Nyaya
Termine sanscr. usato in varie accezioni, tra cui «pensiero metodico», «legge razionale», «argomento sistematico», e che indica il sistema filosofico fondato sul Nyāyasūtra («Gli aforismi del N.») di Akṣapāda.
Il N. si sarebbe originariamente sviluppato a partire da tecniche inferenziali già usate in testi di medicina, giacché proprio i medici si trovavano ad affrontare discussioni e a elaborare teorie sulla base di sintomi e induzioni. Inoltre, il metodo dell’inferenza del N. sarebbe stato influenzato secondo E. Frauwallner, dall’antico sistema filosofico del Sāṅkhya. Più in generale, il sistema del N. si consolida attraverso il dibattito con altre tradizioni, specialmente buddismo (➔), Mīmāṃsā (➔), Vyākaraṇa (➔) e Vedānta (➔), e il contatto con il Vaiśeṣika (➔), con il quale già nel Nyāyabhāṣya («Commento di Nyāya[sūtra]», ca. 5° sec. d.C.) appare chiara la stretta affinità. Sebbene il Vaiśeṣika sia fondato sugli indipendenti aforismi di Kaṇāda, nel corso dell’evoluzione della filosofia indiana esso tende infatti a integrarsi con il N. fino a formare con esso un sistema sincretico, chiamato appunto Nyāyavaiśeṣika. La più antica traccia dossografica del N. come tradizione risale allo Ṣaḍḍarśanasamuccaya («Compendio dei sei darśana») del filosofo giainista Haribhadra (8° sec.). N. e Vaiśeṣika tendono a confluire in un unico sistema perché accomunati soprattutto dall’indagine razionale e perché si occupano di contenuti complementari, essendo il N. dedito soprattutto a epistemologia e metodologia dialettica e il Vaiśeṣika a filosofia naturale, metafisica e ontologia. Nella forma sviluppata da Gaṅgeśa, il Nyāyavaiśeṣika viene chiamato Navyanyāya (➔) ed è rimasto tradizione vitale fino ai giorni nostri.
Non si hanno notizie storicamente attendibili su Akṣapāda, noto anche come Gotama o Gautama, e ciò ha contribuito all’ipotesi che il Nyāyasūtra sia composto da stratificazioni formatesi nel corso di secoli e opera di autori diversi, con la redazione definitiva datata intorno al 2° sec. d.C. Quattro sono i principali commenti al Nyāyasūtra pervenutici. Il più antico, il Nyāyabhāṣya, fu redatto da Vātsyāyana o Pakṣilasvāmin (5° sec. ca.). Il Nyāyavārttika («Glosse del N.») di Uddyotakara (6°-7° sec.) si presenta come un’estensione del Nyāyabhāṣya e intraprende la polemica dalla prospettiva realista del N. contro l’idealismo buddista (➔ Yogācāra; Pramāṇavāda), influente in questo periodo della filosofia indiana soprattutto grazie alle opere di Dignāga e Dharmakīrti. Risale al 10° sec. il contributo al N. del poligrafo Vācaspati Miśra, autore della Nyāyavārttikatātparyaṭīkā («Commento agli intendimenti delle glosse sul N.»), che include ed elabora i punti di vista dei due commentatori precedenti. Udayana (11° sec.) compone l’ultimo importante commento al Nyāyasūtra, la Nyāyapariśuddhi («Rifinitura conclusiva [dei commenti] al N.»), sulla base di quelli dei suoi tre predecessori. Udayana è anche autore di altre importanti opere di N. ed è da alcuni considerato il pioniere delle nuove tecniche che caratterizzano il Navyanyāya. Nel periodo tra il 7° e il 10° sec. si ha traccia indiretta di altri autori, Bhāvivikta, Aviddhakarṇa e Śaṅkarasvāmin, citati da autori di N. successivi e in opere di epistemologia buddista. Trattati significativi sono la Nyāyamañjarī («Mazzo di fiori della logica») di Jayanta Bhaṭṭa e il Nyāyabhūṣaṇa («Ornamento del N.») di Bhāsarvajña, composti in Kashmir a cavallo tra il 9° e il 10° sec., che commentano solo passaggi scelti del Nyāyasūtra e presentano molte interpretazioni originali rispetto alla tradizione dei succitati quattro commenti. Bhāsarvajña, la cui opera è stata rinvenuta in tempi recenti ed è ancora relativamente poco studiata, presenta punti di vista eterodossi ai quali si collega, secondo alcuni studiosi (D.H.H. Ingalls, K. Potter), Raghunātha Śiromaṇi.
Nell’incipit del Nyāyasūtra viene enunciato un proposito salvifico, espresso come il raggiungimento del summum bonum grazie alla conoscenza della realtà. Tale conoscenza si ottiene in virtù della speculazione razionale praticata tramite argomenti dialettici utili a sostenere le proprie tesi o contrastare quelle dell’avversario in un dibattito. Tali argomenti sono riassunti nel Nyāyasūtra in sedici voci (padārtha) tra le quali le prime due, gli strumenti per conoscere e gli oggetti conoscibili, sono le principali in quanto riassumono l’intero quadro epistemologico del Nyāya. Il proposito soteriologico del N. è messo in discussione da importanti studiosi, come Daya Krishna, i quali sostengono che nella letteratura sanscrita l’obiettivo salvifico menzionato a inizio trattato sia più una consuetudine di rito che un vero e proprio proposito, e che comunque poco abbia a che fare con il vero contenuto del trattato.
In polemica con l’idea del Sāṅkhya che un effetto esiste in potenza già nella sua causa, il N., in sintonia con il Vaiśeṣika, propone una teoria della causalità secondo cui l’effetto non esiste fino al momento della sua attuazione e, in questo senso, concorda parzialmente con la teoria della causalità delle scuole buddiste. Si distanzia però dall’istantaneismo buddista (➔ Abhidharma) secondo il quale reali sono solo eventi istantanei, mentre per il N. esiste una continuità temporale nella realtà di ogni sostanza. Questa prospettiva realista è alla base dell’impianto epistemologico del Nyāya.
Secondo il N. una cognizione (jñāna) può essere vera o falsa e per indicare la cognizione vera viene usato un termine specifico, pramā. La cognizione vera è definita come quella «corrispondente al dato di fatto» (yathārtha). Il concetto pragmatico di efficacia, per cui, per es., la cognizione di un’anfora sarà valida se è possibile portarvi dell’acqua, viene usato in epistemologia buddista come definizione della cognizione valida mentre è rifiutato dal N. in sede definitoria, in quanto consiste in un’inferenza successiva alla cognizione e in cui interviene il fattore aggiuntivo della memoria. Tuttavia è applicato come prova della veridicità di una cognizione da alcuni autori come Jayanta Bhaṭṭa. Alla teoria Mīmāṃsā della verificazione intrinseca (svataḥ prāmāṇya, ➔ Kumārila Bhaṭṭa) il N. oppone infatti quella della verificazione estrinseca (parataḥ prāmāṇya). Una cognizione valida, in altre parole, è giudicata tale da un’inferenza che prova l’efficacia della prima cognizione. Similmente, anche una cognizione falsa è provata essere tale a posteriori. La cognizione, di per sé, non è quindi né valida né invalida e il suo valore di verità dipende da fattori esterni. La validazione estrinseca del N. si espone a critiche di regressus ad infinitum e circolarità, alle quali si risponde (così, per es., Jayanta Bhaṭṭa e Vācaspati Miśra) mostrando come non tutte le cognizioni richiedano una verifica, bensì solo quelle per le quali sorga un dubbio di validità. Il N. accetta come validi quattro strumenti gnoseologici (pramāṇa, ➔): pratyakṣa, anumāna, śabda (che nell’accezione del N. assume il significato di testimonianza verbale) e upamāna (inferenza analogica, di importanza minore). Le teorie linguistiche del N. derivano soprattutto dal contatto con l’ontologia Vaiśeṣika e dal dibattito contro la Mīmāṃsā, la quale afferma una condizione di originarietà naturale nel rapporto tra significati e significanti. Il Vaiśeṣika contrappone a quest’idea il concetto di convenzione (saṅketa) e il N. offre elaborati argomenti a favore di questa tesi. Per salvaguardare l’autorità del Veda, evitando al tempo stesso l’idea della Mīmāṃsā di un rapporto fisso tra significante e significato, il N. ritiene che i significati degli enunciati, inclusi quelli vedici, siano governati da convenzioni linguistiche create da Dio. Tali convenzioni vengono tramandate da parlanti esperti, i quali le hanno a loro volta apprese da precedenti parlanti esperti. Possibili incomprensioni e l’eventuale degrado della tradizione sono giustificabili grazie a questa trasmissione. La validità della testimonianza verbale è fondata sulla fonte autorevole (āpta) dell’enunciato, che se nel caso del Veda è Dio stesso, nel caso del linguaggio comune è un parlante che soddisfi determinati requisiti. Il N. evita così un acritico ricorso al principio di autorità grazie a un’attenta definizione delle caratteristiche della fonte autorevole.