OBELERIO
– Nono doge di Venezia, nacque nella seconda metà dell’VIII secolo. Secondo una redazione di scarsissima attendibilità del Chronicon Altinate dei primi del Duecento era figlio di un certo Egilio o Eneagilio (Origo..., 1933, pp. 132, 155).
Le sue vicende furono strettamente condizionate dalla delicata situazione internazionale, con inevitabili ripercussioni anche nella sua azione di governo. L’incoronazione di Carlo Magno nell’800 con la conseguente ricostituzione di un impero in Occidente non poteva non suscitare la reazione di Bisanzio, convinta di essere l’unica legittima erede dell’antica Roma. Il riflesso sul piano locale veneziano del contrasto fra le due potenze fu la formazione di un partito filobizantino, che trovò i suoi più convinti seguaci nella città di Eraclea, antica capitale del ducato, opposto a uno filofranco, i cui maggiori aderenti si raccolsero invece a Malamocco, dove da alcuni decenni si era trasferita la sede del governo. L’episodio più drammatico di questa contrapposizione fu l’assassinio del patriarca di Grado, Giovanni, sostenitore di una politica favorevole a Roma e ad Aquisgrana, voluto dal doge Giovanni Galbaio (originario di Eraclea) ed eseguito dal figlio e coreggente di lui, Maurizio, nell’802. Contrariamente alle loro speranze, l’azione dei due dogi non fu però risolutiva a favore del loro partito. Come successore del patriarca ucciso fu infatti eletto un suo congiunto, Fortunato, che nell’estate dell’803, recatosi a Salz in Germania, ottenne dal sovrano franco – al quale confermò la linea filofranca del patriarcato gradense – privilegi e immunità per la sua chiesa.
Le tensioni tra le due fazioni erano nel frattempo sfociate in conflitti armati tra le diverse comunità, in particolare fra Eraclea e la vicina Iesolo. I maggiorenti veneti contrari alla politica ducale si concentrarono allora a Treviso, in territorio franco, da dove, tra la fine dell’803 e l’inizio dell’804, promossero la caduta dei Galbaio, costretti all’esilio, e l’elezione al loro posto del tribuno Obelerio, originario di Malamocco. Obelerio poco dopo la sua elezione, associò come coreggente il fratello Beato, almeno in apparenza orientato verso posizioni moderatamente filobizantine.
Di fronte alle tensioni che si crearono, i nuovi dogi reagirono con durezza: Eraclea venne ridotta all’obbedienza e alcuni rappresentanti di spicco di quella comunità e di Iesolo furono costretti a risiedere a Malamocco, come ostaggi del governo. Il patriarca Fortunato fu reintegrato nella sua sede di Grado, ma dovette attendere alcuni mesi prima di rientrare in laguna a causa dell’ostilità di Obelerio, malgrado i due avessero il medesimo orientamento politico.
Entrata ormai Venezia a far parte della sfera franca, Obelerio e Beato sul finire dell’805 si recarono, assieme al duca e al vescovo di Zara in rappresentanza dei dalmati, alla corte di Carlo Magno, che allora risiedeva a Diedenhofen (l’attuale Thionville).
I rapporti veneto-carolingi furono in quella circostanza regolati da una «ordinatio de ducibus et populis tam Venetiae quam Dalmatiae» (Annales regni Francorum, 1895, p. 121). Non si conosce il contenuto preciso del provvedimento, ma la sostanza appare chiara: il ducato veneziano era decisamente passato dall’ambito bizantino a quello franco.
Il partito favorevole ai greci non era però stato sconfitto completamente e soprattutto c’era da attendersi la reazione di questi ultimi, non disposti a rinunciare alla loro presenza nell’Alto Adriatico. L’imperatore Niceforo I inviò infatti nell’806 una forza navale al comando nel patrizio Niceta a ristabilire l’ordine in quella zona. Senza incontrare alcuna efficace opposizione da parte carolingia, in mancanza di una flotta, i bizantini riportarono dapprima sotto il loro controllo la Dalmazia e poi si presentarono all’ingresso della laguna. Il patriarca Fortunato fuggì, prima ancora del loro arrivo, presso i franchi, mentre Obelerio e Beato si sottomisero senza combattere. Obelerio fu anzi insignito del titolo aulico di spatario, segno del suo rientro nella sfera bizantina. Nell’estate dell’807 Niceta, concluso un accordo, o meglio, una tregua con il re d’Italia Pipino, salpò per l’Oriente, portando con sé come ostaggi alcuni veneziani appartenenti al partito filofranco e lo stesso Beato che, ricevuto da Niceforo a Costantinopoli, ottenne il titolo di ipato, prima di essere rilasciato e rientrare in patria.
La fragile intesa raggiunta fra Niceta e Pipino, in mancanza di un vero e proprio accordo fra i due imperi, non resse a lungo. Già nell’809, una flotta guidata da Paolo duca di Cefalonia si spinse nelle acque veneziane. Vi fu uno scontro con il presidio franco di Comacchio, dopo il quale i bizantini si trattennero a Malamocco nel tentativo di intavolare nuove trattative con il re d’Italia. L’iniziativa diplomatica però fallì, anche a causa dell’atteggiamento ambiguo mantenuto da Obelerio e dai suoi sostenitori, incerti se schierarsi apertamente con l’una o l’altra potenza per meglio assicurare l’autonomia del ducato. La squadra greca ritornò pertanto alla base e Pipino decise di invadere il territorio veneziano.
Gli avvenimenti che seguirono sono riportati con dovizia di particolari dal cronista Giovanni Diacono, che scrisse due secoli dopo i fatti, fornendo un’interpretazione alquanto partigiana e almeno in parte romanzesca: la responsabilità del conflitto sarebbe ricaduta interamente sulle spalle di Pipino, che, violata l’intesa, avrebbe attaccato il ducato per terra e per mare, avrebbe poi occupato in breve tempo i centri costieri e, penetrato nella parte sud della laguna, sarebbe giunto fino ad Albiola, nei pressi di Pellestrina, da dove avrebbe minacciato la capitale Malamocco, ma i due dogi avrebbero reagito con energia, trionfando sui nemici (Cronaca veneziana, 1890, pp. 104 s.).
Assai diversa – e verosimilmente più attendibile, per quanto laconica – la versione fornita dai contemporanei annali franchi: il tentativo di accordo tra carolingi e bizantini sarebbe fallito per le macchinazioni orchestrate dai dogi di Venezia; per questo motivo Pipino avrebbe assalito il ducato e sottomesso i veneti, salvo poi ritirarsi a causa del ritorno della flotta greca, il cui intervento sarebbe stato quindi risolutivo per la soluzione del conflitto (Annales regni Francorum, 1895).
Il partito filofranco risultò essere stato definitivamente sconfitto. Obelerio e Beato alla fine dell’810 cercarono di mettere in atto un ultimo disperato tentativo di conservare le loro posizioni, schierandosi al fianco dei vincitori, ma la sorte di entrambi era ormai segnata. Il primo tentò inutilmente di trovare rifugio presso i franchi, i quali però lo consegnarono ai bizantini che lo condussero prigioniero a Costantinopoli, mentre il secondo venne relegato a Zara, dove sarebbe morto l’anno dopo. Al loro posto, i veneti elessero nell’811 un nuovo doge nella persona di Agnello Particiaco, che trasferì la capitale del ducato a Rialto.
Una volta deposto e consegnato ai bizantini, l’ex doge Obelerio rimase in esilio nella capitale dell’impero orientale per quasi vent’anni, fino a che, probabilmente nell’829, al momento del passaggio dei poteri dal doge Giustiniano Particiaco al figlio e successore Giovanni, rientrò in laguna per giocare le sue ultime carte. Sbarcato nei pressi di Malamocco, iniziò a radunare i propri sostenitori nel tentativo di riprendere il potere. Il doge Giovanni gli mandò contro truppe provenienti dalla vecchia capitale, le quali però disertarono, schierandosi con il loro concittadino. Di fronte al riemergere di localismi che avrebbero potuto disgregare l’unità del ducato, il doge reagì in maniera spietata: Malamocco venne messa a ferro e fuoco e Obelerio, sconfitto, fu decapitato. La sua testa venne esposta come ammonimento a future rivolte e poi infilata su un palo ai margine della terraferma, presso Mestre, ai confini con l’impero franco.
Fonti e Bibl.: Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, I, a cura di G. Monticolo, Roma 1890, pp. 23 s., 36, 101, 103-105, 110; M. Sanuto, Le vite dei dogi, a cura di G. Monticolo, in Rer. Ital. Script., II ed., XXII, 4, Città di Castello 1890, pp. 107-109; Annales regni Francorum, a cura di F. Kurze, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum Germanicarum, VI, Hannover 1895, pp. 120, 127, 130-134; Origo civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di R. Cessi, Roma 1933, pp. 29, 31 s., 37, 57, 69, 97, 99, 116, 132, 155, 159, 166-168, 170, 172 s.; Andreae Danduli ducis Venetiarum Chronica per extensum descripta, a cura di E. Pastorello, in Rer. Ital. Script., nuova ediz., XII, 1, Bologna 1958, pp. 127 s., 131-133, 148 s., 355-357; Venetiarum historia vulgo Petro Iustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di R. Cessi - F. Bennato, Venezia 1964, pp. 26 s., 29-31, 265; Martin da Canal, Les estoires de Venise, a cura di A. Limentani, Firenze 1972, pp. 10 s., 14-17; G.G. Caroldo, Istorii Veneţiene, I, De la originile Cetăţii la moartea dogelui Giacopo Tiepolo (1249), a cura di Ş.V. Marin, Bucureşti 2008, pp. 51-54, 57. Si Vedano inoltre: S. Romanin, Storia documentata di Venezia, I, Venezia 1853, pp. 136-138, 140-142, 149 s., 170; H. Kretschmayr, Geschichte von Venedig, I, Gotha 1905, pp. 54-59, 61 s., 71; A. Da Mosto, I dogi di Venezia con particolare riguardo alle loro tombe, Venezia 1939, pp. 35, 37; R. Cessi, Politica, economia, religione, in Storia di Venezia, II, Dalle origini del ducato alla IV crociata, Venezia 1958, pp. 31, 98, 103 s., 107, 110 s., 115-117, 121 s., 140, 142; Id., Venezia ducale, I, Duca e popolo, Venezia 1963, pp. 106, 119, 133 s., 136 s., 139, 141, 144, 149, 154 s., 158 s., 162, 169 s., 176, 195, 203-205, 226; A. Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978, pp. 61, 68, 209, 233 s., 345, 366, 385; G. Ortalli, Venezia dalle origini a Pietro II Orseolo, in Storia d’Italia, I, Longobardi e bizantini, a cura di P. Delogu - A. Guillou - G. Ortalli, Torino 1980, pp. 378-382, 385 s.; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Firenze 1983, pp. 8-10, 14 s.; Id., Il ducato e la «civitas Rivoalti» tra carolingi, bizantini e sassoni, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, I, Origini - Età ducale, a cura di L. Cracco Ruggini et al., Roma 1992, pp. 728-731, 736; Id., Venezia imperiale, la leggenda carolingia e il doge sbagliato, in Per l’arte da Venezia all’Europa. Studi in onore di Giuseppe Maria Pilo, a cura di M. Piantoni - L. De Rossi, Venezia 2001, I, pp. 49-52; Id., Storia e miti per una Venezia dalle molte origini, in Venezia nella sua storia: morti e rinascite, a cura di C. Ossola, Venezia 2003, pp. 83, 91, 93-99, 101-104, 106.