazione non si arresta nemmeno di fronte alle invarianti antropologiche dell’abitare: non le supera ma, per così dire, le aggira, immergendo le zone di chiusura – i luoghi del riposo o dell’igiene – in una fluidità strutturale che in qualche modo le fa partecipi di un’esperienza abitativa scorrevole e continua.
L’abitare viene ora considerato anche nella sua proiezione sociale, non più organizzabile in soluzioni di massa, ma derivata da modelli di aggregazione comunitaria, indotta o spontanea, concretizzata in diverse opere che hanno costellato il periodo tra il 20° e il 21° secolo. I risultati ottenuti, però, sono per il momento incerti. Gli sviluppi della bioarchitettura – o meglio, in senso più specifico, della bioedilizia – rappresentati emblematicamente dai lavori di Lucien Kroll, si concentrano sulla naturalità dell’abitazione più che sui fondamenti antropologici dell’abitare, mentre il tentativo di mettere a punto una forma di cohousing, ovvero di spazi abitativi comunitari caratterizzati da una progettazione collettiva, da servizi condivisi, da un sistema integrato fra sociale e privato, fatica ad affermarsi. Il sistema funzionale deve infatti in ogni caso confrontarsi con un modello culturale che spesso risulta più rigido rispetto alle possibilità offerte dalla tecnica e dall’ideologia comunitaria. Ciò nonostante, le sperimentazioni fin qui compiute appaiono suscettibili di ampi sviluppi per almeno due ragioni: l’impetuosa evoluzione degli apparati tecnologici a disposizione dei progettisti; l’articolazione della cultura progettuale in aree di specializzazione quasi interamente dedicate all’interno abitativo.
Il design dello spazio domestico
Ciò che un tempo è stata l’architettura, ossia un campo di saperi e competenze omogeneo e compatto, appare oggi ricco di ramificazioni. L’antica utopia dell’‘opera d’arte totale’ affidata a un unico progettista, che assillò la cultura architettonica all’inizio del 20° sec., ha ceduto alla crescente complessità del processo progettuale – più specifiche competenze tecniche, aumento delle responsabilità civili e sociali, dilatazione della sostanza culturale dell’opera – e si è frantumata, con l’arrivo del 21° sec., in una miriade di specializzazioni che tuttavia possono essere ricondotte, rispetto all’idea dell’abitare, a tre forme generali: l’architettura propriamente detta, che ne definisce l’ambito complessivo; l’architettura d’interni, che organizza l’abitabilità dell’abitazione; e il design che, nella genericità della sua denominazione ma nella sua ormai assoluta autonomia culturale, fa dello spazio interno il luogo dell’abitare propriamente detto, attraverso il progetto degli arredi, delle suppellettili, degli utensili, degli ornamenti. Resta comunque primario il fatto che in questa triplice scansione un ruolo sempre più cruciale, a mano a mano che l’abitazione si organizza nella sua funzionalità, spetta all’abitante. Nel momento in cui le opzioni offerte dall’architettura e dall’architettura d’interni si precisano in uno spazio abitativo coerente, la scelta soggettiva del fruitore, nel proliferare delle offerte del mercato, diviene decisiva.
Bisogna, a questo punto, tornare al concetto di abitare da cui si è partiti, interrogandolo però non in quanto prassi, ma in quanto forma. Ciò che dà forma all’abitare, che lo rende concreto plasmandone l’interiore spazialità, che ne fa la proiezione di un sentimento, di un sentire, di un sentirsi, non è tanto la sua configurazione architettonica, quanto la popolazione di oggetti che lentamente lo saturano. L’esistenza s’invera nelle cose che ci circondano e di cui ci circondiamo: ammobiliare un’abitazione, arredarla, colorarla, decorarla, comporla in un’immagine che ci rispecchi, è operazione fondativa, tanto sul piano soggettivo quanto su quello sociale e culturale. Spetta quindi al design dell’arredamento il compito di sancire il progetto esistenziale dell’abitare per trasformarlo in esperienza intimamente vissuta.
La coscienza del design è oggi, hegelianamente, una coscienza infelice: costretta a prendere atto di una trasformazione continua degli oggetti, dei prodotti, delle immagini, essa cerca in qualche modo di governarne il frenetico divenire, tentando di assecondarlo, di incanalarlo in circoscritte proposte stilistiche o di proiettarlo nel futuro come sfida.
La tendenza principale resta quella dell’evoluzione organica delle forme, che si sviluppano dai modelli precedenti adattandosi alle nuove esigenze e modificando gradualmente le vecchie strutture per lasciarle liberamente fluire nei nuovi scenari. Questo ‘darwinismo’ progettuale lavora per linee esterne: ridisegna la sagoma dei mobili, riportandola a un geometrismo che tiene però conto dell’ammorbidimento e delle mollezze teorizzate dal design postmoderno; conferisce agli oggetti un andamento flessuoso, ondulato, filiforme, capace di rispecchiarsi nei metalli, nelle plastiche, nei vetri prodotti dalle più avanzate tecnologie, ma anche in materiali tradizionali come il legno o la ceramica; arricchisce i rapporti cromatici, dispiegando l’intera gamma dei colori nella serialità dei prodotti o affollando di motivi vegetali le decorazioni e i rivestimenti. Negli sviluppi formali che esso propone, l’abitare fa della trasformazione un processo lento ma continuo, giocato tutto sui particolari e orientato sul lungo periodo. L’innovazione si stempera in un rassicurante richiamo alla tradizione: l’immagine della ‘casa’ si protende sul 21° sec., ma resta solidamente ancorata alle certezze del passato.
All’estremo opposto il mutamento, interpretato come evoluzione tecnologica, rinnovamento operativo, cambiamento culturale, si fa principio progettuale. Nelle tendenze più radicali – per es., nel campo del cosiddetto interactive design – che puntano sull’immaterialità delle prestazioni, sull’interazione continua tra l’umano e il tecnologico, sulla preminenza del funzionamento sulla funzione, l’oggetto viene configurato non più nella sua dimensione analogica, che presupponeva un diretto contatto fisico con l’operatore, ma in quella telematica, elettronica, computerizzata, la quale richiede, da parte dell’operatore, competenze e comportamenti che il design è chiamato a facilitare attraverso lo studio della conformazione degli strumenti e dei loro apparati comunicativi. L’abitare, in questa prospettiva, assume la fisionomia della casa telematica che, sperimentata variamente nel Novecento come vaga possibilità, si propone oggi come pratica abitativa possibile e anzi, in molti casi, già surrettiziamente presente nella nostra quotidianità.
La logica della trasformazione viene invece assunta nella sua qualità dinamica, nella sua costitutiva instabilità, nel suo ininterrotto fluire, da un’altra tendenza progettuale, che può essere riassunta nella formula del transdesign coniata da alcuni studiosi. Essa fa perno sui concetti di contaminazione, ibridazione, trasversalità, puntando a inesauribili combinazioni morfologiche rese possibili dalla tecnologia moderna e dai nuovi materiali, ma tenendo soprattutto conto dei nuovi gusti, dell’evoluzione dei modelli di vita, dell’accelerazione del mutamento culturale. Ciò cui si tende è lo slittamento continuo dei significati, il ruolo cangiante assunto dalle cose nella variabilità delle esperienze che la ricerca progettuale contemporanea persegue, facendo leva sulla natura polisemantica degli strumenti del vivere quotidiano, produttrice di un ininterrotto ‘trans-fert identitario’. L’esperienza abitativa appare così inserita in quello stato di impermanenza che sembra caratterizzare la cultura contemporanea, e che resta fissato nell’immagine di una casa pronta a seguire, assecondare o addirittura stimolare il mutamento.
Sullo sfondo di questi sviluppi, l’abitare continua però a imporre, nella nostra quotidianità, la stabilità dei suoi caratteri antropologici, che costituiscono insieme il limite e l’orizzonte di ogni progettazione. Non è un caso che, a onta di tutte le trasformazioni storiche registrabili nell’arredamento domestico, i mobili continuino a dividersi in due principali categorie – mobili per contenere e mobili per sostenere – che nessuna variazione tecnica o formale potrà mai alterare.
Uno sguardo sul futuro
Quella dell’abitare è un’esperienza troppo profondamente innervata nella natura umana perché si possa modificarla radicalmente nel tempo della storia. Ancorata alle sue invarianti antropologiche e articolata nelle sue variabili sociali e culturali, essa non si sviluppa per strappi improvvisi, ma segue il mutamento secondo un processo innovativo, che può risultare rallentato o accelerato, ma comunque tutto interiore. In certo modo, questo processo ricorda quello più generale dell’evoluzione della specie, che A. Gehlen ha riassunto nel concetto di esonero, ovvero della progressiva sostituzione di uno strumento tecnico con un altro più efficace (Anthropologische Forschung, 1961; trad. it. 1987); ma sembra soprattutto inserirsi in quel percorso di exaptation studiato dagli antropologi contemporanei nell’evoluzione di caratteri che svolgono un preciso ruolo negli organismi in cui sono presenti, ma che nel corso della loro esistenza vengono ‘cooptati’ per funzioni impreviste e imprevedibili (v. anche S.J. Gould, E.S. Vrba, Exaptation. A missing term in the science of form, «Paleobiology», 1982, 8, 1, pp. 4-15; trad. it. S.J. Gould, E.S. Vrba, Expatation. Il bricolage dell’evoluzione, 2008, pp. 7-53). Nel caso dell’abitare, questo processo non è però solo interiore all’‘organismo’ domestico. In realtà esso viene egualmente indotto dal reticolo di sollecitazioni provenienti dalla cultura e dalla società: proposte stilistiche, tendenze estetiche, sviluppi formali del design, marketing, pubblicità, modelli televisivi o cinematografici e così via. In ciò esso richiama la teoria ‘memetica’ proposta da Richard Dawkins, per cui il ‘meme’ è un replicatore di informazioni culturali le quali, come i geni, si propagano da corpo a corpo, si trasmettono da cervello a cervello attraverso l’interazione sociale, le informazioni, le mode o le tecnologie, trasformando incessantemente mentalità e comportamenti (The selfish gene, 1976; trad. it. 1979). In fondo, l’esperienza abitativa si ricollega pur sempre a quel concetto di bricolage, ovvero di minuta e instancabile attività produttiva non definibile in base a un progetto, sul quale Claude Lévi-Strauss fondò le origini stesse del pensiero e della civiltà (Le pensée sauvage, 1962; trad. it. 1964).
Il futuro dell’abitare appare quindi ancorato a un tempo della memoria che non resta immobile, che vive il rapido scorrimento della storia, ma si lascia trascinare solo nei suoi caratteri di superficie. Lo stacco rispetto alla cultura del Novecento – quella sociale non meno che progettuale, legate entrambe al concetto di domesticità familiare, alla funzionalità degli spazi, alla logica produttiva dell’abitazione – è registrabile, all’alba del 21° sec., a partire dalla rinnovata consapevolezza della naturalità dell’esperienza abitativa e dall’esigenza di individuarne le modalità storicamente determinate attraverso il costante esame di una quotidianità sempre più intricata e sofferta. Le variazioni e gli scarti rispetto a una norma socialmente istituita non presuppongono di necessità una involuzione: il rapido mutamento dei rapporti interpersonali, affettivi, parentali che strutturano l’esperienza dell’abitare all’interno di una spazialità intensamente progettata e vissuta non è segno di una drammatica crisi, ma solo l’indice di un diverso equilibrio, che va faticosamente ricomponendosi. Ciò che s’intravede, oltre le nebbie dell’immediata contemporaneità, potrebbe essere la figura di un nuovo umanesimo, nei cui contorni le modalità dell’abitare si stagliano vividamente come antico e sempre rinnovato paradigma etico e progettuale.
Bibliografia
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M. Vitta, Dell’abitare. Corpi, spazi, oggetti, immagini, Torino 2008.