di Gianluca Pastori
Nonostante l’ampio margine di vantaggio (332 voti presidenziali contro 206 e il 51,1% del voto popolare contro il 47,2%) che nel novembre 2012 ne ha assicurato la rielezione contro lo sfidante repubblicano Mitt Romney, il 2013 è stato un anno complesso per Barack Obama. La prevedibile ostilità della Camera dei rappresentanti (a maggioranza repubblicana), da una parte ha costretto il presidente a rivedere le sue priorità riguardo alla nomina dei responsabili di alcune posizioni chiave dell’amministrazione (ad esempio, quella al Dipartimento di stato dell’ex ambasciatore alle Nazioni Unite e ora consigliere per la sicurezza nazionale, Susan Rice), dall’altra ha obbligato i candidati a sottostare a procedure di conferma talora lunghe e travagliate, come accaduto per il nuovo segretario alla difesa, Chuck Hagel. Essa ha inoltre condizionato l’azione dell’esecutivo sia sul piano interno, sia su quello internazionale, accentuando il tratto ondivago di certe scelte ed enfatizzando il senso di incertezza dimostrato in alcune occasioni.
Per impatto mediatico e ricadute complessive, il passaggio più eclatante del confronto fra presidente e Congresso è stato, senza dubbio, il mancato accordo sul tetto del deficit federale, che fra il 1° e il 16 ottobre ha portato alla sospensione delle attività correnti dell’amministrazione pubblica. La vicenda – in parte legata alle controversie sull’applicazione della legge di riforma del sistema sanitario (Affordable Care Act, 2010) – ha rappresentato il culmine di un braccio di ferro che si prolungava da oltre tre anni, e si è chiusa definitivamente in dicembre, con la stipula del ‘Ryan-Murray Budget Deal’, dopo che un accordo transitorio (Reid-McConnell Bill) aveva permesso, il 17 ottobre, il riavvio della macchina pubblica. Gli effetti della vicenda sulle prossime elezioni di medio termine (novembre 2014) rischiano, tuttavia, di essere rilevanti e di trasformarsi in un boomerang politico soprattutto per i destini dei candidati repubblicani, percepiti da una larga fetta dell’opinione pubblica come i primi responsabili dello shutdown.
Le scelte internazionali dell’amministrazione sono state fonte di altre difficoltà. In particolare, intorno al ruolo degli Stati Uniti nella crisi siriana si è assistito – nella fasi di maggiore tensione, fra la fine di agosto e gli inizi di settembre – al delinearsi di un inedito avvicinamento fra esponenti del cosiddetto ‘interventismo umanitario’ e componenti repubblicane e neo-conservatrici favorevoli a un’azione armata in funzione anti-Assad. Agli occhi dei suoi critici, questa convergenza avrebbe messo in luce la posizione ambigua dell’amministrazione sia rispetto al problema dei futuri assetti mediorientali, sia rispetto a quello (assai sensibile per il presidente e il suo entourage) della tutela dei diritti umani. Su questo punto, sono da rilevare le prese di posizione del vicepresidente Biden (che sul tema ha spesso assunto una condotta solo in parte allineata a quella di Obama), che anche di recente ha sottolineato la necessità di un intervento deciso da parte degli Stati Uniti davanti all’uso ‘indubbio’ di armi chimiche da parte del governo di Damasco.
Anche in questo ambito, tuttavia, la prospettiva delle prossime elezioni di medio termine sembra avere contribuito a favorire un riallineamento delle posizioni. L’appuntamento elettorale, infatti, ha già avviato un processo di ‘convergenza verso il centro’ sia all’interno dello schieramento repubblicano, sia all’interno di quello democratico, di cui il già citato ‘Ryan-Murray Budget Deal’ costituisce, in larga misura, il frutto. La stessa amministrazione sembra, negli ultimi mesi, essersi adeguata a questa dinamica e – pur senza abbandonare alcuni dei tradizionali cavalli di battaglia democratici (in primo luogo la difesa del sinora problematico programma ‘Obamacare’) – avere scelto di declinare il proprio ruolo in forme più consensuali, così da intercettare, oltre ai voti del proprio bacino di riferimento, quelli ‘liberati’ dell’elettorato repubblicano moderato, preoccupato da ciò che percepisce come l’irrigidimento dogmatico del Grand Old Party e dal peso assunto, in seno a quest’ultimo, dalle frange estreme legate al movimento del Tea Party.
Le possibilità di successo di questa strategia restano da valutare. La politica ‘del bastone e della carota’ adottata nei confronti di Teheran dopo la firma a Ginevra, il 24 novembre, dell’accordo provvisorio sul nucleare iraniano potrebbe esserne parte; lo stesso vale per quello che appare il rinnovato interesse dell’amministrazione per le vicende siriane. In un caso e nell’altro, tuttavia, le scelte di Obama non sono sfuggite a critiche da parte dello stesso establishment democratico, che ra apparso profondamente diviso già all’epoca delle primarie che, nel 2009, ne avevano fatto il candidato del partito alla successione di George W. Bush. Ancora una volta, le dinamiche politiche, a Washington, sembrano dunque sfuggire a facili categorizzazioni. Ciò che sembra certo è invece il perdurare, almeno fino alla prossima prova elettorale, di una situazione di incertezza che potrà essere forse sbloccata, da una parte, dall’insediamento del nuovo Congresso, dall’altra dall’avvio della corsa che porterà, nel 2016, alle nuove elezioni presidenziali.