oc (oco)
È in D. che si trovano le prime attestazioni compatte, non solo italiane, di ‛ lingua d'oc ' e simili (oc deriva da hoc è vale in prov. antico " sì ") nel senso di " lingua provenzale ". Già nell'excursus letterario di Vn XXV 4 leggiamo: se volemo cercare in lingua d'oco e in quella di sì, noi non troviamo cose dette [in poesia] anzi lo presente tempo per cento e cinquanta anni. E in Cv I X 11 molti... li quali dispregiano esso [volgare italiano] e commendano li altri, massimamente quello di lingua d'oco (altra forma era ‛ oca ' come si vede in ‛ Linguadoca '): benché qui, dato il contesto sintattico, l'espressione possa avere preferibilmente valore geografico (e in Cv I VI 8 D. usa il termine, più diffuso in Italia, ‛ provenzale ': volgare... provenzale, come in XI 14 parlare... di Provenza; inoltre in IV XI 10 un trovatore - v. oltre - è detto lo Provenzale). Nel De vulg. Eloq., dopo aver osservato che il terzo idioma che occupò l'Europa è a sua volta triforme, perché alii oc, alii oïl, alii sì afirmando locuntur (I VIII 6, e similmente in I IX 2 nam alii oc, alii sì, alii vero dicunt oïl), D. chiama i Provenzali proferentes oc (I VIII 7), come gl'Italiani qui... sì dicunt e i Francesi loquentes oïl (da notare che nello stesso capitolo i Provenzali sono chiamati Yspani a un certo punto, Provinciales, ma con più netto valore etnico-geografico, in un altro). Infine in VE I X 3, mettendo a confronto le tre lingue dell'idioma tripharium, D. scrive: Pro se vero argumentatur alia [lingua], scilicet oc...; e analoga formula torna in VE II XII 3, a proposito degli Yspani che hanno usato una certa tecnica metrica: et dico Yspanos qui poetati sunt in vulgari oc (v. ISPANI).
Tali denominazioni, certo connesse all'importanza massima che D. dava all'avverbio di affermazione, trovano deboli riscontri coevi in Italia e fuori. Se si prescinde da un passo poco probante di un sirventese di Bernart d'Auriac (vedilo sub v. OÏL), la prima attestazione di ‛ lingua d'oc ' in accezione linguistica (cfr. Meyer e Koll) si ha in un documento francese settentrionale (in latino) del 1291, dove si parla " mercatorum Provincialium, de lingua videlicet, quae vulgariter appellatur lingua d'oc " (passo che presuppone certo un impiego orale diffuso dell'espressione): ma si noti che in altri documenti francesi di poco successivi, e in seguito (a parte un " langaige d'oc " di un inventario del 1373), " lingua de hoc/langue d'oc " indica non l'idioma ma una regione, un territorio (e cfr. ancor oggi Languedoc); in provenzale il primo esempio noto di lengua d'oc, sempre in accezione geografica, è nelle Leys d'Amors, ediz. Anglade, I 9: " E trameseron lor letra por diversas pardidas de la Lengua d'Oc ".
La lingua d'oc parlata dai Provinciales e/o Yspani, siti in uno spazio territoriale approssimativamente definito in VE I VIII 7 ss., è uno dei tre rami in cui si è suddiviso l'ydioma tripharium dell'Europa meridionale, a sua volta derivante dalla tripartizione di un altro idioma originariamente unitario, nato dalla confusione babelica e portato in Europa da coloro che vi vennero o ritornarono dopo l'episodio della costruzione della torre (v. LINGUA; TRIPHARIUS).
Come lingua della grande civiltà trobadorica, la provenzale è quella con cui la retorica e poetica di D. fa maggiormente i conti, nel Convivio e nel De vulg. Eloq., sia sottolineandone i rapporti di continuità con la recente tradizione lirica italiana, sia assumendola come principale termine di confronto di un discorso di politica culturale, di egemonia e autonomia letteraria. Più in genere occorre tener sempre presente che D. enuclea via via un quadro di situazioni letterarie, istituti e individui, di cui noi possiamo anche sottolineare gli aspetti nazionali o nazionalistici, ma sempre entro una cornice di unità culturale ‛ romanza ' fortemente sentita, ciò che era del resto nei fatti. Come si ricava dalla precedente citazione, già nella ricostruzione ‛ cronologica ' e storica, ancora così acerba, della Vita Nuova, D. considera le due tradizioni liriche, provenzale e italiana, come facenti parte di un'unità inscindibile (poesia volgare in contrapposto a quella dei litterati poete, cioè i latini). In particolare, per comprendere la prospettiva dantesca, non basta tener presente la fortissima continuità fra la tradizione lirica provenzale e quella nostrana, e la capacità della prima d'incidere in modi e forme sempre nuovi sulle vicende della seconda, a cominciare dall'esperienza stessa di D. (ed è lui per primo a evidenziare nel De vulg. Eloq. il più importante di tali influssi, cioè quello di Arnaldo Daniello, sulla tessitura metrica e stilistica delle ‛ petrose ': VE II X 2, XIII 2). Bisogna ricordare anche che questo influsso culturale si traduceva spesso e volentieri in egemonia propriamente linguistica, vale a dire nell'uso (esclusivo o parziale) del provenzale come lingua della poesia da parte di scrittori italiani: e non si trattava solo dei cosiddetti ‛ trovatori d'Italia ' (però Convivio e De vulg. Eloq. sono stati pur scritti a contatto con gli ambienti settentrionali in cui essi operavano, e del maggiore, Sordello, è pur menzione - benché a titolo particolare - nel trattato latino); ma anche di esperimenti poetici in lingua d'oc da parte di toscani coevi o addirittura amici di D. (Paolo Lanfranchi, Dante da Moiano), mentre in provenzale, e vertente sulla lingua e poesia trobadorica, aveva scritto un trattato il pisano Terramagnino (Doctrina d'acort), parafrasando le Razos de trobar di Ramon Vidal.
Quanto meno, è questa situazione di ancor viva pressione culturale provenzale che sta alla base della presa di posizione del primo libro del Convivio. Nel quale D. intreccia alla difesa del volgare italiano nei confronti della dittatura culturale (almeno nella prosa) del latino, l'aspra polemica, diretta e quasi ad personam, contro coloro che disdegnavano il volgare materno per preferire, nell'estimazione e addirittura nell'uso, la lingua d'oco: colpiti con ogni sorta di sprezzanti riprovazione etiche e accusati (Cv I X 11 - XI) di cechitade di discrezione (XI 2), di giustificazioni intinte di ‛ malizia ', bramosia di vanagloria, invidia, viltà (tra l'altro insinuando apertamente che chi scriveva in provenzale o in altro volgare straniero lo faceva perché non sapeva usare l'italiano). Non è affatto da escludere che queste pagine vadano lette molto in filigrana, e cioè che l'accenno a volgari diversi dal provenzale sia ancor più portante di quanto sembra a prima vista: in altre parole che il bersaglio siano, altrettanto e forse più dei provenzaleggianti, gl'Italiani che scrivevano in lingua d'oïl, come Brunetto (v. OÏL). Comunque la lettera dice quello che dice, e indica che D. individuava, con una preoccupazione che a noi può parere anche eccessiva e che forse si accentuò in lui dopo il trasferimento nel Norditalia, un pericolo instante alla libera e adulta espansione del volgare nazionale non solo nel prestigio del latino, ma anche in quello del provenzale.
Nel De vulg. Eloq. il confronto fra le due lingue e culture è più pacato e diremmo storicizzato. Certe posizioni sembrano addirittura capovolgersi, poiché qui a Sordello viene fatta lode (I XV 2) di aver abbandonato il volgare municipale della propria città - il che verosimilmente va inteso nel senso principale di un abbandono a favore del provenzale (v. MANTOVA; SORDELLO). Tuttavia occorre, più che non si faccia di solito, insistere su come anche in queste pagine agisca, più sotterraneamente, il lievito polemico del Convivio. Quando D. in VE I X 1-4 abbozza un confronto fra le tre lingue dell'ydioma tripharium, non solo finisce per assegnare, pur cautamente, la palma all'italiano, ma lo fa con argomenti che risultano di notevole peso.
Forse non conta tanto il primo, di ordine schiettamente linguistico, anche perché avanzato con gran circospezione: e cioè che gl'Italiani possono forse vantare una certa anterioritas per il fatto che i fondatori del latino hanno preso (accepisse) l'avverbio affermativo sic, e gl'Italiani hanno l'affine sì. Passo che, contro l'incerta e contraddittoria interpretazione del Marigo, può solo significare che nella costruzione di quella sorta di esperanto che per D. è il latino, modellatosi almeno in parte sui preesistenti volgari, il sic è stato derivato dall'italiano sì, e insomma la gramatica ha attinto più all'italiano che alle altre due lingue ‛ romanze ' (v. GRAMATICA). L'argomentazione si lega a un'altra subito successiva e di maggior portata. Seguiamo lo sviluppo del brano. Il privilegium di cui può menar vanto la lingua d'oc è per D. il seguente: che coloro che per primi hanno poetato altamente in volgare, lo hanno fatto in quella lingua, come la più dolce e perfetta. Tale lode, probabilmente connessa a un luogo comune culturale, quale vediamo spesso espresso dalla trattatistica retorica provenzale, mostra che qui il punto di vista di D. è serenamente obiettivo, e che tale obiettività è collegata alla prospettiva storicizzante in cui egli si pone (i trovatori come iniziatori di una civiltà poetica). Tuttavia il successivo giudizio sulle prerogative dell'italiano finisce per relativizzare sottilmente la lode stessa: Tertia quoque [lingua], [ quae ] Latinorum est, se duobus privilegiis actestatur praeesse: primo quidem quod qui dulcius subtiliusque poetati vulgariter sunt, hii familiares et domestici sui sunt, puta Cynus Pistoriensis et amicus eius; secundo quia magis videntur inniti gramaticae quae comunis est, quod rationabiliter inspicientibus videtur gravissimum argumentum (VE I X 4; la vulgata, fino al Marigo, ha videtur inniti, ma il plurale, che è dato dai manoscritti g e t, mentre b omette il verbo, è lezione ineccepibilmente sostenuta dal Grayson - v. DE VULGARI ELOQUENTIA: Significato - e accolta nell'ediz. Mengaldo).
Non solo l'italiano può dunque avanzare a suo favore due " condizioni speciali di diritto " (Marigo) e non una come il provenzale - e il francese - (sottilizzando, si può forse vedere anche una progressione nei verbi impiegati: allegat il francese, argumentatur il provenzale, actestatur l'italiano), ma ognuna delle due prerogative vale anche come elemento di competitività e potenziale superiorità nei riguardi del provenzale. Perché, se è vero che la lingua d'oc è la più dolce e perfetta, è anche vero che coloro che hanno poetato in forma più dolce e sottile sono italiani: dove va notato il parallelismo, e insieme lo scarto differenziale, appoggiato alla categoria della subtilitas, che come sempre nella terminologia retorica dantesca (v. rima aspr'e sottile e il relativo commento in Cv IV II 13) pertiene non alla sfera della forma, ma a quella del contenuto intellettuale, e indica perciò nei poeti italiani superiore elaborazione e sottigliezza concettuale (di fatto D. allude con questo soprattutto a sé stesso, e al sé stesso dottrinale, mentre la dolcezza si riferisce soprattutto a Cino, o a quell'aspetto ‛ stilnovistico ' dell'esperienza dantesca che Cino condivide e quasi rappresenta come alter ego).
Insieme va notata la sensibile differenza nel punto di angolatura dei due giudizi: mentre per la lingua d'oc lo sguardo è puntato sulle naturali qualità in sé dell'idioma, da cui sembrano dedursi direttamente le relative fortune e caratteristiche culturali, per l'Italia soggetto non è la lingua, ma i poeti di quella lingua, dei quali è pertanto messa maggiormente in evidenza l'iniziativa. L'asimmetria sarà anche dovuta a un dato di fatto: certo D., le cui fonti informative sul provenzale saranno state eminentemente di natura scritta e culta, lo percepiva nell'unità non frazionata e nella raggiunta e omogenea perfezione delle sue manifestazioni letterarie, mentre in Italia l'illustre volgare dei doctores gli appariva ancora isolato nell'intricata selva dei rozzi dialetti municipali, e perciò non si poteva far leva sull'ipotetica bellezza di un italiano uniformemente diffuso, ma solo sul prodotto anticipatore dell'eccezionale sforzo di pochi; anche è probabile che D. avvertisse il divario fra una letteratura, come la provenzale, già pienamente sviluppatasi e una, come l'italiana, ancora in fase di decollo, ancora ricca di potenzialità non realizzate (lo indica lo stesso I libro del Convivio). Ciò non toglie che il puntare maggiormente, per l'Italia, sull'iniziativa dei suoi maggiori poeti abbia un chiaro risvolto agonistico. Il quale è confermato dalla successiva argomentazione che, sciolta e interpretata, significherà press'a poco quanto segue: Cino, D. stesso e gli altri maggiori italiani hanno, rispetto ai provenzali (e ai francesi) una superiore capacità di addentellarsi e intrinsecarsi nell'alta tradizione della letteratura regulata e della lingua latine. Tale giudizio comparativo, che anche storicamente coglie senza dubbio nel segno (specie se lo si considera ancora una volta incentrato soprattutto sull'esperienzà lirica di D. medesimo), ci appare nella sua intera portata solo se consideriamo il valore insostituibile di modello per la prassi e la retorica volgari che D. attribuisce in tutto il trattato al sermo e all'ars dei latini (v. DE VULGARI ELOQUENTIA: Significato): è un punto di vista di fondo non diverso da quello, ulteriormente enfatizzato e personalizzato, che D. esprimerà in If I 86-87 dicendo di aver preso solo da Virgilio il bello stilo delle sue canzoni tragiche.
Ma che cosa D. effettivamente conosce e cita di poesia provenzale? E quali sono le fonti e i canali della sua informazione in proposito? Le risposte degli studiosi non sono sempre concordi e pacifiche, tutt'altro; qui si seguirà di massima la opinio communis, che sembra più solidamente fondata, allontanandosi in particolare dalla ricostruzione tentata dal Santangelo - e ancora seguita, perfino in blocco, da taluno -, tanto coraggiosa quanto sostanzialmente inaccettabile (per accennare a qualche punto, fra i tanti di cui anche si toccherà in seguito: non conoscenza da parte di D. di Vidas e Razos, affinità della silloge trobadorica da lui usata non al gruppo adik ma a un altro, forte divario nell'informazione sui trovatori fra la maggior parte del De vulg. Eloq. e gli ultimi capitoli, datati molto avanti nel tempo, ecc.).
Nel De vulg. Eloq. D. nomina, citandone anche testi, Giraldo da Borneill, Bertram de Born, Arnaldo Daniello, Folchetto di Marsiglia, Aimeric de Belenoi e Aimeric de Pegulhan; ricorda solo col nome, senza citazioni, anche Peire d'Alvernia e, a titolo particolare, Sordello (v. sopra). I primi quattro trovatori e Sordello tornano nella Commedia, e tutti (fuorché Giraldo evocato di scorcio) come personaggi attivi, distribuiti nelle tre cantiche. Bertram de Born è anche ricordato come modello di liberalità in Cv IV XI (§ 14); lo Provenzale di cui qui stesso (§ 10) si rammenta un detto notabile sarà probabilmente Giraldo (come rilevato recentemente, versi del genere non esistono nel più oscuro Cadenet, cui aveva rimandato il Galvani, creduto poi sulla parola da tutti). La menzione di Peire d'Alvernia, che D. non nomina poi mai più e di cui non cita liriche (e non pare dimostrabile che lo conoscesse meglio che di nome) cade nel passo sopra parafrasato (VE I X 3): Petrus de Alvernia et alii antiquiores doctores sono quelli che primitus hanno poetato altamente, usando il volgare provenzale; dove antiquiores ha certamente valore superlativo (più antichi in assoluto e non più antichi di lui Peire), e il dato si combina del resto bene coi centocinquant'anni di cui D. discorreva in Vn XXV 4 (v. sopra). Dunque D. non prende in considerazione, certo perché non conosce, i trovatori delle prime generazioni, anteriori a Peire. Quanto risulta o non risulta sui concreti influssi trobadorici nella poesia di D., lirica e Commedia, conferma in sostanza la sua ignoranza della prima stagione trobadorica: Inaccettabile si rivela il tentativo di mostrare, su fragilissimi riscontri, una conoscenza di Jaufré Rudel; mentre ancora sub iudice è la questione di eventuali influssi di Bernart de Ventadorn: dei due riscontri più importanti suggeriti in questo senso, se nulla dimostra quello relativo alla lancia di Peleo (If XXXI 4 ss.), perché generico ‛ topos ' poetico, fa ancora pensare l'altro, il rapporto fra il paragone dell'allodetta (Pd XX 73 ss.) e l'attacco di una celebre canzone di Bernart (Quan vei la lauzeta mover: cfr. ad es. il commento del Sapegno). E in linea di massima si può affermare, con riserva per gli eventuali risultati di supplementi d'indagine, che il complesso degli accertati influssi testuali non eccede di molto il quadro delle menzioni di trovatori esplicitamente fornite da Dante. Questa corrispondenza vale anche, è bene accennarne subito, sul piano delle gerarchie di valore che egli stabilisce. Per fare il caso più vistoso, l'emergenza di Arnaldo Daniello, nell'arco complessivo De vulg. Eloq. - Commedia, come il trovatore posto più in alto da D. (e poi dal Petrarca: Tr. Cup. IV 40 ss.), è omogenea ai dati ricavabili per altra via, dall'interno, che indicano in lui il lirico provenzale che ha maggiormente inciso sullo stile dantesco, fra rime e poema. Il che anche significa dunque che lo sfondo e movente reale dei giudizi danteschi in materia non è un astratto ‛ gusto ' o un arbitrato di spettatore neutrale, ma più concretamente un'esperienza in proprio razionalmente rivissuta. Sono posizioni copertamente autobiografiche, riflessi di una poetica personale.
Il canzoniere usato da D. (in riferimento, si capisce, alle citazioni del trattato retorico) è stato da tempo individuato, col consenso dei più, in un affine delle sillogi trobadoriche siglate adik, tra l'altro precisamente aperte da Peire d'Alvernia. La formula ‛ canzoniere usato da D. ' va naturalmente intesa con discrezione: si vuol dire solo che quella sarà stata la base fondamentale delle sue conoscenze e citazioni, non certo che ne sia stata sempre l'unica fonte, e neppure che si debba necessariamente pensare a una silloge organica del tipo di quelle pervenuteci (così spesso confezionate in Italia). Neppure significa ipotizzare che la cultura trobadorica di D. sia rimasta sempre, da un dato momento in poi, eguale a sé stessa e senza incrementi (o anche allentamenti di attenzione e memoria). Ma in realtà sui tempi e progressi delle conoscenze trobadoriche di D. non si possono che emettere caute congetture (non certo comunque le ipotesi perentorie e avventurose di S. Santangelo). Si può tuttavia supporre facilmente che D., già lettore interessato e fuori del comune di testi trobadorici negli anni della sua maturazione di lirico, si sia voluto più puntualmente e scrupolosamente documentare accingendosi alla fatica storiografica del De vulg. Eloq.; e anche che gli ambienti settentrionali ed emiliani che allora lo ospitavano gli abbiano potuto offrire possibilità di acculturamento in materie più raffinate, e comunque diverse, che non quelli di Firenze. D'altra parte il quadro che risulta dal trattato latino è appunto discretamente omogeneo a quanto intrinsecamente rivela l'esperienza del lirico; e se nel complesso la Commedia (mutamenti di giudizio a parte) non sembra presentare un panorama di conoscenze troppo differente e più ampio di quello consegnato al De vulg. Eloq., è anche vero che quest'ultimo è pure incompiuto, e il poema ha un carattere evidentemente tutto diverso da un trattato ‛ specialistico '. Quanto poi ad altri settori della letteratura provenzale diversi dalla lirica, è perfino ozioso chiedersi se e quanto D. ne conoscesse o non ne conoscesse.
Parte di quanto D. mostra di sapere dei trovatori che ricorda (s'intende soprattutto quando entrano in scena come personaggi, coi loro connotati biografici) non può essere stato facilmente dedotto dalla loro produzione poetica. In taluni casi cioè (tipico quello di Bertram de Born condannato come mal consigliere di discordia fra padre e figlio) fonte primaria d'informazione possono esser state le Vidas - già anche la menzione di Peire d'Alvernia come primo o fra i primi trovatori è forse derivata, oltre che dalla sua posizione nei canzonieri, da passi della biografia relativa - e le Razos (delle quali si è supposto un influsso strutturale sulla tecnica della cornice prosastica nella Vita Nuova: cfr. specialmente P. Rajna, in " Bibl. delle Scuole ital. " II [1890] 161 ss., e in " Strenna dantesca " I [1902] 111 ss.; V. Crescivi, in " Giorn. stor. " XXXII [1898] 463-464). Decidere volta per volta se e fino a dove ‛ fonte ' di una data notizia sia stata una biografia o una razo non è sempre né possibile né agevole; negare però in blocco la conoscenza e utilizzazione da parte di D. di questi testi, sembra francamente errato. Almeno in certi casi gli elementi testuali atti a indicare possibilità, o probabilità di una dipendenza da Vidas e Razos non mancano.
Molto più cauti e selettivi conviene invece essere per quanto riguarda il problema dei rapporti fra il De vulg. Eloq. e le grammatiche e retoriche provenzali (o scritte in provenzale). E va senz'altro accantonata l'ipotesi del Marigo, che generosamente attribuisce a D. una conoscenza diffusa di tutta o quasi la produzione del genere a noi nota. Un discorso concreto si può aprire solo per le Razos de trobar di Ramon Vidal (si confrontino soprattutto passi del proemio della retorica dantesca - e del I libro del Convivio - con passi del trattatello del Vidal, specie l'inizio): ma in verità anche questa volta i riscontri che si possono mettere assieme sono tutt'altro che decisivi. Quanto poi all'idea - sempre del Santangelo - che D. conoscesse delle Ra zos una redazione diversa e più ampia di quella a noi pervenuta, si tratta di un'ipotesi che non pare possa essere accettata.
Se si tolgono la citazione di Girardo da Borneill in VE I IX 3 (Si ·m sentis fezelz amics), che illustra una particolarità di lingua, la menzione di Peire d'Alvernia e quella di Sordello, le allegazioni di trovatori nel De vulg. Eloq. si distribuiscono in tre sedi. La prima è la teoria dei sommi contenuti della poesia tragica o magnalia (v.), circa la quale sono addotti con una canzone a testa Bertran de Born (No posc mudar c'un cantar non exparja), Arnaldo Daniello (L'aura amara) e Giraldo (Per solaz reveillar), quali supremi rappresentanti, rispettivamente, della poesia della salus o meglio dell'armorum probitas, dell'amoris accensio come culmine della venus, e della virtus specificata nella rectitudo o directio voluntatis: al secondo e al terzo fanno pendant, per l'Italia, Cino e D. stesso (VE II II 9). La seconda è l'esemplificazione (cfr. II VI 6) della suprema constructio attraverso un lungo - il più lungo dell'opera - elenco di canzoni (D. stesso spiega quest'insolita diffusività con il bisogno d'illustrare in pratica qualcosa che nell'enunciazione teorica rimane sfuggente: e v. CONSTRUCTIO); per i provenzali compaiono qui, nell'ordine, Giraldo (Si per mon Sobretots), Folchetto di Marsiglia (Tan m'abellis l'amoros pensamen), Arnaldo (Sols sui che sai lo sobraffan che •m sorz), Aimeric de Belenoi (Nuls hom non pot complir addrechamen), Aimeric de Pegulhan (Si com l'arbres che per sobrecarcar). L'ultima serie di citazioni provenzali ha carattere metrico: sono via via addotti Giraldo (Ara ausirez eucabalitz cantars) per l'attacco della canzone con un endecasillabo (VE II V 4), Arnaldo come poeta che in quasi tutte le sue canzoni ha usato la stanza a oda continua (X 2), Aimeric de Belenoi (con la stessa lirica citata in precedenza) per attestare l'uso anche presso i provenzali della stanza tutta endecasillabica (XII 3), ancora Arnaldo (Se •m fos Amor de joi donar) come colui che frequentissime ha impiegato stanze sine rithimo, cioè senza rime colleganti versi della stessa stanza (XXII 2).
Come si vede le citazioni trobadoriche di carattere metrico sono relativamente scarse; non solo, ma appaiono in sostanza subordinate a citazioni italiane. In VE II V è ricordata una sola canzone provenzale (e anche una sola francese) contro cinque italiane; in VE II XII il tecnicismo in questione viene sì rappresentato anche per la Provenza, da Aimeric de Belenoi, ma dopo due citazioni italiane, di Cavalcanti e di D. stesso (e il carattere frettoloso e come additizio della menzione è probabilmente dimostrato anche dal fatto che D., contrariamente alle sue abitudini, va a ripescare una canzone già citata); le stesse chiamate in causa di Arnaldo sono chiaramente funzionali per D. all'illustrazione di una sua propria peculiarità formale, anche se è assai significativo il fatto che egli vi riconosca, come altrove nei confronti del Cavalcanti, il proprio debito verso il precedente arnaldiano. Quanto si è osservato conferma ciò che comunque appare dall'esame della precettistica metrica del De vulg. Eloq., e cioè che essa si restringe di fatto a illustrare quasi esclusivamente la tecnica dei poeti italiani, e soprattutto dei poeti italiani più vicini cronologicamente e culturalmente a D., in primo luogo anzi la prassi dantesca stessa. Di modo che molte delle regole o tendenze che egli descrive e privilegia in tutti questi capitoli s'adattano certo allo sviluppo effettivo della tecnica metrica dei doctores italiani (o almeno dei più recenti), ma raramente trovano conferma nella tecnica dei provenzali, e addirittura delle loro canzoni citate nel trattato medesimo. Così, per fare due esempi eloquenti, la liquidazione del novenario (sia pure storicisticamente limitata: forse è stato in uso ma poi è scomparso per il fastidium che generava...) e il giudizio sulla rarità dei versi parisillabi, in VE II V 6-7, non calzano affatto con i dati effettivi della metrica trobadorica (e il secondo invero, almeno per l'ottonario, neppure con quella dei ‛ Siciliani ').
Si evincono dunque dal De vulg. Eloq. due ‛ canoni ' fondamentali dei trovatori di D.; l'uno (II II) a base contenutistica, l'altro (II VI) a base formale (e constructio è certo da intendere in senso più ampio del semplice ordinamento sintattico). Ma va pure tenuto presente che se questi due canoni sono anzitutto il prodotto di una deliberata selezione di valori operata da D. nella rosa dei poeti a lui noti, altre esigenze possono aver agito complementarmente nella loro formulazione: nel primo caso quella di dare un quadro completo della poesia dei tre magnalia - e infatti Bertran de Born, cui non si affianca nessun italiano poeta delle armi, non ritorna poi né in VE II VI (dove si può dire che lo rimpiazzi Folchetto) né altrove nell'opera; quanto all'esemplificazione della ‛ suprema ' costruzione, e in genere, interverrà da una parte il bisogno di larghezza esemplificativa (quella che induce pure D. a variare il più possibile le proprie allegazioni trobadoriche), dall'altra e soprattutto l'intento di fornire un'ampia ricostruzione ‛ storiografica '. In particolare per la presenza qui dei due Aimerici è stato opportunamente osservato (Folena) che essi stanno quasi a indicare " dopo il culmine segnato dalla triade dei maggiori, l'avvicinamento progressivo della poesia provenzale all'Italia, nella diaspora duecentesca, fino alla contiguità storica coi Siciliani ": e si noti che, dalla collocazione fuori posto nei manoscritti della citazione che riguarda il secondo di essi, sembra di poter dedurre che sia stata aggiunta in un secondo tempo, come del resto quella dell'unico troviero (v. OÏL). E a proposito di questa preoccupazione storiografica concomitante con quella di gerarchie canoniche, va tenuto per fermo che l'ordinamento dei poeti provenzali in VE II VI (come avverrà anche probabilmente, in linea di massima, per gl'italiani) sarà di ragione cronologica.
Quanto agl'impliciti giudizi e alla selezione, va subito osservato che D., puntando sui poeti della stagione ‛ classica ' della civiltà trobadorica, sembra staccarsi anche sul piano teorico - come in precedenza su quello pragmatico - dalla tendenza della lirica italiana duecentesca a riallacciarsi piuttosto a minori ed epigoni di quella tradizione. Il minimo comun denominatore delle due liste canoniche sono Arnaldo e Giraldo (come per gl'italiani, parallelamente, Cino e D.), cui comunque spetta il maggior numero di menzioni (quattro a testa); e occorre subito sottolineare che è certo in rapporto con tale implicita gerarchia questo fatto, che l'unica volta in cui nella Commedia la presenza di un personaggio-poeta provenzale darà luogo a una digressione ‛ letteraria ', di scena saranno appunto Giraldo e Arnaldo. La precellenza dei due nel trattato è evidentemente in relazione - specie per il secondo patrono delle petrose - con la precedente esperienza lirica di D., in cui proprio quei due trovatori appaiono i più attivi (v. le voci relative). E il testo del De vulg. Eloq. conferma esplicitamente questo nesso: per Arnaldo si è detto, per Giraldo valga l'accostamento a lui di D. stesso come equivalente italiano nell'ambito della lirica della rectitudo (VE II II 9). Tale accostamento, e l'indubbia preminenza della tematica della virtus fra i magnalia, rendono più che probabile che nella prospettiva dell'opera sia il Limosino a emergere implicitamente come il maggiore dei trovatori; del resto proprio lui in due passi analoghi (VE I IX 3, II V 4) sta a rappresentare quasi antonomasticamente lingua e tecnica metrica provenzali. Un giudizio elativo del genere era corrente: fissato tanto nella Vida di Giraldo stesso (cfr. ediz. Favati, p. 134) quanto in quella di Peire d'Alvernia (ibid., p. 124), quest'ultima almeno con buona probabilità nota a D. (v. sopra), risuona ancora, in ambienti più vicini a D., in Terramagnino da Pisa Doctrina d'acort, ediz. Ruffinatto, vv. 562 ss. " Mas Girautz de Borneill, qui be / passet totz los bons trobadors, / segon lo dich d'homes mellors " (passo che rappresenta, si noti, un'innovazione rispetto al testo-base di Ramon Vidal).
Per contro, a osservare bene, l'alta considerazione che vien tributata ad Arnaldo non va senza sotterranee riserve: poiché la valutazione almeno in parte limitativa che D. formula della propria esperienza petrosa nel finale di VE II XIII finisce per colpire un po' più che di striscio anche la ‛ fonte ' arnaldiana. Tutto sommato riesce perciò difficile seguire chi, basandosi su una sorta di argumentum e silentio, nega che in Pg XXVI ci sia una rettifica di giudizio, come sostiene, in modo perentorio, il Pellegrini: " Che in ciò si debba ravvisare un mutamento d'opinione del Poeta è opinione del tutto gratuita... nel De vulg. Eloq. non c'è una sola parola che autorizzi a postulare un'iniziale diversa scala di valori (e una successiva ‛ riabilitazione ' di Arnaldo Daniello) ". La palinodia, anche se non esplicita (e quando mai le frequenti palinodie dantesche lo sono?), come non era esplicita la ‛ scala di valori ' del trattato latino, sembra indubbia: " questi ch'io ti cerno / col dito ", e additò un spirto innanzi, / " fu miglior fabbro del parlar materno. / Versi d'amore e prose di romanzi / soverchiò tutti; e lascia dir li stolti / che quel di Lemosì credon ch'avanzi " (Pg XXVI 115-120). Di tale mutamento di parere sono state suggerite varie spiegazioni, e la materia è sfuggente e discrezionale. Qui si potranno sottolineare eventualmente alcuni probabili fattori. Dalla parte di Giraldo il fatto che la sua svalutazione relativa è contestuale a quella, ribadita rispetto al De vulg. Eloq., di Guittone (v.), sicché forse la seconda aiuta a spiegare la prima (quello che è certo è che qui Giraldo non è più messo in parallelo al D. morale e dottrinale, ma a Guittone moraleggiante); e forse anche la decadenza che nel D. della Commedia patisce l'antica concezione laica e cortese della virtus (propria sia del De vulg. Eloq. che del Convivio), incarnata appunto dal Limosino. Dalla parte di Arnaldo va considerato che il passo in questione è stato scritto a ridosso di un'esperienza stilistica come quella dell'Inferno (soprattutto negli ultimi canti) che, attraverso la reviviscenza di un gusto e una tecnica ‛ petrosi ', aveva anche rappresentato per certi aspetti un ritorno ad Arnaldo.
Ma non è solo in questo giudizio letterario che la Commedia si allaccia alla casistica di poeti provenzali del De vulg. Eloq.: i legami e richiami sono anzi fitti e puntuali, e creano nell'assieme una delle realizzazioni più affascinanti dell'attitudine squisitamente dantesca a conservare e superare nello stesso tempo nel magno poema (e non solo in esso) le proprie passate esperienze e posizioni. A parte Sordello, caso speciale, sono precisamente e solo i quattro trovatori che costituivano l'ossatura portante del canone provenzale del trattato a tornare nelle pagine della Commedia; uno, Giraldo, evocato di scorcio, ma gli altri tre come protagonisti a tutto tondo di episodi che si scalano, con progressione e rapporti certo calcolatissimi, uno per cantica (If XXVIII: Bertran; Pg XXVI: Arnaldo; Pd IX: Folchetto). Certamente intenzioni e significati di questa nuova ‛ galleria ' trobadorica sono ora diversi: se si toglie appunto la ‛ digressione ' di Pg XXVI, i trovatori della Commedia sono evocati non, o non in primo luogo, come vulgares eloquentes, ma in quanto generalmente uomini di alta fama, attori di una vicenda eticamente esemplare nel male o nel bene. Questo non significa però che le ragioni letterarie non siano presenti, allusivamente toccate e come cifrate, e per così dire consustanziate nel prevalente giudizio umano e morale. Ciò è particolarmente evidente nei casi di Bertram de Born e di Arnaldo, nel cui peccato si riflette, giudicata e mediata dal contrapasso, l'attitudine umana che già li caratterizzava come poeti nel De vulg. Eloq.: il cantore della guerra e della strage divenuto oggetto di mutilazione punitiva per la colpa connessa al suo canto bellicoso; quello dell'amoris accensio bruciato e ‛ affinato ' nel fuoco dei lussuriosi (nonché introdotto da un altro poeta d'amore già presente nel trattato, l'italiano Guinizzelli). Si aggiunga che anche nel primo di questi episodi si può leggere forse in direzione letteraria più di quanto la lettera dica: come l'invito pressante di Virgilio a D., in If XXX 130 ss., a dimettere la bassa voglia che gli fa seguire con malsana attenzione il diverbio fra maestro Adamo e Sinone, può essere anche interpretato quale sconfessione dell'attiva curiosità passata di D. stesso per il genere ‛ comico-realistico '; così all'analogo rimprovero all'inizio del canto precedente (Che pur guate? / perché la vista tua pur si soffolge / là giù tra l'ombre triste smozzicate?) non è forse estraneo (cfr. il saggio del Bergin) un consimile intento di rinnegare - ma, direbbe il Contini, dopo averla soddisfatta: ancora una volta ! - la precedente adesione di gusto al mondo poetico di Bertram. E altri ha visto pure, nel canto XXVIII dell'Inferno, l'ambizione di realizzare quell'epica delle armi che nel De vulg. Eloq. era stata dichiarata tipica del sire d'Altoforte, ed estranea invece a tutta la tradizione lirica italiana (v. M. Fubini, Il c. XXVIII dell'Inferno, in Lect. Scaligera I 13-14). Lo stesso Folchetto, presente fra i beati per meriti di profeta armato acquisiti dopo l'abbandono della vita cortese cantata nella sua poesia, vi sta pur a rappresentare (si ricordi che l'episodio è incastrato in quello di Cunizza) " la sublimazione dell'amore terreno in quello celeste " (Folena), perciò un itinerario il cui punto di partenza è proprio quell'esperienza per la quale era stato celebrato nel De vulg. Eloq. come lirico. E in un certo senso questo canto paradisiaco sigilla tutta una revisione sostanziale dei presupposti morali della civiltà cortese che, flagrantemente iniziata nel canto di Francesca (v.; e v. anche OÏL; ROMANZI ARTURIANI), viene poi proseguita lungo il poema, come indica soprattutto Pg XXVI (e Arnaldo stesso pronuncia qui le parole consiros vei la passada folor).
Si ha dunque ancora una triade o piuttosto, considerando anche Sordello, un quartetto: che riprende su basi nuove e riassorbe il precedente canone del trattato latino. E che il mutato punto di vista includa sempre motivazioni di carattere letterario, o per dir meglio si ribalti su di esse, è dimostrato con particolare evidenza dal trattamento che subisce nel poema Giraldo; il quale è contemporaneamente limitato sul piano dei valori ‛ poetici ' e sostituito di fatto nelle sue funzioni etiche di cantore della rettitudine da due altri trovatori che incarnano ora una diversa e più sostanziosa nozione di virtus: inverata in una coscienza civica e politica precisa (Sordello, già lodato nel De vulg. Eloq. per il suo anti-municipalismo) o trascesa rispetto ai suoi presupposti mondani in un servizio attivo ad maiorem Dei gloriam (Folchetto). La compresenza dei motivi letterari a quelli di altro tipo è anche evidentissima se si considera la tessitura linguistica e stilistica di quegli episodi, che spesso diviene vera e propria arte allusiva (l'adozione del provenzale nel caso di Arnaldo ne è solo il caso-limite), e alla quale può pure spettare il compito di sottolineare ulteriormente, e più sottilmente, il rapporto che lega l'un episodio all'altro nella struttura del poema. Non necessariamente l'allusione è diretta. Se il canto delle ombre triste smozzicate deve certo qualcosa alle rappresentazioni epiche di Bertram de Born, stravolgendole, la modulazione verbale del discorso di Arnaldo, ove si tolgano là ripresa-citazione Ieu sui Arnaut (cfr. " Ieu sui Arnautz qu'amas l'aura... " nella canzone En cest sonet) e la figura etimologica ‛ jausen lo joi ' (v. " j auzirai joi ", in Lo ferm voler 6) non è particolarmente arnaldiana, mentre semmai (cfr. Bergin) suggestioni del Daniello echeggiano nell'episodio di Folchetto; ma viceversa l'emistichio d'attacco dei versi pronunciati da Arnaldo, Tan m'abellis, non è altro che quello dell'incipit folchettiano ricordato in VE II VI: abilissima allusione che costituisce, insieme, rimando al trattato latino e anticipazione prospettica del successivo canto ‛ trovadorico ' della Commedia.
I versi messi in bocca ad Arnaldo Daniello e le citazioni del De vulg. Eloq. consentono di farsi un'idea dell'effettivo possesso del provenzale da parte di Dante. Naturalmente bisogna procedere con la massima cautela, perché in entrambi i casi è lecito supporre una forte e immediata degradazione dovuta ai copisti (degradazione che nel brano di Pg XXVI approda a una verniciatura francesizzante sempre più spessa con il tempo). Unica garanzia sicura è, per il discorso di Arnaldo, la rima: e qui cadono due ‛ errori ' di morfologia come deman e cobrire. Il che contribuisce a indurre a prudenza nell'accollare sempre all'archetipo gli errori comuni che i manoscritti del De vulg. Eloq. testimoniano, quali che per que costantemente, mancanza di -s nei casi soggetto e viceversa mos per mon, ecc., fino alla doppia lezione, e la seconda ben scorretta, nelle due citazioni dell'incipit di Aimeric de Belenoi (v. per tutto questo l'ediz. Mengaldo, pp. CXIV-CXV); questi fenomeni a loro volta potrebbero giustificare un atteggiamento meno ortopedizzante della lezione dei codici per quei versi della Commedia (a cominciare proprio da che per que). Si tratta del resto di una casistica d'inesattezze o italianismi ben comune nell'Italia duecentesca: da citazioni come quelle di Guittone (Lett. XVI) o del Novellino (LXIV) alle sillogi di poesia provenzale compilate in Italia, agli stessi ‛ trovatori ' italiani (v. per Dante da Maiano l'ediz. Bettarini, pp. 189 ss.), ecc.
Bibl. - Per i rapporti fra D. e i singoli trovatori rimando alle voci relative a questi (ma alcuni lavori, specie riguardanti Arnaut e Giraut, hanno portata più generale: ad es. C. De Lollis, Quel di Lemosì, in Scritti vari... Monaci, Roma 1901, 353-375; A. Roncaglia, Il c. XXVI del Purgatorio, ibid. 1951). Studi complessivi: P. Toynbee, Ricerche e note dantesche, Bologna 1899, passim; C. De Lollis, D. e i trovatori provenzali, in " Flegrea " I (1899) 321-342; H.J. Chaytor, The Troubadours of D., Oxford 1902; A. Farinelli, D. e la Francia, Milano 1908, I, 1 ss., 29-47; A.G. Ferrers Howell, D. and the Troubadours, in D.-Essays in Commemoration, Londra 1921,191-223; A. Jeanroy, D. et les Troubadours, in D. - Mélanges de critique et d'érudition française publiés à l'occasion du VIe Centenaire de la mori du Poète, Parigi 1921, 11-21; S. Santangelo, D. e i trovatori provenzali, Catania 1921 (1959²); E. Hoepffner, D. et les Troubadours (à propos de quelques publications récentes, in " Revue Etudes Ital. " IV (1922) 193-210; L. Pastine, D. e i trovatori, in " Giorn. d. " XXVI (1923) 15-26, 128-141; H. Hauvette, La France et la Provence dans l'oeuvre de D., Parigi 1929 (specialmente cap. IV); A. Parducci, D. e i trovatori, nel vol. miscellaneo Provenza e Italia, Firenze 1930, 81-95; Zingarelli, Dante, I 133-144, 155 ss., 569-571; Contini, Rime, Introd. (e passim); ID., D. come personaggio poeta della Commedia, in " Approdo letterario " n.s., IV (1958) 19-46 [rist. in Secoli vari ('300-'400-'500), Firenze 1958, 21-48]: poi in Varianti e altra linguistica, Torino 1971, 319-361; G. Folena, Premessa a Vulgares eloquentes, Padova 1961 (= D. et les Troubadours, in " Revue de Langue et Litt. d'Oc " 12-13, pp. 21-34); R.M. Ruggieri, L'umanesimo cavalleresco italiano - da D. al Pulci, Roma 1962, 67-83; T.G. Bergin, Dante's Provençal Gallery, in " Speculum " XL (1965) 15-30; S. Pellegrini, D. e la tradizione poetica volgare dai provenzali ai guittoniani, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 27 ss.; L. Peirone, Lingua e stile nella poesia di D., Genova 1967, 35-113 (qui i giudizi azzardati sulla conoscenza di Peire d'Alvernia e Jaufré Rudel). Della bibliografia sul De vulg. Eloq. interessano qui particolarmente: Marigo, De vulg. Eloq., passim; A. Schiaffini, Interpretazione del ‛ De vulg. Eloq. ' di D., Roma 1963, 149 ss.; D.A., De vulg. Eloq., a c. di B. Panvini, Catania 1968, 28-29, 43-47, 50-51 e passim; D.A., De vulg. Eloq., a c. di P.V. Mengaldo, I (Introd. e testo), Padova 1968, pp. LIX-LX, LXII-LXVI, LXXV-XCI. Per i passi del Convivio, cfr. anzitutto Busnelli-Vandelli, passim. La polemica anti-provenzale di quest'opera è ottimamente inquadrata da A. Pézard, D. sous la pluie de feu, Parigi 1950; e v. OÏL. - Edizioni dei ‛ trovatori di D. ', oltre alle già citate del Chaytor e del Folena:- E. Monaci, Poesie provenzali allegate da D. nel De vulg. Eloq., Roma 1903; ID., Poesie in lingua d'oc e in lingua d'oïl allegate da D. nel De vulg. Eloq., ibid. 1909; B. Panvini, Le poesie del ‛ De vulg. Eloq. '. Testi e note, Catania 1968. - Per ‛ lingua d'oc ': P. Meyer, La langue romane du Midi de la France et ses différents noms, in " Annales du Midi " I (1889) 1-15; H.-G. Koll, ‛ Langue ' und ‛ langage ' im Mittelalter, Ginevra-Parigi 1958, 151 ss. - Per l'influsso provenzale in Italia, si vedano almeno: C. De Lollis, ‛ Dolce stil novo ' e ‛ noel dig de nova maestria ' (1904), ora in Scrittori d'Italia, Milano-Napoli 1968, 119 ss.; G. Bertoni, I trovatori d'Italia, Modena 1915 (e Roma 1967²); ID., Il Duecento, Milano 1939³, passim; V. De Bartholomaeis, La poesia provenzale in Italia, in Provenza e Italia, cit., 3 ss.; ID., Poesie provenzali storiche relative all'Italia, Roma 1931; ID., Primordi della lirica d'arte in Italia, Torino 1943; A. Jeanroy, La poésie lyrique des Troubadours, Tolosa-Parigi 1934, I 229 ss.; F.A. Ugolini, La poesia provenzale e l'Italia, Modena 1949²; A. Viscardi, La poesia trobadorica e l'Italia, in Problemi e orientamenti critici, IV, Milano 1948 (poi nel vol. miscellaneo Ricerche e interpretazioni mediolatine e romanze, Milano-Varese 1970, 345 ss.). Per la pseudo-questione di Cadenet: W. Pagani, in " Studi Mediolatini e Volgari " XVII (1969) 89-91. Per il canzoniere provenzale usato da D.: K. Bartsch, Die von D. benutzen provenzalischen Quellen, in " Jahrbuch Deutschen Dante-Gesellschaft " II (1870) 377 ss.; C. De Lollis, Intorno a Pietro d'Alvernia, in " Giorn. stor. " XLIII (1904) 28 ss. Per le questioni metriche, soprattutto: T. Labande-Jeanroy, La technique de la chanson dans Pétrarque, in Pétrarque. Mélanges..., Parigi 1928, 143-214; I. Frank, Répertoire métrique de la poésie des Troubadours, Parigi 1953-57.