Vedi Nuovi sviluppi in materia di legalita penale dell'anno: 2017 - 2018
Nuovi sviluppi in materia di legalità penale
Alcune recenti sentenze della C. eur. dir. uomo e della Corte di giustizia UE, nonché della Corte costituzionale e della Corte di cassazione italiane hanno affrontato aspetti problematici del principio di necessaria retroattività della legge penale più favorevole, ancora non compiutamente risolti né a livello europeo né a livello nazionale.
SOMMARIO 1. La ricognizione 2. La focalizzazione 2.1 La C. eur. dir. uomo: Gouarré Patte c. Andorra 2.2 La Corte di giustizia: sentenze Delvigne e Paoletti 2.3 La Corte costituzionale: la sentenza n. 193/2016 2.4 La Corte di cassazione: la sentenza n. 4114/2016 3. I profili problematici
Il principio nullum crimen, nulla poena sine lege e i suoi corollari continuano ad essere al centro dell’attenzione da parte della giurisprudenza italiana, per effetto delle sollecitazioni provenienti dalle corti europee, le quali fanno gradatamente emergere nuove dimensioni, o comunque nuove implicazioni, dello statuto di garanzia che circonda la materia penale. Una materia, peraltro, i cui confini, un tempo segnati dal rigido criterio formale della previsione di una delle pene riconducibili al catalogo chiuso di cui all’art. 17 c.p., sono essi stessi oggetto di una ridefinizione in senso estensivo per effetto della giurisprudenza di Strasburgo, i cui esatti confini sono però ancora bisognosi di essere interiorizzati dalla prassi nazionale.
La pronuncia della Corte europea in materia di nullum crimen che ha di recente destato più scalpore – e più reazioni nella prassi applicativa italiana – presso la nostra dottrina è certamente stata Contrada c. Italia, ove i giudici di Strasburgo hanno ritenuto contraria all’art. 7 CEDU la condanna del ricorrente per il delitto di concorso esterno nell’associazione mafiosa in relazione a fatti commessi in un’epoca in cui ancora era controversa in giurisprudenza la stessa configurabilità giuridica del concorso esterno. A tale pronuncia – che solleva delicate questioni relative alla precisa estensione del diritto del consociato a prevedere la possibilità di una propria futura condanna penale – è peraltro dedicato un apposito contributo (V. in questo volume, Diritto penale, 2.3.1 Concorso esterno nei reati associativi), al quale non può qui che rinviarsi.
Numerose novità – ancorché meno clamorose – concernono l’ulteriore corollario della necessaria retroattività della legge più favorevole1: un corollario che è espressamente riconosciuto dall’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), e che la giurisprudenza di Strasburgo deduce – a partire dalla sentenza Scoppola c. Italia, del 2009 – dallo stesso art. 7 CEDU.
Un profilo specifico di tale corollario – affrontato non già dalla giurisprudenza europea, ma esclusivamente da quella italiana in seguito alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di alcune disposizioni penali in materia di stupefacenti ad opera della sentenza 25.2.2014, n. 32 della Corte costituzionale – concerne la necessità di modificare il trattamento sanzionatorio statuito in sentenze di condanna passate in giudicato che abbiano applicato norme poi dichiarate incostituzionali. Tale profilo è altresì specificamente affrontato in altro contributo (V. in questo volume, Diritto penale, 1.1.2 Successione e incostituzionalità di discipline penali), al quale pure conviene qui semplicemente rinviare.
Restano allora da analizzare in questa sede altri aspetti del corollario in parola, che sono stati recentemente oggetto di esame da parte di varie istanze giurisdizionali europee e nazionali.
Le pronunce più significative rese di recente in materia provengono da entrambe le corti europee, nonché dalla Corte costituzionale e dalla Corte di cassazione italiane.
Una prima importante pronuncia2 si deve anzitutto alla Corte di Strasburgo, che – come anticipato – ha riconosciuto sin dal 2009 che il principio di (necessaria) retroattività della lex mitior entrata in vigore tra la commissione del fatto e la sentenza definitiva, pur non esplicitato nell’art. 7 CEDU, ne costituisce tuttavia un contenuto implicito. La questione ora in discussione concerneva l’eventuale estensione di tale garanzia alla fase di esecuzione della pena divenuta ormai definitiva, e all’eventuale necessità di modificare il giudicato in conseguenza di una sopravvenuta modifica legislativa in mitius della disciplina del trattamento sanzionatorio.
Un medico andorrano era stato condannato nel 1999 da un tribunale penale del suo paese alla pena di cinque anni di reclusione per fatti di abuso sessuale commessi nell’esercizio della professione sanitaria. Alla pena detentiva era stata aggiunta la pena accessoria dell’interdizione perpetua dall’esercizio della professione medica. La sentenza era stata confermata nel 2000 dal tribunale supremo andorrano ed era così divenuta definitiva.
Nel 2005 era entrato in vigore il nuovo codice penale, che aveva modificato la disciplina delle pene accessorie, stabilendo che la loro durata non può eccedere quella della pena principale. Il dott. Gouarré aveva presentato allora ricorso di revisione avanti al tribunale supremo, chiedendo che – in applicazione della nuova disciplina codicistica – fosse disposta la cessazione nei suoi confronti della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Il ricorso era stato tuttavia respinto, avendo i giudici supremi ritenuto che il rimedio della revisione – previsto tanto dall’art. 7 del codice penale per l’ipotesi di mutamento in mitius della disciplina legislativa applicata al condannato, quanto da una disposizione transitoria del nuovo codice penale (testualmente limitata, però, alle sole pene più favorevoli privative o limitative della libertà introdotte con la riforma) – non fosse suscettibile di trovare applicazione rispetto alle pene accessorie. Il condannato aveva quindi proposto ricorso avanti alla Corte costituzionale andorrana, lamentando la violazione del proprio diritto al giusto processo e al lavoro; ma nel 2010 il ricorso era stato giudicato irricevibile.
Esauriti così i ricorsi interni, il dott. Gouarré aveva adito la Corte europea, lamentando la violazione dei propri diritti all’applicazione retroattiva della legge penale più favorevole.
La quaestio iuris posta all’attenzione della Corte, su cui si erano concentrate le argomentazioni delle parti, era dunque se il principio statuito nel § 109 della sentenza Scoppola – secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e quelle successivamente entrate in vigore prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice è tenuto ad applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato – sia suscettibile di essere esteso anche all’ipotesi in cui la legge più favorevole sia entrata in vigore dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, e durante l’esecuzione della pena. Come, appunto, era avvenuto nel caso di specie, in cui il ricorrente lamentava di essere tuttora sottoposto a una pena accessoria – l’interdizione perpetua dalla professione medica – non più prevista dal nuovo codice, entrato in vigore dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
La Corte ritiene tuttavia che non sia necessario affrontare questa specifica questione ai fini della decisione, ben potendo la violazione allegata dal ricorrente essere riconosciuta in relazione all’omessa applicazione, da parte dei giudici nazionali, del principio di necessaria retroattività della legge penale più favorevole così come già riconosciuto dall’art. 7 del codice penale andorrano, che obbliga il giudice che ha pronunciato la sentenza di condanna a riesaminare d’ufficio la sentenza in caso di modifica in mitius della legge penale sulla cui base il provvedimento è stato pronunciato e, se del caso, a modificare in maniera corrispondente la pena, senza distinguere se si tratti di pena principale o accessoria. Rifiutando di modificare una pena più severa di quella applicabile ai sensi della legge penale oggi in vigore, i giudici andorrani hanno secondo la Corte violato lo stesso diritto nazionale, continuando ad applicare una pena al di fuori dai casi previsti dalla legge: con conseguente violazione del nullum crimen, nulla poena sine lege di cui all’art. 7 CEDU, oltre che dello stesso diritto a un ricorso effettivo contro le violazioni convenzionali riconosciuto dall’art. 13 CEDU in conseguenza della ritenuta inesistenza, nell’ordinamento nazionale, di rimedi idonei a rimuovere una pena ormai divenuta illegittima.
Due dei sette giudici europei partecipanti al collegio sottoscrivono peraltro un’opinione dissenziente, nella quale rimproverano in sostanza alla maggioranza di avere indebitamente spostato l’oggetto dell’esame su un profilo in realtà di esclusiva pertinenza del diritto interno – la corretta interpretazione della normativa nazionale in materia di presupposti del procedimento di revisione delle sentenze definitive, e dei limiti di tale rimedio –, e di avere così evitato di affrontare la questione cruciale se il diritto andorrano, così come interpretato dai giudici nazionali, fosse o meno compatibile con il principio di necessaria retroattività della legge penale più favorevole come enunciato in Scoppola. Questione alla quale i due giudici dissenzienti avrebbero voluto che la Corte rispondesse in modo affermativo, ribadendo dunque con chiarezza che – ferma restando la libertà di ciascun ordinamento di riconoscere un eventuale diritto del condannato alla revisione del giudicato di condanna in caso di sopravvenienza di una lex mitior – l’art. 7 CEDU esige soltanto che il diritto all’applicazione della legge più favorevole sia garantito soltanto nell’ipotesi in cui tale legge intervenga prima del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, e non già durante l’esecuzione della pena.
La questione se il principio della retroattività della legge penale più favorevole sopravvenuta sia applicabile anche nel caso di sentenze già passate in giudicato, in relazione a pene accessorie ancora in corso di esecuzione, si è recentemente posta anche alla Corte di giustizia UE sulla base dell’art. 49 CDFUE3. Nel caso di specie, alla Corte era stato chiesto da un giudice francese, investito dal ricorso di un cittadino che lamentava la propria esclusione dalle liste elettorali per il Parlamento europeo, se la perdita definitiva e automatica del diritto di voto per coloro che avessero subito una condanna penale per un grave delitto anteriormente al 1994 fosse compatibile – inter alia – con l’art. 49 CDFUE, alla luce delle nuove disposizioni del codice del 1994 che prevedono invece che tale pena accessoria possa (e non debba) essere disposta dal giudice, e comunque per una durata massima di dieci anni. Anche la Corte di giustizia evita, peraltro, un confronto diretto con il problema dell’estensione della garanzia della retroattività in mitius rispetto alle statuizioni contenute in sentenze già passate in giudicato, sottolineando come lo stesso diritto francese consenta al condannato di chiedere e ottenere ai tribunali penali, in casi come quello oggetto del procedimento principale, la revoca della pena accessoria dell’interdizione legale a suo tempo inflitta.
Più interessante è una seconda sentenza resa dai giudici di Lussemburgo4 che, questa volta, ha ad oggetto la delimitazione delle norme la cui modificazione può far scattare l’obbligo di applicazione retroattiva in mitius.
Il Tribunale di Campobasso, avanti al quale pendeva un procedimento penale per il delitto di cui all’art. 12 d.lgs. 25.7.1998, 286 (t.u. imm.), e in particolare per avere gli imputati favorito l’immigrazione clandestina in Italia di cittadini rumeni prima dell’adesione della Romania all’Unione europea, aveva presentato domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia con cui chiedeva, in sostanza, se l’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), nella parte in cui sancisce espressamente il principio di necessaria retroattività della legge penale più favorevole, imponesse l’assoluzione degli imputati alla luce del più favorevole ius superveniens, rappresentato – nel caso di specie – dall’entrata in vigore del trattato con il quale la Romania aveva fatto ingresso nell’Unione europea, con conseguente venir meno della qualifica di cittadini non comunitari in capo ai soggetti il cui ingresso illegittimo in Italia era stato favorito dagli imputati. In tal modo, il Tribunale sollecitava in sostanza la Corte di giustizia a sconfessare la tesi della persistente rilevanza penale della condotta in questione, che come noto si era definitivamente imposta nel nostro ordinamento sin dal 2008 – dopo qualche iniziale oscillazione, soprattutto dei giudici di merito – in seguito a una nota pronuncia delle Sezioni Unite5.
La Corte riconosce, in primo luogo, la propria competenza a statuire sulla questione, rilevando come la materia dell’applicazione di sanzioni penali contro fatti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina rientri, ai sensi dell’art. 51 CDFUE, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione: nozione, quest’ultima, che la precedente giurisprudenza della Corte6 ha precisato nel senso di richiedere «l’esistenza di un collegamento tra un atto del diritto dell’Unione e la misura nazionale in causa che vada al di là dell’affinità tra le materie prese in considerazione o dell’influenza indirettamente esercitata da una materia sull’altra». Nel caso di specie, osserva la Corte, tale collegamento è garantito tanto dalla direttiva 2002/90 quanto dalla parallela e coeva decisione quadro 2002/946, entrambe statuenti obblighi a carico degli Stati membri (nel caso della decisione quadro, aventi ad oggetto specificamente la normativa penale) in relazione alla lotta contro il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Né rileva in senso contrario il fatto che la legge penale di cui si controverte nel procedimento principale sia stata adottata nel 1998, e dunque in epoca anteriore all’adozione dei citati atti dell’Unione, dal momento che – come parimenti chiarito dalla previa giurisprudenza della Corte7 – ai fini della determinazione dell’ambito di applicazione del diritto UE è irrilevante che l’atto normativo nazionale da applicarsi da parte del giudice del rinvio sia stato adottato al fine di trasporre uno specifico strumento eurounitario, risultando sufficiente la constatazione che esso incida obiettivamente in un ambito comunque regolato dal diritto UE.
In secondo luogo, la Corte coglie l’occasione per rammentare che l’art. 49 CDFUE fa parte del diritto primario dell’Unione, e che comunque, già prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che conferì tale rango alla Carta (art. 6 TUE), il principio di retroattività della legge penale più favorevole era stato considerato dalla Corte come «parte integrante dei principi generali del diritto dell’Unione che il giudice nazionale deve rispettare quando applica il diritto nazionale» (§ 25). Con la conseguenza – in questo caso non esplicitata, ma ovvia sulla base di queste premesse – che, in caso di contrasto tra la normativa nazionale (o quella normativa come interpretata dal “diritto vivente” nazionale) e il principio superiore di necessaria retroattività della lex mitior, il giudice interno sarebbe in ogni caso tenuto a rispettare quest’ultimo, all’occorrenza disapplicando la legge nazionale contrastante – o comunque discostandosi dalla sua interpretazione consolidata ad opera degli stessi supremi giudici nazionali.
Sul merito della questione, tuttavia, la Corte non condivide i dubbi del giudice del rinvio, e concorda con la soluzione accolta a suo tempo dalle Sezioni Unite. «L’applicazione della legge penale più favorevole» – osservano i giudici di Lussemburgo – «comporta necessariamente una successione di leggi nel tempo e poggia sulla constatazione che il legislatore ha cambiato parere in merito alla qualificazione penale dei fatti o in merito alla pena da applicare a un’infrazione» (§ 27); mentre, nel caso di specie, la norma penale di cui si discute – l’art. 12 t.u. imm. – non è stata modificata in parte qua successivamente alla commissione del fatto da parte degli imputati. La mera circostanza che i soggetti il cui illegittimo ingresso in Italia è stato favorito dagli imputati abbiano nel frattempo acquisito la qualifica di cittadini di uno Stato membro dell’Unione, non comporta alcuna modifica degli elementi costitutivi del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (§ 33), che deve dunque continuare a trovare applicazione nel caso di specie. Anche perché, osserva la Corte sposando sul punto le osservazioni dell’Avvocato generale, una diversa soluzione equivarrebbe a incoraggiare il traffico di manodopera clandestina non appena uno Stato abbia avviato il processo di adesione all’Unione, prospettando una implicita garanzia di impunità ai trafficanti: il che frustrerebbe l’effetto utile degli atti normativi dell’Unione che impongono l’adozione di sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive contro tale forma di criminalità.
Sul fronte interno, di particolare importanza è una recentissima sentenza della Corte costituzionale8, chiamata a confrontarsi con la questione se la garanzia della retroattività della legge penale più favorevole debba estendersi anche alle norme che prevedono illeciti formalmente qualificati come amministrativi nell’ordinamento nazionale, ma la cui natura sia definibile quale “sostanzialmente penale” in base ai criteri sviluppati dalla giurisprudenza di Strasburgo a partire dal notissimo caso Engel.
Un giudice del lavoro di Como viene investito, ai sensi dell’art. 22 della l. 24.11.1981, n. 689, dell’opposizione avverso l’ordinanza ingiunzione con cui la Direzione territoriale del lavoro aveva irrogato nei confronti degli opponenti la cosiddetta maxisanzione per il lavoro nero prevista dall’art. 3, co. 3, del d.l. 22.2.2002, n. 12, convertito con modificazioni dalla l. 23.4.2002, n. 73, vigente all’epoca dei fatti. Ritenute infondate le doglianze degli opponenti, il giudice evidenzia che nel caso di specie dovrebbe essere ritenuta legittima l’irrogazione della maxisanzione, vigente all’epoca dei fatti; mentre non potrebbe trovare applicazione la disciplina più favorevole successivamente introdotta dall’art. 4, co. 1, lett. a), della l. 4.11.2010, n. 183, che prevede la riduzione della cornice edittale della sanzione o addirittura la totale elisione delle sanzioni in presenza di determinati presupposti – sussistenti nel caso di specie –, dal momento che l’art. 1 della l. n. 689/1981 non contempla, in materia di sanzioni amministrative, la retroattività del trattamento sanzionatorio più favorevole entrato in vigore successivamente ai fatti, prevista invece dall’art. 2, co. 2, c.p. in materia di reati. Il Tribunale è ben consapevole, invero, delle pronunce con cui la Corte costituzionale ha in passato escluso che l’applicazione retroattiva della lex mitior in materia di sanzioni amministrative sia costituzionalmente necessitata; tale soluzione meriterebbe tuttavia, secondo il giudice, di essere rimeditata, alla luce della sopravvenuta sentenza Scoppola della Grande camera della C. eur. dir. uomo. Dal momento che la sanzione in esame nel caso concreto dovrebbe essere, secondo il giudice, qualificata come “sostanzialmente penale” ai fini delle garanzie convenzionali (trattandosi di sanzione rivolta alla generalità dei consociati, che persegue uno scopo non meramente risarcitorio, ma repressivo e preventivo rispetto al fenomeno del lavoro nero, e di importo potenzialmente assai rilevante per il soggetto colpito), ne discenderebbe la necessità che anch’essa sia assoggettata al complesso dei principi discendenti dall’art. 7 CEDU, tra i quali – appunto – la necessaria applicazione della disposizione sanzionatoria più favorevole successiva al fatto. Il Tribunale di Como solleva, così, questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 1 l. n. 689/1981, nella parte in cui non prevede, in materia di sanzioni amministrative, l’applicabilità della lex mitior, per contrasto a) con l’art. 117, co. 1, Cost. in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nonché b) con l’art. 3 Cost., in relazione all’irragionevole disparità di trattamento della generalità delle sanzioni amministrative rispetto alle numerose ipotesi in cui il legislatore italiano ha già esteso il principio della retroattività della disposizione sanzionatoria più favorevole alla materia dell’illecito amministrativo.
La Corte costituzionale ritiene, tuttavia, infondate entrambe le censure.
Quanto all’asserito contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost., la Corte reitera preliminarmente l’affermazione secondo cui il prodotto dell’interpretazione della Convenzione da parte dei giudici di Strasburgo debba essere apprezzata dalla Corte costituzionale «in modo da rispettarne la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata ad inserirsi». Ciò posto, la Corte rileva come la giurisprudenza di Strasburgo non abbia mai avuto ad oggetto il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì singole disposizioni sanzionatorie formalmente amministrative alle quali ha di volta in volta riconosciuto natura “punitiva” e, dunque “sostanzialmente penale” sulla base di una valutazione delle caratteristiche della singola sanzione. L’intervento additivo richiesto dal giudice a quo travalicherebbe, invece, l’obbligo convenzionale, essendo volto a estendere il principio della necessaria retroattività della lex mitior al complessivo sistema sanzionatorio amministrativo, «finendo così per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata “amministrativa” dal diritto interno) come “convenzionalmente penale” alla luce dei cosiddetti criteri Engel».
Infondata è anche, secondo la Corte, la censura sollevata con riferimento all’art. 3 Cost., non potendo la scelta legislativa di estendere soltanto ad alcuni settori dell’ordinamento il principio della retroattività della lex mitior essere ritenuta irragionevole, rispondendo anzi la scelta legislativa a criteri di politica legislativa non sindacabili da parte della Corte entro i limiti della non manifesta irragionevolezza e della non arbitrarietà.
La Corte rileva, infine, come l’intervento invocato dal remittente finirebbe – irragionevolmente – per sancire il principio della retroattività della lex mitior in maniera persino più ampia di quanto stabilito dall’art. 2 c.p., che fa salvo il limite del giudicato ed esclude dal suo ambito di applicazione le leggi eccezionali e temporanee.
La questione dell’estensione della garanzia convenzionale della retroattività della lex mitior si è, infine, recentemente posta alla prima sezione civile della Corte di cassazione9, in un caso in cui si controverteva dell’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria per l’illecito amministrativo di cui all’art. 191 del d.lgs. 24.2.1998, n. 58 (t.u.f.) in materia di offerta al pubblico di sottoscrizione e vendita di azioni. La persona fisica sanzionata aveva sostenuto, nel procedimento di opposizione alla sanzione irrogatagli dalla CONSOB, il proprio diritto a essere tenuta indenne dalla sanzione medesima – contestualmente irrogata anche alla persona giuridica da lui rappresentata per la medesima violazione – in ragione della nuova formulazione dell’art. 191 t.u.f., introdotta nel 2015, che prevede ora che le sanzioni ivi previste si applichino, di regola, alternativamente all’ente o alla persona fisica. Dal momento, però che la disposizione transitoria di cui all’art. 6, co. 2, d.lgs. 12.5.2015, n. 72 del 2015, stabilisce che le nuove disposizioni di cui all’art. 191 t.u.f. si applichino soltanto alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore della novella, il ricorrente chiedeva fosse sollevata questione di legittimità costituzionale della disposizione transitoria medesima per contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost. in relazione all’art. 7 CEDU, in particolare in relazione alla violazione del diritto alla necessaria retroattività della legge penale più favorevole: diritto pertinente nel caso di specie, stante la natura “sostanzialmente penale” dell’illecito amministrativo di cui all’art. 191 t.u.f.
La Cassazione ritiene, tuttavia, manifestamente infondata la questione prospettata, sulla base dell’assunto secondo cui la giurisprudenza della C. eur. dir. uomo invocata dal ricorrente avrebbe un effetto circoscritto alla materia processuale, imponendo di applicare le garanzie dell’equo processo di cui all’art. 6 CEDU e del ne bis in idem anche al procedimento funzionale all’irrogazione di sanzioni amministrative dalla natura sostanzialmente punitiva, senza invece richiedere l’estensione riservata al diritto penale sostanziale dall’art. 7 CEDU a quelle medesime sanzioni.
Come evidenziano le pronunce sin qui riferite, la garanzia della retroattività della legge penale più favorevole continua a far discutere i giudici europei e italiani.
Un primo nodo ancora irrisolto a livello europeo – e che la stessa C. eur. dir. uomo non ha, in effetti, voluto risolvere in Gouarré Patte – si radica nella questione se il diritto all’applicazione retroattiva della legge penale comporti o meno la necessità di modificare la pena stabilita in sentenze di condanna già passate in giudicato, ovvero se tale diritto venga meno una volta che il processo si concluda con una sentenza definitiva. Se dovesse in futuro affermarsi la prima soluzione (secondo quanto già statuito, in particolare, dalla Corte interamericana dei diritti umani sulla base dell’art. 9 della Convenzione americana, che peraltro riconosce espressamente il diritto alla retroattività in mitius in materia penale10), ne discenderebbe evidentemente l’illegittimità convenzionale dell’art. 2, co. 4, c.p., che fa salvo il limite del giudicato nel caso di legge sopravvenuta meramente modificativa del trattamento sanzionatorio di un fatto che resta però qualificabile come reato.
Non bisognosa di particolari precisazioni sul fronte europeo appare invece la questione dell’estensione della garanzia agli illeciti che, pur se formalmente qualificati come amministrativi dagli ordinamenti nazionali, abbiano invece natura sostanzialmente penale secondo l’apprezzamento della C. eur. dir. uomo alla base dei criteri Engel. Una volta, infatti, che tali illeciti siano ritenuti inglobati dalla “materia penale” in forza di tali criteri, del tutto consequenziale sarà l’applicabilità ad essi dell’intero blocco delle garanzie che la Convenzione e i suoi protocolli riservano alla materia penale, tra cui rientra anche la necessaria retroattività della legge più favorevole sopravvenuta.
Come si è visto, tuttavia, tale principio stenta a trovare attuazione nel diritto interno, a causa della resistenza opposta dalla Corte di cassazione – nel caso deciso dalla prima sezione civile di cui si è dato conto, ove addirittura si è ritenuta manifestamente infondata la relativa questione – e dalla stessa Corte costituzionale, che nella sentenza n. 193/2016 ha in sostanza declinato di fornire tutela a tale diritto convenzionale trincerandosi dietro la censura di eccessiva estensione del petitum formulato dal giudice rimettente. Così facendo, la Consulta ha in effetti precluso al giudice a quo la possibilità di applicare retroattivamente la nuova e più favorevole disciplina di uno specifico illecito amministrativo che pure lo stesso giudice, in applicazione rigorosa dei criteri Engel così come declinati da una quarantennale giurisprudenza della C. eur. di. uomo, aveva ritenuto di dover ascrivere alla materia penale, e alle garanzie previste dalla Convenzione per questa materia: creando così – da un lato – le condizioni per una violazione convenzionale che non tarderà ad essere rilevata a Strasburgo, ed omettendo – dall’altro – di indicare ai giudici comuni una strada, alternativa alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 1 della l. n. 689/1981, per evitare questo esito.
Una volta ancora, dunque, la Corte costituzionale sollecita di fatto i giudici comuni ad assumersi direttamente la responsabilità di adeguare il diritto nazionale agli obblighi internazionali gravanti sul nostro paese, eventualmente anche attraverso la diretta applicazione dell’art. 7 CEDU: che è pur sempre, conviene ricordarlo una volta ancora, disposizione incorporata nel nostro ordinamento in forza della l. 4.8.1955, n. 848 di esecuzione della Convenzione.
Note
1 Su cui cfr. Viganò, F., Retroattività della legge penale più favorevole, in Libro dell’anno del Diritto 2014, Roma, 2014, 105 ss., nonché, in precedenza, Id., Retroattività della legge penale più favorevole, in Libro dell’anno del Diritto 2012, Roma, 2012, 153 ss.
2 C. eur. dir. uomo, 12.1.2016, Guoarré Patte c. Andorra.
3 C. giust., 6.10.2015, C650/13, Delvigne.
4 C. giust., 6.10.2016, C218/2015, Paoletti e a.
5 Cass. pen., S.U., 27.9.2007, Magera, in Cass. pen., 2008, 898 s. Sulla questione cfr. per tutti Gatta, G.L., Abolitio criminis e successione di norme “integratrici”: teoria e prassi, Milano, 2009, p. 817 ss.
6 Cfr. in particolare C. giust., 6.3.2014, C206/13, Siragusa, § 24.
7 C. giust., 26.2.2013, C. 617/10, Akenberg Fransson, § 27 e 28.
8 C. cost., 20.7.2016, n. 193.
9 Cass., 2.3.2016, n. 4114, in www.penalecontemporaneo.it, 7.3.2016 con nota di Viganò, F., Il dialogo difficile: ancora fraintendimenti della Cassazione civile sulla giurisprudenza della Corte EDU in materia di sanzioni CONSOB e retroattività in mitius.
10 C. eur. dir. uomo, 31.8.2004, Ricardo Canese c. Paraguay, 2004, § 178-179.