Obbligo politico
Qualunque forma storica di convivenza politica sembra potersi costituire solo in forza di un originario 'legame' fra tutti coloro che sono membri a pieno titolo di una simile convivenza. È infatti un tale legame, o 'vincolo' condiviso, a rendere possibile che la semplice coesistenza di individui in grado (almeno) di comunicare vicendevolmente si trasformi in una 'sintesi politica' organizzata in modo stabile, nella quale una maggioranza 'si obbliga' a obbedire nei confronti di una minoranza più o meno ristretta, e in cui quest'ultima esercita un potere di comando riconoscibile (e più o meno intensamente riconosciuto) come atto di autorità.In quanto momento genetico di una convivenza politica, e quale fonte essenziale ed esclusiva della legittimazione della sintesi politica, il tema dell'obbligo/obbligazione è venuto a occupare un posto fondamentale in ogni discorso politico della cosiddetta 'modernità'. Dopo un lungo e aspro itinerario concettuale, che trova il suo compimento soltanto ad opera del moderno giusnaturalismo, la questione generale dell'obbedienza all'autorità si specifica nei termini, destinati a restare sostanzialmente inalterati fino ai nostri giorni, del 'perché' e 'fino a quando' gli individui si sentono - si devono sentire - 'moralmente' obbligati a prestare obbedienza al potere dello Stato. Non tanto e non solo attraverso l'impiego diretto del termine 'obbligo', quanto piuttosto per mezzo del richiamo a nozioni - caso esemplare è quello del 'contratto' - che appartengono alla stessa famiglia del concetto di obligatio, la moderna specificazione della generale questione dell'obbedienza viene così a collocarsi nel cuore stesso dell'organizzazione statale della politica: al centro cioè della legittimità dello Stato quale forma 'suprema' della convivenza politica, ma anche alla base dei quotidiani processi con cui le istituzioni statali producono/distribuiscono decisioni collettive e vincolanti.
Giunge in tal modo a conclusione quel processo per cui 'obbligo/obbligazione' (giusta l'interscambiabilità di significati su cui subito ci soffermeremo) alla sua antica e specifica accezione 'giuridica' affianca, spesso antagonizzando e poi cercando di comporre il più pacificamente possibile l'una rispetto all'altra, un'accezione che pretende di essere esclusivamente 'politica' e un'accezione che si vuole costitutivamente 'morale'.
Può darsi però che non sia per semplice coincidenza se il tema dell'obbligo politico, confinato dalle scienze sociali nel campo della filosofia politica o morale, torni oggi a lanciare la sua sfida maggiore proprio nel momento in cui più acuta diventa la percezione che, sfuggendo ormai la politica e la società a una 'tematizzazione' convincente da parte delle discipline sociologiche e politologiche, gli stessi 'oggetti' tradizionali dell'analisi di queste discipline si stiano non solo frammentando, ma persino ritraendo dal campo delle scienze sociali contemporanee e della scienza politica in particolare.Il problema dell'obbligo/obbligazione non è riuscito a intercettare, in questo nostro secolo, gli sforzi - che pur ci sono stati, e rilevantissimi - di costruire una tipologia delle aggregazioni umane. Sarebbe ora ingenuo, anche se in non piccola parte corretto, interpretare il ritorno alla riflessione sull'obbligo politico e sui rapporti di quest'ultimo con l'obbligo morale oltre che con quello giuridico, soltanto come l'effetto anch'esso della fase ultima della moderna organizzazione del potere (o quantomeno, e più realisticamente, come conseguenza dell'inettitudine delle istituzioni statali ad assicurare persino quelle 'prestazioni' il cui corrispettivo ha sostituito la 'civica virtù'): quasi che dal richiamo al 'principio' potesse sortire, anche in questo caso, un'insperata e rinnovata vitalità per le tradizionali rappresentazioni moderne della legittimità. Quel che oggi dovrebbe riaccendere l'interesse per l'obbligo politico è invece la nostra crescente incapacità di comprendere quali siano, nella pluralità dei vincoli ancora pigramente qualificati come 'pubblici' e 'privati', quelli genuinamente politici, e di spiegare se, tra la multiformità del vincolo di 'obbligo', sia ancora individuabile una qualche (non arcaica) unitarietà.
La formula 'obbligo politico' comincia a venir impiegata con frequenza soltanto in tempi recenti e in un ben delimitato contesto linguistico-culturale, risalente al dibattito che verso la fine del secolo scorso viene aperto in Inghilterra dalle tesi di T.H. Green. Benché non venga quasi mai rilevato in forma esplicita (come eccezione v. Power, 1970, p. 35, nota), è assai verosimile che proprio Green sia stato fra i primi a usare l'espressione political obligation, e che alla pur controversa influenza esercitata dalla sua dottrina sul pensiero filosofico inglese si debba l'ampia e pressoché immediata diffusione che la nuova formula ha avuto.
L'originalità dell'espressione consisteva nel proporre un significato di obligation dichiaratamente 'giuspubblicistico', così contravvenendo (in modo talmente esibito da far suonare persino stridente l'accostamento tra il nome, obligation, e il suo aggettivo qualificativo, political) all'uso proprio, 'giusprivatistico', della tradizionale nozione di obligatio.
Da questo particolare punto di osservazione (che pure, nella nostra ricostruzione storico-analitica, occorrerà al momento opportuno abbandonare) non è per nulla fortuito che obbligo/obbligazione - in quanto qualificabile anche in una specifica accezione propriamente 'politica' - si affermi in un contesto dottrinale e di concreta organizzazione dei poteri quale quello inglese, al cui interno la netta separazione di origine romanistica tra diritto privato e diritto pubblico non ha mai attecchito del tutto. D'altronde, com'è stato giustamente osservato, "la parola obligation anche in inglese porta ancora qualche pallida traccia della sua derivazione dall'obligatio romanistica concepita come un vinculum iuris fra determinate persone. Così essa è ancora più naturalmente usata, come la parola italiana 'obbligazione' (distinta da obbligo), per indicare un correlato di un diritto patrimoniale in personam" (v. Hart, 1966, p. 128).
La nozione di obbligazione, proprio a partire dal complesso svolgimento storico dell'istituto civilistico delle obligationes (svolgimento che, seppur per grandi linee, verrà ripercorso nel § 3), occupa un posto del tutto peculiare all'interno di ciò che, più in generale, s'intende con l'idea di obbligo in senso prettamente giuridico. Già qui si ha un primo, elementare motivo per distinguere sul piano terminologico tra 'obbligo' e 'obbligazione', in quanto quest'ultimo termine designa sin dall'origine un vincolo 'personale' e poi 'patrimoniale', il quale risulta comunque estraneo ad altri tipi di vincoli stricto sensu giuridici, quali ad esempio l'obbligo dell'erede fiduciario di accettare l'eredità, o quello di non ledere l'altrui proprietà (v. Marchi, 1916, p. 59; v. Biondi, 1965², p. 346).
Poiché, in ogni caso, la condotta dell'obligatus deve invariabilmente risolversi in una prestazione pecuniaria, si è subito ricondotti alla necessità di separare la figura civilistica dell'obbligazione da tutti gli altri tipi di 'obbligo' giuridico, i quali non contemplino a loro volta "una prestazione suscettibile di valutazione economica" (v. Cesarini Sforza, 1963, p. 431). Insomma, l'istituto civilistico delle obbligazioni è solo una parte, sia pure di grandissimo rilievo, in quel cosmo di fattispecie giuridiche che ricade sotto il problema dell'obbligo giuridico.Nella prospettiva di un'analisi almeno inizialmente guidata secondo i criteri metodologici della 'storia dei concetti', sembra pertanto preferibile optare a favore del termine 'obbligo', pur con qualche riserva (che si verrà sciogliendo nel corso dell'esposizione) e pur con l'avvertenza che una simile scelta rovescia la predilezione per l'altro termine, predilezione comunissima qui in Italia - e quasi inconsapevolmente automatica, non solo in virtù della maggior forza originaria ed evocativa dell'inglese political obligation - tra i cultori di teoria politica, i filosofi della politica, e i purtroppo sempre più sparuti esponenti della scienza della politica o delle scienze sociali i quali non si ritraggano diffidenti o intimoriti di fronte alla necessità di precisare 'oggetto' e 'struttura' specifici del legame politico.
Ciò che risulta pacifico in sede teorica, al di là della pratica giurisprudenziale, è che l'obbligo attiene alla sfera del 'dovere'. Tuttavia, una volta fornito questo chiarimento, subito si ricade in un dedalo di prospettive dal quale appare ben difficile conseguire una visione d'insieme, ancorché provvisoria e revocabile in dubbio alla prova dei fatti. Corretta e feconda diventa allora, quale linea di partenza per rispondere all'interrogativo, la formulazione stilata da Natalino Irti: "Il vocabolo 'dovere' - in cui si vogliono ricondurre le specie dell'onere e dell'obbligo - è venato da profonda ambiguità. L'obbligo è dovere dal punto di vista giuridico, ossia delle valutazioni normative che isolano e connotano singoli contegni umani; l'onere è dovere dal punto di vista sociale, ossia dell'autonomia privata che, prima spontanea e libera, si piega poi alla diversa logica del diritto" (v. Irti, 1972, p. 93).
Il diritto dunque provvede a configurare con modalità tipiche, e così a rendere 'prevedibili', determinati comportamenti umani che dal punto di vista sociale potrebbero estrinsecarsi in una gamma pressoché infinita di modi e forme, mai comunque esaustivamente prefigurabili dal punto di vista giuridico. L''onere' - che non stabilisce un vero e proprio obbligo, se non quello di tenere un certo contegno in vista del soddisfacimento di un proprio diritto - fa breccia nell'impalcatura giuridica, dal momento che esso tende a reinserire entro gli schemi normativi la molteplicità dei piani dei quali è investita (e di cui consiste) l'autonomia della sfera economica e sociale. La confusione che ne deriva non sta pertanto nel tentativo di allargare le maglie degli schemi normativi in aderenza al mutamento dei costumi e delle aspettative sociali, quanto nel sovrapporre due profili eterogenei attinenti alla sfera del 'dovere'.
Assai significativamente, proprio Alessandro Passerin d'Entrèves - lo studioso che più di ogni altro ha contribuito a portare in Italia nozione e concezioni anglosassoni della political obligation, e da cui poi Gianfranco Miglio, suo discepolo e successore nell'insegnamento universitario, prenderà in prestito la formula al fine di poter meglio fissare l'autonomia, la specificità e anche il primato dei fenomeni politici rispetto a quelli economici, giuridici, sociali - proprio Alessandro Passerin d'Entrèves non ha mai smesso d'intrattenere un serrato dialogo con coloro i quali avevano considerato il medesimo problema dal punto di vista sia giuridico sia morale. Dalla zona d'intersezione e di sovrapposizione fra le due visuali si doveva infatti dedurre, secondo Passerin d'Entrèves (v., 1928, 1966 e 1967), quel tertium quid identificato appunto con la locuzione 'obbligo politico' o (anche in questo autore è infatti presente un impiego oscillante tra i due termini) con quella di 'obbligazione politica'.
Per parte sua e prima ancora di mutuare lo schmittiano 'criterio' dell'amicus-hostis, Miglio edifica l'intera analisi e la teoria dei fenomeni politici sulla distinzione-contrapposizione tra 'obbligazione politica' e 'contratto-scambio' (formula, quest'ultima, che nell'elaborazione migliana giunge alla fine a sostituire significativamente quelle di 'obbligazione privata' e di 'obbligazione-contratto'). In tale distinzione-contrapposizione confluiscono, e però reinterpretate e spesso modificate radicalmente, le classiche dicotomie tra Stato e società, status e contratto, comunità e società.
Originariamente paritetici, i due ambiti di rapporti umani indicati dall''obbligazione politica' e dal 'contratto-scambio' manifestano un antagonismo irriducibile. Dalla loro alterna e mai simmetrica oscillazione dipendono tutte le grandi trasformazioni dei sistemi politici e anche quelle nei regimi politici. Ma il dilatarsi dell'area dell''obbligazione politica', che restringe quella del 'contratto-scambio', o il processo inverso (emblematizzato, ad esempio, dal gigantesco sforzo 'moderno' della borghesia di ridurre attraverso lo Stato la politica a contratto), non rispettano né contraddicono una regola semplicemente 'logica', né si conformano al principio secondo cui la 'naturalità' del contratto-scambio deve prevalere su una pretesa 'artificialità' della politica. Sempre e comunque, ciò che fonda l'obbligazione politica è il 'patto di fedeltà'. Ed è l'esistenza di questo patto a far sì che il 'contenuto' del vincolo di obbligazione politica - ben distinto da quello, 'determinato', del contratto-scambio - possa 'naturalmente' e 'perennemente' consistere nella garanzia, cercata da ognuno, del soddisfacimento di quei bisogni positivi o negativi che si pensa potranno emergere nel futuro (v. Miglio, 1976; v. Obbligazione politica, 1993; v. Ornaghi, 1994).
Non è tuttavia facile comprendere - se non si aderisce strettamente allo sviluppo concettuale del termine in questione - in ragione di quale specifica evenienza l'obbligo divenga finanche politico (quando in realtà non lo sia già 'costitutivamente'). Il fatto che 'obbligo politico' abbia conquistato in questo nostro secolo un rango elevato e usualmente ben riconosciuto nel vocabolario della teoria politica, non diminuisce per nulla (semmai accentua) l'apparente e sorprendente 'forbice' tra la novità della combinazione dei due elementi e ciò che con una tale combinazione s'intende sì ricomprendere nel solco di una lunga tradizione, ma anche reidentificare con la maggior precisione possibile - soprattutto dopo il torno di tempo fra Otto e Novecento - nella sua specifica e sempre più instabile collocazione lungo il confine che sembra separare l''eterna' naturalità dei rapporti politici dalla 'storica' forma di organizzazione moderna del potere.
È l'agire vincolato da un impedimento fisico (o, traslatamente, da un legame immateriale), che viene originariamente connotato col verbo obligare, 'legare intorno (ob-)', quasi 'fasciare'. L'immagine, che si presta a rappresentare - com'è subito evidente - tipi molteplici di vincolo, ha nel diritto romano il suo impiego circostanziato e decisivo anche per gli ulteriori sviluppi concettuali del termine obligatio (v. Radin, 1937).
In un celebre passo delle Istituzioni raccolte nel Corpus iuris, che i più attribuiscono a Fiorentino, troviamo la seguente definizione: "Obligatio est iuris vinculum quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei secundum nostrae civitatis iura" (Institutiones, 3, 13). Così scolpita, l'obligatio è costitutiva di uno specifico vinculum iuris; un vincolo che, dall'epoca arcaica fino al diritto giustinianeo, svolgerà sempre e comunque una medesima funzione: stringere, legare o coartare la libertà del debitore con il fine precipuo di indurlo a eseguire una prestazione, la quale deve infine risolversi in un pagamento di qualcosa (il solvere rem della definizione di Fiorentino) a beneficio del creditore. Con ogni verosimiglianza, proprio in questo consiste l'elemento pregnante dell'obligatio romana: cioè che, in forza del vincolo contratto, l'obligatus sia costretto non tanto a tenere un determinato contegno (la qual cosa attiene infatti, più in generale, a qualsiasi 'dovere' giuridico), quanto piuttosto a subire le conseguenze della propria insolvenza.
Non vi è qui, come pure si potrebbe pensare, una mera tautologia: proprio dall'elemento coercitivo, realizzato in forma di risarcimento pecuniario, deriva infatti la specificità di un simile rapporto obbligatorio. E illuminante, a tale riguardo, risulta la ripartizione delle causae obligationum (vale a dire delle circostanze nelle e per le quali può contrarsi obligatio): secondo la tradizionale formulazione di Gaio, "omnis enim obligatio vel ex contractu nascitur vel ex delicto" (Institutiones, 3, 88).
Insomma, sia che l'obbligazione nascesse ex contractu sia che originasse ex delicto, la condizione dell'obligatus doveva intendersi anzitutto come un legame che teneva stretto il debitore al correlativo diritto del creditore. In questo senso può allora venir letto il discusso frammento di Paolo nel Digesto: "Obligationum substantia non in eo consistit ut aliquod corpus nostrum aut servitutem nostram faciat, sed ut alium nobis obstringat ad dandum aliquid vel faciendum vel praestandum" (Digesto, 44, 7, 3). Pur prescindendo dalla forma alquanto involuta del passo, la quale ha alimentato il sospetto di successive interpolazioni, risulta tuttavia chiaro che la sostanza delle obbligazioni consiste non già nel far acquistare immediatamente un dominio o una servitù (un 'diritto reale'), bensì nel costringere (obstringere) qualcuno a procurare ad altri tali diritti, cioè a fare o praestare alcunché (v. Marchi, 1916).
Nel suo complesso svolgimento, l'istituto delle obbligazioni conserva il suo carattere originario: obligatio non è il dovere (obbligo) di eseguire la prestazione, ma il vincolo che la persona del debitor (e in seguito il suo patrimonio) stringe con quella del creditor. Proprio per questo, all'interno dello svolgimento di cui si diceva, fondamentale risulta il controverso capitolo delle obligationes naturales: è infatti da qui che occorre partire per comprendere in qual modo obligatio, che abbiamo sinora considerata in connessione per lo più con un dovere costitutivo di uno specifico vinculum iuris, finisca col designare situazioni connotate in senso non strettamente giuridico, le quali tuttavia continuano a essere rappresentate in analogia con l'immagine del vincolo e del legame proprio dell'istituto 'civilistico' dell'obligatio.
L'elaborazione delle obligationes naturales è dovuta soprattutto ai compilatori giustinianei. Nel diritto classico, la qualifica di 'naturale' veniva in questo senso riservata a quelle situazioni debitorie che, costituitesi di fatto, non erano suscettibili di azione di rivalsa a motivo dell'incapacità patrimoniale e processuale di chi contraeva il debito. Di contro, con il diritto postclassico e giustinianeo, la obligatio in tanto viene qualificata come naturalis, in quanto ricomprenda al proprio interno una serie di istanze di ordine 'morale', anche se queste non producono effetti dal punto di vista giuridico (v. Burdese, 1955, p. 144).
Lungo questa strada, e nella misura - notano diversi studiosi - in cui si compenetrano l'elemento 'civile' e quello 'religioso', il termine obligatio comincia a connotare un genere di rapporti di responsabilità diverso nella sostanza, e però identico nella forma, rispetto a quel vincolo che sino ad allora aveva costituito l'essenza delle obligationes romane. Nella sua breve ma assai suggestiva storia del vocabolo dall'antichità a Tommaso d'Aquino, Hans-Peter Schramm individua nella Scolastica e in particolare nell'Aquinate il punto d'arrivo della riflessione intorno al concetto 'antico' di obligatio: in questo contesto diventa infatti cruciale la distinzione - nei termini tedeschi impiegati da Schramm (v., 1967), che conviene già da ora tenere a mente - tra Verpflichtung e Verbindlichkeit, tra l'aspetto 'soggettivo' rappresentato dalla volontà utilitaristica ed eudemonistica di chi contrae l'obbligo e la rappresentazione 'oggettiva' del vincolo, senza di cui la obligatio ad aliquid faciendum - come l'obbligo viene definito nella Summa Theologiae, II-II, q. 89, a. 7 - risulterebbe priva di fondamento.
Questa duplice sollecitazione, cui sembra in tal modo esporsi la nozione di obbligo, merita di essere attentamente sottolineata. Essa è destinata, da qui in poi, a ripresentarsi quasi ciclicamente. E, sotto la sua azione, nell'idea di obbligo di volta in volta prevale o l'immagine del vincolo derivato da un principio di reciprocità (o di rivalsa), oppure la rappresentazione di un legame che si vuole irriducibile alle pretese delle parti 'in causa'.
D'altronde, dopo la Scolastica, diventa sempre più necessario distinguere tra l'istituto dell'obligatio e il sottostante dispositivo concettuale, che provvede a orientare la riflessione teologica e filosofica intorno a questioni come quelle del votum e del iuramentum. Ciò che di caso in caso cambia, in effetti, è proprio la sedes materiae nella quale si trasferisce il primigenio schema dell'obligatio: l'impiego di quest'ultima, perciò, diventa non dissimile da quello al quale sono state sottoposte altre fondamentali categorie derivate dal diritto romano (negotium, pactum, contractus, conventio). E sarà proprio per questa via che il pensiero 'moderno' raccoglierà l'eredità antichissima di obligatio. Passando attraverso la tradizione aristotelico-tomistica, ripresa dalla tarda (o seconda) Scolastica, l''innovativa' applicazione di tali concetti viene operata pressoché compiutamente dai teorici del giusnaturalismo: da Grozio a Pufendorf, fino allo stesso Hobbes. Soltanto allora, invece di designare un mero istituto dell'area dei rapporti interindividuali, obligatio può assurgere a simbolo della stessa consociatio humana (v. Wieacker, 1973, p. 226).
È opinione ormai pacificamente condivisa che i termini centrali con cui si è organizzato l'agire politico della modernità ('Stato', 'ordine', 'società', 'cittadino' e 'popolo', 'nazione' e 'costituzione', 'benessere', 'volontà generale', 'obbligazione', appunto, e molti altri ancora) abbiano tutti dietro di sé una storia specifica e speciale. Meno indagata, finora, è invece quella rete fitta di interconnessioni fra questi termini-concetti, che, facendo di essi il nucleo più inossidabile (e tendenzialmente 'eterno') della moderna legittimazione del potere politico, al tempo stesso li gerarchizza secondo un criterio flessibile e mutevole, tale da non render per nulla casuale l'altalenante primazia - visibile o recondita - di questo o quel concetto rispetto a tutti gli altri.
Se la costante della storia (e della vitalità) del pensiero politico 'moderno' è identificabile con un canone relativamente definito di autori che hanno conquistato il rango di classici, a maggior ragione è possibile scorgere un canone altrettanto relativamente definito di autori che, collocando il problema dell'obbligo politico alla fonte stessa della politica, più di altri hanno fissato il naturale e sempre reale primato dell''obbligazione' dentro il nucleo della legittimazione moderna del potere politico. A comporre un tale canone 'fondamentale' sono quegli autori che non solo hanno sollevato il problema dell'obbligo politico (pochi sono infatti, soprattutto in certe epoche storiche, coloro che da un tale problema son risolutamente fuggiti), ma lo hanno anche considerato - ecco la qualità 'fondamentale' di questo canone, corrispondentemente a ciò che si è finora detto - all'interno della medesima categoria di obligatio. In questo senso è senza dubbio a Hobbes che occorre richiamarsi in primo luogo.
Nel capitolo XXVI della parte seconda del Leviathan Hobbes (v., 1651; tr. it., pp. 283-284) osserva: "Trovo le parole lex civilis e ius civile, vale a dire legge e diritto civile, usate in modo promiscuo per la stessa cosa, anche negli autori più dotti, nondimeno non dovrebbe essere così. Diritto, infatti, è libertà, cioè la libertà che la legge civile ci lascia, ma la legge civile è una obbligazione, ed essa ci toglie la libertà che la legge di natura ci ha dato [...] Per modo che lex e ius sono tanto differenti quanto obbligazione e libertà".La distinzione tra ius civilis, che regola in via consuetudinaria i rapporti di obbligazione tra i singoli, e lex civilis, o publica, sembra così venire a risolversi nella (posteriore) dicotomia tra diritto naturale e diritto positivo (v., però, Scarpelli, 1979). Non è questo, tuttavia, l'elemento che qui conta maggiormente rilevare. Cruciale e decisiva è infatti la dura e rapida torsione cui Hobbes sottopone a ragion veduta il termine obligation.Con tutta probabilità Hobbes desumeva il proprio punto di vista per opposizione a quell''accrescimento' consuetudinario del diritto inglese, a motivo del quale tuttora si ritiene (spesso, per la verità, in modo assai impreciso) che il diritto penale abbia tratto origine dall'illecito civile (il cosiddetto tort law), e quest'ultimo da accordi di compensazione tesi a ricomporre sul piano pecuniario l'arcaica revenge. A ben guardare, non è il solo sistema di common law che parrebbe autorizzare una tale forzatura storica. Qualcosa di molto simile potrebbe riscontrarsi anche nel diritto romano, se solo si ripercorresse quel processo di progressiva 'atrofizzazione' delle obligationes ex delicto a beneficio dell'imponente sviluppo del diritto penale. Diverse e parallele, queste formazioni istituzionali si sono sviluppate indipendentemente l'una dall'altra, e però hanno subito un'ineguale espansione in ragione del prevalere del punto di vista 'pubblico' dal quale si è venuti osservando il sistema di repressione dei delicta (v. Biondi, 1965²).
Tanto più necessario (e agevole) risultava dunque per Hobbes spostare l'angolo visuale in corrispondenza del quale era stata osservata e trattata la materia concernente il concetto antico di obligatio: non più quale questione da demandare al ius civile, bensì alla lex, intesa come communis reipublicae sponsio, publica pactio. Ciò che è costitutivo di ogni forma storica di convivenza politica non è il fatto di essere mere associazioni, bensì quello di risultare un 'vincolo', il cui fondamento riposa essenzialmente sul patto e sul mantenimento della parola data.Siffatta concezione della 'società civile', intesa come vincolo, trova una singolare rielaborazione in Locke, il quale, identificando l'architrave delle proprie argomentazioni nella nozione di trust, opera a sua volta una decisa trasposizione della terminologia civilistica nell'ambito del linguaggio politico moderno.
Nel secondo dei Two treatises of government, pubblicato anonimo nel 1690, Locke ricorre con grande parsimonia al termine 'contratto', cui preferisce compact o agreement, 'patto' o 'accordo', per indicare l'atto volontario col quale si dà effetto all'associazione civile (v. Kersting e Fisch, 1990). Soltanto a seguito di questa, infatti, può realizzarsi quello che tradizionalmente era inteso come pactum subiectionis, e che Locke rappresenta alla stessa stregua di un pactum fiduciae, ovvero di un trust (v. Dunn, 1994).
Se - conta ricordarlo qui - nel vocabolario feudale germanico latinizzato trustis designa il legame di fedeltà (ed è anche riferita a coloro che, essendo soggetti a questo legame, formano il seguito di un capo), da un'identica radice germanica *dreu- hanno origine il tedesco Treue, trauen 'aver fiducia', Trost 'consolazione', l'inglese trust 'fiducia', true 'vero', truce 'tregua, patto'. In Inghilterra l'istituto del trust (raffrontabile alla figura del pactum fiduciae propria delle obligationes ex contractu) era venuto disciplinandosi nell'ambito di quel diritto di equity destinato a correggere le norme di common law (v. Radbruch, 1958). E - come ricorda Peter Laslett nell'Introduzione alla sua edizione dei Two treatises of government - Locke era certo ben consapevole di adoperare un termine fortemente connotato nel senso giuridico dell'equity (v. Locke, 1690, ed. 1988, p. 26 e p. 114, nota).
Scrive difatti Locke: "Vi è, perciò, in secondo luogo, un altro modo con cui i governi si dissolvono, ed è quando il legislativo o il principe o l'uno e l'altro agiscono contrariamente alla fiducia in essi riposta [their trust]" (v. Locke, 1690, ed. 1988, p. 412; tr. it., p. 414). Come se fosse vincolato da un pactum fiduciae, il governo si obbliga a ritrasferire il dominio all'alienante (cioè al suddito), qualora vengano meno le condizioni che hanno dato vita all'accordo. In termini più aderenti alla 'lettera' del diritto inglese, i sudditi detengono nel contempo il ruolo di trustor e quello di beneficiary, agendo di conseguenza come beneficiari defraudati del loro diritto allorché il governo "breaches its trust", o più genericamente "act[s] contrary to their trust".In questo senso può essere riletta la celeberrima affermazione di Locke: "Poiché gli uomini sono, come s'è detto, tutti per natura liberi, eguali e indipendenti, nessuno può esser tolto da questa condizione e assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso" (ibid., p. 330; tr. it., p. 311). Una simile dichiarazione doveva implicare per conseguenza il diritto di resistenza o di ribellione a quel governo il quale avesse travalicato i limiti impostigli dall'accordo fiduciario (v. Steinberg, 1978). Di fatto, nel momento in cui il trust fosse stato violato, il potere di rivalsa da parte del suddito non avrebbe potuto avere la benché minima possibilità di realizzazione pratica (l''azionabilità', si direbbe nella teoria delle obbligazioni).
Proprio per questo, a giudizio di alcuni studiosi, la concezione lockiana del consenso sembrerebbe fallire il suo fondamentale obiettivo (v. Plamenatz, 1938). Ma, come ha rilevato John Dunn, uno tra i più attenti e originali cultori di Locke, il principale sforzo che si dispiega nei Two treatises è quello di chiarire e giustificare, attraverso il 'contratto', perché e come siano da stabilire limiti chiari e precisi al vincolo di legittima sottomissione dei governati nei confronti dei governanti, e quindi allo 'scopo' stesso (o a un generico, indeterminabile 'contenuto') dell'obbligo politico (v. Dunn, 1969). Proprio da qui si apre un problema cruciale, che coinvolgerà tutta la 'moderna' riflessione sul tema non solo della 'naturalità' del reciproco legame originario, ma anche della concreta 'storicità' (o del grado di indispensabile e tollerabile 'artificialità' e 'imperfezione') con cui il vincolo condiviso viene interamente incorporato e sintetizzato dall'autorità dello Stato: se infatti il consenso è condizione necessaria per la legittimazione delle 'società civili', esso non è però condizione sufficiente perché ciascun atto dell'autorità disponga di una forza davvero 'obbligante'.
Dopo circa mezzo secolo Hume, proprio a motivo della sua critica serrata all'idea del consenso (così come del contratto) quale fondamento dell'obbligo politico, offrirà una concezione alternativa - dentro il canone che stiamo considerando - sia al modello hobbesiano, sia a quello lockiano.
L'obbligo politico non ha modo più adeguato di rappresentazione, nella prospettiva di Hume, se non quale "duty of allegiance".È, questa di allegiance, una nozione che indirettamente rimanda alla 'fedeltà', e che però sta alla fides latina come la nozione di trust sta a quella di 'fiducia': in un modo, cioè, inevitabilmente approssimato e precario, vista la peculiarità delle rispettive classi di concetti e in particolare degli istituti che queste designano. Del resto, a differenza di quanto aveva fatto Locke con il concetto di trust, Hume - in Of the original contract (1748) - accanto al termine allegiance impiega il vocabolo inglese di origine latina fidelity, quasi per dichiarata volontà di approfondire quel passaggio che Locke aveva saltato, un po' affrettatamente, ricorrendo al termine trust.
È difatti questo il senso dell'interrogativo che Hume pone in Of the original contract: "Che necessità v'è quindi di fondare il dovere dell'obbedienza ai magistrati su quello della fedeltà [the duty of allegiance, or obedience to magistrates, on that of fidelity] o sul rispetto delle promesse, e supporre che è il consenso di ciascun individuo che lo fa sottomettere al governo, quando è manifesto che entrambe, obbedienza e fedeltà [allegiance and fidelity], si basano precisamente sul medesimo fondamento, e che l'umanità si sottomette a entrambe per i palesi interessi e le necessità della società umana?" (v. Hume, 1748, ed. 1953, pp. 55-56; tr. it., p. 668).
Questo "medesimo fondamento", che regge tanto il dovere di allegiance al governo quanto la fidelity in virtù della quale un privato mantiene le proprie promesse, costituisce il filo conduttore di A treatise of human nature (1739-1740).
È ben nota l'affascinante peculiarità dell'impostazione teorica qui adottata da Hume. Alla base di qualsivoglia tipo di obbligo (o vincolo) non vi è un atto di volontà più o meno razionale, bensì una disposizione acquisita attraverso l'evoluzione di determinati e fondamentali legami di 'giustizia'. Siffatti legami sono costitutivi di ciò che Hume chiama le "three fundamental laws of nature, that of stability of possession, of its transference by consent, and of performance of promises" (v. Hume, 1739-1740, ed. 1978², p. 526; tr. it., p. 557). Non è certamente difficile intravedere in queste 'leggi di natura' un modello, seppur trasfigurato, della disciplina concernente i diritti reali e le obbligazioni. E però, quel che più importa capire è come l'evoluzione delle convenzioni intorno alla 'stabilità del possesso' abbia dato origine, per Hume, all'idea del giusto e dell'ingiusto, e poi per successivi passaggi alle idee di property, right e obligation (ibid., pp. 490-491; tr. it., pp. 518-519). Senza una previa spiegazione dell''origine della giustizia' non è possibile comprendere il fondamento dei diritti così come dei corrispettivi obblighi. E per Hume si tratta di un''origine' che non è consensuale né imposta con la forza, bensì 'convenzionale': nel preciso senso, appunto, che quella prima "regola della stabilità del possesso non solo deriva dalle convenzioni umane, ma sorge inoltre gradualmente e acquista forza attraverso un lento progresso, e in virtù di una reiterata esperienza degli inconvenienti che sorgono dal trasgredirla" (ibid., p. 490; tr. it., p. 518).
La lenta e progressiva assunzione di questo originario (ed 'elementare') schema di giustizia che è costituito dalla stability of possession e sul quale si innestano poi i più articolati e complessi istituti di transference by consent e di performance of promises, per Hume rappresenta un processo del medesimo genere - benché non dell'identica specie - di quello che presiede alla formazione del duty of allegiance al governo. Nell'un caso come nell'altro, ciò che emerge sono infatti quei vincoli la cui violazione comporta - alla distanza - più inconvenienti che vantaggi, tanto dal punto di vista del 'pubblico' quanto del 'privato' interesse.
Da simili obblighi, però, Hume esclude quei doveri morali che operano senza nessun riguardo alla public or private utility di chi vi si attiene (un atto di benevolenza o di gratitudine, ad esempio), giacché per essi non può darsi quel sense of obligation a motivo del quale "la giustizia, ossia il rispetto per la proprietà altrui e [...] la fedeltà, ossia il mantenimento delle promesse, diventano obbligatorie e acquistano autorità sull'umanità" (v. Hume, 1748, ed. 1953, pp. 54-55; tr. it., p. 668).
A questo riguardo, significativa diventa allora l'assonanza tra l'argomento di Hume e quello che più tardi verrà proposto in forma sistematica da Kant - nella prima parte della Metaphysik der Sitten - a sostegno della distinzione tra officia iuris e officia virtutis, tra doveri di diritto (Rechtspflichten) e doveri di virtù (Tugendpflichten).
Il canone che stiamo considerando, appunto perché 'canone', del tutto volontariamente emblematizza i 'classici' della tradizione moderna, assolutizzandoli e così emarginando (si faranno, tra breve, pochissime eccezioni) non solo quegli autori da cui viene tenuto vivo per tutta la 'modernità' l'antagonismo ambiguo e continuo fra ciò che noi consideriamo da tempo e con ereditata sicurezza come 'conservazione' oppure come 'innovazione', ma anche e soprattutto quei dottrinari le cui posizioni sul tema dell'obbligo politico (quale cuore della legittimità dello Stato) sembrerebbero oggi ai più insignificanti e 'a-moderne' rispetto alle nostre cristallizzate rappresentazioni del rapporto fra il 'politico' e la 'modernità'. Proprio per questo (e sotto questa condizione) dentro un siffatto canone diventa allora più opportuno procedere nella direzione che dal punto di vista di Hume, piuttosto che di quello di Rousseau o delle 'teorie rivoluzionarie' di fine Ancien régime, conduce alla sistemazione categoriale di Kant e alla nuova formulazione del problema del rapporto, anche rispetto all'obbligo politico, tra obbligo morale e obbligo giuridico.
È precisamente "il modo dell'obbligo" ("die Art der Verpflichtung") che differenzia, secondo Kant, un dovere etico da un dovere giuridico: adempiere una promessa assunta per contratto significa, anche quando sia venuto meno il vincolo giuridico, compiere un"'azione virtuosa", e non più attenersi a un obbligo di "fedeltà" nel senso giuridico della parola Treue (v. Kant, 1797; tr. it., pp. 395-396). Con un passaggio che si rivela fondamentale, il "contratto" di cui Kant parla nella Rechtslehre (1797) a proposito della fondazione dello Stato è una massima regolativa, un imperativo non suscettibile di tradursi in un vero e proprio obbligo della medesima specie di quello derivante da un obbligo di fedeltà in senso giuridico (Treue).
Pochi anni prima Madihn, dopo aver indicato che la "necessità morale" prende il nome di obbligo, aveva osservato che le necessità possono essere politiche o legislative, e che solo le necessità legislative, e non già quelle politiche, sono obblighi (cfr. L.G. Madihn, Grundsätze des Naturrechts, Frankfurt a.M. 1789). Contro i tentativi di affermare - appunto attraverso la nozione di obbligo politico - la superiorità della politica nella linea della tradizione pufendorfiana, Madihn cerca così di fissare chiaramente la distinzione tra 'politica' e 'diritto'.
Kant, invece, provvede a separare dal novero degli obblighi giuridici tutti quei tipi di "dovere" che vengono adempiuti non per costrizione esterna, bensì per l'intima convinzione della loro 'obbligatorietà': la differenza tra gli uni e gli altri non sta dunque nella natura del dovere in sé, ma nel motivo per il quale la volontà adempie un precetto.
Ora, proprio la questione del modo in cui si realizza l'obbligatorietà di un precetto (se, cioè, per costrizione esterna o per convincimento interiore, ovvero per le due cose insieme) ha rappresentato e tuttora rappresenta il punto nodale intorno a cui è venuta svolgendosi la discussione sulla natura del dovere. A tal riguardo, se è vero che Kant ha fornito una formulazione esemplare, destinata a costituire un modello di riferimento per la separazione tra obbligo giuridico e obbligo morale, è anche vero che, per tale via, si è poi prodotta un'eccessiva semplificazione dell'impianto categoriale kantiano, il quale all'origine prevedeva come criterio distintivo tra i due tipi di dovere non già e solamente quello della mera costrizione, bensì quello riguardante i "motivi di determinazione della volontà" per cui si obbedisce a un precetto.
Non per caso è proprio su questo punto che faranno leva coloro i quali - da Green fino al Rawls di Kantian constructivism in moral theory (1980) - insisteranno sul fondamento 'morale' dell'obbligo.
Attraverso una rinnovata teoria della political obligation, Green tenta di riaprire la questione che Kant aveva provvisoriamente chiuso. La prospettiva 'filosofica' di Green, per altro verso, appare in netta controtendenza rispetto a quegli orientamenti, di metodo e di analisi, che le scienze sociali vanno sempre più assumendo tra Otto e Novecento. Per comprendere perché il problema dell'obbligo politico sia riemerso - nell'ultima parte di questo secolo, soprattutto - in una forma strettamente correlata alla produzione/distribuzione di beni e servizi da parte del potere pubblico, e anche perché esso sembri rappresentare una sfida lanciata dalla filosofia alle scienze sociali e alle loro impostazioni metodologiche di matrice tardo-ottocentesca, occorre infatti tenere ben presente la radicale svolta che si realizza con l'epoca delle 'scienze generali' della società.
Proprio all'inizio delle sue Lectures on the principles of political obligation, tenute nel 1879-1880, Green distingue tra il "dovere di obbedire" (duty to obey) alla legge, in quanto fondato moralmente, e l'obbligazione giuridica in senso stretto (legal obligation). Egli parrebbe così voler distinguere, kantianamente, tra il sistema dei diritti e delle obbligazioni, che viene protetto giuridicamente, e i doveri morali, che non obbligano altrimenti se non in coscienza. Anzi, poco prima di osservare che nulla, tranne gli atti coercibili dall'esterno, può essere "materia di 'obbligazione' (in senso stretto)", Green pone la nozione di obligation nella linea diretta di una tradizionale accezione di ius naturae (v. Green, 1885-1888, ed. 1986, pp. 17-18).
Obligation, in questo caso, non può allora che essere l''obbligazione'; poiché proprio di essa si tratta, e cioè di quel dispositivo concettuale derivato dalla nozione antica di obligatio, che provvede a fornire uno schema primigenio e basilare di rapporto obbligatorio, e che per successivi passaggi arriva fino a Kant, il quale di fatto ne circoscrive l'impiego alla sua originaria sedes materiae: quella 'giuridica', con riguardo segnatamente alla parte della Rechtslehre relativa ai rapporti di diritto privato. Green, invece, muove dalla definizione del vincolo giuridico in senso stretto proprio al fine di mostrare come il diritto positivo non abbia di per sé fondamento. Il suo obiettivo, insomma, è riportare la nozione di obligation proprio in quella sede - l'obbligo come dovere morale - da cui Kant aveva inteso espungerla.
Ed è in tal senso che, per Green, la political obligation rappresenta il mezzo essenziale con cui poter realizzare il "fine morale" del diritto, che è poi quello di indirizzare l'interesse individuale verso il raggiungimento del "bene comune" inteso come l'autentico interesse di ognuno (v. Simhony, 1991).
L'attenzione di Weber è fortemente attratta da ciò che costituisce "der formalistische Charakter der Rechtlichkeit" ("il carattere formalistico della giuridicità", e non già - in modo riduttivo - della 'legittimità', come talora è stata intesa: v. Weber, 1904-1905; tr. it., p. 278). L'esito relativistico derivante dall'inoperatività degli imperativi etici in materia di norme e valori condivisi socialmente sta infatti di fronte a Weber, che lo registra subito e per intero.Si trova nella prima parte di Wirtschaft und Gesellschaft uno dei luoghi che, a tal riguardo, continuano a essere centrali. Qui Weber muove dal concetto di "ordinamento legittimo" e dalla sua "rappresentazione" (Vorstellung), che condiziona l'agire sociale. La "legittimità" dell'ordinamento implica, in tal senso, qualcosa di più di "una semplice uniformità dell'agire sociale, condizionata dal costume o da una situazione di interessi". Essa richiede il carattere della "esemplarità" (Vorbildlichkeit) ovvero della "obbligatorietà" (Verbindlichkeit). Scrive infatti Weber: "[L]a circostanza che, accanto ad altri motivi, una parte almeno degli individui che agiscono abbia dinnanzi come esemplare o vincolante [vorbildlich oder verbindlich] - e quindi come qualcosa che deve valere - anche l'ordinamento, accresce naturalmente la possibilità che l'agire sia orientato in vista di esso, e sovente in misura molto rilevante" (v. Weber, 1922; tr. it., p. 16).
Tra i due termini, si badi, non vi è disgiunzione: un ordinamento in tanto è "esemplare" in quanto risulti anche "vincolante", e viceversa. Non per caso, evitando di adoperare il concetto di obbligo nel senso di Verpflichtung, Weber si affida al termine Verbindlichkeit, in cui - come in Verband - balza subito agli occhi l'immagine del 'legare intorno', del 'vincolare'.
Lungo la scia segnata da Green, un altro esponente dell'idealismo inglese, Bernard Bosanquet, dedica il terzo capitolo del suo volume The philosophical theory of the State (1899) al "paradox of political obligation", che egli riconduce significativamente al principio dell"'autogoverno" (self-government).
Si potrebbe sostenere, seppure in buona sostanza e in una forma qui necessariamente semplificata, che viene così anticipato un argomento su cui negli anni a noi più vicini si fermerà l'attenzione sia dei 'neocomunitari', sia di coloro i quali (v. Pitkin, 1965 e 1966; v. contra Pateman, 1973 e 1979) hanno inteso a vario titolo evidenziare l'intima contraddittorietà del concetto stesso di obbligo politico: quale senso ha - questo, formulato interrogativamente, è l'argomento - obbligarsi 'politicamente', vale a dire non nei riguardi di qualcuno o qualcosa che costituisce una 'controparte', bensì nei confronti di ciò di cui si è (in qualche modo) 'parte'? (v. Dunn, 1991).
Il paradosso, se riflette lo sforzo di comprendere perché (e di trovare come invertire un tale processo) la maggior parte delle contemporanee scienze sociali veda ritrarsi da sé l'oggetto d'analisi specifico e autonomo della 'politica', è anche assai illuminante sulla necessità, sempre più avvertita da molti, di giungere a forme di legittimazione dei regimi democratici le quali non ripetano per intero le antiche rappresentazioni della legittimità del potere statale. Sul capo delle democrazie contemporanee certamente è sospeso, in tutto simile alla spada di Damocle, il problema di far sì che - al loro interno, e però anche nei rapporti di ciascuna democrazia con le altre - la politica sia davvero garanzia di 'cooperazione'.
È stato rilevato, non a torto, come la definizione di 'bene pubblico' in termini prettamente economici abbia ben poco a che vedere con l'idea di un bene 'condiviso', e in tal senso 'comune' (v. Green, 1990). Infatti, in un'accezione strettamente derivata dall'analisi economica, un 'bene pubblico' si caratterizza anzitutto per il fatto di essere 'indivisibile' e 'non-escludibile' (giacché il suo consumo da parte di alcuni non impedisce ad altri di usufruirne in modo eguale e indiscriminato). Perciò i beni pubblici non sembrano aver letteralmente prezzo, né di conseguenza un mercato che possa provvedere alla loro fornitura: essi devono essere apprestati 'congiuntamente', con la cooperazione di 'tutti'. Da qui il noto dilemma del free-rider: chiunque può pensare di sottrarsi per la propria parte all'obbligo di cooperare, ritenendo che tutti gli altri a loro volta non faranno altrettanto. L'idea per cui la reciprocità del vincolo - sotto forma di benefici ricevuti - debba comportare di riflesso una specie di "mutualità di restrizioni" nella scelta di cooperare o meno, è stata espressa mediante quel principio di fairness originariamente formulato nei termini seguenti: "[Q]uando un certo numero di persone si accorda, per condurre un'impresa in comune, a sottomettersi a delle norme da osservare, e in tal modo a limitare la comune libertà, coloro che si sono sottomessi a tali limitazioni, quali erano quelle che si richiedevano, hanno diritto a pretendere la stessa sottomissione da parte di coloro che traggono beneficio da quella cui essi si sono sottoposti" (v. Hart, 1955, p. 185; tr. it., p. 97).
Una tale condizione di fairness, che rimane da questo punto di vista ineludibile, può venir concepita sia in accordo al principio di utilità, sia in aderenza al "principio di giustizia" (v. Rawls, 1971; v. Klosko, 1987 e 1990). È tuttavia da ricordare che lo stesso Rawls - nel sesto capitolo di A theory of justice - distingue gli obblighi derivanti da un siffatto schema di cooperazione, definito come just o fair in quanto rispondente ai "principî di giustizia", dal dovere di sostenere e promuovere gli assetti istituzionali che soddisfano questi stessi principî. Come a dire, in sostanza, che non potrebbero darsi veri e propri vincoli politici riconducibili a un atto volontario, qual è quello di accettare i benefici derivanti da un'impresa cooperativa (v. Menlowe, 1993).
Alla fine (lo nota ancora Hart in altro luogo) "ciò che la ragione domanda è la cooperazione volontaria dentro un sistema coercitivo" (v. Hart, 1961, p. 193; tr. it., p. 230). Eppure, nonostante le raffinate argomentazioni avanzate da Hart a sostegno della propria tesi, sembra impossibile azzerare lo scarto tra un rapporto di 'contratto' e una relazione di 'comando-obbedienza', nel senso che quest'ultima impone in ogni caso una spiegazione 'aggiuntiva' rispetto al principio di reciprocità: ma, d'altra parte, il surplus di bene pubblico (rispetto alla reciprocità dello scambio 'privato') che ci si aspetta risultare dal 'comando-obbedienza' è una ragione insufficiente per l'esistenza di una tale relazione (v. De Jasay, 1989, pp. 20-21).
Non sarà allora superfluo ricordare, giunti al termine della nostra ricostruzione storico-analitica, come "il bisogno dell'altrui cooperazione" costituisse sin dall'inizio la principale funzione economico-sociale dei rapporti d'obbligazione (v. Betti, 1953).
Che difatti la formazione di una concezione individualistica dell'obbligo politico sia stata assecondata dall'adozione di un istituto privatistico derivato dal diritto romano, lo dimostra in tutta chiarezza quella moderna tradizione dell'obbligo di cui si è detto in precedenza. Non è, però, che in tal modo la sfera 'privata' abbia preso il sopravvento su quella 'pubblica', sì piuttosto il contrario: cioè alle decisioni private è stata attribuita una progressiva valenza pubblica. E qui stanno - ormai lontane, certo, ma inestirpabili dentro la moderna organizzazione del potere - le radici di quell'intreccio tra ordine economico e ordine politico, che in modo così congeniale si attaglia nei giorni nostri al 'dilemma' dei beni pubblici.
In effetti, nel preciso momento in cui le scelte pubbliche vengono assunte come se riguardassero le decisioni del singolo, sempre più visibilmente prende corpo quel paradosso dell''autogoverno' che non per caso ha condizionato sin dalle origini il funzionamento (e probabilmente lo stesso tasso di autonoma legittimazione) delle moderne democrazie. A determinare l'obbligo in senso 'politico' è allora quel plusvalore di 'pubblico' (v. Cappellini, 1986), che si vuole riconducibile all'interazione tra i singoli 'contraenti', ma che in realtà mai vi corrisponde per intero.Almeno dall'età della political obligation di Green, quel che vi è di più propriamente 'politico' nell'obbligo riguarda appunto questo plusvalore. Da qui il dilatarsi odierno del paradosso. Piuttosto che trovare il proprio fondamento 'morale' nell'interesse generale, o nel bene comune, o nella pubblica felicità (così 'assicurando' la fedeltà degli obbligati alla comunità di cui sono parte), l''obbligo' politico - nella sua dimensione più anticamente e genuinamente politica - si ritrova a essere il solo strumento attraverso il quale si possono immaginare e costruire interesse generale, bene comune, pubblica felicità. (V. anche Legalità, principio di; Legittimità).
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