ESTE, Obizzo d'
Terzo di questo nome, nacque il 14 luglio 1294 dal marchese Aldobrandino (II), fratello del signore di Ferrara, di Modena e di Reggio Azzo (VIII), e da Alda di Tobia Rangoni, nobildonna modenese. Era il loro secondo figlio maschio. Ignoriamo, allo stato attuale delle ricerche, il luogo, in cui egli vide la luce, il tipo, i modi e la qualità della sua prima formazione, le tappe della sua biografia giovanile. Le notizie su di lui cominciano a farsi più numerose a partire dal 24 febbr. 1308, quando in Padova egli, sebbene fosse allora poco più che un fanciullo (non aveva ancora compiuto i quattordici anni), venne, come risulta da uno strumento rogato appunto in quel giorno e in quella città, emancipato insieme con il fratello maggiore Rinaldo (III) dal padre, il quale in quell'occasione assegnò loro una parte notevole del' suo cospicuo patrimonio - si trattava di beni numerosissimi, siti negli abitati e nei territori di Rovigo, di Lendinara, di Este, della stessa Ferrara. L'atto era senza dubbio l'esplicita manifestazione della volontà di Aldobrandino di scindere nettamente anche sul piano giuridico la sua persona, le sue fortune e le sue responsabilità sia politiche sia private da quelle dei figli maggiori. Esso fu dunque una delle ultime conseguenze della decisione, da lui presa in quel torno di tempo, di abbandonare la vita pubblica attiva, che per quindici anni, a partire dalla morte del padre Obizzo (II), lo aveva visto attestato, nei confronti di chi deteneva il potere in Ferrara, su una linea di opposizione e di antagonismo sempre tendente a sfociare in rivolta aperta o in resistenza armata. Da quando fu emancipato, infatti, l'E., nonostante la sua giovane età, non visse più con lui ma risiedette per lo più a Rovigo, insieme con il fratello maggiore, mentre il padre si trasferì a Bologna, dove aveva una vasta rete di simpatie e di amicizie.
Nel testamento, dettato il 28 giugno 1292, il nonno dell'E., Obizzo, signore di Ferrara, di Modena e di Reggio, aveva nominato eredi di tutto il suo patrimonio i tre figli maschi avuti da Iacopina Fieschi, la sua prima moglie, ed i figli che, dopo di allora, gli sarebbero potuti nascere dalla veronese Costanza di Alberto Della Scala. Nel documento Obizzo non faceva cenno al problema politico della successione alle signorie di Ferrara, di Modena e di Reggio, che si sarebbe aperto alla sua scomparsa, anche se gli erano senza dubbio ben note le gelosie e le violente rivalità, che a quel proposìto laceravano la sua casa e dividevano la sua stessa famiglia. D'altro canto egli non si valse della prerogativa di designare il suo successore nella signoria di Ferrara, prerogativa che pure gli era stata riconosciuta da una interpretazione autentica degli statuti cittadini, votata dal Consiglio maggiore e dall'Arengo di quel Comune il 22 dic. 1292. Questa circostanza aveva fatto ritenere a larghi strati dell'opinione pubblica e in particolare ai diretti interessati che anche l'eredità politica di Obizzo - così come quella privata - sarebbe stata, alla morte del dinasta, raccolta e gestita collegialmente, sia pur con una accurata ripartizione di uffici e di giurisdizioni, tra i suoi tre figli maggiori. In particolare si pensava, che Azzo (VIII), in quanto primogenito, sarebbe dovuto succedere al padre nella signoria di Ferrara; che Aldobrandino (II), invece, avrebbe assunto il governo di Modena, città alla quale lo legavano vincoli di parentela; mentre Reggio, la più recente acquisizione del dominio estense, sarebbe stata attribuita a Francesco, il più giovane dei tre. Perciò, quando il giorno dopo la morte di Obizzo, avvenuta inattesa in Ferrara il 20 febbr. 1293, le magistrature municipali avevano eletto Azzo signore della città ed il loro esempio era stato prontamente seguito anche da quelle di Modena e di Reggio, Aldobrandino si era sentito ignorato nelle sue legittime aspettative e colpito nei suoi diritti. Mentre Francesco, che era probabilmente il più debole sul piano politico, si mantenne fedele nei confronti del nuovo "dominus generalis", alla cui presa di potere dette il suo appoggio o almeno la sua tacita connivenza, Aldobrandino, che si sentiva forte dell'amicizia di Padova e di quella del signore di Verona Alberto Della Scala, aveva scelto di affermare le proprie ragioni con le armi. Aveva così dato inizio ad una lotta di resistenza, nella quale intervennero anche i suoi alleati esterni e che si protrasse - sia pure con periodi più o meno lunghi di stasi e di riconciliazioni - sino alla morte di Azzo, spentosi in Este nella notte fra il 31 gennaio ed il 1° febbr. 1308, senza lasciare discendenza legittima. La scomparsa di Azzo, ad ogni modo, se pure aveva semplificato almeno sul piano giuridico la situazione, non aveva tuttavia portato alla chiusura della vertenza apertasi quindici anni prima. Aldobrandino e Francesco, sebbene fossero gli unici eredi legittimi in quanto fratelli del defunto signore di Ferrara, vennero esclusi pregiudizialmente dalla sua successione. Il 10 febbraio le magistrature municipali, in ottemperanza al decreto podestarile del 28 gennaio di quello stesso anno, elessero "dominus generalis" Fresco d'Este, il maggiore dei figli di Azzo nati fuori dal matrimonio; e, nello stesso giorno, osservando scrupolosamente la normativa prevista dagli statuti e dalle consuetudini vigenti, si dava pubblica lettura del testamento di Azzo, che istituiva erede universale del suo patrimonio privato il nipote Folco, figlio di Fresco e della moglie di questo, Pellegrina Caccianemici, e si avviavano, sotto il controllo pubblico, le pratiche per la successione.
Aldobrandino (II) che si trovava da qualche tempo in Este, dove si era incontrato con Azzo, riconciliandosi con lui, e dove aveva assistito ai suoi ultimi momenti, lo stesso 1° febbraio si era accordato con il fratello Francesco circa la divisione dell'antico patrimonio paterno (come risulta da un atto rogato in quel giorno e in quella città), convenendo con lui nella nomina di un arbitro, il quale dirimesse le vertenze che sarebbero potute insorgere tra loro quando fossero entrati "in plena possessione vel quasi dominii et iurisdictionis civitatis Ferrarie et districtus". Informato che le autorità municipali di Ferrara avevano riconosciuto come nuovo signore il nipote Fresco d'Este e sanzionato le disposizioni in favore del figlio di questo Folco d'intesa con il fratello Francesco aveva in un primo tempo cercato di opporsi a questi provvedimenti, ricorrendo contro di essi alla Curia pontificia - Ferrara era allora città di dominio della Chiesa romana - e rivolgendosi a Padova per averne aiuto nella lotta per l'affermazione del suo buon diritto. Le pesanti condizioni richieste dal Comune di Padova come contropartita per il proprio appoggio; la prospettiva di dare avvio ad un nuovo conflitto interno, di cui non erano certi gli esiti e le implicazioni future; il timore che il coinvolgimento di potenze straniere nella lotta potesse alla fine risolversi in un danno per lo stesso dominio estense e per le fortune della sua casa indussero Aldobrandino ad abbandonare la partita. Sul finire di febbraio, con una serie di atti, che fecero scalpore, egli provvide a rendere esplicita la sua decisione. Sconfessato l'operato del fratello Francesco, che anche a suo nome aveva stretto patti con i Padovani, ed emancipati i due figli maggiori, lasciò la sua patria per ritirarsi in esilio a Bologna. Il 28 febbraio. poiché non rispondeva agli appelli che gli ordinavano di fare ritorno, dalla giunta dei dieci savi "super negotiis occurrentibus in partibus versus Ferrarie" venne dichiarato ribelle al Comune di Padova e condannato quindi al bando con sentenza di quel podestà. Quanto egli possedeva ancora nel territorio di dominio padovano gli venne confiscato.
Negli anni immediatamente successivi alla sua emancipazione l'E. appare costantemente accanto al fratello maggiore Rinaldo ed allo zio Francesco d'Este, impegnato in un primo momento, tra la primavera e l'autunno del 1308. in azioni militari contro lo zio Fresco d'Este, nuovo signore di Ferrara, e poi, quando questi ebbe rinunziato ai suoi diritti in favore di Venezia (ottobre 1308), tra l'autunno di quell'anno ed i primi mesi del 1310, militando sotto le bandiere della Chiesa contro la Repubblica di S. Marco nella guerra per il possesso della città. Tornata Ferrara sotto il dominio della Sede apostolica, l'E. viene di nuovo ricordato accanto al fratello Rinaldo e allo zio Francesco, quando questi, nel luglio del 1310, giunse nella città con suoi contingenti di armati in sostegno dei pontifici assediati nel Castel Tedaldo da una rivolta popolare e represse il moto con esemplare durezza, restaurando l'autorità della Chiesa.
L'uscita dalla vita pubblica ed il conseguente esilio a Venezia di Fresco d'Este, che comportarono l'esclusione di quest'ultimo dalle vicende della sua casa; la cessazione delle ostilità; i buoni rapporti allora intercorrenti fra il Comune di Bologna ed i rappresentanti del pontefice in Ferrara, consentirono al padre dell'E. di risolvere definitivamente, in quel medesimo torno di tempo, la spinosa questione dell'eredità di Obizzo (II), un estesissimo insieme di beni siti in arca padovana, nel Ferrarese e nel Polesine di Rovigo. Si trattava di un enorme complesso di terreni coltivati - nei soli distretti di Este, di Soleso e di Montagnana (Padova) si estendevano per oltre 13.000 ettari -parte a conduzione diretta, parte dati in feudo, parte dati a livello. Ad essi si aggiungevano valli, paludi, boschi, canali e fiumi navigabili, castelli e rocche, diritti signorili e giurisdizionali. Composte, in forza di un lodo pronunziato in Ferrara il 18 febbr. 1311 dal legato apostolico Onofrio de Trebis e dal rettore e capitano generale della Chiesa Dalmau de Bonyuls, le vertenze che a proposito della successione nell'eredità patema erano insorte tra lui e il fratello Francesco, Aldobrandino giunse ad un accordo con quest'ultimo nell'agosto successivo, quando, come risulta da uno strumento allora rogato, si procedette alla divisione ed alla assegnazione formale dell'eredità stessa.
Nell'estate del 1312 Aldobrandino (II) si trovava a Ferrara. Siamo infatti informati che egli venne fermato e trattenuto sotto custodia subito dopo la tragica morte del fratello Francesco, ucciso in uno scontro con le forze dell'ordine incaricate di arrestarlo per ordine di Dalmau de Bonyuls (23 agosto). Non conosciamo le motivazioni del provvedimento: è tuttavia molto probabile che contro di lui fosse stata rivolta la medesima accusa di alto tradimento fatta a Francesco, dì cui si diceva stesse organizzando una congiura per impadronirsi della città. La detenzione di Aldobrandino non durò a lungo; grazie all'autorevole intervento del Comune di Bologna venne infatti liberato il 28 agosto.
Dopo la morte dello zio Francesco d'Este, l'E. dovette affrontare, insieme con il padre ed i fratelli Rinaldo (II) e Niccolò (I), una vertenza di natura patrimoniale, che lo contrappose ai cugini Azzo (IX) e Bertoldo. La controversia fu risolta, il 5 nov. 1313, da una commissione arbitrale costituita dall'abate della Vangadizza Guido, dall'arcidiacono della Chiesa ravennate Rinaldo di Ostasio da Polenta e dal padovano Macaruffo Macaruffi. Già sul finire del 1314 erano in corso le trattative avviate da Aldobrandino (II) in vista del matrimonio dell'E. con una nobildonna appartenente ad una delle più potenti famiglie bolognesi, Giovanna di Romeo Pepoli. Le nozze tra i due giovani furono celebrate nel maggio del 1317.
Romeo Pepoli era una delle figure di maggior spicco della vita pubblica ed economica non solo di Bologna ma della stessa Italia padana. Esponente di primo piano della borghesia "grassa" e della fazione guelfa, mercante e banchiere aveva saputo inserirsi abilmente nella lotta tra le fazioni cittadine ed era arrivato a conquistare, nel corso del primo ventennio del sec. XIV, un peso sempre più determinante nella vita politica di Bologna. Il matrimonio di sua figlia Giovanna con l'E. ha in tale contesto una sua indubbia valenza. Esso, infatti, da un lato ci dà la misura del peso politico che, grazie all'opera di restaurazione dell'unità patrimoniale portata avanti da Aldobrandino (II), la casata dei marchesi d'Este era tornata ad avere, dopo i difficili anni di Azzo (VII) e la crisi del 1308, nell'Emilia orientale; e ci permette, d'altro canto, di valutare in pieno l'ampiezza e la profondità dell'azione diplomatica e politica svolta dallo stesso Aldobrandino nel corso del suo forzato soggiorno bolognese sia nel rinnovare e nel consolidare i rapporti di solidarietà o di amicizia esistenti tra la sua e alcune tra le maggiori famiglie della città emiliana, sia nel risollevare e nel rendere più stretti i suoi collegamenti con la "pars Marchexana", che raccoglieva le forze più intransigenti e faziose dello schieramento guelfo locale e rappresentava nelle assemblee municipali ed in quelle della Parte gli interessi e la politica estense. Il riacquistato peso politico e la vasta rete di contatti e di relazioni, che per largo raggio Aldobrandino e i suoi figli erano riusciti a tessere con le fazioni guelfe ed i gruppi di pressione di diverse città dell'Italia settentrionale, gli appoggi e le simpatie che avevano saputo guadagnarsi presso alcune potenze della pianura padano-veneta furono le forze che consentirono all'E. ed a suo fratello Rinaldo (II) di tornare al governo di Ferrara e di porre le salde basi del futuro "Stato" estense.
La consapevolezza del riconquistato peso politico trovò espressione nelle fastose cerimonie e nella sontuosa "corte", con cui gli Este celebrarono in Rovigo l'arrivo di Giovanna Pepoli. Del resto, certamente fondandosi su questa popolarità e sulla rete di appoggi esterni ed interni, sui quali sapevano di poter contare, già in quei mesi l'E. e suo fratello Rinaldo da Rovigo stavano organizzando in Ferrara, con il sostegno degli esponenti di alcune delle maggiori famiglie nobiliari cittadine e dei capi della fazione devota alla loro casa, un colpo di Stato per rovesciare il duro regime del vicario del re di Napoli, Roberto d'Angiò, cui il papa aveva affidato il governo della città. L'anonimo autore del Chronicon Estense, avviandosi a narrare del moto antiangioino, che esplose effettivamente il 22 luglio dello stesso 1317, riferisce infatti che di esso furono promotori e guida non solo numerosi membri dell'aristocrazia cittadina ma "et omnes alii amici dominorum marchionum Estensium, scilicet Raynaldi et Obigonis, fratrum. et filiorum marchionis Aldobrandini, qui omnes in hoc tractaverunt" (p. 88). D'altro canto, che l'E. e suo fratello fossero i veri promotori della congiura risulta pure dal fatto che proprio a loro gli insorgenti si rivolsero subito do.po la presa della città - mentre la guamigione angioina si rinchiudeva a Castel Tedaldo - perché, come capi e responsabili del moto, venissero da Rovigo, loro residenza, a Ferrara per assumere la guida delle operazioni ed assicurassero la vittoria finale con l'autorità delle loro persone e col peso delle loro genti d'arme.
Si deve rilevare che, a detta del Chronicon Estense (ibid.), "dicti marchiones. una cum domino Agone marchione etiam, tamquam perfecti consanguinei venerant Ferrariam". La notizia è di estremo interesse. La circostanza che l'E. e Rinaldo (II) si presentarono a Ferrara, per assumervi la direzione della rivolta, insieme con il cugino Azzo (IX), figlio del loro defunto zio Francesco e capo dell'altro ramo legittimo dei discendenti di Obizzo (II), non solo è un'ulteriore conferma dell'opera di riconciliazione compiuta da Aldobrandino (II), ma testimonia altresì l'unità di intenti e di azione, che caratterizzava allora la casata.
L'E. rimase per pochissimo tempo a Ferrara. Se ne allontanò infatti subito dopo, per recarsi in tutta fretta a Bologna per convincere il governo di quel Comune a non accogliere la richiesta di aiuto militare avanzata dal presidio di Ferrara bloccato nel Castel Tedaldo dalla rivolta antiangioina. Tuttavia, quando giunse nella città emiliana, l'E. venne a sapere non solo che il governo locale aveva deciso di intervenire in favore degli assediati, ma che contingenti di truppe bolognesi erano già stati inviati alla volta di Ferrara. L'E. allora prese contatto con i filoestensi bolognesi e trattò con le autorità: riuscì ad ottenere che si impartisse all'esercito di soccorso l'ordine di attestarsi., con le armi al piede, sulle posizioni raggiunte. L'E. si trattenne a Bologna ancora per diversi giorni, a controllare di persona l'evolversi della situazione interna e a far opera di propaganda, mentre a Ferrara la lotta intorno al Castel Tedaldo proseguiva verso un esito ormai prevedibile. Il 5 agosto la guarnigione angioina capitolò, consegnando la fortezza a Rinaldo (II) e a suo cugino Azzo (IX). Contro le clausole del trattato di resa, che garantiva loro salva la vita, i soldati del re di Napoli vennero massacrati dagli insorti. Il castello fu saccheggiato e dato alle fiamme.
Il buon esito dell'azione svolta dall'E. a Bologna fu senza dubbio dovuto all'abilità politica e diplomatica da lui spiegata in quella circostanza ed all'ampiezza dei legami che egli aveva con le forze locali; ma ad esso concorsero certamente - ed in modo forse determinante - l'influenza del suocero Romeo Pepoli e la pressione della potente fazione da lui capeggiata.
L'E. lasciò Bologna solo dopo la resa del presidio angioino. Lo stesso giorno del suo ritorno in Ferrara si incontrò con il fratello e con il cugino "et in illa hora ipse cum suis ascenderunt in palatiis suis et gratia Dei ordinaverunt omnia eorum negotia" (Chronicon Estense). I tre definirono in quella occasione le loro singole posizioni ed i loro rapporti reciproci, convenendo sulla opportunità di una gestione collegiale della vittoria. Quindi, consolidata la loro egemonia eliminando o costringendo all'inattività i loro avversari interni, organizzarono le cose in vista del riconoscimento ufficiale della loro presa di potere. Il 15 agosto l'E., i suoi fratelli Rinaldo (II) e Niccolò (I), i suoi cugini Azzo (IX) e Bertoldo, furono costituiti dal popolo "domini dicte civitatis Ferrarie et districtus sine aliqua contradictione": l'atto fu subito sanzionato dalle magistrature citadine (ibid.). Da allora in poi non vi furono, tra i sei nuovi consignori, né contrasti né contrapposizioni, né si levò contro di loro, all'interno della famiglia dei marchesi d'Este, alcun antagonista - dichiarato o potenziale - per tutti i trentacinque anni, dal 1317 al 1352, che durò il loro governo.
La collegialità, che caratterizzò da allora il vertice e la gestione politica della città di Ferrara e dei territori da essa dipendenti, pone pregiudizialmente, sul piano storico-biografico, il problema di identificare la figura e l'opera di ognuno dei consignori. Anche se ciascuno di loro aveva ricevuto il titolo ed i poteri e le funzioni di "dominus generalis civitatis Ferrarie et districtus", in realtà il ruolo svolto dai figli di Francesco d'Este nella gestione della cosa pubblica fu anche per la precoce scomparsa di Azzo (IX), morto nella seconda metà del 1318 senza discendenza legittima - affatto secondario rispetto a quello ricoperto dai figli di Aldobrandino (II). Ce ne accerta tutta una serie di dati di fatto: che la corrispondenza ufficiale è sempre indirizzata solo a Rinaldo (II), all'E. e a Niccolò; che solo a loro nome sono trattati e conclusi gli accordi tra Ferrara e le altre potenze italiane e straniere; che i nomi di Azzo (IX), sino a quando fu in vita, e di Bertoldo ricorrono sporadicamente nelle fonti e sempre in riferimento a qualche specifico episodio della loro vita privata. D'altro canto. per ciò che riguarda i figli di Aldobrandino (II) è chiaro che il partner più debole fu Niccolò, il più giovane dei tre. Lo si desume dalla circostanza che le cronache fanno riferimento quasi esclusivamente a Rinaldo e all'E. quando narrano di scelte politiche, di.iniziative diplomatiche, di attività militari.
Più difficile, invece, riesce sceverare l'opera dell'E. da quella di Rinaldo (II) nel periodo in cui ressero insieme i domini estensi, dato che la carriera e l'attività politica del primo, come erano state inestricabilmente legate sin'allora a quelle del fratello, così lo furono pure e in misura forse maggiore - tra il 15 ag. 1317 ed il 31 dic. 1335, quando Rinaldo morì. Ad ogni modo il ruolo giocato dall'E. nella diarchia col fratello - al quale senza dubbio spettò la maggiore responsabilità decisionale - fu certamente tutt'altro che secondario. Un'analisi puntuale dei dati in nostro possesso lo mostra infatti spesso impegnato in prima persona in attività militari, diplomatiche e politiche di particolare rilievo specie quando, apertosi il conflitto con la Sede apostolica (il papa Giovanni XXII reagì alla restaurazione degli Este in Ferrara sia sul piano spirituale, con la scomunica, un processo per eresia contro di loro e l'interdetto nella città, sia sul piano politico, sollevando contro di loro le città e le forze guelfe), i dinasti, guelfì per tradizione, si videro forzati a prendere le armi contro i sostenitori ed i rappresentanti italiani del pontefice e a cercare appoggi tra i suoi avversari.
Nel 1318 l'E. partecipò alle trattative, che portarono alla costituzione di una formale alleanza tra lui ed i fratelli Rinaldo e Niccolò da un lato, e Cangrande (I) Della Scala, signore e vicario imperiale di Verona e Vicenza, dall'altro. Nel 1321, allorché dopo la morte dell'arcivescovo Rinaldo di Cornazzano, avvenuta in Argenta (Ferrara) il A agosto di quell'anno, gli Este rivendicarono i loro antichi diritti su quella città, l'E. ebbe il comando delle forze che la investirono e la strinsero d'assedio (la campagna fallì il suo obiettivo: Venezia, intervenuta nel conflitto, costrinse con la preponderanza dei suoi mezzi l'E. a togliere l'assedio e a ripiegare sulle linee di partenza). Il 23 giugno 1323, in Ferrara, a nome proprio e dei fratelli Rinaldo e Niccolò, del cugino Bertoldo, delle città e delle terre a loro soggette, stipulò col vicario imperiale Federico di Truliedingen, che rappresentava Ludovico il Bavaro, re di GerinVia, e con i plenipotenziari e procuratoji di Cangrande Della Scala, di Rainaldo e Buttirone Bonacolsi, vicari imperiali di Mantova e signori di Modena, una lega offensiva e difensiva con l'impegno a non fare paci o trattati separati. L'alleanza fu il prodromo della grande lega ghibellina costituita il 17 genn. 1324 a Palazzolo sull'Oglio da Ludovico il Bavaro, dagli Este, dai Bonacolsi, dal Della Scala, da Galeazzo Visconti, signore di Milano, e da Castruccio Castracani, duca di Lucca, Pistoia, Luni e Volterra, per fronteggiare con le armi l'azione politica e militare promossa in Italia dal papa Giovanni XXII e dal suo legato, il cardinale Bertrando del Poggetto. Nel quadro delle operazioni militari subito avviate da questa lega, l'E. comandò il corpo di spedizione estense, inviato nel giugno in appoggio a Cangrande, in guerra contro i Padovani.
Nell'autunno a Monaco di Baviera Ludovico il Bavaro concesse all'E. ed ai suoi fratelli la conferma e l'investitura di tutti i possessi e di tutte le terre sottoposte al dominio estense (dal provvedimento sovrano rimase escluso Bertoldo di Francesco d'Este). Il 29 di quello stesso mese, l'E. rientrò con i fratelli, nel possesso di Argenta; e nel febbraio successivo, in quello di Comacchio, datasi spontaneamente a lui, a Rinaldo, a Niccolò ed ai loro successori, in perpetuo (anche in questo caso il documento allora rogato non fa menzione del marchese Bertoldo). Sempre nella primavera del 1325, insieme con Rainaldo Bonacolsi condusse una devastante incursione nel territorio di dominio bolognese (la grande città emiliana era infatti tornata, dopo il 1321 e l'espulsione di Romeo Pepoli, alla fedeltà al papa ed ospitava stabilmente il cardinale legato). Caddero in loro mano alcuni castelli, tra cui quello di Floriano e di Sassuolo (Modena), di particolare importanza strategica.
Nel mese di settembre si celebrarono a Ferrara, con la massima pompa, le nozze di una sorella dell'E., Alisia, con Rainaldo Bonacolsi: esse rendevano più stretti i legami di amicizia e di alldanza già esistenti tra i marchesi d'Este e i signori di Mantova e di Modena.
Sempre in quel mese di settembre, morì a Ferrara, qualche giorno dopo il matrimonio della figlia, la madre dell'E., Alda Rangoni; il padre sopravvisse di poco: morì infatti a Bologna, la città del suo esilio, nel giugno dell'anno successivo. Le sue spoglie, traslate a Ferrara, furono là sepolte con la massima solennità. Egli aveva coronato la sua opera di ricostruzione del complesso patrimoniale della sua famiglia recuperando dal vescovo di Catania Leonardo Fieschi un cospicuo gruppo di beni siti nelle città e nei distretti di Padova, di Ferrara e di Rovigo.
Nel 1326, che vide sul piano militare la ripresa guelfa dopo il fallimento dell'offensiva scatenata dagli eserciti della Chiesa e degli alleati di quest'ultima nel Modenese, l'E. ebbe il comando dei contingenti estensi inviati in appoggio alle truppe comandate da Azzone Visconti e da Rainaldo Bonacolsi e, d'intesa con i fratelli, nel quadro delle opere di difesa passiva del Ferrarese, fece costruire la "stellata" di Sant'Alberto sul Po di Primaro.
Nel gennaio del 1327 intervenne - accanto ai maggiori esponenti della fazione guelfa ed agli inviati di Castruccid Castracani, del Comune di Pisa e del re di Sicilia Federico III - alle solenni assise convocate a Trento da Ludovico il Bavaro, nel corso delle quali fu deciso l'intervento in Italia dei sovrano lussemburghese e si denunziò Giovanni XXII come papa illegittimo ed eretico. Quando, poi, agli inizi del 1327 Ludovico il Bavaro si presentò al di qua delle Alpi per rivendicare le prerogative dell'Impero sulla penisola, l'E. ed i suoi fratelli si schierarono dalla parte di quest'ultimo. Ne furono remunerati con l'investitura dei castelli di Argenta e di Sant'Alberto (1327) e con la nomina a vicari imperiali in Ferrara (1328).
Tuttavia fu proprio nel corso del 1328 che la politica italiana del nuovo imperatore e le preoccupazioni suscitate dai mutamenti dei rapporti di forza intervenuti in suo favore negli scacchieri emiliano e lombardo indussero i signori di Ferrara a modificare le loro posizioni. Infatti, mentre andavano prendendo le distanze dallo schieramento più marcatamente filoimperiale, nell'autunno inviarono ad Avignone, come loro oratori presso Giovanni XXII, Gasparino Stampa e Albertino de' Buoi. Essi avevano il compito di aprire trattative in vista di una riconciliazione dei signori di Ferrara con la Sede apostolica e di una loro lega, con il pontefice.
La missione, iniziata nel settembre 1328, era stata senza dubbio preceduta da consultazioni preliminari: lo prova il fatto, che gli inviati estensi riuscirono a condurre a buon fine i negoziati in tempi relativamente assai brevi. Già sul finire di quel medesimo anno, con bolla del 5 dicembre, il papa assolveva l'E. ed i di lui fratelli dalle censure ecclesiastiche, da cui essi erano stati colpiti. Il 31 marzo 1329 le autorità ecclesiastiche liberarono Ferrara dall'interdetto. Il 29 giugno Giovanni XXII affidò a Bertrando del Poggetto il compito di costituire vicari di Ferrara per dieci anni i "nobiles viri" Rinaldo, Niccolò e l'E: ad essi il pontefice attribuiva "in solidum" "iurisdictionem omnimodam temporaleni cum mero et mixto imperio ad eandem Ecclesiam inibi pertinentes". Come contropartita, i marchesi erano tenuti al pagamento di un censo annuo di 10.000 fiorini d'oro.
Con altre bolle di quello stesso anno l'E. ed i suoi fratelli ricevettero inoltre da Giovanni XXII il potere di nominare i canonici delle collegiate ferraresi; la conferma della validità e degli effetti giuridici di tutti i contratti sin'allora stipulati nel distretto e nella città di Ferrara; la "tuitio" apostolica sulle loro persone e sulle "civitates, castra, villas" e sui territori in - l'annullamento, quel tempo di loro dominio. infine, di tutte le misure decretate contro di loro dal Bavaro. Quest'ultimo provvedimento del pontefice costituisce - se mai ve ne fosse bisogno - una ulteriore dimostrazione della circostanza che i signori di Ferrara, una volta riconciliatisi con la Chiesa, si erano alleati ad essa e, come tali, avevano preso le armi contro l'imperatore ed i suoi aderenti.
Dagli interventi pontifici in favore dell'E. e dei suoi fratelli rimase escluso Bertoldo d'Este, loro cugino e consignore anch'egli di Ferrara. il suo nome, infatti, non compare tra quelli dei destinatari degli atti giuridici testimoniati dai documenti appena ricordati, cosi come non figura nella corrispondenza papale posteriore. Ciò consente di valutare quanto fosse ormai divenuto esiguo il suo peso decisionale nella determinazione della politica e nella gestione del dominio estense.
Nel contesto della loro alleanza con la Chiesa e nel quadro della lotta combattuta dalle forze del cardinal legato e gli imperiali nell'Emilia, ma certo anche nell'intento di procurarsi un caposaldo avanzato a copertura del confine sudoccidentale dei loro domini, dietro esplicita richiesta dello stesso Bertrando dei Poggetto nel 1330 l'E. ed i suoi fratelli invasero con un poderoso esercito il territorio modenese ed investirono Finale e Massa Finalese, le piazzeforti in cui Guido e Manfredo Pio, vicari imperiali in Modena, avevano posto le loro basi operative, per continue e rovinose incursioni contro le terre di dominio pontificio o comunque fedeli alla Chiesa nel distretto di Bologna e contro Bologna stessa. Riuscirono ad impadronirsene: il 23 dicembre di quello stesso anno, con lettere datate da Bologna, Bertrando del Poggetto affidò ai tre fratelli il compito di amministrare, custodire e difendere - per conto della Sede apostolica e per la durata di dieci anni o "ad beneplacitum" del papa - "adversus ... indevotorum insidias" le località conquistate.
L'intervento del re di Boemia Giovanni di Lussemburgo in soccorso di Brescia minacciata dall'espansionismo scaligero, ed i suoi rapidi progressi nella pianura padano-veneta; il pericolo potenziale rappresentato dall'intesa, che si andava profilando, tra il sovrano boemo ed il cardinal legato (colloqui di Castelfranco Modenese e di Piumazzo: 16-17 aprile 1331); i timori per le ripercussioni che avrebbero avuto sulla situazione italiana le trattative per un accordo con il pontefice e con lo stesso imperatore Ludovico IV avviate dal re Giovanni nell'estate di quello stesso anno: tutti questi fattori indussero l'E. ed i suoi fratelli a compiere sul piano diplomatico i primi passi in vista di una revisione della loro linea politica se non nei confronti della Sede apostolica, certo nei loro rapporti con Bertrando del Poggetto. Costui, ad aumentare i loro sospetti, proprio sul finire della primavera del 1331 aveva ripreso le operazioni militari in Romagna, per sottometterla alla propria autorità. Giovanni XXII, avendo intuito quanto i marchesi d'Este si apprestavano a fare, cercò di scongiurare il pericolo con un atto, che era una chiara dimostrazione di buona volontà nei loro confronti.
Il 15 luglio 1331 impartì a Bertrando dei Poggetto il compito di concedere in feudo il castrum di Finale Modenese per dieci anni all'E. ed ai di lui fratelli Rinaldo e Niccolò. L'8 agosto a Castelbaldo Rinaldo (III), a nome proprio e dei fratelli, costituì con i nuovi signori di Verona e Vicenza Mastino (II) ed Alberto (I) Della Scala e con i signori di Mantova Luigi (I), Guido, Filippo e Feltrino una lega difensiva ed offensiva per la salvaguardia dei loro domini contro la minaccia rappresentata dalla politica italiana avviata dal re di Boemia e da Bertrando del Poggetto. 1 signori di Ferrara, inoltre, aprirono trattative in quel torno di tempo anche con la Repubblica di S. Marco in vista di un'alleanza o, almeno, di un'intesa amichevole, che fu raggiunta. Ce ne accerta la circostanza che il 28 novembre il doge Francesco Dandolo assentendo ad una richiesta di Niccolò d'Este, accolse quest'ultimo, i suoi figli ed i suoi eredi tra i sudditi di S. Marco e tra i cittadini di Venezia.
Anche se nel corso dell'inverno si infittirono i contatti e le consultazioni tra le cancellerie italiane e si andò coagulando intorno ai firmatari della Lega di Castelbaldo lo schieramento delle potenze che si sentivano minacciate dall'azione comune promossa dal sovrano boemo e dal legato pontificio, i signori di Ferrara non modificarono il loro atteggiamento nei confronti della S. Sede e mantennero con il suo rappresentante in Lombardia rapporti tutto sommato buoni. Lo testimonia il fatto che, il 17 genn. 1332, Giovanni Torelli, tesoriere della Romagna, nel corso di una solenne cerimonia trasferì all'E. ed ai suoi fratelli, con tutte le formalità legali, il titolo, le funzioni ed i poteri di vicari apostolici "in temporalibus" per il distretto e la città di Ferrara. I tre dinasti, però, dovettero acconciarsi alla cessione della piazzaforte di Argenta, che tornò in tal modo - ad onta della espressa volontà del pontefice - sotto il diretto controllo del cardinal legato.
La situazione rimase fluida sino al 27 aprile, quando a Verona Rinaldo (III) d'Este, Mastino Della Scala, Luigi Gonzaga, il nuovo signore di Milano Azzone Visconti, i Tornielli di Novara ed i Rusca di Como si costituirono in alleanza militare per la difesa dei loro domini, ma soprattutto per la distruzione delle signorie create in Italia settentrionale e centrale dal re di Boemia e da Bertrando del Poggetto. Nel quadro delle operazioni militari, che si aprirono subito dopo contro Giovanni I ed i suoi aderenti, l'E. ebbe il comando dei contingenti estensi, che combatterono al fianco di quelli scaligeri e viscontei sotto le mura di Brescia (giugno-luglio 1332). Nel luglio o nell'agosto si recò con i fratelli ad Orzinuovi (Brescia), dove si incontrò con Azzone Visconti, Mastino Della Scala e Luigi Gonzaga. Fu allora confermata la lega contro il re di Boemia e, con ogni probabilità, fu presa in esame la proposta e le condizioni avanzate dal Comune di Firenze per esservi ammesso.
Il conflitto si allargò e si fece più aspro nella seconda metà dell'anno, quando altre potenze - tra cui Firenze e lo stesso re di Napoli Roberto d'Angiò - intervennero al fianco degli alleati (Lega di Ferrara: 16 sett. 1332) ed il cardinale legato ruppe in armi contro i marchesi d'Este. Infatti, approfittando del momento di crisi, che stava attraversando la loro organizzazione militare in seguito allo scacco inflitto a Rinaldo sotto le mura di San Felice sul Panaro dal principe Carlo di Boemia, (23 nov. 1332) Bertrando del Poggetto invase con un forte esercito il dominio estense e, battuta alla "stellata" di Consandolo (Argenta) un'armata sotto il comando di Niccolò (I) d'Este (6 febbr. 1333), marciò su Ferrara e la cinse d'assedio.
L'E. si segnalò sia nei combattimenti per la difesa di Ferrara, sia nella giornata campale, che liberò la città dall'assedio e si concluse con completa disfatta dei Boemo-pontifici (battaglia di Ferrara: 14 apr. 1333).
La disfatta di Ferrara determinò il fallimento del progetto italiano del re Gio vanni e Bertrando del Poggetto. Mentre i collegati riportavano cospicui successi negli altri scacchieri, gli Este passarono all'offensiva nell'Emilia orientale: il 18 giugno inflissero una nuova sconfitta alle genti del legato sotto le mura Argenta e posero l'assedio a quest'ultima. A metà agosto il principe Carlo di Boemia lasciò l'Italia; a settembre si ebbe la rivolta delle città di Romagna, che si sottrassero al governo di Bertrando del Poggetto; a metà ottobre anche il re Giovanni abbandonò la penisola.
Quando, dopo il convegno di Lerici (1° genn. 1334), i collegati ripresero l'offensiva per eliminare ciò che rimaneva delle signorie create in Italia dal re di Boemia e dal cardinal legato, l'E. si trovava a Verona. Sul finire del mese fu richiamato a Ferrara per reggervi il governo in sostituzione del fratello Rinaldo, che si preparava a recarsi, con un poderoso corpo d'esercito, in sostegno delle sue truppe ancora impegnate nell'assedio di Argenta. Dopo la caduta di Argenta (8 marzo 1334) e la rivolta di Bologna (17-28 marzo 1334), che, conseguenza immediata di quella vittoria, costrinse Bertrando del Poggetto ad abbandonare la città e l'Italia, l'E., alla testa di contingenti estensi, combatté accanto ad Azzone Visconti, a Mastino Della Scala, a Luigi Gonzaga, ai signori da Correggio ed alle loro truppe nell'assedio di Cremona, che venne occupata il 15 luglio.
La sottomissione e lo smembramento delle terre italiane già occupate dal re di Boemia e da Bertrando del Poggetto proseguirono nella seconda metà del 1334 e nel 1335, anche se si andava aggravando all'interno della coalizione il dissidio tra Azzone Visconti e Mastino Della Scala per l'assegnazione delle città emiliane, Nel giugno del 1335 gli Este scatenarono l'offensiva contro Modena e il suo territorio, che - secondo gli accordi - dovevano passare sotto il loro dominio: erano infatti ancora retti da Manfredi e Guido Pio, che li governavano come vicari del re Giovanni 1 e che avevano rifiutato di sottomettersi ai signori di Ferrara. L'esercito estense, condotto personalmente da Rinaldo (III) e da Niccolò (I), si spinse fin sotto Modena e la cinse d'assedio.
Le operazioni militari continuarono anche quando, dopo la morte di Rinaldo (III) (31 dic. 1335) l'E. ebbe assunto di fatto la suprema autorità decisionale nel governo della famiglia e dei domini esterisi. Si combatté intorno alla città e nel territorio di Modena per tutti i primi tre mesi del 1336, finché - resasi insostenibile la pressione avversaria e disperando di poter ricever aiuto dagli antichi alleati - i due vicari regi non si indussero in un primo tempo a prendere contatto con Mastino Della Scala, offrendo di cedere a lui la città contesa. Fallito questo tentativo, si acconciarono ad avviare, per il tramite di Mastino, trattative con l'E. in vista di una soluzione onorevole del conflitto, che garantisse da un lato le antiche autonomie e le consuetudini municipali della cittàa e non ledesse dall'altro, gli interessi della famiglia Pio e quelli dei suoi aderenti ed alleati. L'accordo fu raggiunto nella primavera successiva, al termine di colloqui, che si tennero a Verona ed ai quali partecipò, oltre all'E. ed a Manfredi Pio, anche Mastino Della Scala.
L'accordo di Verona fu il presupposto necessario dei provvedimenti con cui il Consiglio generale e le magistrature municipali di Modena nel maggio di quello stesso anno 1336 "statuerunt, firmaverunt et ordinaverunt" l'E., Niccolò (I) e i loro eredi i quali "perpetui et generales domini civitatis, districtus, territorii et totius episcopatus Mutine". Il 13 maggio l'E., seguito da nobile corteggio e scortato da un forte contingente di truppa, entro in Modena: accolto da Manfredi Pio, dalle più alte cariche del Comune e da una gran folla, prese possesso della città secondo il solenne cerimoniale e le forme volute dalla tradizione.
Gli statuta "de dominio, imperio et segnoratico magnificorum dominorum Obizzonis et Nicolai marchionuin Estensium et Anchonitanoruin marchionum" furono inseriti "in primo libro voluminis Statutorum Comunis Mutine" da una commissione di savi "ad hoc electi" nel trimestre luglio-settembre di quello stesso anno. In essi non si fa cenno esplicito - come del resto già nell'accordo di Verona - del terzo consignore di Ferrara Bertoldo d'Este.
L'E. aprì il suo governo come "dominus generalis" di Modena con un gesto di pacificazione, che gli valse il consenso dei nuovi sudditi e consolidò la sua popolarità: richiamò in patria tutti gli sbanditi. Quindi nei mesi seguenti ristabilì l'autorità del Comune di Modena su tutto il territorio da esso dipendente, riconquistando diversi castelli dell'Appennino che si erano ribellati negli ultimi anni alla dominante.
Nella grave crisi, che a partire dalla fine del 1335 sconvolse la lega a causa del dissidio fra il Comune di Firenze e i Della Scala per il possesso di Lucca, l'E. si mantenne in un primo tempo - né poteva essere diversamente: era infatti ancora impegnato nella questione di Modena e gli era necessario l'appoggio diplomatico e militare di Mastino - su una posizione nettamente filoscaligera, come del resto fecero gli altri signori della Lombardia aderenti alla lega, Azzone Visconti e Luigi Gonzaga.
Lucca, che dal 3 ott. 1333 era governata in nome del re di Boemia da tre suoi vicari, i fratelli Marsilio, Pietro e Rolando Rossi, di eminente famiglia parmense, era stata assegnata a Firenze nei convegni di Lerici e di Soncino. Il 14 nov. 1335, i tre fratelli l'avevano consegnata non a Firenze ma a Mastino Della Scala, il quale si interpose come mediatore. Costui non aveva rimesso subito Lucca a Firenze ma ne aveva dilazionato la retrocessione con pretesti, che avevano suscitato le apprensioni di quel Comune. Tali apprensioni erano aumentate nel dicembre successivo, quando lo Scaligero si era reso padrone di Sarzana, città di dominio lucchese, chiave delle vie di accesso alla Toscana per il versante tirrenico. Fallite le trattative con i Della Scala, Firenze si era rivolta agli alleati della lega perché richiamassero i signori di Verona e Vicenza all'osservanza dei trattati.Fermo nella solidarietà con gli Scaligeri e in perfetta consonanza con la linea politica seguita da Luigi Gonzaga e da Azzone Visconti, l'E. non dette alcuna risposta concreta agli ambasciatori inviatigli dal Comune di Firenze. Più esplicito fu con quelli che gli mandò il re di Napoli per invitarlo ad esercitare pressioni su Alberto e su Mastino al fine di giungere ad una soluzione onorevole della vertenza.
Il passo intrapreso dall'E. e dai suoi alleati per indurre il sovrano angioino a prendere le distanze dalla politica di Firenze non ebbe successo. I contatti tra la corte di Napoli e il governo della città toscana continuàrono: il 15 aprile il re nominò i suoi procuratori per stipulare con Firenze una lega in funzione antiscaligera, che venne effettivamente costituita l'11 agosto successivo ed alla quale accedettero anche i Comuni di Bologna e di Siena.
È possibile, come ripete la letteratura storica, che, in merito alle richieste di Firenze e del re di Napoli, l'E., insieme con il Visconti - il quale appunto nel corso di quel mese di marzo si impadroni di Borgo San Donnino - e con il Gonzaga, ritenesse di poter trarre qualche vantaggio da un prolungarsi del dissidio fra Mastino e Firenze. Più probabilmente invece - tutta la sua azione successiva lo sta a provare -era seriamente preoccupato per i possibili esiti, nella Marca Trevigiana e nella Lombardia, del repentino aggravamento della antica tensione fra la Repubblica di S. Marco ed i signori di Verona e Vicenza per il possesso dei castelli di Camino al Tagliamento e di Motta Trevigiana, verificatosi in quello stesso torno di tempo a causa dell'aprirsi di un nuovo contrasto, che solo apparentemente era di natura economica ma che in realtà era una conseguenza dei timori della Serenissima per la crescente potenza degli Scaligeri.
Alberto e Mastino controllavano dunque direttamente o indirettamente per il tramite dei loro alleati - gli Este e i Gonzaga - non solo il medio e il basso corso del Po e le vie commerciali a questo connesse, ma anche una delle più importanti strade di accesso tra la Lombardia occidentale ed il versante tirrenico della penisola. Quando, sullo scorcio del 1335, i signori di Verona, nell'intento di svincolarsi dalla dipendenza economica da Venezia, decisero di dare il via alla costruzione di saline presso Chioggia, in territorio padovano il cui dominio era contestato dalla stessa Venezia, e di sottoporre a dogana le merci in transito per Ostiglia, ìl governo della Serenissima ritenne giunto il momento di riequilibrare a proprio favore i rapporti di forza instauratisi nella regione: intimò ad Alberto e a Mastino Della Scala di annullarei provvedimenti e, come prima misura di rivalsa e di pressione, decise una drastica riduzione delle forniture di sale per gli Stati scaligeri.
Nel marzo del 1337, allorché Firenze, che già stava negoziando col re di Napoli, si inserì nel conflitto ed avviò con Venezia trattative in vista di un'alleanza militare in funzione antiscaligera, l'E. si interpose, insieme con Luigi Gonzaga, come mediatore tra le due parti ma non riuscì né ad ottenere che il governo della Serenissima lasciasse cadere o mitigasse almeno le sue richieste, né ad impedire che decretasse il blocco dei traffici con i territori scaligeri. Nell'aprile, sempre con il Gonzaga, presentò nuove proposte per una soluzione pacifica della vertenza: furono senz'altro respinte come del tutto inadeguate da Venezia. Non migliore risultato raggiunse il tentativo di composizione compiuto nel maggio dallo stesso Azzone Visconti. Il 21 giugno, a Venezia, la Repubblica di S. Marco si costituì in lega con il Comune di Firenze per combattere Alberto e Mastino Della Scala e nel luglio ruppe in guerra aperta, occupando Oderzo.
In un primo momento l'E. cercò di o mantenere, cosi come il Visconti ed i Gonzaga, una posizione di equidistanza tra i belligeranti, appoggiando per quanto stava in lui la prudente linea di condotta adottata da Mastino nei primi mesi di conflitto. Evidentemente non aveva cessato ancora di sperare, che si potesse giungere ad un accomodamento. Tuttavia, quando nell'autunno più aspro si fece lo scontro nel Trevigiano e le operazioni militari si estesero anche al fronte toscano l'E. fu costretto a mutare atteggiamento. Lo fece d'intesa ed insieme con i suoi alleati lombardi. Per sua iniziativa, infatti, sul finire dell'anno convennero a Ferrara i plenipotenziari dei signori di Milano e di Mantova per discutere sullo stato delle cose in Lombardia e stabilire un comune piano d'azione. Fu deciso di compiere un estremo tentativo di mediazione: perciò nel gennaio del 1337 l'E. e gli inviati di Azzone Visconti e dei Gonzaga si recarono via mare, su navigli estensi, a Venezia, ove presero contatto con i responsabili del governo di quella città e con i rappresentanti del Comune di Firenze, ivi accreditati. Le trattative, durate a lungo, ebbero un esito completamente diverso da quello che i loro presupposti avevano fatto pensare. Il 10 marzo 1337, infatti, venne costituita una lega militare difensiva in funzione antiscaligera tra la Serenissima e Firenze, da un lato, e l'E. ed i signori di Mantova e di Milano, dall'altro.
È opinione comune che la missione dell'E. e dei plenipotenziari del Visconti e del Gonzaga a Venezia avesse avuto sin dall'inizio un ben diverso scopo da quello di porre fine al confronto armato fra Venezia e Firenze, da un lato, ed Alberto e Mastino Della Scala, dall'altro. Secondo la maggior parte dei cronisti coevi e la letteratura storica anche recente, infatti, la ricerca di un accomodamento sarebbe stata un semplice pretesto addotto dall'E. e dai signori di Milano e di Mantova per giustificare di fronte agli Scaligeri, alla cui alleanza essi non avevano ancora rinunziato, l'invio di una legazione a Venezia e coprire negoziati in vista di un accordo con i loro avversari, che fu poi effettivamente raggiunto. R invece più probabile, che - come riferisce l'anonimo autore del Chronicon Estense - l'E. ed i plenipotenziari del Visconti e dei Gonzaga abbiano rinunziato all'obiettivo originario della loro legazione solo quando si furono resi conto che non esistevano più margini di manovra per arrivare a un accomodamento a causa della irrevocabile determinazione del governo della Serenissima di giungere a cancellare - almeno dalla Marca trevigiana - la presenza di un nemico, in cui esso vedeva un pericolo mortale per la sopravvivenza della Repubblica; e che perciò, posti di fronte alla necessità di compiere una scelta di campo, solo in un secondo tempo si siano acconciati a schierarsi - sia pure con molte riserve - accanto agli avversari degli Scaligeri, modificando in questa nuova direzione il corso dei negoziati.
La diffidenza dei governi della Serenissima e del Comune fiorentino non erano mal riposte. Con la loro scelta di campo, infatti, l'E., il Visconti ed i Gonzaga si erano proposti soprattutto di riuscire a controllare in qualche modo dall'interno l'azione degli avversari degli Scaligeri e, soprattutto, di giungere a circoscrivere ed a limitare le conseguenze di un successo veneziano. La loro condotta nella guerra e gli eventi successivi si incaricarono di dimostrarlo.
Ad onta dei solenni impegni assunti a Venezia l'E. non aveva affatto rinunziato ai suoi progetti di mediazione, né intendeva rompere con gli Scaligeri, prendendo realmente le armi contro di loro, convinto come era che, se il conflitto in atto si fosse allargato per l'intervento di altre potenze, inevitabile sarebbe stato l'aumento della potenza veneziana e che, se si voleva scongiurare questo pericolo, bisognava per forza giungere ad una immediata cessazione delle ostilità. Infatti nei mesi successivi non solo continuò a mantenere buoni rapporti con la corte di Verona, ma intensificò la sua attività diplomatica presso gli antichi alleati. Riuscì a far accettare loro la proposta di un convegno per discutere ed elaborare insieme una piattaforma d'intesa, che potesse venir accolta dalla Serenissima e dal Comune fiorentino e rendesse possibile una conciliazione fra i belligeranti. Nel maggio, insieme con il fratello Niccolò, si recò a Cremona, città di dominio visconteo, per incontrarsi, come stabilito, con Mastino, con Azzone Visconti e con Luigi Gonzaga.
Il convegno non sortì gli effetti che l'E. si era proposto: esso pose anzi in evidenza l'antagonismo esistente fra Mastino ad Azzone Visconti. Il fallimento dell'incontro non sembra comunque aver avuto conseguenze rilevanti nella successiva linea politica dei tre "domini Lombardie".
Nella prima metà di maggio, infatti, l'E., come del resto il Visconti e i Gonzaga, non aveva ancora compiuto i passi diplomatici e militari voluti dal trattato del 10 marzo, né aveva ancora provveduto a richiamare i contingenti inviati a integrare gli eserciti scaligeri. L'E. continuava a mantenersi su una linea di prudente condotta: la partecipazione sua e delle sue truppe alle operazioni contro gli Scaligeri fu per il momento molto marginale. Sempre nel maggio intervenne al Parlamento generale della lega, nel corso del quale fu deciso, per la guerra nel Veronese, la costituzione di un corpo d'esercito integrato della forza di 3.500 cavalieri e di 2.000 fanti: il suo comando fu affidato a Luchino Visconti, uno zio del signore di Milano. Rientrato nei suoi domini, da là seguì con attenzione nei mesi successivi, senza partecipare personalmente ad operazioni militari, le vicende della guerra, che si combatté soprattutto nel Trevigiano tra Veneziani e Scaligeri, ed alla quale concorse senza molto entusiasmo inviando all'esercito integrato, che doveva operare nella Lombardia, il fratello Niccolò con un buon nerbo di truppe. Nel contempo, allo scopo di controbilanciare e di contenere l'aumentata influenza fiorentina nell'Emilia meridionale, sostenne l'azione promossa a Bologna dal cognato Taddeo Pepoli, che si concluse con l'assunzione di quest'ultimo alla signoria della città col titolo di capitano generale (28 ag. 1337).
Accantonato per il momento il progetto di attaccare frontalmente Verona le operázioni in quello scacchiere languirono. Le armi, però, non posarono negli altri: il 3 agosto, con l'aiuto militare veneziano, Marsilio da Carrara si rese padrone di Padova, se ne proclamò signore ed aderì alla lega; sempre nell'agosto Feltre cadde nelle mani del principe Carlo di Boemia, schieratosi anch'egli con gli avversari degli Scaligeri. 1 successi della lega continuarono sul finire dell'estate e nell'autunno: Mestre e Ceneda caddero in mano ai Veneziani; l'8 ottobre Ponzino Ponzoni e il podestà di Cremona, alla testa di un esercito visconteo, entrarono in Brescia che, col suo territorio, fu annessa ai domini del signore di Milano. Fu allora che Mastino si indusse ad avviare trattative di pace direttamente con il governo della Serenissima, che si affrettò a darne notizia agli alleati. Convennero nella città lagunare i plenipotenziari del Visconti, Folchino Schizzi ed Ugo Giustiniani, del signore di Mantova, il figlio Guido, lo stesso Marsilio da Carrara.
Anche l'E. si recò a Venezia, dove si trovava il 14 dicembre. Prese parte attiva ai colloqui sino a quando non gli fu chiaro che, dopo le prime proposte (in cambio della pace era stata offerta la cessione di Lucca a Firenze, quella di Monselice e di Treviso a Venezia), l'inviato di Mastino non aveva intenzione di giungere a risultati concreti, o non poteva. Il 22 dicembre lasciò la città, deluso, dopo aver costituito, a nome proprio e del fratello Niccolò, due procuratori per trattare, insieme con i governi della Serenissima e del Comune di Firenze, "concordia, pace e anche guerra, se fosse stato necessario" con Alberto e Mastino Della Scala.
Dunque non aveva modificato il suo atteggiamento nei confronti del conflitto ed il suo obiettivo restò sempre quello di giungere ad un accomodamento fra le parti ed alla cessazione delle ostilità. Perciò, quando il doge ed il governo veneziano, in violazione degli impegni assunti con i trattati del 21 giugno 1336 e del 10 marzo 1337, avviarono segretamente nel novembre del 1338 con i signori di Verona e di Vicenza i negoziati bilaterali, che portarono alla pace separata stipulata a Venezia il 24 genn. 1339, fu ben contento di aderire al nuovo trattato.
La pace del 24 genn. 1339, che riconosceva all'E. le antiche giurisdizioni esercitate dalla sua famiglia in alcuni distretti del Padovano, sancì la fine del grande "Stato" scaligero (ad Alb erto [I] ed a Cangrande [II] rimasero solo Verona, Vicenza, Parma e, oltre Appennino, Lucca), ratificò la presa di potere di Ubertino da Carrara, succeduto come signore di Padova a Marsilio (I), scomparso il 21 marzo 1338, e lo stabilirsi di una salda presenza di Venezia nella Marca Trevigiana (dove le venne infatti confermato il possesso di Ceneda e di Treviso), ribadì, con il riconoscimento dell'acquisto di Brescia, l'influenza dei Visconti sulla Lombardia. Su questi dati obiettivi l'E. costruì un suo nuovo sistema di relazioni con le potenze dell'area transpadana e con la catena di città, che si stendeva tra il Po e l'Appennino, tutte legate allora - esclusa Bologna - ad uno dei signori della Lombardia, e su di esso impostò tutta la sua politica successiva: politica cauta e conciliativa, ma non aliena dal ricorso alla forza delle armi, quando questo fosse necessario per la difesa o come mezzo di pressione diplomatica, tesa ad evitare con alleanze il pericolo di accerchiamento e volta al mantenimento della pace ed alla mediazione dei conflitti, l'unica che potesse - a suo avviso - garantire, con l'equilibrio dei rapporti di forza, la difesa delle posizioni da lui conquistate. Nel suo complesso l'azione svolta dall'E. nel campo della politica estera durante il periodo 1340-52 può riassumersi in un insistito impegno diplomatico e militare anche a largo raggio (fu in costante rapporto con Firenze), che portò in ogni caso a cospicui risultati. Dietro tale azione si riconoscono due costanti, l'una più evidente, la fedeltà o propensione nonostante tutto al collegamento con gli Scaligeri, l'altra meno esplicita ma non perciò meno indubitabile, la intesa e la collaborazione con il governo di Venezia nel duplice sforzo di sorvegliare l'atteggiamento inquieto e rancoroso di Mastino nei rapporti con i Visconti e di fronteggiare la potenza e l'espansionismo dei signori di Milano. Certo è, ad ogni modo, che in quello scorcio della prima metà del sec. XIV Ferrara si affermò come uno dei principali punti di riferimento della politica e della diplomazia italiana.
Sul finire di gennaio del 1339 l'E. inviò un forte contingente di truppe a sostegno di Azzone Visconti, impegnato da Lodrisio Visconti suscitatogli contro da Mastino, presso il quale si era rifugiato nel 1335-36, e dai mercenari teutonici della Compagnia di S. Giorgio. L'apporto delle forze estensi fu determinante nella repressione del moto e, in particolare, nella battaglia di Parabiago presso Milano (18 febbraio), che fu vinta da Azzone Visconti, il quale poté così consolidare il proprio dominio. Il 5 febbraio, per il tramite di un suo procuratore, stipulò a Verona con Azzone Visconti e con i Gonzaga, anch'essi rappresentati da procuratori, e con Mastino un patto di non aggressione, di garanzia dell'integrità territoriale dei rispettivi domini, di mutua assistenza militare contro attacchi o minaccia di altre potenze.
Tornata ad aumentare, dopo la presa di potere di Luchino Visconti, succeduto come signore di Milano al nipote Azzone, scomparso il 16 ag. 1339, la tensione fra le corti di Milano e di Mantova, da un lato, e quella di Verona, dall'altro, l'E. intensificò, nel timore di pericolose rotture, la sua attività diplomatica, cercando di rinnovare'i rapporti di solidarietà e di cooperazione stabiliti a Venezia quattro anni prima. Il 9 apr. 1340 riunì a Landinara Taddeo Pepoli, Ubertino da Carrara e gli oratori del Comune di Firenze per costituire una lega diretta ad arginare la pericolosa politica di destabilizzazione avviata da Luchino Visconti con l'obiettivo di dividere il fronte dei suoi possibili competitori e di ìsolare, sul piano dei rapporti internazionali, i signori di Verona e di Vicenza.
Nella primavera e nell'estate l'E. compì una serie di passi diplomatici per evitare che la tensione fra i suoi antichi alleati crescesse sino al punto di esplodere in guerra aperta: fra l'altro si rivolse al governo veneziano che dovette intervenire in appoggio della sua iniziativa esercitando pressioni soprattutto presso le corti di Verona, di Mantova e di Bologna. Infatti l'E. poté riunire a Ferrara gli Scaligeri, i Gonzaga ed il Pepoli per una cerimonia di riconciliazione reciproca, che si svolse con solennità dirmanzi ai rappresentanti del doge Bartolomeo Gradenigo.
Fedele alle pregiudiziali della sua politica estera, l'E. non prese le armi contro Alberto e Mastino quando, dopo la rivolta antiscaligera di Parma (21-22 maggio) e la presa di potere, come signore di quella città, da parte di Azzone da Correggio, nel giugno Luchino Visconti, i Gonzaga ed Ubertino da Carrara, per consentire al da Correggio di rafforzarsi al governo, ruppero in guerra invadendo il territorio veronese. Tuttavia, in coerenza con l'attività diplomatica svolta sin'allora, entrò nella grande lega antimperiale costituitasi a Napoli il 17 giugno.
La lega riuniva potenze guelfe e potenze ghibelline: oltre all'E., ne fecero parte il re di Napoli Roberto d'Angiò, i Comuni di Firenze, di Siena, di Perugia, Taddeo Pepoli con Bologna. Anche se i loro procuratori non erano presenti alla firma dell'accordo, Luchino Visconti ed i Gonzaga vennero considerati - sino a nuova decisione - compresi in esso. Il trattato costitutivo prevedeva che la coalizione sarebbe durata quattro anni, e ne indicava gli obiettivi: la lotta contro Ludovico IV e chiunque "avesse tirannicamente ed ostilmente invaso l'Italia". L'allusione a Mastino era chiara ma il nome di questo non era fatto in modo esplicito, e ciò può essere dovuto ad un preciso intervento dell'Este. Il documento affidava al re di Napoli il compito di nominare il comandante delle forze interalleate.
Nell'estate del 1340, mentre la guerra in Lombardia continuava, l'E. ebbe una parte di rilievo nei negoziati allora avviati, sotto la pressione degli eventi bellici, dai signori di Verona e di Vicenza in vista di una vendita di Lucca al Comune di Firenze. Grazie anche alla sua opera di mediazione, le trattative poterono arrivare speditamente a conclusione. L'accordo fu stipulato a Ferrara il 4 agosto.
Oltre agli obblighi di carattere territoriale e finanziario (cessione dell'intera Garfagnana e delle città di Lucca, di Pietrasanta e di Barga a Firenze; pagamento di 250.000 fiorini da versarsi ad Alberto ed a Mastino parte subito, parte in rate successive), l'accordo prevedeva anche impegni di carattere politico, come quello della costituzione di un'alleanza decennale e di un patto di mutua assistenza militare della stessa durata fra il Comune di Firenze ed i signori di Verona e Vicenza, alleanza e patto, ai quali avrebbero dovuto accedere anche il re di Napoli e gli aderenti di Mastino: lo stesso E., Taddeo Pepoli e Marsilio da Carrara.
Tuttavia la notizia dei negoziati in corso a Ferrara aveva destato le preoccupazioni del governo di Pisa, che, pure interessato a Lucca per l'importanza strategica di quest'ultima, ne stava anch'esso trattando l'acquisto con Mastino. La reazione era stata immediata: al duplice scopo di affermazione preventiva dei propri diritti e di dissuasione nei confronti di Firenze, il Comune di Pisa aveva mobilitato il suo esercito, che, lasciate le sue basi il 28 luglio, aveva marciato sulla città contesa, davanti alla quale si era attestato il 2 agosto. La pubblicazione dell'accordo di Ferrara; l'ingresso in Lucca, alla testa di un contingente fiorentino di 200 cavalieri e 300 fanti, di un nipote di Spinetta Malaspina, inviato da Verona per procedere, in nome di Alberto e di Mastino Della Scala, alla consegna ufficiale della città ai commissari fiorentini (ii agosto); l'acquisto, per 12.000 fiorini, delle terre che Spinetta Malaspina possedeva in Garfagnana, acquisto con cui il Comune di Firenze si rendeva padrone dei passi appenninici e completava l'accerchiamento della rivale Pisa (12 agosto); la stipula, avvenuta a Milano in quello stesso giorno, di una lega offensiva e difensiva in funzione antifiorentina fra il Comune di Pisa e Luchino Visconti; la costituzione, sempre a Milano, di una seconda lega, che comprendeva questa volta, oltre a Pisa e al Visconti, anche i Gonzaga ed Azzone da Correggio (20 agosto), fecero esplodere le ostilità anche in quello scacchiere.
Sin dall'inizio delle ostilità sul fronte toscano l'E. si schierò decisamente, insieme con il cognato Taddeo Pepoli ed il Comune di Bologna, accanto a Mastino ed a Firenze. L'E. cooperò alle operazioni inviando a sostegno delle milizie fiorentine un contingente di 300 cavalieri, che si batterono bravamente al fianco degli alleati (500 cavalieri inviò da Bologna il Pepoli ed altrettanti, da Verona, Mastino Della Scala). Quando il conflitto si allargò per il coinvolgimento di Ubertino da Carrara, sceso in campo al fianco della lega pisano-viscontea, e dopo la consegna ufficiale di Lucca ai commissari fiorentini (21 settembre), l'esercito di Firenze e dei suoi alleati venne disfatto nella battaglia di San Quirico (2 ottobre), l'E. volle informarne direttamente gli ostaggi fiorentini, che si trovavano presso di lui a garanzia dell'accordo del 4 agosto.
La battaglia di San Quirico non fu risolutiva. Le ostilità continuarono infatti in quell'anno e nel successivo, nella Lombardia - dove il non ancora risolto conflitto tra Visconti, Gonzaga e Scaligeri per la questione delle città emiliane cominciava ormai a coinvolgere anche le signorie romagnole - e in Toscana. Il 21 nov. 1341, a Verona, l'E. con Alberto e Mastino Della Scala, con Taddeo Pepoli, col Comune di Firenze e con le città guelfe della Toscana si costituì in lega contro Luchino Visconti ed i suoi alleati. Nonostante l'appoggio - più che altro nominale - del re di Napoli e l'avvento (31 maggio 1342) del duca di Atene Gualtieri di Brienne come "diferisore del Comune e della Parte guelfa, conservatore del Popolo e capitano di guerra" a Firenze, il duello fra questa e Pisa per il possesso di Lucca si risolse a svantaggio della prima. La guarnigione della città contesa capitolò il 6 luglio 1342 ed il 9 ottobre successivo Gualtieri di Brienne stipulò con i Pisani una pace, che dopo la espulsione del duca di Atene (3 ag. 1343) anche il Comune di Firenze, tornato libero, dovette riconoscere e rinnovare (16 nov. 1343).
Mentre oltre Appermino era in atto il confronto fra gli eserciti della lega fiorentina e quelli dello schieramento pisano-visconteo, non posarono le armi in Lombardia, dove l'E. dovette fronteggiare non solo gli attacchi dei Gonzaga e dei da Correggio, ma l'ostilità di Francesco Ordelaffi, suscitatogli contro dal signore di Milano. Rintuzzò gli uni con la forza, contenne l'altra sia rinsaldando il collegamento con i suoi vecchi alleati sia allargando la rete dei suoi contatti diplomatici ai signori di Rimini, di Ravenna, di Faenza, di Imola, con i quali appunto in quegli anni e nei successivi appare in rapporti di amicizia e di solidarietà. Ciò che rendeva difficile il ritorno alla pace in quello scacchiere era il contrasto tra le maggiori potenze dell'area per il possesso di Parma, da cui si volevano cacciare Azzone da Correggio e i suoi fratelli, ma sulla quale convergevano le contrastanti aspirazioni dei Gonzaga, signori anche di Reggio, dei Visconti (i quali dalla testa di ponte di Piacenza miravano ad allargare il loro dominio a tutta l'Emilia), di Alberto e di Mastino Della Scala, protesi alla punizione dell'usurpatore ed alla riconquista della città, di Taddeo Pepoli e dello stesso E., che in essa vedevano una minaccia così per Bologna come per Modena. L'E. e i suoi alleati, dovettero fronteggiare un nuovo pericolo: l'approssimarsi della "grande compagnia" di Gualtieri di Urslingen, che, rimasta senza ingaggi, era stata convinta a lasciare la Romagna per invadere la Lombardia meridionale da Francesco Ordelaffi, signore di Imola e amico di Luchino Visconti.
I mercenari tedeschi si spinsero fin sotto Bologna: solo nell'aprile, quando fu corrisposta loro un'ingente somma di danaro, si indussero a lasciare la regione.
La minaccia, non scongiurata definitivamente, della "grande compagnia" e l'arrivo in Italia settentrionale di Guglielmo de Curty, cardinale, inviato dal nuovo papa Clemente VI come legato apostolico in Lombardia col compito di pacificare l'area, sciogliendo le leghe offensive ed imponendo tregue tra le potenze in conflitto, e di organizzare la lotta contro lo scomunicato imperatore Ludovico IV, portarono nei mesi successivi ad un riavvicinamento tra i signori della regione. Il 26 febbr. 1343, da Alessandria, il cardinale legato intimò una tregua di tre anni fra Luchino Visconti, i Gonzaga, i da Correggio, da un lato, e gli Scaligeri ed i loro aderenti, dall'altro: essa fu proclamata a Verona il 24 marzo e ad essa aderì, in quanto collegato di Alberto e Mastino, anche l'E. e così fecero anche il Pepoli, i Malaspina signori di Verrucola, i da Fogliano, reggiani oppositori dei Gonzaga. Nell'agosto, dopo la pacificazione degli Scaligeri con Ubertino da Carrara (maggio) e con il Visconti (viaggio di Mastino a Milano: giugno), l'E. si recò a Peschiera, dove si incontrò con Bruzio di Luchino Visconti, con lo stesso Mastino (II) e Luigi Gonzaga. Ignoriamo lo scopo del convegno: probabilmente si discusse per trovare una soluzione al problema di Parma e per organizzare una strategia comune contro i sempre possibili attacchi della "grande compagnia". Scoppiato il conflitto tra Pisa e il signore di Milano per il possesso di Lucca (settembre), l'E., da buon alleato, inviò a Luchino Visconti truppe di rinforzo - e come lui fecero Mastino) e Taddeo Pepoli - ma non si lasciò coinvolgere direttamente nel conflitto. Col suo prudente atteggiamento l'E. si proponeva dunque un duplice obiettivo: evitare il fallimento dell'opera di pacificazione promossa dal cardinal legato e salvaguardare, con essa, il buon esito dei negoziati in corso per una conciliazione con la Sede apostolica.
Subito dopo l'ascesa al soglio pontificio di Clemente VI (7, 19 maggio 1342), l'E. aveva infatti ripreso le trattative, gia avviate dopo la scomparsa di Giovanni XXII ma protrattesi invano per tutto il corso del pontificato di Benedetto XII, per comporre il dissidio con la Curia romana apertosi dieci anni prima all'epoca della lotta contro il re Giovanni I di Boemia e del legato apostolico Bertrando del Poggetto. I negoziati procedettero speditamente: nella primavera del 1343, infatti, dopo aver versato 40.000 fiorni a risarcimento dei censi non più pagati dopo la battaglia di Ferrara del 14 apr. 1334, l'E. e Niccolò furono dal pontefice confermati per 10 anni nel titolo e nelle funzioni di vicari apostolici (4 in temporalibus" della città, comitato e distretto di Ferrara. In quell'occasione il papa confermò inoltre loro l'investitura di Argenta, per la quale avrebbero dovuto versare un censo annuo all'arcivescovo di Ravenna.
Rimasto unico signore di Ferrara dopo la morte del cugino Bertoldo (21 luglio 1343) e quella del fratello Niccolò (1° maggio 1344), l'E. richiamò in patria, nell'estate del 1344, i contingenti di truppa che aveva inviato in Toscana ad integrare gli eserciti viscontei nella guerra contro Pisa. Il provvedimento, consentaneo al clima di rinnovata collaborazione con la Sede apostolica e in linea con la politica di pace promossa in Italia dal pontefice, viene in genere messo in rapporto con l'infuocata lettera sull'urgenza di por fine alle rovine ed ai lutti provocati in Toscana dal conflitto, che il papa indirizzò, il 26 luglio di quell'anno, all'E. ed agli altri "domini Lombardie". Sembra più probabile ritenere invece, che quel passo fu compiuto in previsione di futuri sviluppi delle vicende emiliane: anche Mastino e Taddeo Pepoli, infatti, lo eseguirono di lì a poco.
Il resto dell'estate fu tutto un susseguirsi di incontri e di contatti diplomatici. Il 18 agosto l'E. si recò a Legnago (Milano) per un convegno con Mastino e con Luchino Visconti: oggetto dei colloqui fu ancora una volta la questione di Parma ma si discusse anche di Reggio e del conflitto tra i da Fogliano e i Gonzaga. Poco dopo ebbe, a Modena. un abboccamento con Giberto da Fogliano e con Ostasio da Polenta. Secondo l'anonimo autore delle Storie pistoresi, i "tiranni della Lombardia", nel corso di un'altra loro riunione (della quale non viene indicato né il luogo né l'epoca), si sarebbero accordati su un progetto, che avrebbe risolto la questione emiliana a spese dei Gonzaga e di Azzone da Correggio: esso prevedeva infatti il passaggio di Reggio all'E., di Parma ai Visconti, di Mantova agli Scaligeri. Non siamo in grado di valutare, per la mancanza di altri riscontri, la veridicità di questa notizia. Essa riflette tuttavia molto bene il clima generale che spinse i Gonzaga, sempre diffidenti nei confronti di Scaligeri ed Estensi, a stringersi sempre di più ai Visconti e nel quale Azzone da Correggio maturò la decisione di cedere all'E. la città contesa e si delinearono gli schieramenti del nuovo conflitto.
Il contratto relativo alla vendita di Parma, per la somma di 70.000 fiorini, fu stipulato il 6 ottobre. Il 23 ottobre Giberto da Fogliano, alla testa di un forte contingente estense, entrò nella città e ne prese possesso in nome dell'E., mentre Luchino Visconti faceva affluire in tutta fretta genti d'arme a rinforzare il presidio di Reggio. Agli inizi di novembre l'E. ebbe a Modena un abboccamento con Mastino Della Scala e con Taddeo Pepoli per discutere sulla situazione e decidere sul da farsi. Solo il 10 novembre fece il solenne ingresso in Parma. Al suo seguito cavalcavano il giovane Francesco di Bertoldo d'Este ed i suoi alleati della Romagna. Nelle sedute del 23 e del 24 novembre il Consiglio generale e le autorità municipali attribuirono all'E. il "dominium Comunis et populi civitatis et districtus Panne... cum mero et misto imperio et simplici iurisdictione" e la "omnimoda potestas, auctoritas et baylia ipsius Civitatis et districtus".
L'E. si trattenne a Parma sino ai primi del mese successivo. Il 6 dicembre ripartì con il suo seguito e le sue genti d'arme, diretto a Modena. Giunta in territorio di Reggio, l'avanguardia estense fu attaccata presso Rivalta e, dopo una furiosa zuffa, dispersa dalle genti d'arme comandate da Filippino Gonzaga e da un condottiero visconteo Ettore da Panico. Nello scontro caddero prigionieri, tra gli altri, lo stesso Giberto da Fogliano e Giovanni da Correggio, uno dei fratelli di Azzone. L'E. non partecipò al combattimento, ma ripiegò con i suoi su Parma, dove fu raggiunto, nei giorni successivi, da una colonna scaligero-bolognese condotta da Spinetta Malaspina.
Il colpo di mano era stato concordato con Luchino Visconti, al quale, così come ai Gonzaga, non poteva piacere il trapasso dei poteri avvenuto a Parma. Poiché l'impegno militare in Toscana gli impediva di rompere in guerra aperta in Emilia contro l'antagonista, il signore di Milano, all'indomani della cessione di Parma, aveva inviato a Reggio, col compito specifico di impadronirsi dell'E., Ettore da Panico ed un contingente di stipendiari tedeschi.
L'agguato di Rivalta fu l'inizio di una nuova guerra in Lombardia. Essa mirava direttamente a colpire l'E. e l'organismo politico creato da lui e dai suoi fratelli: durò poco più di un anno e mezzo e si concluse solo grazie al realismo politico del dinasta estense. L'E. ripartì da Parma, dove lasciò come governatore Francesco (II) d'Este, l'11 dicembre e, dopo aver seguito un itinerario tortuoso, giunse a Ferrara il 4 gennaio dell'anno successivo. Là si incontrarono con lui Mastino, Giovanni di Taddeo Pepoli, Ostasio da Polenta, Malatesta di Rimini e gli ambasciatori di Pisa per discutere i piani della guerra contro i Gonzaga. Dell'intesa fece parte anche Ubertino da Carrara, le cui truppe combatterono poi nell'esercito integrato.
Sempre nel gennaio del 1345 un'armata gonzaghesca, rinforzata da reparti viscontei, compì una grande incursione nel territorio estense, mettendo al sacco il Polesine di Figuerolo; ripeté l'attacco nel febbraio, quando l'E. si trovava a Parma. Gli alleati scatenarono un'offensiva avanzandosi sul territorio di Reggio: nel marzo caddero in loro mano diversi castelli, fra cui quello di San Polo, occupato dalle truppe del presidio di Parma condotte da Francesco (II). Il 4 aprile la fazione ghibellina di Parma insorse e tentò di rovesciare, con l'appoggio dei Rossi, il regime estense: il moto fu represso con esemplare durezza da Francesco. A nulla sembrava sortire la missione del nuovo legato apostolico, il vescovo di Chartres Guglielmo, inviato dal papa per provvedere "super reformatione pacis inter nobiles de partibus Lombardie", il quale, giunto in Italia aveva lanciato all'E. e agli altri belligeranti l'infirnazione a rispettare la tregua bandita dal cardinale de Curty, pena le più gravi censure ecclesiastiche (30 gennaio), anche se Luchino Visconti si acconciò a sospendere le operazioni in Toscana e ad accettare il lodo di Pietrasanta (17 maggio).
Il 28 giugno gli Scaligero-Estensi condotti da Carlotto da Piacenza e da Maffeo da Pontecorofa da Brescia riuscirono a penetrare in Reggio ma furono battuti nel corso di una furiosa battaglia da Filippino Gonzaga, accorso tempestivamente con le sue genti d'arme. Nel luglio Francesco d'Este, uscito di Parma, bloccò un'offensiva lanciata da Luchino Visconti contro la città ed il suo territorio. Nell'agosto gli Scaligero-Estensi scatenarono una nuova offensiva, giungendo a porre, il 19 di quel mese, l'assedio a Reggio: furono costretti a levarlo il 15 ottobre quando, a causa di una pestilenza, Mastino richiamò in patria i suoi contingenti. La guerra si protrasse per tutto lo scorcio dell'anno e per i primi mesi del successivo 1346, senza che nessuna delle due parti riuscisse a riportare sostanziali successi, mentre si moltiplicarono i contatti diplomatici e gli interventi della Sede apostolica volti a por fine alle ostilità. Il 4 genn. 1346, Clemente VI impose d'autorità la proroga per altri due anni, a partire dal 26 febbraio successivo, della tregua bandita dal cardinal de Curty. Nella primavera Luchino Visconti portò il suo esercito fin sotto Parma, con l'obiettivo di porre il blocco alla città e prenderla per fame. Fallì nell'intento. L'E. e Mastino, portate le loro genti d'arme attraverso il territorio reggiano, si attestarono dinnanzi al nemico e riuscirono a rifornire di viveri la città. Sebbene gli Scaligero-Estensi avessero più volte offerto battaglia, essa non venne mai accettata dai Viscontei: i due eserciti rimasero inerti, controllandosi a vicenda, l'uno al di qua, l'altro al di là del Parma.
In realtà erano già in corso allora negoziati fra i belligeranti in vista dì una soluzione del conflitto.
Il trascorso anno e mezzo di lotta aveva insegnato all'E. quanto fosse dispendioso in quel momento storico mantenere Parma, separata dal corpo dei domini estensi da Reggio e dal suo territorio, soggetti ai Gonzaga, e stretta fra nemici (i Visconti, ad Ovest, i signori di Mantova ad Est), che ambivano egualmente alla sua conquista.
D'altra parte il Visconti si era reso conto di non essere in grado di avere partita vinta, da solo, contro lo schieramento estense-scaligerobolognese: un suo deciso attacco nella Lombardia contro l'E. e i Della Scala non avrebbe mancato di provocare l'immediata reazione di Venezia, alla quale questi ultimi erano legati. Considerazioni analoghe sconsigliavano un attacco contro i Pepoli, vecchi alleati dei Fiorentini.
Fu giocoforza per il signore di Milano venire incontro all'E.1 accettando di trattare sulla base delle proposte da lui avanzate: la chiusura delle ostilità contro la cessione di Parma per il prezzo con cui essa era stata comprata nel 1344 (70.000 fiorini), e contro l'impegno a contribuire alla completa attuazione del programma di pacificazione della Lombardia contenuto nell'accordo, che, come riferisce l'anonimo autore delle Storie pistoresi, i tre dinasti avevano a suo tempo stipulato e che prevedeva lo smembramento dello "Stato" dei Gonzaga ed il passaggio di Reggio sotto il dominio dell'E. e di Mantova sotto la signoria degli Scaligeri.
Le trattative procedettero rapidamente e si dovettero concludere con piena soddisfazione delle parti, se già nell'agosto il signore di Milano poteva chiedere all'E. di tenere a battesimo uno dei due gemelli natigli in quel mese dalla terza moglie Isabella Fieschi. Il 7 settembre l'E. lasciò Ferrara e passando per Verona giunse a Cassano d'Adda, in territorio visconteo dove trovò ad accoglierlo Giovanni Visconti, arcivescovo di Milano e fratello di Luchino, il quale lo scortò con ogni onore sino alla capitale.
La pace, dunque, era stata conclusa ma riguardava solo il Visconti, da un lato, gli Scaligeri e l'E., dall'altro: essa non comprendeva i loro rispettivi alleati, i Gonzaga ed il Pepoli. Secondo clausole del trattato che per il momento dovevano rimanere segrete, Luchino si impegnava, nei confronti di Ferrara e di Verona, a contribuire sul piano diplomatico e su quello militare allo smembramento della signoria dei Gonzaga, che fu effettivamente tentato, di lì a due anni.
Da Milano l'E. non tornò direttamente a Ferrara, ma passò per Verona, come aveva fatto all'andata: doveva evidentemente riferire ai suoi vecchi alleati i risultati della missione. A Verona si recò di nuovo poco dopo per incontrare Mastino e gli inviati di Luchino Visconti: i colloqui si conclusero il 7 ottobre con la stipula di un patto di non aggressione, di garanzia dell'integrità territoriale dei rispettivi domini, di mutua assistenza militare. A questo patto furono più tardi ammessi anche i Gonzaga (trattato di Legnago: 17 ottobre). Nei mesi successivi l'E. rientrò in possesso di alcuni castelli del Modenese, costringendo a sottomettersi alla sua autorità Giovanni da Freda, Arrigo e Inghirano da Gorzano e i Montecuccoli, che gli si erano ribellati nel corso della guerra per Parma.
Il 24 ottobre, Luchino Visconti, a parziale pagamento della somma convenuta per l'acquisto di Parma, trasferì a Niccolò (II) e ad Alberto (I), figli dell'E., i quali agivano in nome proprio e del padre, la proprietà di terre e centri abitati "in Valle Ruptarum" per il valore di 36.000 fiorini.
Il 27 apr. 1347, in Ferrara, l'E. stipulò con gli ambasciatori del re d'Ungheria Luigi I, una convenzione, con cui concedeva al sovrano ed al suo esercito il libero passaggio attraverso il territorio estense, ma determinava il loro itinerario e precisava le modalità e le regole, cui si sarebbero dovuti attenere finché fossero stati nei suoi dominii.
Col nuovo anno divennero esecutivi gli accordi segreti stipulati nel 1346, per chiudere il conflitto per Parma, dall'E., dagli Scaligeri e dal Visconti. Il 14 marzo 1348, infatti, a Monza rappresentanti del signore di Ferrara e di Mastino Della Scala, costituirono con Luchino Visconti un'alleanza contro i Gonzaga. Le ostilità furono aperte immediatamente. L'E. sostenne con una flotta, inviata lungo il Po da Ferrara, l'attacco portato dagli eserciti dei collegati contro il territorio mantovano. Dopo una serie di successi (caddero in mano ai Viscontei Casalmaggiore, Borgoforte e poi, nel Mantovano, Sabbioneta, Pomponesco, Asola; gli Scaligeri giunsero sino a Curtatone e gli Estensi sino a Governolo) l'offensiva si esaurì sotto Mantova, nello sforzo, risultato vano, di far capitolare la città. Le operazioni militari continuarono per tutto il resto dell'anno e nei primi mesi del successivo 1349, senza che i collegati riuscissero a prendere il sopravvento. Ciò fu dovuto soprattutto alla "morte nera", la grande epidemia di peste, che allora desolò l'Italia e l'Europa; ma in parte anche allo scarso impegno, con cui Luchino Visconti, poco interessato ad un conflitto dalla cui soluzione vittoriosa avrebbero tratto vantaggio quasi esclusivamente i suoi alleati, e l'arcivescovo Giovanni Visconti, succeduto come signore di Milano al fratello, scomparso il 29 genn. 1349, sostennero lo sforzo bellìco dell'E. e dì Mastino. Le armi posarono solo quando, il 19 apr. 1349, da Treviso il cardinale di S. Cecilia Guido dei conti di Boulogne, inviato come legato apostolico dal papa Clemente VI per pacificare la regione, intimò ai belligeranti una tregua d'armi sino al Natale del 1350, per consentire il libero e pacifico passaggio dei pellegrini, che si recavano a Roma per il giubileo.
Negli anni successivi l'E. non si distaccò sostanzialmente da quelle pregiudiziali che avevano costituito le linee di forza portanti della sua politica estera: l'amicizia con la Sede apostolica, il collegamento con gli Scaligeri, l'intesa con Bologna e, più recenti, l'alleanza con i signori di Ravenna e i buoni rapporti con i Visconti. Rese più stretti i suoi legami con i da Polenta, come è dimostrato dal matrimonio, celebrato in Ferrara il 12 luglio 1349, della figlia Alisia con Guido da Polenta; primogenito di Bernardino, il signore tornato al potere in Ravenna il 24 giugno 1347. Testimoniano la sua collaborazione con la Curia romana e con i suoi rappresentanti in Italia due provvedimenti del 1350: il 3 marzo di quell'anno, con bolla datata da Avignone, il papa Clemente VI confermò al signore di Ferrara ed ai di lui figli Aldobrandino (III), Niccolò (II), Folco, Ugo e Alberto il vicariato apostolico "in temporalibus" della città e distretto di Ferrara per altri dieci anni. Il 27 maggio successivo, il cardinal di S. Cecilia liberò Modena dall'interdetto, che era stato lanciato sulla città nel 1313, in seguito all'assassinio di Raimondo d'Aspello. Tuttavia le vicende di Bologna successive alla morte di Taddeo Pepoli (28 sett. 1347) ed il passaggio di quella Città (28 ott. 1350) a Giovanni Visconti costrinsero l'E., in buoni rapporti con quest'ultimo (aveva concesso il libero transito per il Modenese alle sue truppe, che marciavano su Bologna), a defilarsi rispetto alla lega, che i rappresentanti del papa organizzarono contro il signore di Milano. In quel periodo l'E. rinsaldò anche il suo collegamento con gli Scaligeri per mezzo del matrimonio, celebrato nel 1351, del proprio primogenito Aldobrandino con Beatrìce dì Rizzardo da Camino, nipote di Mastino (II).
Agli inizi del 1352 l'E. cadde gravemente ammalato. Morì il 20 marzo 1352 a Ferrára e il suo corpo venne ìnumato nella locale chiesa dei frati minori.
Da Lippa Ariosto, una nobildonna bolognese, che era stata la sua compagna e che aveva sposato poco prima della morte, avvenuta il 27 nov. 1347, aveva avuto undici figli.
Sotto il lungo governo dell'E. si compirono in Ferrara cambiamenti istituzionali destinati ad avere sviluppi di vasta portata nella organizzazione delle future strutture politico-amministrative dello "Stato" estense. Come fa rilevare il Gundersheimer, l'E. avviò il processo di centralizzazione e di razionalizzazione delle tecniche amministrative creando il primo abbozzo di una vera e propria burocrazia, testimoniato anche dal linguaggio usato nei documenti di corte. Solo con lui, infatti, compare una "cancelleria Domini Marchionis", di cui è responsabile un "cancellarius Domini Marchionis", con competenze essenzialmente politiche e diplomatiche. Accanto alla "cancelleria" si venne allora costituendo anche il primo nucleo di quell'ufficio preposto alla gestione amministrativa e finanziaria, che fu chiamato "camera". All'E. risalgono i primi esempi di monetazione autonoma estense, in quanto a partire dal 1346 o 1347 egli batté moneta a proprio nome e con la propria iscrizione, quei "ferrarini" o "ferraresi", da cui sarebbe derivata la "lira marchesana", coniata dall'ultimo ventennio del secolo. "Questo suggerisce", osserva opportunamente il Gundersheimer, "un notevole passo avanti nel controllo dì Obizzo delle istituzioni economiche ferraresi ed una consapevolezza dei vantaggi psicologici e politici derivanti dal possedere un proprio sistema monetario" (p. 20). La coscienza della forza della entità politica da lui creata e la consapevolezza del suo ruolo nella Lombardia, oltre che nella coniazione di monete al proprio nome, trovarono espressione anche nelle sontuose cerimonie e nelle "corti bandite", con cui furono celebrati in Ferrara, sotto l'E., eventi come l'arrivo di Beatrice di Guido Gonzaga, sposa di Niccolò (I) d'Este (21 genn. 1335), il matrimonio di Beatrice di Rinaldo (II) d'Este con Giacomo di Savoia, principe di Morea (genn. 1339), l'arrivo dì Caterina di Rizzardo da Camino, seconda moglie di Bertoldo d'Este (14 luglio 1339), quello di Caterina di Luchino Visconti, terza moglie di Bertoldo d'Este (3 giugno 1342), ed il passaggio del delfino di Vienne, che si recava a combattere contro i Turchi (autunno del 1345).
L'E. viene ricordato dall'Ariosto, nell'Orlando furioso (III, 40) tra gli "spiriti magni" della casa d'Este.
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