Abstract
L’obbligazione costituisce, più che una categoria, un vero e proprio archetipo della dottrina civilistica continentale, a differenza dei sistemi giuridici di common law, che rifiutano il concetto a causa dell’approccio - tipico di quegli ordinamenti – poco incline all’aspetto sistematico del diritto. La dottrina italiana si è da tempo interrogata a proposito dell’attualità di una categoria che fatica ad emanciparsi dalla consueta rappresentazione nei termini puramente formali di una regola generale e complessiva dei rapporti di scambio. La seguente trattazione, in coerenza con la titolazione, si propone di descrivere i caratteri fisionomici e le classificazioni dell’obbligazione, senza tralasciare i più importanti snodi della riflessione critica intorno alla categoria.
Nella dottrina civilistica l’obbligazione costituisce da sempre più che un istituto un vero e proprio archetipo giuridico. Le idee del vincolo, del rapporto giuridico sono profondamente radicate nella cultura giuridica continentale, secondo una tradizione che segna una profonda continuità con le fonti romanistiche sul piano della disciplina, dei concetti, del linguaggio. Nonostante la complessità della sua disciplina, la dottrina ha, però, spesso percepito l’istituto nei termini di una koiné astratta e indifferenziata e, probabilmente, meno stimolante rispetto alla disciplina delle sue fonti, il contratto e l’illecito. La categoria dell’obbligazione, quasi fosse gravata dal peso del suo retaggio storico, è stata, quindi, inquadrata nei termini di una vasta serie di regole ad alto tasso di astrazione, apparendo caratterizzata da staticità, neutralità o addirittura immobilismo, quando non dall’incapacità di costituire – senza il contributo determinante della disciplina delle sue fonti – una coerente disciplina del rapporto giuridico (Perlingieri P., Le obbligazioni tra vecchi e nuovi dogmi, Napoli, 1990, 14). Di avviso contrario, invece, chi ha ritenuto che la categoria generale dell’obbligazione non meriti di essere abbandonata, in quanto ancora idonea a soddisfare le esigenze proprie di un ordinamento ormai irrimediabilmente regolato per settori, ove si accompagni all’uso delle moderne tecniche ermeneutiche e ad una nuova dogmatica improntata ai valori (Mengoni L., La parte generale delle obbligazioni, in Riv. crit. dir. priv., 1984, 521; Giorgianni M., La “parte generale” delle obbligazioni a cinquant’anni dall’entrata in vigore del codice civile, in Scritti in onore di Luigi Mengoni, Milano, 1995, 542). In senso più esplicito è stato poi sostenuto che il corpus della disciplina dell’obbligazione debba essere riletto nell’ottica costituzionale al fine di pervenire ad un ‘modello sociale’ di obbligazione (Di Majo A., Delle obbligazioni in generale, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Roma-Bologna, 1988, 63). Più di recente, dopo un lungo periodo di declivio culturale, il tema dell’obbligazione ha, però, ripreso ad appassionare la dottrina e la giurisprudenza, le quali ne hanno decretato la riscoperta. Il flusso delle decisioni e degli orientamenti consente di apprezzare il tentativo di definire i nuovi contorni delle figure sintomatiche (obblighi da contatto sociale, obblighi senza prestazione, obbligazioni unisoggettive), ma la riflessione teorica si incentra, ovviamente, sull’attualità della categoria e all’opportunità di considerarla tuttora un humus concettuale capace di regolare i fenomeni sociali. Il quadro di trasformazioni che coinvolgono l’intero diritto civile europeo nel segno di un’armonizzazione che non rinunci a solide basi concettuali sembra suggerire una risposta positiva al quesito sopra enunciato e, a questo proposito, la recente previsione – a dispetto delle normative comunitarie finora emanate - di una nozione generale di obbligazione nel Draft Common of Reference (si veda il paragrafo III.-1:102, dove si definisce l'obbligazione come «duty to perform which one party to a legal relationship, the debtor, owes to another party, the creditor» e precisa altresì che «performance of an obligation is the doing by debtor of what is to be done under the obligation or the not doing by debtor of what is not to be done») cui segue un’articolata disciplina dell’istituto, pare confermare l’assunto.
Il codice civile dedica alla disciplina delle obbligazioni il quarto libro «delle obbligazioni» (articoli 1173-2059), dal contenuto assai ampio contenendo la disciplina dei contratti e dell’illecito e degli altri fatti produttivi di obbligazioni, mentre ai fini della disciplina generale dell’obbligazione rileva il gruppo di norme agli artt. 1173-1320, relativo alla disciplina «delle obbligazioni in generale». Il nostro codice non definisce l'obbligazione, ma ne indica i caratteri specifici (patrimonialità della prestazione, interesse creditorio), le vicende (adempimento, inadempimento, modi di estinzione, modificazioni soggettive) e ne regola alcune specifiche tipologie. Si può senz’altro affermare che il legislatore del 1942, pur avendo preferito, come nel codice previgente, non definire l’obbligazione, a differenza di quest’ultimo, le ha assegnato un rilievo autonomo e sistematico (Bianca C.M., Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1991, 10).
Notevoli, infatti, sono le differenze rispetto al codice del 1865 che, ispirandosi anche in questo caso al Code Napoléon, nel quale si riconduceva l’obbligazione tra i modi di acquisto della proprietà e degli altri diritti reali, non aveva previsto una disciplina unitaria delle obbligazioni, ma l’aveva collocata all’interno della disciplina del contratto. La scelta del legislatore italiano di assegnare un rilievo autonomo alla disciplina dell’obbligazione era certamente ispirata dal codice civile tedesco che era stato emanato nel 1900 (Di Majo A., Delle obbligazioni in generale, cit., 77), con il quale condivide la presenza di una disciplina relativa al diritto delle obbligazioni (espressamente definita, nel nostro codice, «in generale»), anche se non può affermarsi che vi sia stata una trasposizione del modello tedesco, rispetto al quale il codice italiano presenta sostanziali differenze (Breccia, U., Le obbligazioni, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 1991, 7). La differenza più importante rispetto al modello del BGB consiste nella mancanza di una vera e propria norma definitoria del rapporto obbligatorio alla stregua del § 241 del BGB, ma tale assenza trova, in realtà, un valido contrappunto nei numerosi riferimenti, presenti nel codice, a principi e clausole di carattere generale, legittimando la ricostruzione di una teoria generale dell’istituto, pur se essa dovrà essere allargata e arricchita da norme collocate in sedi diverse (Rescigno, P., L'obbligazione nella categoria dei doveri giuridici, in Tratt. resp. contr. Visintini,, I, Padova, 2009, 5).
Rispetto al codice previgente, inoltre, la disciplina dell’obbligazione presenta le seguenti ulteriori novità.
In primo luogo, sul piano strettamente sistematico, il nuovo codice abbandona la quadripartizione delle fonti delle obbligazioni (l’art. 1097 dell'abrogato codice indicava, infatti, come fonti dell'obbligazione, il contratto, il quasi-contratto, il delitto, il quasi-delitto e la legge) che era quasi universalmente criticata nonché abbandonata dalla maggior parte delle legislazioni europee contemporanee (la corrispondente classificazione contenuta nelle Istituzioni giustinianee, sulla quale essa sostanzialmente si modellava, costituiva un'alterazione delle classificazioni del diritto romano classico. Soprattutto artificiose venivano giustamente considerate le due figure del quasi-contratto e del quasi-delitto).
Rispetto al Codice del 1865, quindi, il legislatore ha preferito un sistema delle fonti aperto, attraverso la previsione accanto al contratto e al fatto illecito di «ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico», locuzione che non dovrebbe essere intesa in senso di mero richiamo delle altre figure normativamente previste, ma piuttosto di figure idonee a produrre obbligazioni, secondo un giudizio di merito da effettuare sulla base dei principi dell’ordinamento, anche quelli di rango costituzionale (Rescigno P., Obbligazioni (nozioni), in Enc. dir., XXIX, 1979, 151).
Inoltre, attraverso l’unificazione dei due codici di diritto privato (civile e commerciale) in un unico codice, si è prodotta la recezione dei principi dell’esperienza commercialistica nel corpo del diritto delle obbligazioni che, superando definitivamente le codificazioni illuministiche le quali si incentravano sul diritto di proprietà, pone alla base dei rapporti patrimoniali il credito. La disciplina dell’obbligazione civile, pertanto, si arricchisce di principi funzionali alla speditezza dei traffici che erano già stati codificati nell’ambito dell’obbligazione commerciale, quali la naturale produttività di interessi dal danaro (art. 1282 c.c.) e la presunzione di solidarietà passiva (art. 1294 c.c.) (Bianca C.M., Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1991, loc. cit.). Va del resto considerato che, pur nel quadro della autonomia della disciplina dell’obbligazione, nel codice vigente assume centralità la disciplina delle obbligazioni contrattuali (ad es. responsabilità per inadempimento quale responsabilità contrattuale che comprende anche le ipotesi non contrattuali).
Nel quadro della modernizzazione del vecchio impianto dell’obbligazione civile, riveste un carattere di assoluta importanza la previsione dell’'art. 1175 c.c., che introduce il criterio, inderogabile, della correttezza. La clausola generale assume una funzione di integrazione del contenuto dell’obbligazione che implica una nuova lettura dei rapporti obbligatori, aperta ai valori costituzionali e solidaristici.
Di grande importanza è, poi, la previsione della necessaria patrimonialità della prestazione, che innova rispetto al precedente regime, risolvendo così una questione assai controversa durante la vigenza del precedente codice.
Rispetto al previgente regime, inoltre, si registra più forte autonomia e maggiore importanza delle figure speciali, che vengono disciplinate in maniera molto più dettagliata.
L’assenza di una definizione generale di obbligazione nel nostro codice, più che opportuna secondo l’opinione prevalente (v., tra gli altri, Giorgianni, M., Obbligazione (diritto privato), in Nss. D.I., XI, Torino, 1965, 583; Cannata, C.A., Le obbligazioni in generale, in Tratt. Rescigno, IX, t. I, Torino, 1984, 7) venne giustificata nei lavori preparatori quale presa di distanza da complicate questioni dogmatiche a quel tempo dibattute, sicché l’art. 1174 c.c. più che offrire una definizione e le relative classificazioni si limita a delineare i caratteri del rapporto obbligatorio. Tuttavia, la norma in questione indica chiaramente la prestazione quale oggetto dell’obbligazione.
La teoria dell’obbligazione, per molti secoli, si è fondata sulle solide basi romanistiche e in particolare alle fonti gaiane che ci hanno consegnato l’idea di un vincolo non attuale in forza del quale il debitore è tenuto a un certo comportamento in favore del creditore. La dottrina si è però da sempre adoperata in sottili disquisizioni in merito all’oggetto dell’obbligazione. Punto centrale della discussione attorno alla categoria generale dell’obbligazione è quello dell’incoercibilità immediata del dovere del debitore, un comportamento doveroso eppure non passibile di coercizione diretta da parte del titolare del diritto di credito. Una risposta, che però evidenzia le difficoltà nel pervenire ad una definizione formale del concetto di obbligazione, viene proposta all'inizio del ventesimo secolo, quando, sull'onda delle tesi avanzate da Brinz nel suo Der Begriff der “obligatio” (in Grümhuts Zeitschrift für das privat-und öffentliche Recht der Gegenwart, I, 1874, 11 ss.) e successivamente sviluppate da Von Amira, gli studiosi tedeschi propugnano la scissione del concetto di obbligazione in debito e responsabilità, determinando la rottura dell’unità logica dell'obbligazione, fondata fino ad allora, secondo le teorie tradizionali sulla correlazione perfetta tra volontà del debitore e volontà del creditore, in cui l’obbligo è l'altra faccia del diritto. L’abbandono della perfetta reciprocità tra debito e credito si esprime nella constatazione che il primo sta al secondo come il mezzo sta al fine, sicché il comportamento dovuto può anche non corrispondere al risultato, che forma oggetto del diritto del creditore (Mengoni L., L’oggetto della obbligazione, in Jus, 1952, 179); ne consegue che il risultato è estraneo al debito e inerisce all’obbligazione solo nei termini più generali del rapporto giuridico. Il ‘centro di gravità’ del rapporto obbligatorio, quindi, non è più nella volontà del debitore, ma nel soddisfacimento patrimoniale, che è raggiungibile solo attraverso l’esecuzione nel processo; da qui, una rinnovata attenzione verso il diritto processuale ed i rimedi apprestati al creditore (v. in particolare, sul dibattito, Irti, N., Un dialogo tra Betti e Carnelutti (intorno alla teoria dell'obbligazione), in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2007, 1 ss.). Si tratta, quindi, di una concezione ispirata da motivazioni ideologiche tese a proporre uno schema unitario per i diritti reali e i diritti di credito, che sono state fondate anche su determinati istituti normativi invocati a sostegno della tesi dell’indifferenza sistematica della condotta del debitore (l’adempimento del terzo ex art. 1180 c.c.; l’esecuzione forzata in forma specifica ex art. 2930 c.c., l’adempimento al creditore apparente ex art. 1189 c.c., l’offerta reale ex art. 1210 c.c.) e di una nozione dell’obbligazione costruita attorno al bene dedotto nel rapporto obbligatorio.
Le diverse concezioni qui brevemente riassunte possono portare a differenti esiti in merito alla natura dei più importanti istituti del diritto delle obbligazioni (distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, nozione di obbligazione naturale, concezione dell’adempimento). La teoria della scissione tra debito e responsabilità si è poi evoluta e ramificata in ulteriori costruzioni: dalla basilare constatazione che il debito non si riduce al mero dovere di eseguire la prestazione ma comprende anche la responsabilità per l’inadempimento, si sono dipanate le figure del debito senza responsabilità (che vede il proprio topos nell’obbligazione naturale) e della responsabilità senza debito (configurata nella fideiussione, nel pegno, nell’ipoteca per crediti condizionati o futuri, nell’assicurazione della responsabilità civile). Tali esiti possono considerarsi attualmente superati dalla moderna dottrina sulla base di argomentazioni sostanziali (un debito non coercibile e quindi senza responsabilità è una situazione che si colloca al di fuori del rapporto giuridico: Moscati, E., La disciplina generale delle obbligazioni - Corso di diritto civile, in Mazzamuto, S. – Moscati, E., diretto da, La didattica del diritto civile, Torino, 2012, 15) e richiami normativi condivisibili (ad esempio, gli artt. 2759 e 2570 c.c. che consentono al terzo datore di pegno e al terzo datore di ipoteca di formulare le eccezioni spettanti al debitore), nonché per il loro carattere più che altro astratto e di poca rilevanza pratica (v. per una summa, Sicchiero, G., La responsabilità patrimoniale, in Tratt. dir. civ. Sacco, 2011, 15 ss.). Dominante, comunque, nella moderna dottrina italiana, è la linea di pensiero tradizionale che rifiuta le concezioni ‘patrimoniali’ e considera speculari il debito e il credito (in questo senso, vedi, tra gli altri, Rescigno, P., Obbligazioni (nozioni), cit., 182 ss. e, più di recente, Bianca, C.M., L'obbligazione nelle prospettive di codificazione europea e di riforma del codice civile, in Riv. dir. civ., 2006, 62 ss.), prospettiva che, sul versante delle teorie personali, può accreditarsi anche in forza della lettera dell’art. 1218 c.c. e della collocazione topografica dell’art. 2740 c.c. all’esterno della disciplina delle obbligazioni. La tesi personalistica è stata, poi, di recente riproposta attraverso la rilettura, in chiave di teoria generale, del diritto di credito quale diritto alla prestazione del debitore (Ferrajoli, L., Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, 1. Teoria del diritto, Roma-Bari, 2007, 637) escludendo così il risultato dall’oggetto del credito; ma v. per una critica, Piraino F., Il pagamento al creditore apparente nella prospettiva di un diritto europeo dell’obbligazione, in Europa e dir. priv., 2009, 275 ss.). In generale, si tende ad affermare che la responsabilità sia estranea all’obbligazione, pur essendo ad essa intimamente collegata. Riecheggia la tesi tradizionale anche la stessa nozione di prestazione che emerge dal Draft Common of Reference al paragrafo III-1:102 (Definitions), («performance of an obligation is the doing by debtor of what is to be done under the obligation or the not doing by debtor of what is not to be done») che si incentra chiaramente sulla condotta del debitore. Tuttavia, non può negarsi il valore della tesi che include la responsabilità all’interno della struttura dell’obbligazione: tale valore è innanzi tutto di carattere storico-funzionale nei termini in cui ha consentito di conferire concretezza e vitalità alla categoria dell’obbligazione, spostando l’interesse dei giuristi dal piano astratto a quello più concreto dei rimedi. Inoltre va apprezzata la presa di coscienza dei limiti di una disciplina che, in quanto strettamente legata all’astratto strutturalismo propugnato dalle tesi tradizionali, si dimostra inadeguata a tutelare il creditore. Il risultato è la tendenza della prassi, e anche di dottrina e giurisprudenza, a privilegiare schemi rimediali assai più vicini a quelli propri dei diritti reali, nel segno di un superamento della sempre meno incisiva tutela risarcitoria (sul punto, v. Rescigno P., Obbligazioni (nozioni), cit., 185 ss. e, ancora più analitico, Giorgianni M., La “parte generale” delle obbligazioni cit., 552 ss.).
L’art. 1174 c.c. fa riferimento a due caratteri fisionomici dell’obbligazione: la patrimonialità e l’interesse del creditore. La prestazione deve essere, in primo luogo, «suscettibile di valutazione economica», secondo una definizione che costituisce una novità rispetto al codice abrogato e che è evidentemente legata al danaro. Notevoli sono le difficoltà incontrate dalla dottrina nell’individuazione del significato del cd. carattere patrimoniale della prestazione, anche al fine di distinguere i vincoli giuridici da quelli aventi rilevanza puramente sociale e, in particolare, dalle c.d. prestazioni di cortesia. In merito, si sono fronteggiate una tesi oggettiva, secondo la quale il valore di scambio deve essere oggettivamente accertabile (tra gli altri Giorgianni, M., Obbligazione (diritto privato), cit., 585) e una tesi soggettiva, che considera decisiva, a tale proposito, la volontà delle parti. In questo secondo senso, ricavabile anche dalla Relazione al Re, nella quale si faceva espresso riferimento alla clausola penale quale esempio di valutazione soggettiva del valore patrimoniale, si è espressa soprattutto l’opinione tradizionale della giurisprudenza (Cass., 9.3.1971 n. 649, in Riv. it. prev. soc., 1972, 462; Cass. 10.4.1964, n. 833, in Giust. Civ., 1964, I, 1604), indirizzo che ha avuto un nuovo impulso sia in tempi più recenti in parallelo al riconoscimento della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento (Cass., S.U., 11.11.2008, n. 26972, in Dir. Giust., 2008) e più in generale dell’apertura verso la tutela di interessi non patrimoniali. A sostegno della tesi oggettiva è stato paventato il pericolo di commistioni con il requisito dell’interesse del creditore (Cannata, C.A., Le obbligazioni in generale, cit., 12) ed è stata invocata la scelta normativa di regolamentare la novazione oggettiva prevedendo un meccanismo estintivo-costitutivo nel caso di modificazione dell’oggetto o del titolo dell’obbligazione (Moscati E., La disciplina generale delle obbligazioni, cit., 51). Prevale, comunque, l’indirizzo sostanzialmente svalutativo rispetto al carattere della patrimonialità (v. Cian, G., Interesse del creditore e patrimonialità della prestazione, in Riv. Dir. Civ., 1968, I, 197 ss.). In particolare, sono state plausibilmente rigettate le tesi più rigorose che individuano nella patrimonialità un elemento costitutivo della giuridicità dell’obbligo. Il carattere patrimoniale non può, infatti, essere inteso quale divieto, ma più esattamente quale criterio delimitativo l’obbligazione; in particolare, sono state superate sia la tesi che considera il carattere patrimoniale quale condizione per la sanzionabilità attraverso il risarcimento del danno, sia l’altra tesi secondo la quale esso costituirebbe un limite all’autonomia privata. Nel primo caso, si osserva che il valore della prestazione e il danno risarcibile sono entità diverse, potendosi configurare un risarcimento anche nel caso di inadempimento ad un obbligo a contenuto non patrimoniale, quale l’inosservanza agli obblighi genitoriali (Bianca, C.M., Diritto civile, IV, L’obbligazione cit., 82); nel secondo caso, è evidente che l’autonomia privata si possa esplicare anche in assenza di contenuti propriamente economici, conferendo carattere di vincolatività a contenuti non economici purché meritevoli.
Ulteriore elemento fisionomico dell’obbligazione è l’interesse del creditore che, a norma dell’art. 1174 c.c., può anche non essere patrimoniale. L'interesse del creditore a conseguire la prestazione può, quindi, anche essere scientifico, culturale, umanitario, ideale, religioso, purché serio, socialmente apprezzabile e, in quanto tale, meritevole di tutela giuridica. L'orientamento dominante ritiene che detto interesse sia elemento costitutivo del rapporto, sia per la lettera dell’art. 1174 c.c. (che recita: «la prestazione deve corrispondere ad un interesse del creditore»), sia sulla base dei principi generali dell’ordinamento giuridico e, in particolare, quello della necessaria correlazione dei diritti soggettivi alla tutela di uno specifico preciso interesse (Giorgianni, M., Obbligazione (diritto privato), cit., 587; Rescigno P., Obbligazioni (nozioni), cit., 195). L'interesse del creditore deve risultare dal titolo e, quindi, essere conosciuto anche dal debitore. Peraltro, tale interesse rileva quale criterio di valutazione della prestazione eseguita, al fine di reputarla o meno satisfattoria, anche se non esattamente conforme a quanto pattuito e costituisce, ai sensi dell’art. 1455 c.c., un parametro di riferimento per accertare la gravità dell'inadempimento. La citata opinione ritiene, anzi, che la permanenza dell’interesse del creditore sia una condizione necessaria per la vita dell’obbligazione, traendo la conseguenza che il suo venir meno conduca all’estinzione del rapporto.
Di avviso parzialmente diverso chi, invece, ritiene che l’interesse del creditore sia, invece, apprezzabile più che altro ai fini della validità della fonte del rapporto obbligatorio e, soprattutto, del contratto, sulla base del criterio dell’interesse meritevole di tutela ex art. 1322 c.c. (Galgano F., Trattato di diritto civile, II, Padova, 2010, 8; Cian, G., Interesse del creditore e patrimonialità della prestazione, cit., 221). In effetti, che la persistenza del rapporto debba essere valutata alla stregua dell’assetto contrattuale e, specificamente, della causa concreta del contratto, è affermato a chiare lettere anche dalla giurisprudenza che ha fatto riferimento al concetto di inutilizzabilità della prestazione da parte del creditore. Tale concetto va distinto da quello dell’impossibilità sopravvenuta ex art. 1268 c.c., eppure costituisce causa autonoma di estinzione dell’obbligazione (in particolare, si vedano le sentenze in materia di contratti di viaggio ‘tutto compreso’, nelle quali l’estinzione è stata dichiarata a causa di eventi sopravvenuti alla stipula del contratto, quali l’imperversare di un’epidemia nel luogo prescelto per le vacanze: Cass., 24.7.2007, n. 16315).
In definitiva, sembra difficile attribuire una concreta funzione ai requisiti della patrimonialità e dell’interesse creditorio, certamente essi non sono di aiuto nel distinguere i vincoli giuridici da quelli meramente sociali, se è vero che, anche alla luce dell’ambiguità delle nozioni, la soluzione di questi problemi viene demandata alla disciplina del contratto, sul piano dell’esistenza dell’accordo e della valutazione della causa concreta.
L’art. 1174 c.c. non prevede altri requisiti legali oltre alla patrimonialità e all’interesse creditorio e quindi la dottrina ha ritenuto generalmente di includere tra i caratteri fisionomici dell’obbligazione anche la possibilità, la liceità e la determinatezza o determinabilità, che coincidono, sostanzialmente, con i medesimi requisiti previsti dall’art 1346 c.c. per l’oggetto del contratto. In sintesi, quindi, la prestazione è possibile se il risultato cui essa mira è oggettivamente e astrattamente suscettibile di realizzazione materiale e giuridica; è lecita se si traduce nell’imposizione di un obbligo non vietato dal legislatore o comunque non in contrasto con le norme imperative, l’ordine pubblico, il buon costume; è determinata quando sono specificate le sue caratteristiche qualitative e quantitative ma, al fine di scongiurare la nullità dell’obbligazione, è sufficiente che essa sia determinabile, laddove siano fissati i criteri che ne consentano la determinazione (es. il rinvio al terzo arbitratore ex art. 1349 c.c.). La necessità di ricorrere all’art. 1346 c.c. per individuare i tratti strutturali dell’obbligazione è pacifica e, anzi, può accreditarsi sulla base della tradizionale identificazione dell’oggetto contrattuale con la nozione di prestazione, in coerenza con le precedenti sistemazioni del codice del 1865 (art. 1116) e del Code Civil (artt. 1108 e 1126) (Messineo, F., Contratto (teoria generale), in Enc. dir., IX, Milano, 1961, 836). Eppure non può certamente ritenersi altrettanto pacifica una concezione dell’oggetto della prestazione, soprattutto ove si tenga conto dell’estrema incertezza legata alla definizione dell’art. 1346 c.c. e del processo di dematerializzazione concettuale della nozione che ha portato a identificare l’oggetto in una rappresentazione programmatica del bene o addirittura del risultato negoziale (parla di una materia lontana da una sistemazione dogmatica soddisfacente, Moscati, E., La disciplina generale delle obbligazioni, cit., 47).
Secondo il comune insegnamento, le obbligazioni possono essere classificate secondo due distinti criteri: quello soggettivo, che attiene alle parti del rapporto obbligatorio, e quello oggettivo, che si riferisce all’oggetto della prestazione. Alcune di queste classificazioni sono di derivazione dottrinale e in particolare hanno tratto ispirazione dalla teoria dei beni al fine di distinguere l’obbligazione da un punto di vista oggettivo (obbligazioni generiche e specifiche, obbligazioni fungibili e infungibili). In altri casi, come nelle obbligazioni pecuniarie, alternative, divisibili e indivisibili, è stato lo stesso legislatore a conferire dignità di diritto positivo alle classificazioni dottrinarie (Moscati, E., La disciplina generale delle obbligazioni, cit., 82).
In primo luogo, da un punto di vista oggettivo, la prestazione può essere positiva o negativa a seconda che consista, secondo una classificazione tradizionale del diritto romano, in un dare o in un fare oppure in un non fare. Viene ritenuta inutilizzabile, invece, la categoria del prestare in quanto anche le prestazioni derivanti dai contratti di assunzione della garanzia si risolvono in un dare o, eventualmente in un facere. Mentre il dare ha ad oggetto la consegna di una cosa (che sia o meno funzionale al trasferimento della proprietà o di altro diritto reale), l’obbligazione di fare ha per oggetto il compimento di un’attività materiale che può essere a sua volta distinta in fungibile o infungibile a seconda che risulti o meno indifferente la figura soggettiva di colui che provvederà materialmente a porre in essere la condotta adempitiva (prestazione fungibile è, per esempio, quella consistente nell’esecuzione di lavori di restauro di un mobile; prestazione infungibile quella relativa all’esibizione di un famoso cantante). A tale proposito, va rilevato che, a seguito dell’entrata in vigore della riforma del c.p.c. di cui alla l. 18.6.2009, n. 69, è stato introdotto nell’ordinamento italiano (art. 614 bis c.p.c.) uno strumento di tutela del creditore di valenza coercitiva (seppure non sfociante nell’esecuzione diretta dell’obbligo) consistente nella condanna del debitore a pagare una somma di danaro per ogni violazione o inosservanza, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento.
Strettamente connessa alle obbligazioni di fare è la distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, originariamente elaborata in Francia, che si riverbera sul piano della responsabilità, trovando applicazione nel primo caso, la regola della responsabilità per colpa e, nel secondo caso, la regola della responsabilità oggettiva. Ciò a seconda che, nella prestazione, rilevi esclusivamente la condotta del debitore o invece, l'ottenimento di un determinato risultato pratico, il cui mancato raggiungimento implichi, di per sé, un inadempimento imputabile. Nella dottrina e giurisprudenza domestiche, il criterio è stato reputato spesso artificioso e utile più che altro a fini classificatori (Mengoni, L., Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi» (Studio critico), in Riv. dir. comm., 1954, 185), mentre non sarebbe fondata su basi solide la tesi di una disciplina della responsabilità contrattuale alternativa a quella sancita dall’art. 1176 c.c., che prevede il criterio della diligenza adempitiva, il quale si dovrebbe applicare a tutte le tipologie di obbligazioni, salvo un diverso rilievo dell'onere probatorio (Cass. 13.4.2007, n. 8826, in Giust. Civ. Mass., 2007, 7; Cass, S.U., 28.7.2005 n. 15781, in Eur. Dir. Priv., 2006, 2, 781). In particolare, le Sezioni Unite hanno puntualizzato che la distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato «non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d’opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni», secondo una tendenza a riequilibrare la relazione tra professionista e cliente nell’ottica di una tutela degli interessi di quest’ultimo (così come è in atto da qualche decennio nel settore della responsabilità medica).
Le obbligazioni generiche, legislativamente riconosciute all’art. 1178 c.c., vengono contrapposte alle obbligazioni specifiche, entrambe riferibili alla categoria delle obbligazioni di dare, e hanno per oggetto beni individuati solo per la loro appartenenza ad un genere e quantitativamente determinati in ragione di una particolare unità di misura (numero, peso o quantità), mentre nelle obbligazioni specifiche l’oggetto della prestazione è ben determinato. La peculiare natura delle obbligazioni generiche comporta l’applicazione di modalità particolari del trasferimento della proprietà, legata all’individuazione dei beni e del principio della cd. qualità media. L’art. 1178 c.c., infatti, prevede che, nel caso di obbligazione generica, il debitore debba prestare cose di qualità non inferiore alla media: si tratta di un criterio di equilibrio di carattere suppletivo, che generalmente viene derogato dalle parti ed è sostanzialmente svalutato dalla giurisprudenza, la quale tende ad escluderne l’applicazione nel caso in cui le parti pattuiscano qualità specifiche delle cose generiche (Cass. 11.5.1995, n. 9862, in Obbl. Contr., 2006, 593 ss.) e nel caso di obblighi restitutori di cose generiche diverse dal danaro (nelle quali si applica il principio cardine previsto dall’art. 1813 c.c. per il contratto di mutuo che fa riferimento all’obbligo di restituire cose della stessa specie e qualità) (Cass., 23.8.2011, n. 17512 in Giust. civ. Mass. 2011, 1243. Molto spesso, nelle trattazioni dottrinarie, le obbligazioni generiche vengono identificate con le obbligazioni fungibili, anche se la fungibilità non concerne il carattere dell’individuazione ma piuttosto la loro sostituibilità con altri beni; in questo senso solo la fungibilità costituisce un carattere oggettivo dell’obbligazione, mentre la genericità dipende dalla valutazione che del bene fanno le parti.
Le obbligazioni pecuniarie sono regolate dagli artt. 1277-1284 del nostro c.c., che, attraverso una disciplina analitica, ha riconosciuto la centralità e la specificità del fenomeno monetario. Il riconoscimento del principio nominalistico, di cui all’art. 1277 c.c., può essere letto alla stregua di un sostanziale favor debitoris, rispetto al quale, in considerazione delle fluttuazioni del potere di acquisto della moneta, è invalsa la prassi derogatoria del prevedere le clausole più disparate a tutela del valore della prestazione (clausole oro, clausole di indicizzazione etc.). Si è manifestata, poi, la tendenza della giurisprudenza a riconoscere spazi di manovra assai più ampi di deroga al principio, attraverso la distinzione tra debiti di valuta e debiti di valore, laddove i primi rappresentano le obbligazioni aventi fin dall’origine ad oggetto una somma di denaro e i secondi si riferiscono alle obbligazioni in cui l’oggetto diretto e originario della prestazione è una cosa diversa dal denaro. Da qui il potere-dovere del giudice di rivalutare d’ufficio e in via presuntiva il credito senza che sia data la prova della svalutazione monetaria e del suo ammontare né con riferimento alla categoria economica di appartenenza (così Cass, S.U., 16.7.2008, n. 19499 in Foro it., 2008, I, 2786). La giurisprudenza e la dottrina hanno successivamente privilegiato un’impostazione funzionale della categoria del debito di valore, che viene letto nell’ottica di una tecnica di liquidazione del risarcimento del danno, quale soluzione equitativa di un conflitto di interessi (Di Majo, A., Delle obbligazioni in generale, cit., 264). L’altro principio fondamentale della categoria delle obbligazioni pecuniarie è quello della naturale fecondità del denaro, in base al quale decorrono, ai sensi dell’art. 1282 c.c., gli interessi di pieno diritto su tutti i debiti pecuniari liquidi ed esigibili, con le sole eccezioni previste dalla legge; ciò in forza del vantaggio conseguito dal soggetto obbligato al pagamento per la liquidità monetaria. Posti la disciplina e gli interessi alla base della categoria delle obbligazioni pecuniarie, è chiara la distinzione rispetto alle obbligazioni generiche, con le quali hanno in comune taluni aspetti: nelle prime, l’interesse del creditore è quello di conseguire una certa quantità di cose dello stesso genere, nelle seconde, invece, quello di acquisire la disponibilità del valore monetario che quelle cose (rectius i pezzi monetari) rappresentano (Bianca, C.M., Diritto civile, IV, L’obbligazione, cit. , 144).
Come nelle obbligazioni generiche, anche nell’obbligazione alternativa (artt. 1285-1291 c.c.) l’oggetto è parzialmente indeterminato e occorre una ulteriore attività per identificare la prestazione esigibile. Nell’obbligazione alternativa, però, non c’è una massa di beni da identificare, bensì alcuni beni (o prestazioni) ciascuno determinato nella propria individualità specifica, per cui l’esito sarà la scelta da parte del debitore tra uno dei beni dedotti in obbligazione, che potrà essere indifferentemente prestato al fine di adempiere. Sul piano disciplinare sono chiare le differenze di regolamento: in primo luogo l’inapplicabilità del criterio della qualità media ex art. 1178 c.c. e, soprattutto, la possibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligazione alternativa. Inoltre, va anche considerata la particolare rilevanza, nell’obbligazione alternativa, dell’impossibilità sopravvenuta di una delle prestazioni rispetto al vincolo (che in tal caso non si estingue ma si trasforma in obbligazione semplice), la quale viene esclusa completamente nel caso di obbligazione generica. La figura è funzionale, nell’attuale economia degli scambi, all’amministrazione di situazioni di incertezza che, nella contrattazione standard in particolare, vengono risolte attraverso l’incremento delle possibilità di scelta di compratori/fruitori e venditori/fornitori di beni e servizi. Del resto è pacifico che la facoltà di scelta possa essere deferita anche al creditore o addirittura a un terzo. L’obbligazione quindi si configura facilmente nell’ambito dei rapporti di durata, come ad esempio la somministrazione di beni e servizi.
L’obbligazione alternativa deve essere distinta dall’obbligazione facoltativa nella quale viene dedotta in obbligazione una sola obbligazione, e il debitore può liberarsi eseguendo una prestazione diversa che dovrà essere comunque determinata o determinabile al momento del sorgere del vincolo ai sensi dell’art. 1346 c.c. (Rubino, D., Obbligazioni alternative, Obbligazioni solidali, Obbligazioni divisibili e indivisibili, in Comm. c.c. Scialoja- Branca, Roma-Bologna, 1968, 71).
Si usa distinguere, sempre dal punto di vista dell’oggetto della prestazione, le obbligazioni in divisibili e indivisibili (v. artt. 1314-1320 c.c.). Tale distinzione è rilevante solo nell’ambito dei rapporti soggettivamente complessi. L’obbligazione è divisibile quando la prestazione è suscettibile di essere adempiuta parzialmente senza perdere rilevanza economica. L’obbligazione indivisibile, invece, secondo l’art. 1316 c.c., è tale quando non è suscettibile di divisione per sua natura o per il modo in cui è stato considerato dalle parti contraenti. Sul piano strettamente giuridico, la prestazione divisibile non è di per sé sufficiente all’adempimento parziale, occorrendo sempre il consenso del creditore; nel caso di obbligazione indivisibile, l’adempimento parziale non è possibile per definizione. In caso di obbligazione indivisibile, ai sensi dell’art. 1317 c.c., questa viene regolata dalle norme relative alle obbligazioni solidali (1292 ss. c.c.), in quanto applicabili.
Da un punto di vista soggettivo, infine, si distinguono le obbligazioni solidali e le obbligazioni parziarie. L’art. 1292 c.c. identifica l'obbligazione solidale con l’esistenza di più soggetti obbligati alla medesima prestazione, in modo tale che l’adempimento dell’uno libera gli altri. Tale solidarietà permane anche quando i titoli della responsabilità facenti capo ai coobbligati siano diversi (per esempio uno di natura contrattuale e l’altro di natura extracontrattuale e viene presunta (art. 1294 c.c.) nel caso di pluralità di debitori. In questo caso, il legislatore ha effettuato una precisa scelta politica (Moscati, E., La disciplina generale delle obbligazioni, cit., 147), tutelando gli interessi del creditore e rafforzando il diritto di quest’ultimo, consentendogli di ottenere l'adempimento dell’intera obbligazione da uno qualsiasi dei condebitori, senza alcuna influenza nei rapporti interni tra condebitori solidali, fra i quali l’obbligazione si divide secondo quanto risulta dal titolo o, in mancanza, in parti uguali. La solidarietà attiva, invece, non si presume nemmeno in caso di identità del bene o della prestazione ma deve risultare espressamente dalla legge o dal titolo.
Artt. 1173-1174 c.c.; paragrafo III.-1:102 Draft Common of Reference (Dcfr)
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