Nuovi paesaggi
In questo inizio di 21° sec. si parla con sempre maggiore insistenza di paesaggio, attribuendo spesso a questo termine significati diversi, ma seguendo una comune aspirazione: quella di ritrovare nelle qualità che vengono di volta in volta attribuite al paesaggio un principio di equilibrio del nostro habitat, in un’epoca di trasformazioni dalle dimensioni finora sconosciute. Il paesaggio si pone sempre più come un tema che interpreta la necessità delle popolazioni di fissare nel territorio in cui vivono riferimenti di orientamento e centralità, caratteri che rappresentino i propri valori. Ma il territorio è ormai un continuum ininterrotto urbano-rurale, dove ogni elemento appare instabile nello spazio e nel tempo, e dove ogni situazione è atipica e si manifesta in mille fattispecie diverse. C’è una mobilitazione dell’opinione pubblica in difesa del paesaggio storico, mentre è meno chiara la capacità di gestire e innovare questa qualità, o addirittura di riprodurla, rispettando le esigenze del nostro tempo. Salvaguardia, gestione, innovazione, invenzione dei paesaggi richiedono azioni costanti sempre sottese da un progetto. La comunità vicina o lontana che pensa e vuole un paesaggio è sempre più consapevole e responsabile di questa missione.
L’uomo contemporaneo vive e cerca i propri paesaggi in luoghi consolatori già noti per la loro bellezza, oppure in luoghi che manifestano vocazioni a diventare altrettanto interessanti. Gli uni e gli altri, tradizionali e innovativi, sono in realtà nuovi paesaggi, in quanto entrambi organismi che possono evolversi oppure morire. Muta inesorabilmente la cultura materiale che li sostiene, muta il sentimento stesso della loro bellezza; il loro carisma culturale aumenta o diminuisce, cambia il peso economico e sociale, cambiano i dettagli, la luce, il suono, il profumo. Ma questo è tanto più vero quanto più la loro struttura appare immodificabile come dice Francesco Cellini: «Il (un) paesaggio resiste, tende a riprodurre se stesso, frena la trasformazione, oppone il sentimento e la memoria alla necessità […] è una categoria percettiva, estetica, etica e pratica, tanto solida da conformare a sua volta il mondo, stabilizzandolo, opponendosi alla sua evoluzione» (in Zagari 2006, p. 173).
Dunque sarà necessario interpretare anche le nuove dimensioni attraverso cui si manifesta il paesaggio contemporaneo, nelle forme a volte più imprevedibili: postindustriale, postrurale, urbano, effimero, tematico, notturno, tattile. Ogni giorno nuovi miti, nuovi valori, nuove aspirazioni, nuovi conflitti si riflettono sia nella volontà di recuperare nel nostro habitat unità, equilibrio e senso, sia nella domanda diffusa su dove e come questo sia possibile.
La questione da porre è chiarire cosa sia il progetto di paesaggio. Da una visione solo percettiva di bene culturale da salvaguardare, si afferma una visione del paesaggio anche come bene economico e sociale, radicato nella consapevolezza di una comunità che ne è partecipe, che responsabilmente lo difende, gestisce e innova e, di conseguenza, in ogni momento, lo progetta e riprogetta. Questa è forse la maggiore novità: la comunità è sempre più al centro della scena, e questo è confermato anche dalla Convenzione europea del paesaggio (2000), un documento sorprendentemente avanzato ma ancora poco utilizzato.
Dai cataloghi del turismo, ai vari parchi e riserve, fino ai luoghi dichiarati ‘patrimonio dell’umanità’ dall’UNESCO, si moltiplicano le classificazioni di paesaggi cosiddetti di eccellenza, cui il pubblico è didatticamente e commercialmente preparato. La concezione del patrimonio si amplia, sempre più sofisticata, a una galassia di beni fino a ora ritenuti minori, ma il nostro habitat nella comunicazione di questi nuovi obiettivi sembra ridotto a un arcipelago di piccole isole felici in un magma che invece non interessa.
Habitat, territorio, ambiente, patrimonio, paesaggio, luogo sono termini utilizzati erroneamente nell’uso comune. Nel rapporto che abbiamo con il luogo è in atto una vera e propria mutazione antropologica, mentre si affermano nuove modalità di abitare: non luoghi, superluoghi, atopie, eterotopie e anche esperienze di un ritorno al nomadismo. ‘Luogo’ è solo il qui e l’altrove: non poco, ma è meno o è solo in parte il come e il perché sono qui che ne fa un paesaggio. ‘Non luogo’ è un luogo organizzato secondo un protocollo codificato da abitudini, regole, norme, ripetuto in contesti diversi per le stesse funzioni. ‘Superluogo’ denota invece un luogo prevalentemente costruito, di dimensione finora sconosciuta. Dal mercato al museo, sia nel pubblico sia nel privato, in tutto il mondo la società dell’immagine e della comunicazione tende a concentrare risorse ed energia in grandi progetti dettati dalle leggi della pubblicità e del commercio.
«È su tre proposizioni – dice Franco Karrer – che credo si debba circoscrivere il tema dei luoghi, del loro riconoscimento come della loro pianificazione e progettazione: superare la concezione statica a vantaggio di quella dinamica; superare la dicotomia luogo-flusso a vantaggio del flusso; superare il determinismo territoriale a vantaggio della coerenza territoriale» (in Luoghi, non luoghi, superluoghi, 2007, p. 137).
Un luogo per essere paesaggio deve liberare non poche doti. È quando viene utilizzato in riferimento all’habitat che il termine paesaggio ha un significato più preciso: indica infatti una qualità particolare, definibile come un’unità semantica di elementi diversi ed eterogenei, nella quale riconosciamo caratteri che ci rappresentano. Una comunità vi proietta la propria visione del mondo e la stessa utopica aspirazione della polis di Aristotele, a vivere bene, dunque a perseguire il bello, il buono, il giusto.
In tutto il mondo i governi dei vari Paesi si macerano sulle politiche di prelievo fiscale, fra produttività e welfare. Ma la qualità dell’habitat non è quasi mai una priorità, è una voce afona. Sicurezza e traffico sono argomenti dominanti, mentre il paesaggio come qualità dell’habitat si può leggere in filigrana solo all’interno della questione ambientale. Come ‘riconquistare’ le nostre città appassite («la Repubblica», 13 nov. 2005) è il titolo di un articolo sulla rivolta delle banlieues francesi del sociologo e politologo Ilvo Diamanti, che legge quei fatti come un nostro possibile futuro e si interroga sulla nostra odierna condizione urbana, senza mai parlare di paesaggio.
Non è chiara l’idea attuale di città contemporanea, che disorienta per la sua confusione e affascina per la sua energia. Negli ultimi anni le città si sono trasformate con modalità a volte imprevedibili, molto diverse fra Oriente e Occidente, ma ovunque con crescente accelerazione, e con il risultato di essere sempre meno governabili da politiche ordinate. La città contemporanea, secondo il lessico catastrofista corrente, è frattale, discontinua, diffusa, una ‘schiuma urbana’ invisibile e invivibile, ma è anche un grande laboratorio creativo in ebollizione, in cui operano due dimensioni parallele: i flussi dell’informazione e lo spazio fisico. Manuel Castells, uno dei teorici che meglio analizza le dialettiche fra questi due catodi della nostra vita quotidiana, parla di ‘città delle reti’ (2003). Qui si gioca la partita delle nuove dinamiche di riorganizzazione dell’abitare, di esodo e di nuovo inurbamento di popolazioni in movimento inarrestabile, come le comunità multietniche, presenti in modo sempre più significativo in Europa, certamente destinate ad avere un grande ruolo nel futuro. Questa rivoluzione dello spazio urbano è caratterizzata da una ridefinizione di funzioni, significati e forme che non sono paragonabili con quanto avveniva solo dieci anni fa.
Viviamo in una ‘città infinita’ (La città infinita, a cura di A. Bonomi, A. Abruzzese, 2004), nella quale dobbiamo accettare l’evidenza che clima, ambiente, energia, patrimonio storico sono emergenze molto complesse e spesso conflittuali fra loro e difficili da affrontare, mentre è in atto una forte e capillare riorganizzazione delle attività produttive, soprattutto quelle commerciali, a una scala ormai definita globale. La questione del patrimonio e dell’ambiente è posta in primo piano, ma curiosamente queste emergenze sono discusse sempre in termini numerici e materiali fra loro disgiunti, e per valori parziali, senza esaminare mai fattori più complessi, necessari perché si producano condizioni di vero benessere.
Il gioco fra cause ed effetti politici, economici e sociali presenta dinamiche del tutto nuove, determinate da fattori a volte lontanissimi gli uni dagli altri: il famoso battito d’ali di una farfalla in Amazzonia può produrre chi sa quali imprevedibili effetti, in tempi e luoghi sconosciuti. Gli attori sociali cambiano e con essi le loro ideologie, le visioni di benessere, di welfare, di progresso. Cambiano i loro paesaggi.
La citata Convenzione europea del paesaggio, adottata a Firenze dal Consiglio d’Europa nell’ottobre del 2000 e ratificata in Italia nel 2006 (l. 1° sett. n. 14), è uno strumento innovativo per l’originalità del disegno politico e per i suoi effetti nel dibattito culturale. La creazione della Convenzione parte da un’iniziativa di base degli enti locali e di molti opinionisti in tutta Europa: «Paesaggio – dice il testo – designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni» (art. 1, lett. a). Riccardo Priore, fra gli ideatori della Convenzione, è certamente il protagonista della sua diffusione e attuazione: «Il paesaggio – dice – va inteso come la risultante della relazione tra due componenti: una parte di territorio e un soggetto capace di percepirla. Nel momento in cui si stabilisce la relazione tra queste due componenti, il territorio si fa paesaggio, integrando il rapporto con la realtà del soggetto che lo concepisce» (Convenzione europea del paesaggio: il testo tradotto e commentato, 2006, p. 47).
Fra le principali novità della legge, l’estensione della sua competenza all’intero territorio nazionale – i paesaggi terrestri, le acque interne e marine, i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, quelli della vita quotidiana, i paesaggi degradati – e la visione del paesaggio come soggetto dinamico, comunque in perenne trasformazione, rilevante per il suo valore economico e sociale, e in quanto tale soggetto di tutela giuridica, anche se degradato. Il suo riconoscimento è legato all’acquisizione della consapevolezza da parte del vero soggetto protagonista del paesaggio, ovverosia la comunità che ne è partecipe, riguardo i processi di formazione e di conduzione, e la ricerca di nuove strategie e politiche. I nuovi strumenti di progetto, che dovranno essere propositivi e non solo di carattere difensivo, vengono definiti con precisione:
«‘Salvaguardia dei paesaggi’ indica le azioni di conservazione e di mantenimento degli aspetti significativi o caratteristici di un paesaggio, giustificate dal suo valore di patrimonio derivante dalla sua configurazione naturale e/o dal tipo d’intervento umano.
‘Gestione dei paesaggi’ indica le azioni volte, in una prospettiva di sviluppo sostenibile, a garantire il governo del paesaggio al fine di orientare e di armonizzare le sue trasformazioni provocate dai processi di sviluppo sociali, economici ed ambientali.
‘Pianificazione dei paesaggi’ indica le azioni fortemente lungimiranti, volte alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi» (art. 1, lett. d, e, f; cfr. R. Priore, Verso l’applicazione della Convenzione europea del paesaggio in Italia, «Aedon», 2005, 3).
La traduzione in italiano del terzo termine, ossia pianificazione (aménagement in francese, planning in inglese), risulta impropria. Meglio sarebbe ‘innovazione’, che è un contenuto della pianificazione, la quale al tempo stesso ne è ispirata e sostenuta.
Tre reti europee operano per l’attuazione della Convenzione: la Recep-Enelc degli enti locali, Uniscape delle università, Civilscape delle onlus. Pensare a nuovi paesaggi significa andare al centro della questione della qualità dell’habitat, ricercare un equilibrio fra democrazia, mercato e sviluppo. Il paesaggio non è stato mai altro che questo.
Lavorare sul paesaggio è anche un mestiere, una disciplina e una competenza, con un’antica tradizione. Anche il paesaggio ha le sue istituzioni, con corsi di studi specifici che risalgono a oltre un secolo, e ha i suoi maestri, che hanno dato un grande contributo al pensiero del Novecento, Frederick Law Olmsted, Roberto Burle Marx, Mirei Shigemori, Isamu Noguchi, Luis Barragán, Lawrence Halprin, Pietro Porcinai, Dimitris Pikionis e tanti altri, pochi di loro formati come architetti. Credo che anche in Italia sia maturo il tempo in cui questa figura di intellettuale, studioso e professionista abbia una sua autonomia. Accanto a bravi architetti che hanno una particolare vocazione per il paesaggio, vi sono autori magistrali che architetti non sono, la cui opera è straordinaria, come Bernard Lassus, Paolo Bürgi, Jacques Wirtz, i membri dell’Atelier Zo, Juan Grimm, Peter Walker. L’azione che determina, mantiene e innova un paesaggio, sia esso già esistente o di nuova creazione, fa appello a un grande numero di competenze disponibili: architetti, artisti, biologi, botanici, ecologi, filosofi, geografi, giuristi, scrittori, semiotici, sociologi, economisti, storici, storici dell’arte, urbanisti, ingegneri, e fra questi, naturalmente, i paesaggisti, che hanno una specificità particolare in questo campo.
Il progetto di paesaggio parte proprio da una vocazione a un lavoro interdisciplinare, all’interno del quale approcci differenziati, ciascuno con un punto di vista e una competenza originali, possono concorrere a studiare come questa entità si formi, evolva o finisca per morire, offrendo in molti casi un contributo indispensabile. Il paesaggista ha uno spettro di lavoro molto ampio, ma si può dire che la novità del suo approccio sia piuttosto nella sua atipicità, nella capacità di interpretare con duttilità le vocazioni sempre diverse che ogni occasione presenta. Il paesaggista si forma infatti con una concorrenza molto ampia di saperi quali l’architettura, l’urbanistica, la storia, la geografia, la botanica, la geologia, l’economia, la scienza dell’amministrazione, l’estetica, la semiotica, le arti plastiche, ossia una summa direttamente orientata ad affrontare l’insieme di queste problematiche.
In una società urbana dove tutto è diventato comunicazione e dove vi è una saturazione iconica, riaffermare o riscrivere dei caratteri che ci rappresentino è opera non sempre spontanea, come avveniva un tempo attraverso lente metamorfosi.
Una sensibilità per una rinascita del paesaggio s’identifica spesso, per lo meno nell’opinione pubblica, con un pensiero antimoderno. Sprawl è un termine di origine americana, che descrive l’accumulazione di atti incoerenti che caratterizzano l’habitat contemporaneo, contro cui si battono teorici come Matthew Hardy per una rinascita e un rifiorire della città tradizionale: «Il futuro dell’Europa dello sprawl, con le sue reti stradali scollegate, gli spazi auto-dipendenti e poco attraenti, appare poco credibile sui tempi lunghi. I centri storici delle città europee sono robusti e sostenibili [...]. Per contro, i paesaggi delle periferie e zone ad economia debole [...] mantengono insediamenti compatti, reti stradali coerenti [...] e hanno un grande potenziale per uno sviluppo urbano sostenibile nel futuro» (Renaissance of the traditional city, «Axess», 2005, 1; trad. it. in «Eddyburg», 10 maggio 2005, http://eddyburg.it/article/articleview/2709/1/ 100; 7 ott. 2009). Carlo, principe di Galles, è forse il protagonista più noto di questo movimento. Nel suo pensiero vi è un’esplicita utopia che prefigura un modello d’insediamento possibile per una società abbiente, per cui il paesaggio è: «L’antica saggezza, la capacità di capire ciò che può fare della vita stessa una forma d’arte». (C. Petrini, Carlo d’Inghilterra: un manifesto per la Terra. ‘Come riportare l’uomo al centro’, «la Repubblica», 16 dic. 2007). Léon Krier, sostenitore di un’utopia urbana antimoderna, ha disegnato per lui la città ideale di Poundbury nel Dorset (costruzione iniziata nel 1993 e tuttora in corso), che dopo un rodaggio faticoso è ora in piena attuazione, con un discreto successo. L’habitat urbano di cui si vuole ripercorrere la storia è esattamente quello della borghesia della rivoluzione industriale, ma per quali popolazioni, per quali ceti sociali questo sogno ha senso? La nuova città Celebration, di Cooper, Robertson & partners (con Robert A.M. Stein), costruita in Florida tra il 1996 e il 2005, è il nome di uno dei più noti sobborghi della borghesia medio-alta americana che adottano come un genere commerciale gli aspetti più esteriori di questa filosofia, in tale espansione da essere diventata un fenomeno di costume. Come nel film The Truman show (1998) di Peter Weir, girato a Seaside, sempre in Florida, il nostro ruolo nel gioco è ormai sempre più incerto.
Come sempre è l’arte che sente in anticipo lo spirito del tempo. «Ma in fondo non è niente male questa Spinaceto», dice a un certo punto Nanni Moretti in Caro diario (1993), film autobiografico in cui sono molto presenti i paesaggi urbani romani che accompagnano la sua educazione sentimentale. Bisogna avere la capacità di capire il paesaggio contemporaneo con un’attitudine di ascolto e molte idee, come fa il cinema. Si pensi a Der Himmel über Berlin (1987; Il cielo sopra Berlino) o The million dollar hotel (2000), entrambi di Wim Wenders, o alle ambientazioni dei suburbi spagnoli di Pedro Almodóvar, che estraggono da un quotidiano a volte banale nuovi paesaggi, non la città di parata, ma il teatro di tutti i giorni, facendo nascere una nuova sensibilità estetica.
Da Nicolas Poussin, fino agli impressionisti, a René Magritte, a Paul Klee, a Salvador Dalì, a Giorgio Mo-randi, si sono collezionate immagini di paesaggi divenute ormai parte integrante della cultura visiva contemporanea; paesaggi a volte portati al paradosso, come scene di riscoperta del mito classico, o di rivelazione di altre dimensioni di percezione dietro al reale. Così nel nostro tempo.
Anselm Kiefer, uno dei grandi artisti contemporanei particolarmente attratti da questo tema, nelle sue opere monumentali traccia, con collage e incisioni, mappe e storie, reti di relazioni fra personaggi, oggetti, elementi naturali in uno spazio tanto vasto quanto drammatico. La sua opera The secret life of plants (2001-2002), di 28 m2, è dedicata al tema delle relazioni fra le piante e l’astronomia, definendo e criptando le stelle con la precisione scientifica dei codici della NASA, e questo partendo da un pensiero del filosofo esoterico Robert Fludd (1574-1637): «Ogni pianta è legata a una sua propria stella nel cielo».
Cai Guo-Qiang (n. 1957), fra i più apprezzati artisti cinesi viventi, ha portato a forma d’arte l’antica tradizione dei fuochi d’artificio realizzando installazioni spettacolari in tutto il mondo, consistenti in esplosioni che apparentemente devastano siti fra i più significativi. Le esplosioni sembrano liberare da questi luoghi apparentemente saturi di creatività una nuova energia sconosciuta e, come nelle modificazioni effimere e reversibili di Christo e Jeanne-Claude, trasformano la percezione di un contesto noto, da semplice visione a esperienza sensoriale complessa con azione di feedback. Eventi come l’esplosione di 10 km della Grande muraglia (Project to extend the Great Wall of China by 10.000 meters: project for extraterrestrials no. 10, 1993), o l’arcobaleno effimero sul Riverside a New York (Transient rainbow, 2002), o l’evento di Central Park, sempre a New York (Light cycle: explosion project for Central Park, 2003), la-sciano del tutto stupefatti.
Molti sono gli artisti che lavorano sul paesaggio attratti da condizioni estreme, come Sebastian Copeland (n. 1965) in Antartide. Di fronte ai drammatici cambiamenti del clima, Copeland è intervenuto con un grande SOS scritto su di un ghiacciaio (apparentemente) intatto, uno dei tanti che ogni giorno si distaccano in blocchi sempre più grandi (Antarctica. The global warning, 2007). Altri autori portano all’estrema conseguenza il rapporto quotidiano fra il mondo del web e il contesto reale in cui si vive, ibridando paesaggi familiari attraverso immagini e testi, immagini peraltro così efficaci da costituire quasi una iperrealtà che coinvolge con fare complice.
Landscape 5/15/05 (2005) di Petra Cortright (n. 1986) è stata fra le opere di punta nella mostra di apertura del New Museum di New York a Soho (Montage: unmonumental online, 2008). Una fotografia ritrae un paesaggio di alta montagna, che in realtà si rivela un collage digitale di dimensione variabile, un paesaggio reale dei luoghi d’origine dell’artista ricreato con immagini estratte da Internet, smontate e rimontate come in un laboratorio di chirurgia plastica in una sintesi ormai del tutto virtuale.
La Steccaia, paesaggio senese nel deserto meridionale tra il Nevada e l’Arizona (2006) è invece un’opera di Ciriaco Campus (n. 1951) che, giocando con ironia sulla distorsione fra realtà e inganno, sperimenta nuove forme tipiche del mondo del web, evocando immagini suggestive proprio in questa nascosta e al contempo manifesta ambiguità nel raccontarsi. Campus immagina una grande tenuta in stile toscano vicino a Las Vegas. Un testo e una fotografia documentano con filologica precisione l’opera faraonica voluta da un magnate onnipotente, il trapianto nel deserto di un paesaggio toscano ideale, che è del tutto verosimi-le ma assolutamente falso, costruito servendosi delle immagini di più paesaggi toscani, completamente di-versi tra loro. La continuità fra realtà e apparenza è assoluta, in una nuova, incontestabile autenticità.
Se il paesaggio è il giardino del nostro tempo, il giardino, da sempre, è la pietra angolare del paesaggio, luogo per antonomasia di sperimentazione e anticipazione. Anche il giardino più semplice, più piccolo, più spontaneo ha in nuce un profondo significato simbolico e, prima di ogni altra cosa, è la metafora di un atto fondativo, un’affermazione del nostro essere nel momento in cui cessiamo di vivere da nomadi e decidiamo di abitare. In questo senso si potrebbe dire che il giardino nasca come metafora della città e che, in quanto mondo chiuso in sé definito, sia in particolare la metafora di una città ideale. Si potrebbe dire forse anche il contrario, che la città ideale sia la proiezione della visione di un giardino: l’uno e l’altra esprimono l’idea di un complesso teatro dove si mette in scena la commedia o la tragedia della vita, categorie universali ma isolate in vitro, in un contesto narrativo ben definito. L’uno e l’altra enunciano la regola di un mondo separato. Analogamente un rapporto metaforico reciproco lega nel mondo contemporaneo la città continua e il paesaggio.
Un giardino pensile sui tetti di Parigi può essere un’allegoria appropriata per questo inizio di secolo. Storia, ricordi, miti, tutto riaffiora nei giardini progettati in due tempi da B. Lassus per le terrazze della Fondazione Colas a Boulogne Billancourt, Parigi (2004, 2008). L’edificio high-tech è moderno e razionale, metallico. I giardini, realizzati su diversi livelli, sono intimi e domestici, senza tempo, arcani e sereni e, per paradosso, anch’essi prevalentemente metallici. Vi sono anche delle conifere, ma per lo più la vegetazione è un ricco ricamo di sagome di lamiera traforata. Alcune di queste sagome vengono sostituite con l’alternarsi delle stagioni, e il paradosso è ancora più forte. Ugualmente incontriamo dei fiori metallici, calici e foglie, e anch’essi si vestono e svestono durante il corso del tempo. Il gioco è piacevolissimo, ricco di contenuto simbolico, tradotto in un linguaggio ispirato, lirico e leggero. Il colore delle superfici è forse l’invenzione più alta. Gialli, blu e verdi hanno declinazioni acide, una palette molto originale, per nulla naturalistica, che trasferisce tutto il corpo della scena in un ulteriore spazio del nostro immaginario. Nella migliore tradizione dell’arte dei giardini, catturati tutti i sensi, quest’opera si offre come un luogo di iniziazione. Il pattern astratto dei piani traforati paralleli, con il movimento del visitatore, improvvisamente rivela scene familiari, e di nuovo sono immagini dell’infanzia che affiorano, come la forma di un ninfeo che in pochissimo spazio ha il potere di evocare un intero mondo fantastico.
L’osservatorio geologico Reconsidering a mountain (2000) a Cardada, l’Auditorium Parco della musica (2002) a Roma, la Walt Disney Concert Hall (2003) a Los Angeles, notissimi progetti di altrettanto noti autori, sono significativi indizi di un punto di vista che cambia. Queste opere, rispettivamente di Paolo Bürgi, Renzo Piano e Frank O. Gehry, che si situano con modalità molto diverse fra paesaggio, urbanistica e architettura, più che essere oggetti in sé, per quanto belli, risultano interessanti perché giocano deliberatamente sulla forza di relazioni complesse, messe in scena come originali interpretazioni delle vocazioni di luoghi. Sono opere d’autore, ma dietro a ognuna di esse vi sono la partecipazione e la creatività di moltissimi attori, comunità che hanno espresso una volontà del tutto analoga a quella che è all’origine di un qualsiasi paesaggio classico. Sono invenzioni di paesaggio, per la loro capacità di catalizzare un contesto molto più ampio del loro contesto fisico, fino a diventare motori di una nuova centralità, dei veri e propri cult sites che coinvolgono una comunità ben più vasta di quella locale. Viste a posteriori sono giochi di prestigio le cui ragioni risiedono anche nell’alto livello di affinità creativa fra gli autori e le comunità.
Il primo compito nell’affrontare un’opera di paesaggio è un momento autoriflessivo. L’osservatorio geologico di Cardada presso Locarno, di Bürgi, rappresenta al meglio questa capacità; dice il suo autore «Nell’immagine di una montagna, che è invariante nella dimensione del tempo comunemente percepita, vi è l’accumulazione di eventi improvvisi o di lentissime trasformazioni; il tema è allora il rapporto dell’uomo con la dimensione invisibile del tempo» (Dal luogo al paesaggio, Conferenza tenuta presso l’Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria, giugno 2002). È una piattaforma panoramica circolare, di quindici metri di diametro, suddivisa in due parti pavimentate di granito grigio in due diverse tonalità, divise da una linea rossa simbolo della linea ideale che separa la zolla europea da quella africana e che passa proprio in quel punto. Da una parte e dall’altra della linea rossa è disposta una teoria di campioni di roccia estratti dalle montagne visibili dall’osservatorio. Le rocce sono separate da milioni di anni di storia, osservabile nell’orizzonte circostante.
Lo scopo è quello di svincolare l’immagine della vallata tra i monti dal cliché del panorama montano, che è ormai divenuto uno dei tanti luoghi comuni paesaggistici nell’immaginario collettivo. Quello che Bürgi intende dire è che, al di là di una visione distratta, in un panorama è possibile leggere una storia. «Lo sguardo porta alla conoscenza e, di conseguenza, al giudizio, al discernimento. Richiede attenzione nel presente, un’attentio, un tendere ad, una tensio. Il presente è segnato dalla contemporaneità di ciò che è, di ciò che è stato, di ciò che sarà. Il futuro, in rapporto all’esistente formativo, sta nel paesaggio, nella formazione di una coscienza, un sapere propositivo» (M. Venturi Ferriolo, Cardada by Paolo Bürgi. The experi-ence of the gaze, in Contemporary garden. Aesthetics, creations and interpretations, ed. M. Conan, p. 202).
L’Auditorium Parco della musica a Roma di Piano è così chiamato perché è anche un grande giardino pubblico in gran parte pensile. Tutte le coperture, tranne le sale, sono infatti aperte al pubblico come un parco. Quattro ettari su cinque tornano alla città come un’agorà insieme centripeta e centrifuga. Fin dal concorso, Piano ha impostato questo principio con la chiarezza di un teorema. L’altra idea è quella urbanistica, l’Auditorium come fattore di rigenerazione, un nuovo principio di identità che unisce e connette la città. Gli elementi primari di scala con cui confrontarsi erano il contesto geografico e urbano, le colline di Villa Glori e dei Parioli e la pianura alluvionale, il quartiere Flaminio con l’asse stradale fino a Ponte Milvio, il Villaggio Olimpico e i grandi dinosauri delle Olimpiadi del 1960: il Palazzetto dello Sport, lo Stadio Flaminio, il viadotto di Pier Luigi Nervi e Luigi Moretti. Tutti questi elementi sono stati recepiti appunto come caratteri fisici e umani di un paesaggio, nel quale i nuovi segni dovevano porsi alla stessa scala e con la stessa musicale frequenza: i tre gusci delle sale musicali come uniche emergenze, le diverse quote di viale Pilsudski e del Villaggio Olimpico, tra le quali tutto il complesso è contenuto, come estensione nel progetto di un dislivello che già c’era, una foresta che ‘trascina’ e prosegue la vegetazione delle pendici delle colline attorno, lo scavo della grande cavea come apertura verso il quartiere, uno dei più belli della Roma moderna, ma che trova solo qui uno spazio pubblico che lo rappresenti come una piazza.
Se il Guggenheim Museum di Gehry, inaugurato nel 1997, rappresenta il simbolo della rinascita di Bilbao, la Walt Disney Concert Hall a Los Angeles, che forse lo supera, presenta caratteri di una nuova centralità ancora più spiccati. La città non è un cratere vuoto d’idee attorno all’architettura. Questa sala da concerti mette in tensione tutta un’area attorno, fra le più sofferenti del centro di Los Angeles. Accanto a un edificio di alta qualità come il MOCA (Museum of Contemporary Art, 1986) di Arata Isozaki, la Walt Disney Concert Hall si presenta con una logica del tutto diversa, non come un edificio ma come il fulcro di una rivoluzione urbanistica, rompendo la logica aggregativa degli isolati. Grazie all’utilizzo dei mezzi informatici nel progetto, non ci sono due elementi uguali, ci sono uno spazio interno ed esterno da percorrere e ripercorrere facendo sempre nuove scoperte. È una sorta di teorema architettonico e urbanistico del movimento: vi troviamo ispirazioni dal costruttivismo russo (Vladimir Tatlin, Kasimir Malevič, El Lissitzky) ma anche da Henri Matisse e Umberto Boccioni, reinterpretate attraverso le nuove forme dello spazio digitale. Quest’opera, intenzionalmente, può considerarsi un paesaggio urbano, al di là di ogni altro suo attributo.
Il Lycée Jacquard (2000) a Caudry in Francia è un’altra opera che parla esplicitamente di paesaggio, meno nota e meno spettacolare, ma altrettanto sintomatica, quasi un manifesto ideologico: pensata come una città, con la sua varietà di forme e materiali, crea dei luoghi che mettono a proprio agio e ispirano un senso di appartenenza favorendo la comunicazione tra le persone senza imporre geometrie chiuse e autoritarie. Il disegno del paesaggio, ispirandosi alla dimensione comunitaria della scuola, si fonde con un eccezionale impegno con le problematiche ecologiche e di ecogestione. Il suo autore, Lucien Kroll, forse più noto per le battaglie in favore della partecipazione sociale ai processi decisionali in architettura e dell’ecologia che come progettista, è probabilmente il critico più ascoltato contro il modello di sviluppo del nostro habitat, autoritario, come lui dice, e orientato all’autodistruzione per un inevitabile ‘caos climatico’. Kroll ha sacrificato un grande talento per una professione militante di solidarietà in favore di persone povere o emarginate come di luoghi negletti o inquinati. Teorico di una valorizzazione a qualsiasi costo della creatività del pubblico, la sua opera si concretizza essenzialmente in un processo di partecipazione. Il suo linguaggio informale è passato presto ad adottare schemi sempre più vernacolari, perché più vicini e comprensibili ai suoi interlocutori: non i suoi clienti pubblici, ma gli utenti. In parallelo, senza mai entrare in uno schema politico organizzato, ha anticipato i temi di tante lotte ecologiste e no global, ritenendo che ogni paesaggio sia una forma di civilizzazione (L. Kroll, Tutto è paesaggio, 1999).
Il New Scottish Parliament (2004), opera di Enric Miralles e Benedetta Tagliabue, è invece un esempio avanzato di come le grandi istituzioni nel rappresentarsi con nuovi edifici manifestino una sempre più assidua attenzione al contesto e in particolare al paesaggio. A Edimburgo possiamo parlare di un’autentica mimesi, un non-edificio che nelle sue forme esterne e interne è essenzialmente un paesaggio, in stretta sintonia con l’ambiente medievale della collina di Holyrood, alla fine del Canongate.
L’ex governatore della Regione Sardegna Renato Soru, avvalendosi di urbanisti, paesaggisti e architetti di fama internazionale, ha promosso, nel corso del suo mandato (2004-2008), il piano paesaggistico più restrittivo d’Italia, con radicali limitazioni ma con la possibilità per i Comuni di presentare progetti in deroga. Fra questi un interessante progetto (Nuove isole urbane, 2004) per un insediamento turistico di Luigi Snozzi a Cabras (Oristano), che registrava tutti i dati del paesaggio con segni essenziali e fissava in una sola altissima torre la cubatura di un albergo. Come Adalberto Libera per Villa Malaparte a Capri, Snozzi è un architetto molto sensibile, capace di un atto forte perché fortissimo è il suo rispetto per il contesto in cui opera. Il progetto non è stato realizzato perché forse avrebbe costituito un importante precedente per ulteriori deroghe. Grave è la perdita per la nostra cultura che in quest’epoca produce solo atti ‘compatibili’, ‘sostenibili’, il che non impedisce di costruire, ma ‘nelle regole’, dal momento che l’arte della mediazione fra progetto e controllo tende ad agire sempre al ribasso e a indirizzare la progettazione verso l’anonimato e il compromesso.
Un osservatorio di paesaggio
L’Observatori del paisatge de Catalunya, diretto da Joan Nogué, è un’istituzione pubblica nata nell’ottobre 2004 come risultato di un progressivo processo di accordo tra diversi settori sociali e politici sul tema del paesaggio. È un consorzio in cui collaborano e interagiscono molte entità con diversi ruoli: il governo catalano ha sicuramente una parte fondamentale, a esso si affiancano le università, gli ordini professionali e alcuni enti privati.
Una coincidenza di fattori ha preparato le condizioni per la nascita di questo osservatorio. Da tempo era in atto un intenso dibattito culturale all’interno delle università della Catalogna, insieme a una rinnovata coscienza sociale espressa da movimenti, piattaforme di difesa del paesaggio, ma anche da altre forze tese a una trasformazione innovativa, coinvolgendo sindacati, operatori ed enti finanziari. Questi sono tutti elementi nuovi; negli ultimi trent’anni, infatti, le associazioni hanno avuto solo un carattere ambientalista ed ecologico.
Dal punto di vista economico, il governo catalano ha la parte più rilevante, insieme ai Comuni, alle Province e a un unico istituto bancario privato. Le università partecipano con un contributo scientifico di ricerca ed elaborazione dei dati; gli enti privati, come gli ordini professionali o le associazioni, agiscono sul territorio attraverso scambi culturali e divulgazione.
Obiettivo principale è quello di ampliare la conoscenza che la società catalana ha del proprio paesaggio e funzionare allo stesso tempo da supporto per l’applicazione della Convenzione europea del paesaggio, proponendosi come punto di riferimento per la ricerca scientifica e tecnica, per gli enti pubblici e gli attori politici che definiscono i cambiamenti in materia di paesaggio. Lo scopo dell’osservatorio è quello di stabilire dei criteri per la protezione, la gestione e l’identificazione del paesaggio, attraverso uno studio integrato e interdisciplinare, elaborando proposte e impulsi per uno sviluppo sostenibile e programmato.
Il paesaggio è in stretta contiguità con molti temi dell’organizzazione del territorio, come quelli relativi al patrimonio archeologico, storico e naturale, all’ambiente, all’energia o con discipline come l’architettura, l’urbanistica, la pianificazione, la comunicazione. Nell’opinione pubblica e anche in alcune sedi scientifiche si sostiene frequentemente l’idea secondo la quale paesaggio è ambiente, urbanistica e altro, un’identità che priva i termini di qualsiasi valore. In realtà, su diversi piani si riscontrano dialettiche molto interessanti, antitesi che bisogna conoscere per orientare con chiarezza le proprie scelte.
È oramai opinione comune che le risorse naturali, culturali e ambientali costituiscono parte della nostra ricchezza, una dote rara e non riproducibile, ma questa consapevolezza purtroppo si traduce soprattutto in una politica prevalentemente vincolistica. Inoltre, giustamente, oggi il sentimento comune estende il patrimonio storico e ambientale a quanto prima ritenuto minore. «Il territorio, il localismo, le geocomunità appaiono come punti saldi intorno ai quali ricominciare a ragionare di sviluppo […]. Non vi è dubbio che per gran parte questo patrimonio minore sia ancora nascosto, dimenticato, negato all’utenza. A fronte di questo grande giacimento semi-sommerso si registra un crescente interesse per i beni culturali legato alla crescente attenzione ai valori del paesaggio, della storia e della qualità ambientale». Così il Rapporto annuale 2007 del CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali), che postula la necessità di immaginare nuovi usi, nuove funzioni capaci di produrre un ritorno economico e occupazionale e che al tempo stesso sappiano garantire l’integrità dei valori storici e artistici, in un periodo in cui prevale un’assoluta inadeguatezza delle risorse destinate all’intervento pubblico.
Il secondo Novecento ci ha lasciati con una stagione di opere di architettura che spontaneamente assumono come proprio tema dominante il paesaggio. «Imparare dal paesaggio esistente è un modo di essere rivoluzionario per un architetto». Sono le prime righe di Learning from Las Vegas di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour (1972; trad. it. 1985), in cui si esalta la creatività innovativa che caratterizza questa città, con una conversione del tutto originale di temi vernacolari ed effimeri tratti dall’estetica spontanea della strada. Nelle tendenze più diverse troviamo in architettura delle idee-forza tratte in modo esplicito dalla storia del giardino e del paesaggio che diventano i veicoli di significato dominanti attraverso cui un edificio parla direttamente al pubblico, come i mass media. È una produzione così ricca da caratterizzare un’epoca, ben interpretata dalla provocatoria definizione di Bruno Zevi del paesaggio come ‘grado zero’ del linguaggio architettonico, per il rilancio del ruolo innovatore di un’architettura intesa come fermento di progresso (Landscape and the zero degree of architectural language, 1999).
Il 21° sec. inizia con una domanda forte e inquieta dell’architettura verso il paesaggio come dimensione di rilancio, in tutti i sensi. Gli architetti sono affascinati dal paesaggio perché è la metafora di un ipertesto, un sistema di linguaggio che si ‘pone in luogo’ ed enuncia valori-dimensioni, materiali ma anche immateriali, non diversi da quelli di Milan Kundera o delle Lezioni americane (pubblicate postume nel 1988) di Italo Calvino: leggerezza, superficie, trasparenza e, soprattutto in Italia, al tempo stesso si chiedono se il paesaggio sia un’arte applicata e se abbia dei caratteri così spiccati e definiti da richiedere una sua autonomia. Molti ne sottolineano l’ambiguità in quanto opera, per lo più inconsapevole e quasi sempre collettiva. Franco Purini rinvia in metafora i motivi della bellezza del paesaggio a temi classici delle scienze umane, come tessuto, testo, corpo: «queste trasformazioni non hanno in prima istanza finalità estetiche ma finiscono, attraverso un meccanismo piuttosto complesso, per esprimerle. […] Alle logiche equivoche della globalizzazione si può forse opporre soltanto l’unicità specifica di un corpo, di un corpo reale, di un corpo misuratore che nella sua infinita finitezza è esatto e poetico» (Purini 2006, p. 103).
Il paesaggio urbano, un ambito operativo che si colloca fra architettura e paesaggio propriamente detto, e il suo spazio pubblico in particolare, sono stati un campo di sperimentazione molto intenso negli ultimi trent’anni. Le tendenze attuali fanno registrare stanchi atteggiamenti manieristici, ma soprattutto un inquinamento iconico che porta a volte tale ambito verso una deriva frustrante per chi vi opera.
Porre in primo piano e in sincrono paesaggio e ambiente nella stessa realtà è un progetto ambizioso, per nulla scontato. Questi due termini condividono una presunta positività ante litteram: la loro affermazione è benefica, nel nome di un patto fra le generazioni, entrambi sono occasione di formazione di una professionalità avanzata, sono moderne icone nelle quali una comunità trova i primi riferimenti di un proprio stato di sicurezza. Ma in realtà sono tutt’altro che sinonimi. In una stessa unità territoriale indicano valori dialettici e scelte di ordine diverso: il fattore paesaggio indica la qualità di un’opera collettiva, i cui caratteri fisici e immateriali sono riconoscibili dalla comunità, mentre il fattore ambiente indica la qualità di quelle condizioni che regolano l’equilibrio dello stato ecologico, energetico e climatico. Alcuni sostengono che il paesaggio sia la forma dell’ambiente, «in quanto sintesi percettiva della qualità della natura, del peso dell’azione umana, della storia, e quindi dei caratteri delle comunità insediate» (A. Paolella, Abitare i luoghi. Insediamenti, tecnologia, paesaggio, 2004, p. 26). Di conseguenza, in un determinato sito la qualità di paesaggio dovrebbe essere un indicatore dello stato di salute ambientale. È questa una tendenza, nello spirito del protocollo di Kyoto (1997), che un progetto di nuovo paesaggio deve perseguire, ma senza confondere i fini con i mezzi. Il paesaggio e l’ambiente sono di certo due dimensioni profondamente interagenti, ma dialettiche, e in alcuni casi conflittuali in maniera latente. Bisogna evitare che l’emergenza dell’habitat sia confinata nell’ambito di una ‘valutazione’ molto astratta, riferita al danno o al vantaggio che i nuovi interventi producono sull’ambiente, perché nella nostra prassi è un giudizio espresso solo a posteriori e su parametri generici. L’obiettivo è una presunta ‘sostenibilità’, cercata per lo più con misure di ‘mitigazione’. Vi sono grandi progetti in pieno sviluppo sul territorio con ingenti risorse, spesso mal direzionate. Se una nuova consapevolezza dell’ambiente è una via obbligata dell’architettura per rigenerarsi, l’uso di termini come questi, di algida freddezza burocratica, è sintomatico di una mentalità ideologica e meccanica.
Il progetto di paesaggio in quanto opera potrebbe violare un assetto ecologico e per contro un progetto ecocompatibile potrebbe essere soddisfacente in sé ma devastante per il suo impatto fisico e psicologico, in una parola per la sua afasia estetica.
Se il paesaggio definisce caratteri nei quali la comunità possa rappresentarsi e riconoscersi, questi caratteri devono avere una visibilità che riesca a imporsi sull’esuberante folla di immagini che invade il nostro vissuto. Indiscutibilmente viviamo un’epoca molto creativa ma difficile. Volgarità, violenza, trasgressione, pubblicità ossessiva sono tratti negativi ascritti a quest’epoca, in cui la comunicazione sembra avere gli strumenti non solo per rappresentare la realtà, ma anche per determinarla. A questo si può opporre una straordinaria creatività ed energia, e proprio nuove modalità di comunicazione sono sempre più alla base di un processo partecipativo molto vivo, che stimola una crescente consapevolezza del paesaggio da parte delle popolazioni. Il nostro problema parte da qui, riportare su un terreno democratico e colto i codici attraverso cui ci rappresentiamo.
Nuovi temi prendono corpo configurando nuove realtà in armonia fra paesaggio e ambiente: l’agricoltura, a tutti gli effetti un tema progettuale straordinario, con tecniche innovative, normative dinamiche, infrastrutture rilevanti; l’urbanizzazione di tutto il ciclo ‘sporco’ della città, lo stoccaggio e il trattamento dei rifiuti, discariche, depuratori, inceneritori; il restauro geologico con la prevenzione delle frane e delle inondazioni; le grandi infrastrutture, come le arterie primarie di traffico; la valorizzazione delle ‘funzioni rimosse’, cimiteri, aree militari e per la protezione civile; il recupero delle aree produttive dismesse o sottoutilizzate, cave, bonifica delle aree portuali e industriali e così via; la riorganizzazione delle aree per la produzione di energia; le aree di rinaturalizzazione, fiumare e corsi d’acqua, canali ecologici. Tutto ciò è trattato a compartimenti stagni, contro ogni logica che vorrebbe integrare in un disegno queste risorse territoriali, rilevantissime per occupazione di suoli e per finanziamenti impegnati.
Nelle città a maggiore densità abitativa si sfruttano tutte le superfici possibili, a volte con vere e proprie politiche d’incentivazione, moltiplicando i roof gardens, come a New York (a cura del NY Department of parks and recreation), o piazze e parchi pensili su inceneritori e centri di distribuzione dei rifiuti, come a Barcellona. L’Explanada, l’immensa piazza-paesaggio antistante il Fòrum 2004 a Barcellona, di Elías Torres i Tur e José Antonio Martínez Lapeña, è un’invenzione urbanistica di scala prima non sperimentata, uno straordinario spazio pubblico che chiude una volta per tutte la Diagonal come un superbo affaccio sul mare, suolo di asfalto policromo che scorre sopra a un immenso inceneritore come un velario modellato dal vento e sotto l’immensa ombra di una pergola fotovoltaica, la più grande (e la più bella) del mondo. Intere valli sono ridisegnate per la produzione di biogas, come l’elegante progetto (2008) di Battle i Roig arquitectes per la Val d’en Joan in Catalogna, integrazione fra intervento artificiale e forestazione scandito nell’arco di un decennio. Le ‘fabbriche eoliche’ hanno suscitato un appassionato dibattito in tutta Europa sull’impatto visivo e sonoro dei grandi mulini. Alcuni parchi eolici sono bellissimi, come quelli off-shore di San Michele di fronte a Termoli, di Daniela Moderini e Giovani Selano (progetto del 2005, non ancora realizzato), e delle secche di Horns Rev (2002 e 2009) di fronte alle coste danesi. La Regione Lombardia nel 2002 ha avviato il progetto Dieci grandi foreste di pianura e di fondovalle (fra cui interessanti quelle della Besozza, della Carpaneta, del Lusignolo, della Valtellina). Dimensioni immense si annunciano anche in molti progetti di ristrutturazione urbana. Di nuovo R. Piano è protagonista di un recupero finalizzato a una possibile autonomia energetica dell’area Falk a Sesto San Giovanni (progetto del 2005) con le dimensioni di una vera e propria città (quindici quartieri con un sistema di verde di circa un milione di m2), intervento che si avvale di grandi consulenti: Carlo Rubbia (energia), Michel Corajoud con Franco Giorgetta (botanica), Camillo Ricordi (medico). Gilles Clément, che ha elaborato un progetto (2007) di un parco archeologico per la collina di Tuvixeddu a Cagliari, è autore di un pamphlet dedicato ai luoghi abbandonati dall’uomo, il Manifeste du tiers-paysage (2003; trad. it. 2005), che ha fatto proseliti anche nel comune di Reggio Emilia dove, all’interno del verde comunale, sono state istituite alcune zone di ‘terzo paesaggio’, ossia aree da destinare all’evoluzione spontanea della vegetazione, evitando totalmente gli interventi manutentivi quali la raccolta delle foglie o lo sfalcio dell’erba. Questo giardiniere-filosofo è noto anche per il suo clamoroso rifiuto di ogni incarico pubblico e privato in Francia, perché contrario all’idea di ‘sviluppo duraturo’ introdotta nella politica economica dal presidente Nicolas Sarkozy, che ha congiunto i ministeri economici con quello dell’ambiente.
L’inizio del 21° sec., soprattutto in Italia, mostra un ritardo culturale nel governo del territorio, riflettendo un’eccessiva articolazione del potere politico in poteri e contropoteri, nell’eterna dialettica fra responsabilità centrali e locali. «Se un potere disegna la mappa della città e cerca di adeguarla a un ritratto ideale, l’uomo qualunque vi passa inesorabilmente attraverso, scrivendo un testo che è incapace di leggere. Non costruisce la città né se ne appropria: piuttosto la costringe, ancora una volta, a diventare nuova» (Marrone, Pezzini, Presentazione, in Senso e metropoli, 2006, p. 9).
Non è chiara l’attitudine che abbiamo rispetto al nostro habitat, alla lettura delle sue tendenze perverse e virtuose, alle risorse umane e materiali che intendiamo impegnare, a quale modello di evoluzione pensiamo possibile in un tempo immediato. Governare il territorio richiede teorie e tecniche per uno sviluppo sostenibile, politiche e strategie per valorizzare il patrimonio e ridefinire la compatibilità fra sviluppo e ambiente. In Italia difficilmente si è manifestato, se non in pochi casi, un disegno chiaro di trasformazione dell’habitat che avesse la responsabilità, il consenso e la forza di incidere. Invece di produrre nuove idee e favorire sperimentazioni, ci si limita spesso ad attaccare i cosiddetti ecomostri, fenomeni speculativi evidentemente ingiustificabili, che tuttavia, monopolizzando l’attenzione dei media, distolgono da tutto il resto.
Si descrive ossessivamente la realtà pretendendo poi di vincolarla. Le amministrazioni, ma anche l’iniziativa privata, per lo più si appoggiano su onde di tendenza, fra la continuità di vecchie parole d’ordine e l’emergenza di eventi le cui origini sono molto complesse e spesso remote. Il fenomeno di urbanizzazione in corso è senza precedenti, il mondo delle immagini ha raggiunto un livello talmente esteso e gridato da essere abbagliante, la mobilità a tutti i livelli, delle informazioni, delle merci e delle persone, vive una vera rivoluzione. A fronte di queste tendenze, il termine governance, che sottende la duttilità delle scelte al variare delle condizioni, in Italia ha espresso piuttosto un sapore di relatività dell’azione di governo, e la descrizione degli avvenimenti urbani ha adottato una serie di aggettivi ripetitivi sempre più abusati, come poroso e fluido, per denotare la visione di una realtà ritenuta inafferrabile rispetto a sempre più astratti e abusati ‘paradigmi’.
Le strategie e le tecniche del disegno urbano cambiano: si tende a lavorare più per sistemi e sequenze, per interventi puntiformi e in rete che non per trasformazioni radicali. Sono anche le dinamiche economiche e sociali della nuova città che richiedono questo spostamento, con risorse sempre più limitate, e poteri locali sempre più articolati. Vi è, in teoria, un’assoluta libertà di tema e di scala, con commistione di soggetti e di ruoli: un’azione, cui si aggiungono una strada, una copertura, un albero, un materiale, una trasparenza possono essere la base di un progetto, purché si stabilisca una sequenza di senso nel magma amorfo della città-campagna. Il caos è un ordine che si comincia a capire solo se accettato sul suo terreno, è una strada pericolosa, ma obbligata.
Il problema, diceva Friedrich Nietzsche, è non tanto abitare ma imparare ad abitare. L’estate del 2007, chiamata estate degli incendi in buona parte dell’Europa mediterranea, ha posto una questione di rilevante gravità. Come si ricorderà, sono stati incendiati milioni di ettari di bosco, prevalentemente per ragioni criminali, con molte vittime. Un’avanzata legge italiana che inibisce ogni attività su parti del territorio incendiate è stata scavalcata dall’inerzia dei Comuni, e meno di un mese dopo l’incendio vi era un immenso cantiere pubblico e privato, diffuso ovunque. Quello che più ha colpito è il sentimento ricorrente degli abitanti dei luoghi: dignità, coraggio, abnegazione, ma quasi nessuna traccia di dolore o lutto. Un distacco dalla fauna e dalla flora scomparsa come se fosse da cose astratte, la certezza che il turismo sarebbe comunque tornato ‘per il mare’. Quello che si è sentito è la profondità di un antico solco culturale, qualcosa di simile a uno scontro di classe. L’illegalità delle origini degli incendi non è la regola, ma quando il vento di scirocco spira con forza, sono numerosi gli individui che si muovono all’unisono per le ragioni più diverse (e anche senza motivo): per abitudine, per costume. E l’omertà è totale.
Quello che serve è una cultura che sostenga il rischio ormai inevitabile di procedere in ogni caso, accettare il cambiamento, che comunque si produce, cercando di anticiparlo con delle idee che arrivino al cuore del pubblico. A chi amministra non rimane che un grande atto creativo sostenuto da una convinta volontà popolare. Il problema non è soltanto quello di fornire dei servizi, ma anche come servirli. Bisogna rendere la città più policentrica, moltiplicare e riprodurre quello che chiamiamo centralità mediante atti anche semplici ma fondativi, ricchi di significato. Sono dei veri luoghi che noi dobbiamo mettere in scena.
Si tratta di utopia? Invero niente appare più realistico. Una città che sia consapevole del suo paesaggio è in grado anche di trasformare in senso positivo uno stato di crisi, di fare di una debolezza una forza.
Non è così chiaro se nel prossimo futuro il paesaggio sarà effettivamente il tema dirimente nella ricerca di una migliore qualità dell’habitat. Sarà forse sempre di più uno spazio discontinuo, come tutti i canali del pensiero contemporaneo sembrano indicare. Sarà comunque la nostra idea di oasi, un luogo utile, nel quale interrogarsi sui nuovi comportamenti umani, su principi di centralità e identità nella vita di una collettività. Si tratterà di un luogo dal carattere fortemente simbolico, un codice per decriptare le nuove dimensioni espressive dell’habitat e un mass medium per comunicarle, idee-natura per nuove funzioni pubbliche di particolare importanza. Sarà, come sempre, un luogo estremamente creativo e innovativo che sperimenta idee, materiali e tecniche. Sarà, come al solito, imprevedibile.
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